Platone, Locke, Hume, Popper, Feynman, Sokal, Pera

Roberto Renzetti

 Quella che segue è una prima stesura di un lavoro che andrà rivisto, corretto e limato ma che comunque debbo pubblicare subito perché credo sia utile. Le cose sono state scritte di getto senza alcuna revisione. Sono ben accette critiche ed integrazioni.

Introduzione

        L’argomento è impegnativo e moltissime cose sono state dette. Ne aggiungo altre senza nessuna pretesa di essere esaustivo.

        Ho passato una vita a tentare di convincere i miei amici scienziati dell’importanza della filosofia per capire meglio il proprio agire in meccanismi a volte non controllabili. Il guaio della filosofia (ed anche della matematica) è che è fatta da filosofi (e la matematica da matematici). Ora queste limitazioni non avevano senso fino a che il mondo non aveva conosciuto la specializzazione, la separazione dei saperi, la parcellizzazione del lavoro. Prima (e questo prima deve pensarsi fino ai postumi della Rivoluzione francese che al massimo possono estendersi, rispetto a ciò che cerco di dire, fino alla prima metà dell’Ottocento) si aveva generalmente a che fare con intellettuali complessivi. Poi la specializzazione dei saperi, la complessità di essi, la suddivisione, quasi parcellizazione, sempre più spinta al loro interno,…, insomma addirittura un addetto ad una data disciplina che non riesce più a parlare con un suo collega che, nell’ambito della stessa disciplina, è entrato in una differente specializzazione, tutto questo ha reso sempre più difficile la comprensione del complesso, dell’insieme, … Abbiamo immagini da caleidoscopio ma siamo in possesso di una sola pietruzza: l’immagine complessiva ci sfugge completamente… Non riusciamo più a capire dall’esterno cosa accade alla scienza. La cosa inizia con strappi fortissimi nella storia interna. Faccio solo l’esempio dell’enfasi che si è data per ben 400 anni ai lavori di Galileo. Cosa dicono tutti coloro che hanno in qualche modo studiato il grande pisano? E’ l’inventore della dialettica mani-cervello; è colui che ha inventato il metodo sperimentale che, in definitiva, consiste in teorie che se non sono convalidate da esperienze restano nel limbo dell’incompiuto e, spesso, dell’irrazionale. Un’analoga rivoluzione è avvenuta nella seconda metà dell’Ottocento ma nessuno se n’è accorto. Nasce la fisica teorica con Maxwell, nasce la possibilità di teorizzare all’infinito senza riscontri sperimentali di alcun tipo, si realizza una rivoluzione comparabile con  quella di Galileo … e la cosa non è nota ai più!

        Nell’ambito della fisica ci si illude ancora, nelle Istituzioni ufficiali, di essere dei puri al servizio delle curiosità e della scienza incontaminata da misere vicende umane. Ma le cose arrivano alla loro definitiva rottura a Copenaghen nel Congresso Solvay del 1928. Si sancisce la separazione tra scienza e filosofia, si formalizza il fatto che ogni attività non strettamente attinente alla scienza, il chiedersi i perché, FA PERDERE TEMPO; si decide che l’efficienza non va d’accordo con i rompiscatole che chiedono, con quelli che vogliono sapere. Si sottintendono due cose: da una parte che la scienza, comunque  e dovunque la si faccia è buona in sé (l’eredità neopositivista è sempre presente ed è una mostruosa malattia infantile della scienza); dall’altra che lo scienziato è in grado di capire e che l’organizzazione sociale non lavora mai contro l’uomo. Queste posizioni si affermarono come vincenti. I rompiscatole come Einstein e Planck persero.

        Il discorso sarebbe lungo almeno come un libro che dovesse raccontare nei dettagli tutti gli eventi del Novecento. Taglio per ovvie necessità.

        Proprio l’efficienza che domina tra gli scienziati, spesso impregnati inconsciamente di una ingenuità neopositivista, ha fatto si che sulle loro teste è passato tutto ed il contrario di tutto. Posizioni chiare e nette sono sempre state appannaggio dei rompiscatole. Gli altri, pur essendo dei giganti nei loro campi di attività, erano felici con il solo avere a disposizione i giocattoli con cui lavorare (importava poco chi li fornisse).

        Da qui parte (o partiva) la lotta all’interno del sistema della ricerca scientifica perché la filosofia entrasse, non per far perdere tempo, ma per far comprendere e scegliere coscientemente. Ma qui urtiamo contro i filosofi o presunti tali, contro i tuttologi che fanno dei danni enormi perché fanno ritirare quei pochi che avevano aderito agli appelli dell’impegno, a causa delle castronerie quotidiane di cui si rendono artefici e ci fanno testimoni certi filosofi.

        Sono almeno 150 anni che, nel mondo della scienza, e particolarmente in quello della fisica, nessuno ardirebbe sostenere che egli SA, egli è in grado di….,… Da tempo immemorabile ogni scienziato è al corrente degli enormi limiti della scienza, della provvisorietà di ogni conoscenza, dei limiti personali di conoscenza rispetto addirittura ad altri capitoli della disciplina di studio (è noto a chi lavora in un Istituto di fisica che un “particellaro” non è in grado di entrare in argomento con uno “strutturista” e viceversa).

        I guai vengono da chi, dall’esterno, tenta di spiegare la scienza, costruendo recinti, paradigmi, dizionari, mondi, strutture logiche che, il più delle volte, sono parto della sola fantasia di chi, tra l’altro, non è mai stato un praticante sul campo della scienza. Insomma, arrivano alcuni filosofi che in gran parte si muovono su piani rinunciatari, lavorando su ogni scienziato che non abbia mai formalizzato. E così si sprecano gli studi su Galileo (saltando con cura i Discorsi e dimostrazioni matematiche!), su Cartesio (ma solo nella parte dell’Introduzione al Discorso sul Metodo, il resto è troppo difficile!), su Leibniz (ma senza entrare nella formalizzazione delle monadi perché lì occorrerebbe entrare nel calcolo differenziale!), su ogni scienziato che ha scritto e parlato senza perdersi in troppe formule,… Questi filosofi sono le calamità, sono personaggi che tentano giudizi sulla scienza conoscendo quasi nulla di essa ed in gran parte di seconda mano. A questo si deve poi aggiungere il disastro di Comte che seleziona, cataloga, classifica le scienze immettendovi discipline che di scientifico non hanno mai avuto nulla (compresa la Sociologia che piace tanto a Popper per essere egli stesso un sociologo e non un filosofo). Ma inizia anche un movimento di scienziati che inizia a discutere di scienza (si pensi a Mach, ad Otswald, a Boltzmann, a Wittgenstein,…) proprio in quell’epoca in cui inizia la separazione tra il lavoro teorico e sperimentale dello scienziato. Siamo nella “mittle-europa” della fine dell’Ottocento, nei circoli di Vienna, di Berlino,… Ma la cosa coinvolge anche la Francia di Poincaré e la Gran Bretagna di Russel (in Italia siamo alle disquisizioni tra Rosmini e Gioberti sulla libera Chiesa in libero Stato). Ho citato scienziati che, dalla loro formazione scientifica, discutono di scienza e di filosofia. Non si trovano filosofi che possano opinare di scienza se la scienza non la conoscono. E conoscere la scienza non vuol dire conoscere alcuni risultati più o meno ben divulgati, ma essere entrati in istituzioni a fare per un certo periodo della ricerca scientifica.

        Quando si conosce, per averlo vissuto,  il modo di lavorare (o uno dei modi di lavorare) del ricercatore scientifico, quando si è padroni di alcuni pezzi di qualche disciplina scientifica, è allora possibile entrare in argomento e costruire una teoria epistemologica, una ricostruzione plausibile del modo di lavorare dello scienziato (o di “quello” scienziato). In caso contrario è facile scadere in luoghi comuni, in affermazioni mai realmente comprese, in sciocchezze, nel rifugiarsi in parti estranee all’ambito scientifico toccate da tale studioso. Si può addirittura fare il gioco di chi è più bravo ad inventare, quando poi le confutazioni sono solo a livello di libero dibattito, senza possibilità di un qualunque arbitro. Si chiamano volgarmente idee in libertà. Come fa infatti uno scienziato, supposto che ne abbia voglia (e se ne ha voglia, la avrà solo in età avanzata, quando la creatività sul campo della ricerca di frontiera avrà lasciato il posto a riflessioni e all’organizzazione della scienza medesima), a spiegare a un epistemologo di provenienza filosofica che non ha capito l’essenza dei problemi? Si parla con una persona che generalmente non conosce l’argomento del contendere. E’ un poco come i pedagoghi che spiegano come insegnare senza aver mai avuto a che fare con una classe, con un corso di studi, per almeno un ciclo completo.

        Inizio allora ad entrare in argomenti ed in esemplificazioni più specifiche, partendo da dei dati che meritano di essere conosciuti.

Richard Feynman

           Quella di R. Feynman è l’esemplificazione più clamorosa che avevo in mente quando iniziavo ad argomentare nella premessa. Questo scienziato, tra i più grandi del Novecento, così scriveva nelle sue famosissime ed ineguagliate Lectures on Physics del 1964 (Vol. I, pag. 16-1):

These philosophers are always with us, struggling in the periphery to try  to tell us something, but they never really understand the subtleties and depths of the problem.”

[Questi filosofi sono sempre con noi, si affannano per cercare di dirci qualcosa, ma non comprendono mai realmente le sottigliezze e la profondità del problema].

          L’altra è del famoso storico della scienza Stillman Drake. In un suo saggio, “Il Dialogo di Galileo: Al discreto lettore” (“Scientia“, vol. 117, 2, 1982, p. 267), egli scrive:

In tempi recenti si è venuto manifestando un grande fastidio nei confronti del Dialogo sui Massimi Sistemi, allorché la storia della scienza è passata dalle mani degli scienziati a quella dei filosofi e dei sociologi“.

