di Carlo Stagnaro
Il Domenicale (fogliaccio di Dell’Utri), 26 giugno 2005
Un bambino ebreo strappato alla famiglia nella Bologna papalina. E’ questa la storia del piccolo Edgardo Mortara, battezzato furtivamente da una domestica cristiana in punto di morte, e poi, nel 1858, quando la storia giunge alle orecchie delle autorità pontificie, affidato a un collegio dove riceverà educazione cristiana, come prevede la legge religiosa e civile vigente nei territori della Chiesa.
C’erano tutti gli ingredienti perchè il “caso Mortara” diventasse presto un’arma nelle mani di alcune comunità israelitiche e degli anticlericali, oltre che dell’astuto Cavour, che se ne servì per creare un clima internazionale ostile al successore di Pietro. La polemica si trascina fino a noi, tanto che, nel 2000, viene sfoderata per avversare la beatificazione di Pio IX. Più recentemente alcuni storici hanno scritto sul tema, giocando a “tirare le freccette” sull’immagine di Giovanni Mastai Ferretti.
Oggi è Vittorio Messori a riportare il dibattito coi piedi per terra, proponendo per i tipi di Mondadori la pubblicazione di un memoriale inedito scritto di suo pugno da Mortara, nel frattempo entrato a far parte dell’Ordine dei Canonici Regolari Laternanensi col nome di Pio Maria. E, a dispetto della cortina fumogena che sempre avvolge certi episodi storici, il testo raccolto in Io, il bambino ebreo rapito da Pio IX getta una luce nuova sugli avvenimenti.
La famiglia Mortara, violando una norma precisa e ben nota, aveva assunto una donna cristiana. Ciò era vietato proprio per evitare scontri “diplomatici” tra la comunità cattolica e quella ebraica. Il caso, o la Provvidenza, volle però che le cose andassero così; e volle anche che il bambino fosse, illecitamente ma validamente, battezzato in Cristo. Una volta accertato che questi fatti si erano svolti realmente, lo spazio di movimento per il pontefice era davvero ristretto: a chi gli chiedeva, per ragioni di opportunità politica, di lasciare il bambino ai genitori, egli rispondeva, allargando le braccia, “Non Possumus”. E di ciò si rese ben conto, da subito, il piccolo, che parlerà sempre con grande affetto e venerazione di Pio IX. Nel testo che Messori propone, steso da Mortara all’età di 37 anni, si legge che “le speciali benedizioni e il paterno affetto del sommo pontefice non abbandonavano un solo momento Edgardo”. Chiamato a testimoniare al processo di beatificazione di Papa Mastai, egli affermò che “ogni volta che sono tornato nell’Eterna Città, profondamente commosso mi sono prostrato sulla tomba del mio Augusto Padre e Protettore, verso il quale la mia gratitudine non ha limiti e che sempre riterrò come un savio e santo Pontefice”.
Il gesto di sottrarre un bambino alla famiglia è certo riprovevole ma, come l’autore di Ipotesi su Gesù ribadisce, questa era la legge e tutti ne erano ben consapevoli. Ciò nonostante, mai avevano pensato di abbandonare Bologna, sebbene non vi fosse alcuna restrizione all’emigrazione. Non solo: il responsabile della comunità ebraica romana dell’epoca, Sabatino Scazzocchio, prese a cuore le sorti del bambino. In una lettera privata a Momolo, padre del giovane Mortara, si lamentò dell’ “indiscreto ciarlismo di tanti giornali ha avvelenato la quistione. Mentre, se avessero lasciato fare a noi la cura delle nostre cose, la linea di condotta legale sempre seguita come nostra divisa forse ci avrebbe fatto raggiungere il tanto desiderato scopo, vista l’indole benigna e caritatevole di chi siede in alto”. La vittima e il suo più prestigioso difensore parlano del presunto carnefice in termini alquanto singolari.
Il libro è aperto da una lunga introduzione di Messori che non si limita a ricostruire le deformazioni storiografiche che si sono stratificate nel corso d’un secolo e mezzo. Parte anche all’attacco. Denunciando, in primo luogo, l’ipocrisia di chi si straccia le vesti per le sorti di un bambino ebreo un secolo e mezzo fa, e poi sostiene o ha sostenuto l’impiego di metodi analoghi, purché rivolti contro la Chiesa e il cristianesimo. “Si levavano urla assordanti contro una Chiesa che rivendicava un bambino – denuncia Messori – Intanto si assentiva alla massima terribile, secondo la quale i figli appartenevano non ai genitori ma, innanzitutto, allo Stato: prima con la scuola, che li formava a un orientamento irreligioso e, poi, con la leva militare, che spesso, ad arbitrio della classe politica del momento, li conduceva a morte”.