            Ecco, era contro questo atteggiamento, molto diffuso, che ho fatto il Quijote. Non è questione di aver vinto o perso; di essere riuscito a salvare la mia Dulcinea. Era il tentativo di chi ha fatto il fisico in laboratorio di aprire le menti all’interpretazione della realtà che andasse al di là del mero fatto empirico o scientifico. Intravedevo un mondo complesso che non poteva essere racchiuso in qualche formula. Dal mio punto di vista di fisico volevo approfondire la conoscenza ed inserire il mio lavoro, il mio operare quotidiano in un contesto più ampio, che avesse una sorta di significato. Anticipo che, dopo tanti anni, il problema si è completamente rovesciato: di fronte alla modestia ed alla consapevolezza di una conoscenza limitata del mondo della scienza, si ha la immensa presunzione di alcuni filosofi che credono, DALL’ESTERNO, di aver capito di poter stabilire regole in una macchina che non conoscono perché l’ hanno solo vista dall’esterno, nella sua estetica fuorviante che non ha nulla a che vedere con i cicli termodinamici che regolano il suo funzionamento. Oggi dovrei cominciare in modo diverso, dovrei dire che i supposti filosofi, i cialtroni, devono stare alla larga perché sono controproducenti al fine di conciliare, in qualche modo, le due culture. Esempi di questo tipo ne abbiamo tanti, troppi. E richiedono interventi decisi, dissacratori e di denuncia del loro essere piazzisti del potere. Un certo Pera è persona di questo tipo che merita attenzione perché sulla falsificazione e l’ignoranza è assurto alla seconda carica dello Stato. Ma Pera non è che un’ombra deformata che ha tentato il successo attraverso personaggi che muovendosi nell’equivoco della conciliazione tra culture, spaventano i più, quelli che invece, se va bene, dicono con orgoglio che loro, di scienza non hanno mai capito nulla. E’ un mascherarsi dietro la scienza per costruirsi una corazza che dovrebbe difenderli. Da un parte i “letterati” non si azzardano, dall’altra gli scienziati non perdono tempo… Ed i cialtroni hanno buon gioco. Ma per comprendere meglio vediamo cosa è accaduto qualche anno fa.

Alan Sokal e Jean Bricmont

           Era il maggio 1996. La rivista culturale americana (di gran moda e con numerosi lettori)  Social text, pubblica un articolo di Alan Sokal, fisico dell’Università di New York. Cosa c’è di straordinario?

            Il titolo del lavoro è: Violare le frontiere: verso un’ermeneutica trasformatrice della gravità quantistica. (*) Apparentemente il lavoro sembra rimettere in discussione tutte le conoscenze, le basi, su cui si fonda la fisica (e non solo) contemporanea ed ufficiale. Secondo questo articolo, la scienza occidentale non è altro che una imposizione di dogmi e tra questi vi è anche quello che vorrebbe un mondo esterno conoscibile. Gli studi di questi ultimi anni, secondo questo lavoro, soprattutto ad opera di femministe, omosessuali, movimenti alternativi, ha dimostrato che la realtà fisica oltre che quella sociale non è altro che è una costruzione sociale e linguistica. L’imbroglio delle verità scientifiche, se lo si smaschera, è alla base delle incomprensioni tra le varie culture. Esiste un mondo esteriore le cui proprietà sono indipendenti da qualunque essere umano considerato come individuo e addirittura dell’umanità nel suo insieme. Occorre sbarazzarsene. Il lavoro prende vari spunti casuali da teorie con nomi roboanti. E così, se da una parte si dice che l’unica teoria che è sostenibile, perché capace di far capire il misterioso fenomeno della non linearità, che occuperebbe una posizione centrale in tutta la matematica futura, è quella del caos, dall’altra si inizia una discussione della gravità quantistica, nuova branca della fisica in cui si trovano sintetizzate e superate ambedue le branche più importanti della fisica, la meccanica quantistica di Heisenberg e la relatività generale di Einstein. Nel suo argomentare Sokal dice cose sconvolgenti (o ridicole, dipendendo da chi legge), come le seguenti:

Il gruppo d’invarianza infinito-dimensionale erode la distinzione tra osservatore ed osservato; il di Euclide e la G di Newton, un tempo considerate costanti universali, sono ora viste nella loro ineluttabile storicità… Le grandezze o gli oggetti che sono in linea di principio inosservabili – come i punti dello spazio-tempo, le posizioni esatte delle particelle o i quark ed i gluoni – non dovrebbero essere introdotti nella teoria….Inoltre i numeri complessi [introdotti addirittura nel Rinascimento, n.d.r.] sarebbero una branca recente ed ancora del tutto congetturale della fisica matematica, mentre la cibernetica avrebbe vinto la sua battaglia contro la meccanica quantistica.

   In pratica, gran parte della fisica moderna deve essere bandita dalla scienza.

   L’articolo era pieno di assurdità, mancava ogni logica, i concetti erano slegati totalmente o collegati in modo assolutamente errato. Fu accettato ed addirittura pubblicato in un numero speciale della rivista che aveva lo scopo di controbattere le tesi di alcuni scienziati contro il postmodernismo ed il costruttivismo sociale. Sokal e Bricmont (fisico dell’Università cattolica di Lovanio) osservarono in seguito che non vi era miglior modo per la rivista per tirarsi la zappa sui piedi.

        Quasi in contemporanea, Sokal pubblica un altro articolo sull’altra rivista americana, Lingua Franca, articolo nel quale svela il suo aver costruito un articolo che voleva essere una parodia, era volutamente pieno di sciocchezze, di assurdi, di falsi. Aggiunge inoltre che, però, tutte le citazioni dei filosofi postmoderni e costruttivisti erano rigorosamente esatte. Il fine iniziale di Sokal era di ridicolizzare alcune branche della filosofia ed alcuni filosofi che si gettano sulle parole e sulle teorie della fisica, pontificandovi sopra senza averle realmente mai comprese. La cosa andò poi molto più in là e sollevò vespai in tutto il mondo. Sokal e Bricmont pubblicarono successivamente (1998) un libro, Le imposture scientifiche dei filosofi (post)moderni (l’appendice A di questo libro riporta tutto l’articolo dello scandalo), in cui analizzarono nei dettagli le posizioni di svariati filosofi che avevano operato o operavano nel modo suddetto (Lacan, Kristeva, Duhem, Quine, Kuhn, Feyerabend, Latour,  Irigaray,  Baudrillard, Deleuze, Guattari, Virilio, Jankélévitch, Merleau-Ponty,…..e,….udite, udite,…..Karl Popper).

        Tralascio tutto il resto perché dovrei riscrivere questo bellissimo libro e mi soffermo invece su Popper (e siamo solo nell’ambito scientifico, ancora in quello che Pera neppure immagina esistere). Si tratta delle cose che adombravo nella introduzione: vi sono persone ansiose di mettere il cappello su cose non loro e che neppure conoscono (figuriamoci chi vuole mettere il cappello a chi già ce l’ ha, a chi si costruisce una presunta fama discutendo di quello che ha discusso un altro su cose che si conoscono solo indirettamente). E’ un poco un vezzo in Italia. Quando si chiede chi è Buttiglione, si risponde: è allievo di Del Noce. Caspita, ma chi è del Noce?….silenzio o, al massimo, “è il padre di quel forzitaliota della RAI”. E chi è Pera? E’ uno che ha studiato Popper. Caspita, non conveniva studiare le fonti ed essere originali? Di questo passo arriveremo agli studiosi di Pera ed a quelli che studieranno questi ultimi, con un incartarsi inutile sul vuoto assoluto. Anche io ho studiato Popper e mi ritrovo in quanto sostengono Sokal e Bricmont. Ma questo non è un titolo di merito. E non lo deve essere per nessuno! Come l’essere onesti che oggi è presentato come una credenziale.

        Vediamo allora Popper dal versante epistemologico, passeremo poi alle sciocchezze che il conclamato filosofo viennese “aperto” ha sostenuto in ambito, più che filosofico, sociologico mettendo le zampe nel piatto dell’economia e della politica, piatto che non è il suo.

Popper

            Popper nasce nella Vienna imperiale, centro culturale europeo, nel 1902. Negli anni 20 è un simpatizzante comunista. Lavora presso la clinica di A. Adler che si occupa dei problemi dell’infanzia. Nel 1928 si laurea in filosofia con lo psicologo Karl Bühler. Nel 1929 ottiene la possibilità di insegnare matematica e fisica nella scuola media, cosa che farà dal 1930 al 1935. Egli non partecipa al Circolo di Vienna (casa del Neopositivismo: polemica contro la metafisica che vorrebbe dimostrare l’esistenza di entità al di là dell’esperienza) ma viene in contatto con R. Carnap, H. Hahn, H. Feigl, O. Neurath e, più tardi, con K. Gödel. Nel 1936, in congedo dall’insegnamento, tiene varie conferenze in università e scuole inglesi che gli danno fama. Ma arriva l’annessione nazista dell’Austria e Popper, ebreo, se ne va accettando un incarico di insegnamento in Nuova Zelanda (Canterbury University College di Christcurch) che manterrà fino alla fine della guerra (1946). Passa in Gran Bretagna alla London School of Economics and Political Science, dove diventerà direttore del Dipartimento di Filosofia. Lascerà l’insegnamento nel 1969, 25 anni prima della sua scomparsa (1994).

            La sua prima opera che gli dette fama è del 1934, La logica della ricerca (Vienna), la quale fu poi ripubblicata a Londra nel 1959 con il titolo La logica della scoperta scientifica. Vennero poi le altre, tra cui: Miseria dello storicismo (Londra, 1944); La società aperta ed i suoi nemici (Londra, 1945, ma scritta in Nuova Zelanda); Congetture e confutazioni, la crescita della conoscenza scientifica (Londra, 1963);  I due problemi fondamentali della conoscenza (Tubinga, 1979).

            Per punti le posizioni di Popper possono essere così riassunte:

1 – L’induzione (per enumerazione) su cui la scienza crede di lavorare è una illusione, un pregiudizio. La scienza non può ricavare delle leggi dal fatto che uno stesso fenomeno osservato più volte dia sempre lo stesso risultato. Uno osserva sempre le fragole rosse ma non si può definitivamente affermare che le fragole sono rosse; un qualche giorno, se dovessimo incontrare una fragola azzurra, dovremmo buttare la teoria delle fragole rosse.

Allo stesso modo è una illusione, un pregiudizio, l’induzione (per negazione). Quando si creda di mostrare la superiorità della propria teoria su di un’altra, si fa l’errore di credere che le teorie rivali sono in numero finito, mentre esse sono potenzialmente infinite. Con ciò risulta impossibile sbarazzarsi di tutte, confutandone una ad una.

2 – E’ impossibile costruire scienza immaginando che la mente del ricercatore sia vuota da ogni pregiudizio. Lo scienziato non lavora per sola osservazione e da quella ricava le sue conclusioni. Egli parte con una idea preesistente di come crede vadano le cose. In definitiva lo scienziato costruisce esperimenti su teorie già in nuce nella sua mente.

3 – Come corollario del punto 1 viene il criterio detto di falsicabilità. Non è possibile assegnare validità assoluta, eterna, ad una data legge o teoria. Il presentarsi di quel solo evento contrario potrebbe inficiare l’intera teoria. Occorre quindi procedere rimettendo alla prova l’intera teoria alla luce dei nuovi fatti sperimentali che si presentano. Una teoria è scientifica se non è statica, se non è definitivamente certa, se è discutibile, se è confutabile, se è possibile falsificarla e quindi migliorarla. Ogni esperienza che vada a sostegno di una teoria non la conferma definitivamente ma la fortifica. Migliaia di esperienze a sostegno rendono una teoria sempre più forte ma non la fanno mai vera. Basta una sola esperienza che non confermi la data teoria per farla crollare definitivamente. La scienza non può essere fatta di dogmi ma di un continuo divenire. 

4 – Non è vero che la metafisica sia di ostacolo alla scienza. Non importa da dove vengano le ispirazioni. In qualche modo la metafisica è una intuizione,  un primo pensiero, un abbozzo di teoria che potrebbe dare contributi allo sviluppo reale del pensiero scientifico. La metafisica è il prodotto della creatività umana e senza tale creatività non sarebbe possibile alcun avanzamento del pensiero, in particolare scientifico. Una comunità scientifica in cui tutto dipendesse dalla sola razionalità non avanzerebbe.

5 – Non è vero che la storia sia determinata da una qualche legge interna e quindi non è pensabile un intervento su di essa nel presente per modificare il suo andamento. Lo storicismo considera di fatto l’individuo come subordinato ad una qualche legge superiore, cui deve assoggettarsi e, in tal senso, genera il totalitarismo. La stessa storia come ricostruzione razionale degli eventi è sempre una manipolazione al servizio di chi la fa o addirittura di interessi precostituiti. E’ l’uomo che deve dare un significato a ciò che accade; non è possibile pensare che l’uomo dipenda dal ciò che accade o che si vuole fare accadere. La critica è rivolta ad Hegel (il padre del quale è individuato in Platone), ma principalmente a Marx. Contro Marx si scaglierà Popper sovrapponendolo ai regimi totalitari dell’Est. Tali regimi non sono falsificabili perché si autoleggittimano e non ammettono critiche dall’esterno. Ogni teoria (o sistema di governo) che non possa essere criticata e confutata limita la libertà dell’uomo. Contro il totalitarismo, contro le verità assolute, è lecito l’uso della guerra.

         Dopo questo schematico riassunto del nocciolo delle idee di Popper, vediamo se è possibile falsificarle e se quindi sono aperte o rappresentano un insieme chiuso e quindi totalitario. (si capirà più oltre che questa problematica neppure si pone: l’Opera di Popper ha i tratti della metafisica e quindi non appartiene alle categorie dove possa essere applicata la falsificabilità).

        Intanto sulle vicende scientifiche inizio con il riportare un brano di Galileo, scritto 300 anni prima della Logica della scoperta scientifica di Popper. Il brano è tratto dalla Giornata II del Dialogo sopra i due massimi sistemi. Dice Galileo per bocca di Salviati: 

Benissimo intendo che una sola esperienza o concludente dimostrazione che si avesse in contrario, basta a battere a terra questi ed altri centomila argomenti probabili.        

        Ecco, lo scienziato lo sa ciò che Popper o qualunque altro filosofo tenta di spiegarci costruendo, egli si, una gabbia intorno alla creazione dello scienziato. Non esiste UN metodo di ricerca ma infiniti. Volerli precostituire è la costruzione storicistica di un impianto che non essendo falsificabile è autoritario e va quindi combattuto (niente guerra però). Ma, e restiamo ancora a Galileo, se si legge la sua opera si trova anche il pregiudizio, quello che viene prima dell’esperienza. Credo che nessun essere vivente e pensante possa pur lontanamente immaginare che sia possibile mettere insieme degli strumenti e farli agire tra loro per trovare un qualche fenomeno (ma poi: quali strumenti e quali fenomeni?). Restare a guardare e ricavare una qualche legge. Sono gli strumenti stessi che vengono scelti dallo scienziato per fare delle cose che ha IN MENTE. Mi sembra talmente evidente che solo uno sprovveduto può affermarlo come novità. Ma veniamo al pregiudizio di cui sopra leggendo ancora dalla Giornata seconda del Dialogo:

Salviati: Avete voi fatta mai l’esperienza della nave?

Simplicio: Non l’ ho fatta; ma ben credo che quelli autori che la producono, l’abbiano diligentemente osservata…

Salviati: Che possa essere che quelli autori la portino senza averla fatta, voi stesso ne siete buon testimonio, che senza averla fatta la recate per sicura e ve ne rimettete a buona fede al detto loro: sì come è poi non solo possibile, ma necessario, che abbiano fatto essi ancora, dico di rimettersi a i suoi antecessori, senza arrivar mai a uno che l’abbia fatta; perché chiunque la farà, troverà l’esperienza mostrar tutto ‘l contrario di quel che viene scritto…

…………

Simplicio: Che dunque voi n’avete fatte cento, non che una prova, e l’affermate così francamente per sicura? …

Salviati: Io senza esperienza son sicuro che l’effetto seguirà come vi dico, perché così è necessario che segua …

        Ecco, il pregiudizio di Galileo è così forte che egli sa già come andrebbe una data esperienza. Ma poi, passando ad altro scienziato, che forse Faraday non aveva presenti le idee romantiche della Naturphilosophie di Schelling, quando cercava azioni circolari? Ed Oersted non stette nove anni a cercare le forze ribelli alle azioni rettilinee di Newton?

    Tutto, tutto il mondo della ricerca è un mondo di pregiudizio. E più pregiudizi si hanno e più si avanza perché si hanno più cose da sottoporre a verifica sperimentale. Ma poi cosa vuole dire o meglio a che serve ciò che dice Popper? Che forse una persona per potersi occupare di scienza e fare lo scienziato deve aver letto preventivamente Popper? Occorre imparare prima il metodo e poi fare lo scienziato? Caspita, se così fosse stato storicamente, staremmo ancora ai presocratici letti a lume di una lampada ad olio.

        Veniamo poi alla falsificazione, a questa sciocchezza che nulla ha a che vedere con la storia della scienza. Allora vediamo, se trovo una fragola azzurra dovrò buttare via la legge che vuole che le fragole siano rosse. Così come, per restare ad una esemplificazione già fatta, quando Oersted e Faraday mostrano l’esistenza delle azioni circolari si è buttata la fisica di Newton, o no? NO, NO, NO! Esperienze che non vadano nel senso di fortificare una teoria non la distruggono necessariamente. La teoria precedentemente in vigore resta valida in quei limiti ed in quelle approssimazioni. La nuova teoria va a conglobare la precedente con ipotesi aggiuntive. Ma poi Newton è stato falsificato dalla relatività, dalla fisica dei quanti, da una miriade di altre teorie,…. ed è sempre lì. Nessuno studierebbe la caduta di un sasso mettendo in ballo relatività e quanti. Sarebbe come sparare con un missile ICBM contro una zanzara. L’esperienza falsificante potrebbe essere la scoperta dell’interferenza della luce nel 1802. Non si spiegava il fenomeno con la teoria corpuscolare. Ma allora come la mettiamo con l’effetto fotoelettrico e la spiegazione einsteniana? Rifalsifichiamo il falsificato? Per risolvere questo gatto avido della sua coda, basta rendersi conto che mai una teoria è stata data per definitiva da Galileo in poi per capire che le gabbie di Popper e di quanti altri sono solo un impaccio che non aiuta nessuno a crescere. E’ proprio la metafisica che blocca la libera ricerca perché, per sua definizione, ha quei dogmi che non sono discutibili e che sono il fondamento medesimo di ogni metafisica. Falsificare la Trinità sarebbe una bella impresa solo che la cosa non ha semplicemente senso. Piuttosto la posizione di Popper deve essere vista cambiando il riferimento, facendo con il Popper medesimo una rivoluzione copernicana. E’ egli che si costruisce una immagine fantastica della scienza e demonizza chi non la condivide. La scienza come PERFEZIONE è solo nei suoi sogni. Nessuna teoria è esaustiva. Nessuna teoria risolve tutti i problemi. Vi sono spiegazioni sempre parziali e, ogni volta che aumentiamo la nostra conoscenza, se da una parte ampliamo l’ambito esplicativo della teoria rendendola più completa, più ricca, dall’altra apriamo altri fronti di conoscenza completamente ignoti precedentemente e quindi del tutto al di fuori di ogni teoria esplicativa e conseguentemente di nuovo forieri di nuova nostra più grande ignoranza. E’ una dialettica continua tra teorici, sperimentali, tra sollecitazioni varie e comunque non riconducibili a nessuno schema esplicativo. Si pensi poi all’imbroglio che sta alla base dell’affermazione di falsificabilità (certezza) in contrapposizione alla verificabilità (incertezza): falsificare significa dover far fronte ad infinite obiezioni, mentre verificare potrebbe voler dire sottoporre ad un ragionevole numero di verifiche. Se solo si indaga il modo di fare fisica di Einstein e lo si confronta con quello, ad esempio, di Planck (parliamo di due giganti) ci rendiamo conto che, con Popper, dovremmo parlare di due pianeti diversi. Invece l’interazione tra i due metodi PROFONDAMENTE DIFFERENTI fu fecondissimo per l’elaborazione di teorie più avanzate. Al contrario di quanto sostiene il sociologo viennese, le teorie non complete, confuse, logicamente indeterminate, sono a volte fonte inesauribile di nuove ricerche e scoperte (l’esempio in tal caso è la fisica di Maxwell). Teorie esaustive, complete ai massimi livelli delle conoscenze di una data epoca, sono invece un handicap ad ulteriori avanzamenti (l’esempio è ora la fisica di Newton, così formalmente perfetta che bloccò la ricerca scientifica per 100 anni). Osserva Kuhn che se tutte le teorie scientifiche dovessero venire abbandonate per un qualche loro insuccesso occorrerebbe abbandonare tutte le teorie scientifiche esistenti. Ed allora come fare a muoversi? sarebbe necessario affidarsi a criteri probabilistici, per altri versi negati da Popper. Insomma, un disastro che porta in sé il germe di maggiori catastrofi, la deriva irrazionalista che nasce proprio dalle reazioni nate da quanto affermato da Popper. Ad esempio il Feyerabend scrive sull’onda dell’indignazione per i lavori di Popper ma poi non si rende conto che le difficoltà della relatività sono discusse dallo stesso Einstein e che quelle dell’evoluzionismo dallo stesso Darwin. E, non a caso, a Popper si affidano non tanto i liberali, quanto gli ignoranti pretesi liberali che avrebbero trovato un efficace corifeo alla negazione della razionalità, all’affermazione della metafisica (fa sempre comodo), ad ogni alibi possibile per affermare una società aperta agli affari più sporchi (ma su questo tornerò). Andando a scavare nell’epistemologia di Popper si scopre un ancestrale ritorno a Mach quando negava l’esistenza del mondo che non cadesse sotto i nostri sensi (un atomo? mai visto uno!). Il Mach che, sulla scia di Berkeley, nega l’esistenza di ciò che non è sperimentabile; che, in nome di un nascosto idealismo, si fa materialista cercando la prova dei sensi. Il mondo diventa così intermittente. Quando lo vedo c’è, ma quando chiudo gli occhi non c’è più. E Popper ripropone questa visione in un ambito più specifico ma ricollegandosi alla Critica dell’esperienza pura di Avenarius, sodale di Mach. Potrei chiedere a Popper la falsificabilità del sorgere del Sole? Ecco l’idea geniale! Il non farsi capire (consciamente, spero, o inconsciamente, poveretto); il parlare a chi comunque non sa intendere ma che è pronto a dire: quante cose sa! Ogni mattina devo aspettarmi che non sorga per poter affermare che la cosa è scientificamente accettabile, in quanto falsificabile? E’ dunque Popper il filosofo del nostro tempo, il riflesso del successo indipendente dalle motivazioni? E’ il trionfo dell’ignoranza e di chi si nasconde dietro di essa per poter dire che anche io ho qualcosa in cui credere. Pensate un istante e vi renderete conto del contorcimento intellettuale di una persona che sostenga tali cose. E’ proprio il prodotto dell’impero austro ungarico che decade, è l’avvento di un nuovo ordine mondiale che fa perdere a Popper un solido terreno di riflessione. Ma non è ozioso osservare che, nonostante la sua fuga dall’Austria discendesse dalle orde antisemite di Hitler, la polemica di Popper si incentra, nella sua parte sociologica, contro Marx e l’URSS (con il clamoroso errore di identificazione che Popper fa tra i due soggetti) degli anni in cui questo Paese lavorava per battere definitivamente il Nazismo e per liberare i più diversi reclusi nei campi di sterminio.