Vale la pena ripeterlo: come afferma Messori, il caso Mortara fu un dramma “che finì col donare grande gioia al protagonista ma che causò anche grande dolore”. Ma fu un dramma isolato, tanto da deflagrare sulle prime pagine dei giornali di allora e di oggi. Quanti drammi si sono consumati e si consumano senza che i “politicamente corretti” si scandalizzino, anzi col loro sostegno? Viene in mente l’antico motto per cui un cane che morde un uomo non fa notizia, ma un uomo che morde un cane sì.
Accade così che il caso Mortara continui a gettare un’ombra sulla Cupola di San Pietro. Il libro curato da Messori ha il merito di mostrare che il miglior difensore dell’ultimo Papa Re è il bambino ebreo che vedrà sempre in lui un Padre spirituale e troverà nella Chiesa una nuova famiglia.
© Il Domenicale
IL CASO DEL PICCOLO MORTARA
http://xoomer.virgilio.it/parmanelweb/MORTARA.htm
Torniamo indietro con la STORIA
I rapporti tra Ebrei e Cristiani sono sempre stati caratterizzati da elementi di forte tensione e contrasto. Inizialmente il movimento cristiano era “intestino” all’Ebraismo e lo si poteva considerare come una diversa opzione di quest’ultimo.
Dopo la morte di Cristo cominciò a verificarsi una più forte e profonda rottura tra l’Ebraismo ed il Cristianesimo che cominciava a caratterizzarsi come una religione autonoma con proprie specificità culturali.
La polemica antiebraica fu segnata da un costante richiamo all’accusa di “deicidio”, ossia il popolo di Israele veniva accusato di essere stato il responsabile e l’artefice dell’omicidio di Gesù Cristo.
Cominciarono, con il passare dei secoli, a fiorire le accuse più strane e più fantasiose nei confronti degli Ebrei che vennero identificati come personaggi squalificati e dalla dubbia moralità.
Fino a quando i Cristiani non ebbero il potere politico la polemica fu solamente teorica e dottrinale: dopo Costantino (siamo dunque negli anni 300-325) e successivamente con Teodosio, invece, si affermò una classe dirigente cristiana autrice di una legislazione repressiva fatta di divieti nei confronti delle religioni politeiste pagane greco-romane ed una legislazione altrettanto punitiva nei confronti delle comunità ebraiche che cominciarono a decadere ed a veder venire meno la propria importanza.
Settori cristiani si fecero sostenitori della fine, causa il “deicidio”, dell’Antica Alleanza tra Dio ed il popolo d’Israele che era stato punito con la perdita della propria Patria:
nasce l’equazione secondo cui ad una colpa religiosa corrisponde una pena politica.
Si dovrà attendere il 1965 per vedere condannata tale tesi dai vertici ecclesiastici romani; in seguito, nel 1980, Papa Giovanni Paolo II, a Magonza, ebbe ad affermare che la validità dell’Antica Alleanza non era mai venuta meno e che, quindi, gli Ebrei non solo non sono mai stati rigettati da Dio, ma non hanno mai smesso di essere stati un popolo.
CONTRO GLI EBREI IN ITALIA
Sulla ghettizzazione degli ebrei in Italia inizia un Savoia, Amedeo VIII che nel 1430 nello “Statuta Sabaudiae” inserisce sedici capitoli sul problema ebraico. Non solo limitandone i movimenti per non “contaminare” i cristiani, ma s’inventa anche un contrassegno (un panno giallo con un cerchio bianco e rosso – pare che rappresentasse una moneta, l’oggetto dell’usura praticata dagli ebrei) da portarsi sulla spalla sinistra.
Gia’ nel 1555….
A partire dal 1555 si ebbe l’emanazione di numerosi documenti pontifici che trattavano il tema dei diritti e dei doveri degli Ebrei residenti nello Stato della Chiesa. Molti Pontefici si occuparono di tale argomento.
Uno dei più importanti fu Papa Paolo IV che, nel 1555, introdusse la “Carta degli Ebrei” con la sua bolla “Cum nimis absurdum” (vedi nel link citato sopra) oltre ad altre norme restrittive e punitive, l’istituzione del “ghetto”,, luogo in cui gli Ebrei erano costretti obbligatoriamente a vivere, dovendo vendere tutti i propri beni immobili precedentemente posseduti: la loro condizione di manifesta inferiorità doveva servire per dimostrare ed annunciare la validità del messaggio cristiano e la grandezza della Chiesa.