        Come osservano Sokal e Bricmont, secondo Popper, sarà sempre possibile avere delle teorie false ma mai una vera. Che ne facciamo dell’uso di queste teorie da parte di medici ed ingegneri? Il medico si potrà fidare di una risonanza magnetico-nucleare? E di una TAC? E di un acceleratore di elettroni contro i tumori?… L’ingegnere può aver fiducia nell’effetto tunnel per costruire un diodo che abbia determinate caratteristiche? Ed un circuito integrato? Insomma, chi lavora davanti ad un computer dovrà ogni giorno pregare (oltre quello che già fa per l’inefficienza delle linee telefoniche e le inaffidabilità tecnologiche) perché non si falsifichi il suo pentium? Quanto qui ho detto è una cosa semplicissima: è l’induzione, il credere che le cose marcino bene  perché lo hanno fatto un ragionevole numero di volte.

        Ma Sokal e Bricmont evidenziano una seconda difficoltà nel pensiero di Popper. Vi sono delle teorie che sono difficilmente falsificabili. Quando Newton ci fornisce la sua seconda legge della dinamica (F = m.a) e ci spiega i meccanismi della gravitazione universale (F = G. m1.m2/r2) come possiamo falsificare ciò? Che senso potremmo dare a tale falsificazione? E’ falsificata la gravitazione universale dalle irregolarità dell’orbita di Mercurio spiegate dalla relatività generale? Con ipotesi aggiuntive (che nulla toglierebbero alla potenza predittiva della teoria) sarebbe possibile far rientrare dentro tali teorie moltissimi fatti sperimentali, pur non previsti direttamente dalla teoria (pianeti piccoli o grandi; masse piccole o grandi; densità piccole o grandi; distanze piccole o grandi; velocità piccole o grandi e … grandi quanto?). Ma supposto che ci accordiamo su tutte queste cose, che diciamo degli strumenti di misura? Popper non ne parla, si tratta di una qualche entità metafisica? Eppure dipende dalla sensibilità di certi strumenti se si possono fare certe falsificazioni. L’esperienza di Michelson-Morley andava ad indagare effetti al secondo ordine in v/c. Poteva pensare a piacimento Newton una tale eventualità (ma poi, a cosa gli sarebbe servita?), ma come l’avrebbe realizzata senza la tecnologia che una avanzata rivoluzione industriale mise in mano alla Germania ed ai nascenti (scientificamente ) Stati Uniti? Più in generale, come si accorda una teoria con la potenza del trasduttore, di quell’oggetto che trasforma certi segnali in altri; di quello che da certi “rumori” nello spazio “capisce” che vi è un ammasso stellare; di quello che da un segnale su un oscilloscopio capisce un difetto nel cuore; da quell’altoparlante che alla fine ci porta alle orecchie le onde elettromagnetiche, pur esistenti nello spazio, ma assolutamente al di fuori della nostra capacità di coglierle e di farle vedere a Mach, in quanto tali realmente.

   E passiamo ora alla parte più patetica del pensiero di Popper, quella che gli ha attratto le maggiori simpatie soprattutto tra gli orfani nostrani del pensiero, quella sociologica sviluppata essenzialmente in La miseria dello storicismo e La società aperta ed i suoi nemici.

        Tralasciando per ora la confusione che il “filosofo” Popper fa tra il Platone che vorrebbe e quello che è, e le confusioni tra Locke ed Hume (riprese pedissequamente da qualche parvenu nostrano alla seconda carica dello Stato), veniamo alla confutazione che Popper fa del marxismo confondendolo allegramente, come già accennato, con i Paesi a socialismo reale. Iniziamo con una palese contraddizione nelle stesse parole di Popper. Egli dice due cose che fanno a pugni tra loro:

1 – il marxismo come teoria è inconfutabile;

2 – tutte le predizioni del marxismo sono state confutate.

Dal primo di questi giudizi Popper estrae la conclusione che non si può parlare di socialismo scientifico; la seconda affermazione vorrebbe poter affermare che nessuna delle cose che Marx prediceva si è verificata. Ma allora, facendo il popperiano direi che o è vera la prima affermazione ed allora la seconda non ha significato; o è vera la seconda ed allora il marxismo è una teoria scientifica. Ma poi, continuando a fare il popperiano, perché non mi si concede un poco della metafisica che pure è apprezzata da Popper e perché questo credo non lo si mette alla pari con altri credi da lui assolti? Insomma ancora un disastro che è falsificato proprio dalle adesioni dei nostri intellettuali ai livelli di Antiseri e Pera.

        Ma passiamo a leggere alcuni brani del secondo volume de La società aperta … al paragrafo 6 del Capitolo 20, dove si parla de Il capitalismo ed il suo destino. Dice Popper:

“”Per illustrare fino a che punto sbagliava Marx nelle sue profezie … e nella sua lotta contro il capitalismo senza freni citeremo alcuni passaggi del capitolo de Il Capitale in cui Marx analizza  la legge generale della accumulazione capitalista.

nelle fabbriche … si impiegano in massa maschi giovani che non hanno ancora raggiunto l’età adulta, dopo la quale solo una piccola porzione di essi continua ad essere utile per l’industria, di modo che sono costantemente licenziati in gran numero. Passano allora a far parte dell’eccedente fluttuante della popolazione che cresce con il crescere dell’industria… Le esigenze del capitale nell’ambito del lavoro, sono tanto elevate che, in generale, un operaio maturo è un uomo finito… Dentro il sistema capitalista, tutti i mezzi per elevare la produttività sociale del lavoro … si trasformano in mezzi di dominazione  e sfruttamento, mutilando l’operaio, riducendolo ad un frammento di essere umano, degradandolo alla condizione di mero pezzo dell’ ingranaggio sociale, e fanno del lavoro una tortura…Si capisce da queste cose che quanto più si accumula il capitale, quanto più peggiorano le condizioni dei lavoratori, qualunque sia la loro paga … E’ questa la legge assoluta dell’accumulazione capitalistica … L’accumulazione di ricchezza in un polo della società comporta, contemporaneamente, una accumulazione di miseria, di lavoro massacrante, di schiavitù, ignoranza, bestializzazione e degradazione morale nel polo opposto.”

Il quadro che fa Marx del capitalismo del suo tempo è certo. Ma senza dubbio è la sua legge che la miseria debba aumentare incessantemente insieme all’accumulazione non si è realizzata nella realtà… Il capitalismo senza freni già è scomparso. Dopo Marx l’intervento democratico ha realizzato immensi progressi ed il maggiore rendimento ottenuto nel lavoro – conseguenza dell’accumulazione del capitale – ha reso possibile eliminare, virtualmente, la miseria…. Resta ancora da fare ma non dobbiamo chiederlo all’intervento democratico, il solo che lo permette, ma solo a noi stessi.””

        E’ questo il nocciolo della critica a Marx che, come vedremo, nel paragrafo successivo estende in modo che definirei INFAME ai partiti comunisti. Discutiamola con questo sistema, facendo parlare uno dei principali padroni e guru del mondo globalizzato, George Soros (The Crisis of Global Capitalism. Open society  endangered; Bbs Public Affairs, New York, 1998. E’ interessante notare che il libro è stato tradotto in modo truffaldino dalla casa editrice ex craxista, Ponte delle Grazie, Milano, 2001: La Società Aperta. Per una riforma del capitalismo globale invece di La crisi del Capitalismo Globale. La società aperta messa in pericolo). E’ proprio Soros, ex allievo dello stesso Popper alla London School of Economics negli anni Cinquanta e con un qualche amore epistemologico, che attacca il suo capitalismo (l’Economist ha stroncato questo lavoro mentre il Sole 24 Ore, che ha definito ingiuste e volgari le critiche dell’Economist, sostiene che sia un libro di grande interesse). E’ il progresso con le sue “magnifiche sorti” al centro della critica. Sono le ottimistiche previsioni, i bilanci illustrati da grafici, l’espansione infinita  (e siamo ancor prima dei disastri di Enron, di Worldcom, di Vivendi,…). Quell’ottimismo che fa prevedere una controllabilità assoluta di tutti i processi, le transazioni ed i mercati.

E’ proprio quel mercato che, per Soros, provoca nel mondo lacerazioni, squilibri, conflitti, sfruttamento, guerre e non l’armonia e l’eliminazione della miseria. E’ sempre il capitalismo che ha un’etica che non corrisponde a quella che può mantenere un ceto politico aperto e quindi una società aperta; che democrazia e mercato tendono a non coesistere, con il secondo che tenta di uccidere la prima. Dice Soros che “il capitalismo globale  è una forma distorta ed incompleta di società aperta“. Ma Soros si spinge più in là ed individua nel collasso dei Paesi a socialismo reale la vera causa dell’aggressività nuova del capitalismo. E ciò in contrasto con quanto chi credeva in una società aperta potesse mai prevedere, anzi l’esatto contrario se Soros si spinge a sostenere:

L’assunto centrale di questo libro è che il fondamentalismo di mercato è oggi una minaccia maggiore per la società aperta di quanto non sia una qualunque ideologia totalitaria“.

E ciò perché il mercato è entrato dove non avrebbe mai dovuto, dove le regole dovrebbero essere dettate da valori morali e non da interessi: la famiglia, la politica, l’arte, il pensiero speculativo,… . In tal modo i processi democratici collettivi vengono soffocati ed il mondo è sempre meno governabile con processi razionali, dai soli quali può discendere una società aperta. Il mercato che decide produce caos perché è miope e non ha visioni globali, le sole che permettano di armonizzare campi diversi sempre di mercato. Il profitto immediato va spesso a scapito della distruzione di altri beni ricchezze e tra questi beni vi è anche l’ambiente. Lo scambio di capitali in maniera sempre meno controllabile impedisce le tassazioni che sono alla base del sistema di riequilibrio del welfare. La tendenza del capitalismo globale, senza regole, è quello di portare all’autodistruzione del sistema capitalistico e con esso del mondo intero. Dice Soros:

[Se non interverranno cambiamenti radicali, tutto questo] provocherà la disgregazione definitiva del sistema capitalistico globale. Se e quando l’economia globale perde colpi, le pressioni politiche rischiano di squarciarlo. E’ già accaduto. La precedente versione del sistema capitalistico mondiale, quella in auge un secolo fa, è stata distrutta dalla Prima Guerra Mondiale, e dalle successive rivoluzioni“.

A.M. Petroni, recensendo il libro per Il Sole 24 Ore, cita un vecchio detto inglese: “se l’arcivescovo di Canterbury dice che Dio esiste, sta facendo semplicemente il suo mestiere: “se l’arcivescovo di Canterbury dice che Dio non esiste vale la pena di starlo a sentire“.

        Ed io credo proprio di si. Queste cose Soros le diceva solo 5 anni fa. E questi ultimi 5 anni debbono aver mostrato anche ai più scettici l’incancrenimento del capitalismo, il suo fallimento su scala mondiale, la sua incapacità di offrire quel mondo di lustrini sfoggiato così bene dal nostro Cav. Banana. E tutte le cose che ho riportato non sono mie, sono, come detto, del guru del capitalismo. Io posso aggiungere cose più sgradevoli che più che falsificare rendono totalmente ridicole le posizioni di Popper (dopo solo 50 anni! mentre quelle di Marx hanno ancora un possente potere predittivo dopo 150 anni). Ed il motivo risiede anche nel fatto che, anche qui, il “filosofo” si fa economista e dice sciocchezze come le diceva prima, quando si era fatto scienziato. Con il suo sociologismo tenta di smontare una costruzione che, ha dentro di sé gli antidoti insiti essenzialmente proprio nel materialismo dialettico (che è l’altro versante di critica di Popper a Marx). Il fatto che Marx non imbalsama le sue teorie ma le lega al suo tempo è elemento continuamente correttivo. Sarà indispensabile storicamente studiare le condizioni economico-sociali per individuare i modi di intervento nel senso del cambiamento a favore dei ceti più deboli. Voler racchiudere il pensiero di Marx, con tutti i suoi limiti, dentro gli ex Paesi a socialismo reale è fare una conversazione da Bar dello Sport. E’ lecita ma priva di qualunque scientificità.

        Più in generale, non è forse vero che più aumenta la ricchezza prodotta e più persone muoiono di fame sulla Terra? Non è forse vero che i ricchi sono sempre più ricchi perché creano sempre più poveri? Che, a livello mondiale, continua la rapina sui Paesi Poveri? Che le situazioni discusse da Marx restano le stesse solo che stabilitesi su scala planetaria? Cosa è altrimenti l’immigrazione dei disperati del mondo verso i Paesi ricchi? E perché si fanno leggi orrende per fermarli (che ne dice colui che siede in Senato?)? E come è possibile pensare all’autoregolamentazione di chi sta distruggendo il pianeta rendendo, proprio come diceva Marx, più insopportabili le condizioni di vita dei miserabili della Terra ? I disastri che ci circondano non devono commuoverci solo quando qualche inondazione distrugge una bella città europea. Che ne è dei deserti che crescono? Che ne è della mancanza d’acqua? Che ne è di terre fertili che vanno scomparendo per l’innalzarsi del livello dei mari? E qui si può continuare all’infinito, ogni volta pensando a quel poverino di Popper ed ai suoi estimatori. Ma venendo a noi, ai nostri Paesi ricchi, è vero che stiamo tutti meglio con il capitalismo arrembante? Non è forse vero che il lavoro è sempre più una chimera, che è precario quanto più si è avanti negli anni? Che ancora il lavoro è sempre più alienante? Che il welfare è attaccato brutalmente da tutte le parti? Scuola, sanità, pensioni sono al centro degli attacchi del padrone del capitale proteso sempre più all’ uso bestiale degli extracomunitari o addirittura a trasferire le sue produzioni in Paesi in cui si sfrutta il lavoro minorile o i salari sono di fame. Ma poi, l’opulento Popper non viveva nell’Impero coloniale inglese? Non viveva in un mondo ipocrita che si arricchiva alle spalle di mezzo mondo? Non vi sono analisi del nostro filosofo sulle barbarie britanniche in India, nel Vicino Oriente, in Africa,…, sulla guerra anglo-boera? Erano società aperte o erano società condannate da un evoluzionismo politico a fare da sostegno al potere dei Paesi ricchi? Strabismo? Cecità? Ignoranza? Scegliete voi.

        Il positivista della politica e dell’economia, così potrebbe essere definito Popper. In ogni caso non ne ha azzeccata una! E nei tempi in cui viviamo vi sono molti convenzionalismi che impediscono di parlare  male di uno di cui gli altri parlano bene. Io credo che occorre avere il coraggio di dire che IL RE E’ NUDO. E Popper è nudo.

        Resta da argomentare quell’INFAME lasciato in sospeso qualche riga più su e, per farlo, ritorniamo a La società aperta …, al paragrafo successivo a quello su cui ci siamo brevemente soffermati.

        Dice Popper, facendo il triplo salto mortale che lo porta ad assimilare i partiti comunisti con le teorie economiche di Marx:

Grazie alle profezie di Marx, i comunisti [da qui in avanti si potrà notare che i “comunisti” non sono altro che o una entità metafisica o venuti da un altro mondo, n. d. r.] sapevano con certezza che la miseria non doveva tardare ad aumentare. Sapevano anche che il partito non poteva guadagnarsi la fiducia dei lavoratori senza lottare per loro e con loro per conseguire il miglioramento delle condizioni di vita. Queste due premesse generali determinarono con chiarezza i principi della loro tattica generale. Facciamo che i lavoratori esigano la loro parte, appoggiamoli in ogni momento delle loro lotte per il pane e la casa, lottiamo insieme per soddisfare le loro esigenze pratiche, economiche  o politiche che siano, ed in questo modo ci guadagneremo la loro fiducia. Contemporaneamente i lavoratori apprenderanno in fretta che è loro impossibile migliorare apprezzabilmente le loro condizioni con queste piccole lotte e che niente se non una rivoluzione radicale può portare loro veri progressi. In effetti tutte queste piccole lotte sono condannate all’insuccesso …perché in ultima istanza la miseria DEVE aumentare. Conseguentemente l’unico risultato di questo battagliare degli operai contro i loro datori di lavoro è un aumento della loro coscienza di classe, è questo sentimento di unità che solo può essere acquisito nella lotta, insieme alla convinzione che solo la rivoluzione può aiutarli nella loro miseria. Una volta raggiunta questa tappa, sarà iniziata l’ora della vittoria finale.

Questa era la teoria che i comunisti hanno posto in pratica conseguentemente. Cominciarono con l’appoggiare i lavoratori nella loro lotta ma, contro ogni aspettativa, essa ebbe successo e le loro esigenze furono soddisfatte. Evidentemente l’unica spiegazione possibile erano che avevano fatto delle richieste troppo modeste. Bisognava chiedere di più. E di nuovo le richieste furono soddisfatte. E più diminuisce la miseria e più i lavoratori si mostrano disposti a trattare aumenti di salario piuttosto che imbarcarsi in rivoluzioni.

In questa situazione i comunisti pensano che devono cambiare politica radicalmente. Occorre fare qualcosa per cui si realizzi la teoria dell’aumento della miseria: per esempio risvegliare l’inquietudine coloniale … e adottare una politica che faccia crescere il maggior numero di catastrofi. [Ma i lavoratori sono realisti e basta migliorare le loro condizioni di vita che i partiti comunisti vedranno diminuire le adesioni alla loro politica].

In questo modo di nuovo si deve cambiare politica: è necessario lottare per il miglioramento immediato delle condizioni di vita operaia e sperare, allo stesso tempo, che avvenga tutto il contrario.

Questo è il livello della conoscenza della storia di Popper, queste le sue argomentazioni contro quei partiti che, quando egli scriveva queste cose, erano in prima linea nel mondo a difendere la libertà contro il nazifascismo mentre il nostro disertava in Nuova Zelanda a scrivere sciocchezze su Platone. Naturalmente le condizioni di vita dei lavoratori sono migliorate per pieno merito del capitale con qualche mediazione metafisica. E’ noto a tutti infatti che furono gentili concessioni dei padroni la riduzione della giornata lavorativa, la difesa del lavoro minorile, la salvaguardia delle donne nei momenti di gravidanza, [per quel che ci riguarda oggi] l’articolo 18 dello Statuto dei Diritti dei lavoratori. E’ anche noto che quelle donne andarono a fuoco in quella fabbrica americana non perché chiedevano la riduzione dell’orario di lavoro ma perché fumavano sul posto di lavoro. Ecco, gentile lettore, a questo punto non sono più capace di argomentare con un qualche livello di distacco ma sento una sana rabbia che mi assale e che mi fa intravedere questo signore per bene che mai ha conosciuto le condizioni di vita operaie, che vive al caldo senza allungare gli occhi se non dove gli fa comodo. Appunto, data per scontata la buona fede, non è altri che un panflettista, al massimo un positivista dell’economia e della politica. Un fallito completo rispetto anche solo ai suoi criteri di falsificabilità (che comunque non sono, come annunciato, qui applicabili in quanto la falsificabilità si applica alle teorie scientifiche e non alla sociologia o alla metafisica).