Il motivo per cui si giunse alla costituzione di questa sorta di “area protetta” in cui isolare gli Ebrei dal resto della società e la spiegazione per cui, nel Pontefice e nelle alte gerarchie cattoliche, era forte questo desiderio isolazionista nei confronti degli Ebrei, può essere frutto di numerose e diverse interpretazioni:
Personalmente credo che fosse un modo per evitare un “contagio”, ossia una possibile e probabile integrazione tra cittadini di religione ebraica ed il resto della cittadinanza romana; tale integrazione avrebbe reso meno sostenibili le dicerie e le bugie espresse sugli Ebrei.
Torna alla mente la scena del film “Nell’anno del Signore” di Luigi Magni in cui il Cardinale Rivarola (Ugo Tognazzi) rivolgendosi a Cornacchia-Pasquino (Nino Manfredi) affermava che: “Li Ebrei, in fondo, sono quasi come li Cristiani”, ma si raccomandava che ciò non fosse una notizia divulgata,
Un altro importante momento nella vita della Stato Pontificio per quanto riguarda la vicenda ebraica, lo si ebbe nel 1577 quando Papa Gregorio XIII istituì le “prediche forzate” alle quali tutti gli Ebrei erano tenuti ad assistere nella speranza di una loro conversione.
Era previsto anche un apposito luogo in cui procedere alla “rieducazione” dei convertiti ebrei e no.
Gli atti di Gregorio XIII non vanno letti solamente come ispirati da una visione totalitaria della realtà, ma come il frutto di una forte spinta predicazionista e conversionista (azione missionaria della Chiesa).
Come si è già detto dopo il 1965 i rapporti tra Ebrei e Cristiani hanno avuto una svolta, ossia sono venute meno tante diffidenze e numerose contrapposizioni fino al punto che la Chiesa ha ritenuto di dover condannare ogni atto antiebraico e di affermare la necessità di totale rispetto verso i “fratelli maggiori” Ebrei (Giovanni Paolo II).
Il Caso Mortara analizzato in questa relazione (poi ancora meglio nella successiva puntata) può avere una duplice chiave di lettura: come dimostrazione della validità dell’azione missionaria della Chiesa anche quasi quattro secoli dopo Gregorio XIII e come riaffermazione del proprio potere temporale che nella seconda metà del XIX secolo cominciava ad essere messo in discussione: facendo sottrarre il piccolo Edgardo Mortara alla sua famiglia ed allevandolo a Roma impartendogli un’educazione cattolica che lo porterà a prendere i voti ed ad indossare la tonaca, Papa Pio IX non faceva altro che ribadire e riconfermare il proprio potere sui territori pontifici.
PRESUPPOSTI GIURIDICI AL “CASO MORTARA”
A proposito del sacramento del battesimo il “Codice di Diritto Canonico” recita quanto segue:
Can. 868. Per battezzare lecitamente un bambino si esige (…) che i genitori o almeno uno di essi o chi tiene legittimamente il loro posto, vi consentano (…). Il bambino di genitori cattolici e persino non cattolici, in pericolo di morte è battezzato lecitamente anche contro la volontà dei genitori (etiam invitis parentibus).(1)
Quindi, almeno dal punto di vista teorico, sarebbe ancora possibile il battesimo segreto e coatto di un bambino non ebreo.
L’impossibilità di ripetere un nuovo Caso Mortara è, quindi, da ascrivere al mutato rapporto di forza tra la Chiesa e la società e dalla venuta meno di uno stato temporale guidato dal Pontefice e non dall’abiura delle norme giuridiche che lo resero possibile.
Di recente uno scrittore cattolico come Vittorio Messori, considerato l’intervistatore ufficiale di Papa Giovanni Paolo II, ha affermato che quella di Edgardo Mortara è stata “una storia singolare (…) in cui sembra di vedere all’opera un Dio che << sa scrivere anche su righe storte >>.” (2)
Una spiegazione filosofica ed una giustificazione basata su elementi del diritto ecclesiastico del caso Mortara lo si può desumere dal seguente passo dello storico delle religioni Ernest Renan che, abbandonato il seminario, imboccherà un percorso culturale che approderà a dottrine fortemente antisemite basata sulla contrapposizione tra una razza ariana superiore ed una ebraica inferiore.