        Le cose che dice Popper meriterebbero molto più spazio ma non si uscirebbe da questo complesso di pregiudizi che non hanno sbocco se non in una visione politica chiusa ed autoritaria. Sul volume primo de La società aperta …  dirò qualcosa più oltre, quando parlerò dell’altro insano costume di Popper, la trasposizione automatica di concetti affermatisi in certi periodi a situazioni di 2400 anni dopo. Discuteremo delle polpette che fa Popper di Platone, secondo lui alla base di ogni totalitarismo. Chiudiamo solo con un aneddoto di interesse. Nell’estate del 1995, ad un anno dalla scomparsa di Popper uscì sul Times Litterary Supplement un articolo feroce, ferocemente titolato: Open society, closed thinked. 

Platone e la democrazia

        Platone è del IV secolo a.C., è un pensatore, tra i più grandi dell’antichità, di 2400 anni fa. Può essere ritenuto il Kant dell’antichità, il sistematizzatore della filosofia, colui che fornisce regole precise dopo i presocratici e in contemporanea con i sofisti.

          Il secolo di Platone è di grandi divisioni e guerre nella sua Grecia. E’ la decadenza politica della Città, è la Grecia divisa in centinaia di piccoli Stati continuamente in guerra tra loro. In questa situazione il Paese è facile preda di ogni invasione straniera. L’apogeo di quella civiltà è del secolo precedente, il secolo di Pericle, della nascita della democrazia, con qualche specificazione a lato. In cosa consiste questa democrazia? All’apogeo delle riforme di Pericle, in Atene e nell’Attica, democrazia vuol dire che si comincia a considerare l’uguaglianza di tutti i cittadini (con determinate caratteristiche) in termini di diritti e di doveri, come legislatori e sudditi. Bastava essere abitanti maschi dell’Attica, nati da genitori ateniesi, registrati in qualche municipio dell’Attica, che avessero fatto servizio militare. Che percentuale di cittadini abitanti nell’Attica  è questa? Più o meno 30 o 40 mila persone su un totale di circa 400 mila. Intorno ad un 10%. Questa democrazia significa però un qualcosa di molto diverso da oggi: è non tanto uguaglianza di incarichi, di diritti e di doveri, quanto una imposizione ad ogni cittadino di finanziare la difesa, l’abbellimento e la conservazione delle città, secondo le disponibilità di ognuno. In queste circostanze è spiegato da Tucidite (e mi rifaccio all’interpretazione di Tucidite) nella Storia della guerra del Peloponneso come Atene dovesse in qualche modo assumere un atteggiamento espansivo. Tutto era iniziato con il tentativo d’invasione persiana d’Europa. La necessità di difendersi e di respingere il nemico comune fece costituire delle alleanze e smisero le rivalità interne (Atene e Sparta, ad esempio). Fu Atene che assunse la direzione della Lega che condusse la Grecia a fermare gli invasori. Gradualmente e dopo aver respinto i persiani, la Lega andò sulla strada dell’aumento del suo potere tentando la via dell’Impero con l’adesione forzata di vari statarelli alla medesima, obbligati a pagare tributi. Ecco che la democrazia degenera e a questa degenerazione fa riferimento Platone con una spiegazione contundente che vedremo più oltre. Pericle, circondato da eccelse menti (Anassagora, Protagora, Fidia, Erodoto, Sofocle,…),  regge le sorti di Atene e riscuote il successo e la fiducia dei contadini, dei cittadini che riconoscono la sua onestà e  onorabilità. Tutto regge fino al 431 a.C. quando Sparta lancia un ultimatum ad Atene, ultimatum ritenuto inaccettabile dalla Lega. Fu una crisi totale che dette il via alla decadenza della Grecia. Pericle morì nel 429, due anni dopo dello scoppio della guerra con Sparta. La scomparsa di tale figura mise in crisi la Lega. La democrazia si corrompe in tempi piuttosto rapidi. Gli antidemocratici passano all’attacco creando una fronda interna. La conquista momentanea di Atene da parte di Sparta è la goccia che fa traboccare il vaso: un gruppo di aristocratici tra cui due parenti di Platone (Crizia e Carmide) impongono all’Assemblea Popolare di cedere il potere ad un consiglio di 30 cittadini. Si promettevano “meno tasse per tutti” ma poi i cittadini compresero e chiamarono il gruppo dei Trenta Tiranni perché si preoccuparono dei propri interessi particolari e non di quelli della Città. Una sola battaglia permise il ritorno dei democratici richiese una sola battaglia e con essa la cacciata dei tiranni. Ma tutto ormai non era più come prima. E qui iniziano le riflessioni e le analisi di Platone nelle Leggi e nella Repubblica. Naturalmente anche qui occorrerebbe un libro intero per cogliere ogni sfumatura. Ma è invece semplice cogliere il succo del problema. Secondo Platone, tra i tre regimi conosciuti in Grecia, la democrazia, la oligarchia e la tirannia, quello democratico è quello che apparentemente permette di vivere meglio. Ma il problema, ecco appunto IL PROBLEMA, nasce dal fatto che senza una costituzione, un insieme di leggi, una organizzazione sociale, ognuno ha le sua legge, la sua costituzione e l’insieme di questi eventi origina una disorganizzazione sociale in cui la demagogia ha il sopravvento [si pensi ancora a Banana]. La democrazia che auspica Platone è quella, ad esempio, che non vuole il Cav. Banana: regole certe, leggi, organizzazioni sociali uguali per tutti. E’ esattamente il contrario di quanto qualche sprovveduto, pardòn Pera, è andato raccontando ad un meeting  affaristico-integralista-cattolico. I cittadini che protestavano contro il d.d.l. Cirami erano la democrazia che lottava contro la tirannia ed il disordine che quel Senato andava votando. Erano quelli che hanno rifiutato da tempo i teatrini di un personaggio che in Italia è tragicamente ricorrente e che, altrettanto tragicamente, ci lascerà. Ed è ogni azione del governo Banana che va nel senso del disorganizzare, del costruire la democrazia senza leggi, senza regole, del fare demagogia virtù, che era in odio a Platone. Dice il filosofo greco che il morbo della democrazia che egli conosce è il disordine e l’immoralità (ed è anche il morbo di questa democrazia). Ed il filosofo scrive, oltre al libro VII de La Repubblica, anche l’VIII in cui analizza le altre forme di governo che egli conosce, oltre alla democrazia, scagliandosi con particolare violenza proprio contro il potere del tiranno, del migliore. Inoltre una lettura fatta da alcuni studiosi degli anni ’30 ha portato a parlare addirittura di Platone come di un corifeo del comunismo, solo perché auspicava che chi deteneva il potere dovesse essere privo di proprietà, non avesse né famiglia né figli,… proprio per garantire la più perfetta trasparenza [mi ritorna in mente Banana]. Mi si dica ora se quella persona, Pera, indicata con carattere tipografico proporzionato alla sua statura morale, è persona di cultura o un affarista di basso rango che ha usurpato la seconda carica dello Stato con “meno tasse per tutti”. Si sia onesti, almeno con se stessi. O si sia disonesti, come molti cantori della Banana che si esibiscono in un’osteria finché c’è qualcuno che gli dà una mancia, e si dica apertamente che è questo che si vuole: il benessere personale alla faccia di tutti.

Non sembra anche a voi che Platone parlasse contro Banana? Non sembra quindi che la seconda carica dello Stato abbia mentito o sia di una ignoranza abissale?

        Proseguiamo con Platone. Il progetto della forma di governo che egli auspica è compiutamente descritto nella Repubblica (Politeia) e completato dalle Leggi. Egli lo riferisce ad Atene, la sua città. Colui che ha  massimi incarichi è il “custode” (fulax) della Città. Egli ha responsabilità fondamentali, addirittura mitizzate (come vedremo) da Platone. Il semplice cittadino non ha bisogno di qualcuno che gli controlli la vita o che gliela organizzi. Egli è capace di agire da solo per tutto ciò che lo concerne. L’unico controllo deve aversi per quel che riguarda il suo rapporto con gli altri e particolarmente a che non si arricchisca troppo. Infatti per Platone una ricchezza troppo grande in una comunità rompe l’armonia e la quiete della città. La ricchezza nasconde una fonte di potenza e quindi non è più un affare privato ma politico.

        Come riuscire ad avere dei “custodi” all’altezza dei loro compiti? Attraverso l’educazione della gioventù. La maggiore colpa della Città  è che trascura l’educazione affidandola in gran parte ai privati. Serve una educazione regolata e sotto l’egida dello Stato, che abbia la caratteristica di unificare essendo uguale per tutti. Tra questi giovani, così educati, verranno fuori i “custodi”.  Il corso di studi non intende fornire ai futuri cittadini conoscenze pratiche o utilizzabili [questo concetto sarà superato solo con l’Ora et Labora di San Benedetto, 800 anni dopo, n.d.r.], ma farne dei sapienti, dei filosofi e uomini di scienza ed in questo senso occorrerà coltivare la “musica” (mousikή) che non è la nostra musica ma l’insieme delle arti delle Muse. Occorre quindi puntare non ad una istruzione tecnica ma ad una formazione morale ed intellettuale.

        Che caratteristica deve distinguere il “custode” dagli altri cittadini? Costoro non debbono avere interessi diversi da quelli della Città, altra passione o amore che non sia per la Città. I custodi non hanno famiglia, né casa, né altra proprietà privata. L’oro deve essere loro interdetto non solo come proprietà ma anche al semplice tatto. I “custodi” non dominano la Città ma sono al suo servizio ed i saggi devono indirizzare i cittadini verso la “giusta opinione” (doxa alηθής).

        La Città perfetta è quella in cui nel governo domina la ragione ed il Bene. Nelle Città imperfette tale gerarchia è rovesciata: al posto della ragione vi è l’ambizione, l’avarizia, il piacere, la vanità ed il crimine. L’avarizia è la sete di possedere di più e quindi la paura di perdere le ricchezze accumulate. Una Città in cui domini l’avarizia crea essa stessa le condizione della sua distruzione.

        Tra le varie forme di governo, come già detto, lo Stato democratico ha per Platone il difetto del disordine, della mancanza di disciplina, dell’instabilità, dell’indifferenza della cosa pubblica [Platone richiede leggi, ordine uguale per tutti, n.d.r.]. Da questa degenerazione dello Stato democratico incapace di disciplinarsi nasce la peggiore iattura, la tirannia. Dice Platone:

Hai udito certamente che in uno Stato democratico la libertà è il più bello di tutti gli ornamenti. Per tale motivo, anzi, si dice,  una natura libera può sentirsi a suo agio solo se prende dimora in questa città…E non è forse vero che l’insaziabile desiderio di questo bene (e ciò appunto intendevo dimostrare) come d’altra parte il disprezzo per gli altri desideri, altera l’aspetto di questa costituzione e apre fatalmente la via alla tirannide? … In una parola l’accumularsi di tutti questi abusi rende, te ne accorgi bene, suscettibile l’anima dei cittadini. Se si fa una proposta che implichi un poco di disciplina, entrano subito in furore incapaci di sopportare l’affronto. In conclusione non si danno pensiero né di leggi scritte né di leggi non scritte; non vogliono che sopra vi sia, in alcun modo, un padrone“.