Dieci anni prima che scoppiasse il Caso Mortara, nel 1848, Renan scriveva quanto segue:
“Si predica spesso la tolleranza alla Chiesa senza chiedersi se essa può concederla. E’ qui il punto spinoso di tutte le controversie, quello su cui non si può mai ottenere una risposta categorica. Gli è che, in effetti, la Chiesa non è mai stata tollerante; essa non lo sarà mai, non può esserlo, e gli ortodossi, nei momenti di buona fede, e quando acconsentono di rinunciare a qualsiasi restrizione mentale, lo confessano volentieri.
Qualsiasi dottrina assoluta è, per la sua stessa essenza, intollerante. Tutte le volte che la Chiesa potrà farlo senza correre pericoli, perseguiterà e sarà coerente nella persecuzione. Nulla resiste di fronte alla sola cosa necessaria: salvare le anime.
Se il sacrifizio di mille anime in cancrena ne salverà una sola, l’ortodossia riterrà sufficiente la ricompensa. Se bruciando le genti in questo mondo, si potrà evitar loro o ad altri, d’essere bruciati nell’altro, ciò significa render loro un gran servigio. Io non m’invento nulla.
Non faccio che ripetere gli argomenti che si trovano in tutti gli autori veramente ortodossi per giustificare l’inquisizione e le altre misure di quel genere.
[La Chiesa] ha stabilito un pratica, se non per principio generale, il diritto di togliere il figlio alla propria famiglia quand’essa non sia punto ortodossa: ‘Infans…’, dice il diritto canonico, ‘non debet manere apud illas personas quae vitae vel saluti insidiatur illus [Il fanciullo non deve rimanere presso quelle persone che ne possano insidiare la vita o la salvezza]. Judaeorum filios baptizatos, afferma il quarto Concilio di Toledo, ne parentum involvantur erroribus, ab eorum consortio separari decernimus; deputandos autem monasteriis aut christianis viris, ut in moribus et fide proficiant [decretiamo che i figli battezzati dei giudei, perché non vengano travolti dagli errori dei genitori, sian separati dalla vicinanza di quelli, e siano affidati ai monasteri o ai cristiani perché ne traggano giovamento nei costumi e nella fede]’.
“Molti teologi accordano al principe il diritto di fare battezzare i figli degli ebrei e degli infedeli, e la ragione che menano è evidente: il principe ha il diritto d’ impedire al padre d’ assassinare il proprio figlio; ora, mantenendoli nella miscredenza, fa peggio che assassinarli.
Tutti almeno convengono che il bambino guadagnato all’ortodossia, per qualsivoglia captazione, esce con essa dal dominio dei suoi genitori; che i figli degli schiavi, se il padrone lo consente, e di quelli che, dopo aver abbracciato l’ortodossia sono tornati all’eresia, possono essere battezzati con la forza, che il consenso d’un solo genitore è bastante, e che in caso di conversione d’uno dei due, il figlio piccolo deve seguire la parte fedele”. (3)
Dalle parole di Renan si desume che la spinta conversionista e l’azione missionaria della Chiesa era talmente forte da far ritenere lecito qualsiasi mezzo per salvare l’anima di una persona.
Paradossalmente questo comportamento della Chiesa cattolica si può riassumere e semplificare con un’espressione di un autore non certo sospettabile di simpatie clericali come Niccolò Machiavelli, il famoso scrivano fiorentino, secondo cui “Il fine giustifica i mezzi”.
La forte volontà di conversione non ebbe tra le sue vittime solo il piccolo Edgardo Mortara. Infatti a partire dai tempi del Pontefice Papa Paolo III sorsero in molte città dello Stato Pontificio appositi istituti, detti Casa dei Catecumeni, in cui trovavano alloggio ed istruzione i non cristiani protagonisti delle azioni di predicazione e di conversioni più o meno forzate.
I Catecumeni erano soggetti ad una giurisdizione speciale e coloro i quali rifiutavano la conversione erano soggetti ad una sanzione pecuniaria con funzione di rimborso delle spese sostenute dalla struttura ecclesiastica durante la loro permanenza nella medesima.
La conversione, inoltre, poteva essere un modo per sfuggire alla miseria in cui versava la comunità ebraica romana. Come ha scritto Leòn Poliakov: “Tutti sanno che gli Ebrei versano nella più grande miseria a Roma. E questa loro miseria confina immediatamente da un lato con la conversione, e dall’altro con la morte”. (4)
Un convertito poteva rivendicare la potestà su di un bambino della propria famiglia, anche se non si trattava del proprio figlio. Gli uomini, inoltre potevano vedere annullato il proprio matrimonio precedente potendo, così, risposarsi.