        In definitiva la salvezza dell’uomo e della Città passa per il governo della ragione, ciò che vi è di divino nell’anima. Negare questo significa affidarsi alla suprema infelicità per l’uomo, la tirannide. Questo pericolo non è teorico ma reale: la crescente demoralizzazione dei cittadini, la propaganda insidiosa dei poeti, la scuola dei sofisti e la demagogia dei pubblici oratori, che ne sono allievi, sospinge il popolo cieco ed ignorante alla tirannide. Occorre evitare il disastro finché si è in tempo. Un appello disperato è quello di Platone che avverte: non confondete l’uomo di Stato ed il demagogo, chi vi illumina e chi vi lusinga. Guardatevi da quest’ultimo che agisce e lavora per il proprio interesse e non per il vostro bene..

        Chiedo ancora: Platone con chio ce l’ha? Non sta parlando di Banana? Allora che dice la seconda carica dello Stato?

        Ma Platone aggiunge considerazioni di interesse. Nella democrazia vi è l’Assemblea del popolo ed in essa vi sono degli incompetenti sempre disposti a richiedere pareri tecnici esterni quando si tratta di questioni tecniche ma sempre pronti a disputare sull’amministrazione dello Stato, anche se non sanno di cosa si tratta. Guardate il nostro Parlamento, la coalizione al Governo del Paese esprime ben 150 laureati in legge (contro circa 50 della coalizione all’opposizione) dei quali bel 110 sono avvocati. Questa elefantiasi di avvocati mostra grandi interessi per la giustizia da parte del governo? Ma non scherziamo! E’ una troupe di incompetenti su tutto che deve però salvare gli interessi di Banana. E basta. Il Paese? Cos’è? Di cosa si tratta? Chissenefrega!

Locke ed Hume

            Solo un cenno a questi due pensatori, solo per prendere la matita blu e sottolineare con forza errori che neppure uno studente di liceo farebbe (ed oggi è un tutto dire). Eppure li fa la seconda carica dello Stato, forte del fatto che ha letto solo il libro di Popper in cui si cita Hume, sfuggendo da Locke. Ed allora il carattere tipografico minuto assegna ad Hume, che pure ebbe meriti enormi (se non altro la chiarezza e l’aver risvegliato la coscienza di Einstein dal sonno dogmatico), caratteri che furono invece di Locke. Si tratta della nascita del pensiero liberale: chi, come, dove?

            Naturalmente non serve essere uno studioso del pensiero liberale. Basta un bravo studente di liceo per ritrovare alcune semplici cose nel pensiero politico di Locke che lo fanno padre del pensiero liberale; e poi, tra l’altro, se Locke avesse ceduto le armi ad Hume, non avremmo avuto le Lettere Inglesi di Voltaire. Perché Locke scrive delle cose nel 1690, Voltaire visita l’Inghilterra e scrive le Lettere … nel 1734 ed i lavori di Hume riguardanti morale e politica sono del 1741. Come avrebbe potuto Voltaire indicare già nel 1734 l’Inghilterra come un Paese aperto alle arti ed ai commerci, un  Paese liberale confrontato con la monarchia assoluta ancora esistente in Francia? Beh, bocciamo la seconda carica dello Stato ricordandogli rapidamente alcune posizioni politiche di Locke e di Hume.

          Sono del 1690 i Due trattati sul governo di Locke. In questa opera, per la prima volta vengono enunciati i principi di uno Stato liberale, principi che suonano veramente rivoluzionari. Una società civile si costituisce per realizzare l’armonico sfruttamento da parte di tutti i cittadini dei beni fondamentali di cui dispongono: vita, beni materiali e libertà. In questo lo Stato non è dispensatore di diritti ma garante della non sopraffazione dei diritti di ciascuno da parte di qualcun altro. Quindi il concetto di libertà è (e non poteva essere altrimenti in epoche buie di monarchie soffocanti) “libertà dallo Stato”  in ogni questione che non sia regolata diversamente con leggi che la società stessa si è date. Uno Stato che violentasse uno solo dei beni fondamentali dei cittadini degenererebbe in tirannide.

Come realizzare ciò? come avere delle garanzie? mediante la divisione dei poteri: legislativo, esecutivo e federativo (300 anni fa, in Gran Bretagna, erano questi). Senza queste condizioni si va, come già detto, verso la tirannide e Locke non è tenero con essa ma durissimo. Egli dice: “Ogni volta che finisce la legge, inizia la tirannide” (sarebbe d’interesse sapere se è per questo motivo che la seconda carica dello Stato non ha citato Locke nel suo comizio ai giovani di Comunione e Liberazione, meglio conosciuti con l’acrostico Comunicazione tanto caro a Banana). Ma Locke continua autorizzando le manifestazioni sotto l’edificio del Senato perché afferma con estrema forza il diritto del popolo alla resistenza contro il tiranno (che ne facciamo, Pera, di queste affermazioni?).

            La politica di Hume studia invece come gli uomini debbano definire le loro relazioni sociali dando dei giudizi sulla loro maggiore o minore giustezza. E’ quindi questa giustizia il discrimine tra relazioni corrette o no, anche se la giustizia è a priori un concetto artificiale (non univocamente definito). Questo artificio è però indispensabile per l’uomo e diventa quindi naturale. Dice Hume nei suoi Saggi morali e politici (1741): “L’origine della giustizia spiega l’origine della proprietà in quanto la stessa convenzione dà origine ad entrambe. Non esiste in natura un diritto fisso di proprietà, finché le passioni umane non sono disciplinate da qualche convenzione“. Qui Hume fa un discorso a pera per tentare di giustificare la prima assegnazione di proprietà; egli dice infatti: “L’espediente più naturale è che ognuno continui a godere ciò di cui è padrone al presente e che la proprietà costante sia unita al possesso immediato” (è il “come stamo stamo” di Alberto Sordi nella Grande Guerra).  Il governo è istituito per tutelare la giustizia se non lo fa diventa tiranno e contro la tirannide di un governo è lecito ribellarsi (timido riscatto rispetto alla rinuncia di Hume all’indagine sulla nascita della proprietà). Concludo con la sola osservazione che Hume annette una enorme importanza alla storia intesa come laboratorio sperimentale di colui che voglia studiare la natura umana.

Pera

            E veniamo a questo personaggio spacciato per filosofo che, per mia ulteriore disgrazia, risulta anche filosofo della scienza. Ecco, se vi è un sintomo della decadenza delle nostre università è proprio questa cialtroneria in cattedra. Scienza è, oltre alle sociologie popperiane ed agli errori marchiani sia di Popper che del suo studioso (?), anche formalizzazione e un filosofo della scienza che si nasconde dietro Galileo, Volta, Galvani e le opere di Popper discorsive (sociologico-demagogiche) non la dà a bere a nessuno se non ai suoi simili. Ecco, io che non sono ai livelli di tanto studioso, faccio finta di essere un suo studente e di chiedergli se i diagrammi di Feynmann sono falsificabili, se cioè sia possibile che tali rappresentazioni grafiche possano descrivere lo scambio di particelle o le interazioni tra altre particelle. E nell’EPR come si può descrivere, mediante il formalismo di Dirac, il decadimento di un pai zero. Questo è d’interesse perché Popper ha avuto la buona idea di scrivere un Post Scriptum alla Logica della Scoperta Scientifica, post scriptum in tre volumi. Ed io non ho capito la posizione di Popper sullo scisma nella fisica (anche se ho una qualche idea dai lavori di Franco Selleri), che mi dice, professore? La disuguaglianza di Bell che lei conosce e che io mi permetto di ricordarle, risolve qualche problema?

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            Poi mi risponderà…nel frattempo vado con la memoria alla gran mole di chiacchieroni del tipo del personaggio in oggetto che, dopo tanto darmi da fare perché venissero accettati, debbono farmi pensare che Feynmann avesse ragione.

            Intanto il professore è scappato dalla “trincea del lavoro” per essere prestato alla politica (caspita, che bel guadagno che abbiamo fatto! E’ proprio il classico: l’ignoranza etimologica al potere). E dal pulpito della Seconda carica dello Stato (e questo mi indigna) può sparare sentenze assolutamente prive di ogni base non dico epistemologica ma addirittura solo logica o di conoscenza delle cose in sé (il per sé lo lasciamo perché troppo impegnativo, vero professore?).

        Che ha fatto il tapino (insieme al Battista della Stampa, onnipresente ma nullasciente)? Ha sostenuto che: la piazza non può sostituire la politica; le opposizioni, dal canto loro, non possono annullare un risultato elettorale guadagnato legittimamente; il Polo (o Casa delle Libertà Condizionali, n.d.r.) deve quindi governare come hanno scelto i cittadini (e fare soprattutto le riforme), ma senza prevaricazioni. E per argomentare queste sciocchezze è ricorso al suo essere uno che se ne intende poiché conosce storia e filosofia. Infatti ha sostenuto che Platone è il papà di tutti i regimi totalitari (che nascono in Europa con i fascismi), che Hume è il papà del pensiero liberale, che Popper gli ha spiegato tutto questo. Ma sapete cosa non piace e addirittura disprezza il filosofo di Popper? Non lo crederete ma l’ultima sua opera, Cattiva maestra televisione, della quale dice “una posizione marginale e incongrua che in vecchiaia [Popper] prese sulla TV“. Inoltre il filosofo non cita quelle parti del pensiero di Popper in cui metteva in guardia contro il rischio che il potere economico si ponga in una posizione di dominio rispetto a quello politico (egemonia dei poteri forti cari al re delle capre, il noto montanaro cafone e ministro della Repubblica, sodale del carattere tipografico minuscolo). Il Particulare, si, di questo si tratta … cura i tuoi interessi facendo da carroarmato su tutto il resto. Ecco, il Pera ha giustificato tutte queste castronerie con Popper. Qualche parola la debbo aggiungere, con nessuna speranza sia capita da Pera, il quale ha un concetto di Stato liberale da far rabbrividire un nazista. Egli dice: Per un liberale vale il detto Fiat libertas, pereat iustitia e perciò vale l’ordine spontaneo del mercato. Ebbene il nostro non conosce il pensiero liberale fin dalla sua fondazione! Banana ha il diritto di governare come l’opposizione ha il diritto di fare l’opposizione (se così non fosse a cosa servirebbero le Camere? fatte le elezioni chi ha perso va letteralmente a casa e … arrivederci fra cinque anni). Allora dove risiede il problema? Nelle regole, nelle leggi. Proprio in quel concetto che non entra nella testa del liberale filosofo. Vi sono dei regolamenti sia della Camera che del Senato che riguardano leggi che debbono avere carattere d’urgenza o meno, leggi con caratteristica referente, leggi che debbono poter essere discusse in tutte le commissioni competenti prima di arrivare in aula,….Ebbene, Pera, ha saltato le regole, il regolamento del Senato, facendo strame di esso ed anche della Costituzione. Un bel primato per un alfiere della società aperta (?), non c’è che dire.  Inoltre, il personaggio, è stato capace giorni dopo di andare a spiegare che tutto ciò è accaduto perché, appunto, la maggioranza deve poter governare. Tragga le conclusioni, professore! Se la maggioranza deve poter governare comunque, lei che ci sta a fare? A che serve un presunto arbitro imparziale se vi `una sola parte politica? Se ne vada, se ne vada,….

            Umberto Curi, su L’Alto Adige del 23 agosto 2002, è molto più sprezzante perché sostiene che nessuno prenderebbe lezioni di scacchi da Ronaldo o affiderebbe i suoi risparmi ad uno sconosciuto solo perché si chiama Sean Connery. Eppure Pera si è affidato alla presunta autorità di chi (Popper appunto) di Platone ne sa quanto Ronaldo di scacchi. Curi prosegue dicendo:

Popper ha preteso anche di occuparsi di teoria politica e di ingegneria sociale (così egli la definiva), convinto di poter applicare all’ambito delle scienze umane e sociali la stessa  metodologia riguardante le scienze empiriche.. I risultati di questa arbitraria invasione di campo furono disastrosi: libri come La società aperta ed i suoi nemici o come Miseria dello Storicismo , sono talmente pieni di approssimazioni e di inesattezze, e spesso di vere e proprie sciocchezze, proposte per giunta con grande sicumera, da non poter essere neppure presi in considerazione da chi si occupi con un minimo di professionalità di politologia e di sociologia. Ma non è tutto. Quando scrive La società aperta, nel pieno della Seconda guerra mondiale, Popper si trova lontano dall’Europa, e per sua stessa ammissione non è in condizioni di consultare  né la copiosissima letteratura critica, e neppure i testi originali di Platone. Ciononostante, con troppa baldanzosa autostima, affidandosi soltanto a ricordi lontani, Popper conduce una serrata critica della concezione platonica, dimostrando di non aver capito quasi nulla di quel pensiero, e confermando di non possedere neppure gli strumenti tecnici – testuali, filologici ed analitici – per misurarsi con un autore del tutto irriducibile alle formulette popperiane.

Bene. La seconda carica istituzionale dello Stato, in una sede influente qual è quella del meeting di Rimini, non trova di meglio che esortare tutti gli italiani ad imitare Popper, relegando nell’infamia Platone e l’efferata tradizione di pensiero che da lui è scaturita. Un tic – quello di Marcello Pera – veramente ridicolo, se non fosse anche grave il suo esercizio: soprattutto perché proveniente da chi, come studioso e come figura pubblica, dovrebbe essere abituato a calibrare bene le parole, evitando fatue chiacchiere in libertà.

            Ma Pera non demorde. A Cecchi de Il Giorno che gli chiede di Popper dice che “il suo destino è multiplo. Prima è stato ostacolato perché giudicato anticomunista. Poi è diventato uso comune: tutti popperiani, come oggi sono tutti liberali. Infine ecco l’oblio: lo hanno dimenticato“. Cecchi chiede ancora: Forse perché non è un filosofo adatto al nostro tempo? Ed il filosofo risponde: “Guardi in un momento di crisi delle ideologie e della politica, se oggi uno vuole un filosofo che sia ancora fonte di ispirazioni politiche, quello è Popper“. L’intervista prosegue con le sciocchezze ormai note fino ad arrivare ad un nocciolo che individua nell’Occidente il faro della cultura. E, dice il filosofo: Popper individua oggi la cultura Occidentale soprattutto nella società americana e questa cultura dobbiamo difenderla anche con le armi. Come è stato fatto in Europa con i fascisti e comunisti un tempo oggi dobbiamo farlo, se necessario, con i fondamentalisti.

Ciò che dice il filosofo (lo chiamo così per il principio del minimo sforzo: ogni volta che metto il suo nome dovrei passare ai caratteri e cambiarli… è faticoso) è di una gravità eccezionale perché mostra, se possibile, ulteriori livelli di sua etimologica ignoranza. Quando in Europa si è difesa con le armi contro i comunisti la cultura Occidentale? Professore, la prego, me lo dica? Io educato alla scuola di Dash, quella del lavaggio dei cervelli (come lei mi pare, anche se poi si è sporcato con Banana), io, appunto, sapevo che i comunisti lottavano in armi contro i nazifascisti lasciando sul campo oltre 23 milioni di morti. Di lotte in armi contro i comunisti (a parte quegli attentati guidati anche da P2 e piduisti, che lei conosce, vero?), non ne conosco. Si, vi era una aggressione al libero Viet Nam, ma gli invasori furono respinti ed ancora vanno dallo psicanalista. Ma poi altro non so. Ah, forse si riferisce a Sukarno ed al massacro di 5 milioni di comunisti in Indonesia? Oppure ai comunisti torturati e massacrati da Pinochet, Videla, Bignone, Massera e compagnia bella? Ci spieghi meglio il suo pensiero, professore? Oppure chieda aiuto al suo sodale Antiseri che è una vera contraddizione vivente. Spieghi almeno ad Antiseri che è l’ora del pasto. Non si attardi Antiseri a fare il servo docile. O mangia ora o mai più. Ricordi che il governo di centro-sinistra riconobbe (ahimé!) una sua competenza che lo faceva abile a dirigere una delle commissioni di studio per la riforma dei cicli scolastici, quella della Scuola Secondaria di secondo grado. Gli faccia osservare che, ora, Antiseri NON ESISTE. In compenso c’è lo sfolgorante Veneziani che è una specie di concetto al limite…della totale  e completa ignoranza (l’Illuminismo avrebbe tradito le promesse di liberazione dell’uomo ed avrebbe contribuito a evocare le tragedie, gli eccidi, i totalitarismi che si sono susseguiti tra Otto e Novecento: poveretto! e pensare che è il massimo rappresentante della cultura di destra!).

E chiudo con una perlina del filosofo Pera del 2 luglio 2002, mentre passava la legge razzista chiamata Bossi-Fini. Dice PeraQuesta è la società aperta chiuderla significherebbe interrompere il dialogo e disseccarla. Non possiamo lasciare gli immigrati chiusi nelle loro tradizioni né possiamo trasferirli nelle nostre. All’immigrato va detto: entra e ti offro una scuola perché tu impari anche le mie tradizioni e impari il pluralismo. Ti integro non ti indottrino. Ma il professore si dà dei pizzicotti al mattino per sapere se è vivo ? Ma di cosa parla ? Più in generale, ma a che livelli di rappresentanza politica siamo arrivati ?


PS. Allego l’intervista a La Repubblica di Sartori, il giorno dopo delle parole in libertà di Pera al meeting dei cosiddetti cattolici della Comunicazione.

Il politologo critica le tesi di Pera: “E di Popper ha usato l’opera più debole”


Sartori: “Platone e HumeCitazioni tutte sbagliate”

“La sua espressione ‘tic totalitario’ mi pare assolutamente infondata”

di STEFANO CAPPELLINI


ROMA – Il presidente del Senato Marcello Pera sostiene che alla base del totalitarismo c’è la tentazione, originata dalla filosofia di Platone, di imporre all’intera società il proprio modello ideale di Stato. Le risulta, professor Sartori?

“Questo non mi risulta proprio. Platone non c’entra nulla col concetto di totalitarismo. È assurdo ascrivere al suo pensiero un concetto che ha origine solo nel secolo scorso con la nascita del fascismo. Aggiungo a questo che il libro di Karl Popper da cui Pera ha mutuato questo giudizio è una delle opere più deboli e criticate del filosofo austriaco”.

Sempre secondo Pera, se Platone è il campione del totalitarismo, David Hume lo è del filone liberale. Ma è davvero Hume il nume tutelare del liberalismo politico?

“Faccio una premessa. Hume è un filosofo sottovalutato per quello che riguarda le sue riflessioni politiche. Detto questo, esiste una tradizione difficile da smentire che individua in John Locke il pensatore che ha aperto la strada al moderno liberalismo. Poi a seguire sono arrivati tanti altri, tra cui lo stesso Hume”

Dice ancora Pera: uno dei cardini del liberalismo è la fiducia nell’ordine spontaneo della società.

“La spontaneità è un concetto estraneo alla nascita del liberalismo, che affonda invece le sue radici nel giusnaturalismo e cioè nell’affermazione, certo non spontanea, dell’inviolabilità dei diritti della persona. Solo più tardi c’è stato chi, come von Hayek, ha cominciato a parlare di ordine spontaneo nell’ambito di un pensiero liberale”.

Che ruolo può e deve avere la piazza in una società liberale?

“Basti dire che democrazia significa potere del popolo. La libertà di manifestare in piazza è uno dei cardini della democrazia fin dai tempi dell’antica Atene”.

Pera dice però che la piazza deve seguire la politica e non anticiparla, altrimenti altera il corretto funzionamento delle istituzioni.

“E come si fa a fare un ragionamento del genere? Non è possibile discriminare una piazza che va bene e una che va male sulla base dell’obbedienza alle ragioni della politica. L’unica discriminante è nell’uso o meno della violenza. Solo di una piazza violenta si può dire che non è legittima”.

Il vice-presidente del Senato Domenico Fisichella ha risposto indirettamente a Pera sostenendo che la voglia di ricorrere alla piazza è dovuta anche alla “situazione di egemonia esistente nel settore delle comunicazioni”.

“Condivido pienamente. Nel momento in cui la piazza virtuale, se vogliamo utilizzare questa espressione in riferimento ai media, risulta monopolizzata, la piazza reale diventa un necessario veicolo per comunicare le proprie ragioni”. 

Tutta la premessa filosofica serve a Pera per attaccare i girotondini che rappresenterebbero “un tic totalitario”.

“Qui davvero non capisco. Che vuol dire tic? Un tic nervoso? Non lo so, rinuncio ad esprimermi, per quello che posso capire di questa affermazione trovo che sia assolutamente priva di fondamento”.

(20 agosto 2002)


(*) Qui l’articolo originale di Sokal



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