Un elemento veramente paradossale era costituito dal fatto che, per volontà di Papa Giulio III, dovesse essere la medesima Comunità ebraica a contribuire economicamente alle spese sostenute dalle Case dei Catecumeni.
Vale la pena di annotare alcune delle vicende più significative riguardanti tali istituti:
– “1602 a dì 25 settembre. Barnech Aubron fu menato in casa del padre Cesare Palazzola e consegnato ad uno il quale lo disponesse a farsi cristiano. A dì 28 detto, stando ostinato, si gettò da una finestra del giardino. A dì 6 ottobre mons. Diotallevi lo menò in casa sua per convertirlo, ma lo stresso giorno scappò e ritornò al ghetto, e fu rimenato in casa di monsignor dai genitori suoi. A dì 18 detto si dichiarò di voler essere cristiano in casa di detto monsignore. A dì 19 ottobre 1602 fu battezzato, cresimato e comunicato da monsignor vescovo di Sidone in San Pietro e si chiamò Francesco Maria” (5)
– Il rabbino capo di Roma Giosuè Ascarelli e tutta la sua famiglia furono trattenuti per 43 giorni segregati nella Casa dei Catecumeni. Ascarelli e la moglie rifiutarono la conversione e furono liberati. I figli, Camilla di dodici anni, Belluccia di otto anni, Giuda di sei anni e Manoello di quattro anni si convertono dopo pochi giorni di segregazione, rispettivamente dieci giorni (Camilla), otto giorni (Belluccia), cinque giorni (Giuda) e quattro giorni (Manoello). Furono sottratti ai genitori che non rividero mai più.
– A Prospero di Pultro furono tolti con la forza due figli a causa di una infelice battuta: alla domanda se avesse mai accettato di far battezzare i figli il di Pultro rispose che avrebbe acconsentito solo se il rito fosse stato officiato dal Papa in persona. Il Pontefice, Urbano VIII, appena sentita la notizia, si apprestò a far prelevare i bambini, ad impartire loro il battesimo ed a rinchiuderli nella casa dei Catecumeni.
– Il Caso Montel, invece, fece maggiore scandalo ed ebbe un esito differente, perché era coinvolto non un Ebreo romano, ma una coppia di Ebrei francesi che, sbarcati a Fiumicino nel 1840, si videro sottrarre la figlia appena partorita dalla signora Miett Cremieux Montel perché “era stata battezzata all’insaputa dei suoi genitori da una donna di Fiumicino che aveva assistito al parto”. (6) In questo caso il tentativo del Pontefice di sottrarre la bambina fallì per l’opposizione del governo francese e dell’Imperatore Napoleone III in persona. Olivier e Rayneval affermarono che per il governo di Parigi “il signor Montel non è un Ebreo, ma un cittadino francese”. (7) Papa Gregorio XVI fu costretto a cedere la piccola per non scontrarsi con il potente Imperatore francese. Restituì la bambina al governo transalpino cercando di obbligare l’Imperatore ad educare la piccola in maniera cattolica, ma Napoleone III una volta riavuto la piccola Montel la restituì ai genitori senza condizioni.
– Nel 1847 una piccola bambina ebrea di Marciano, Gentile Urbino, verrà rapita e condotta a Roma nella Casa dei Catecumeni dove verrà battezzata ed allevata secondo l’insegnamento cristiano. Non rivedrà più la propria terra natale e la propria famiglia alla quale era stata strappata all’età di dodici anni.
Per concludere si tengano presenti due soli dati emblematici: tra il 1636 ed il 1790 solo a Roma vi furono 2432 conversioni più o meno forzate e tra il 1813 ed 1869, quindi dopo che le armate di Napoleone Bonaparte avevano diffuso, pur tradendoli, gli ideali illuministici della Rivoluzione Francese del 1789 (Libertà, Legalità e Fraternità), vi furono ben altri 196 casi di conversione forzata.
Ma il più clamoroso fu il ratto e la conversione forzata del piccolo ” EDGARDO MORTARA”
E qui ritorna l’ineffabile Messori, il mastino a difesa delle bufale che non ha nessuna vergogna a sostenere che Gesù è morto di freddo.
http://www.kattoliko.it/leggendanera/risorgimento/mortara.htm
Il “caso Mortara”
di Vittorio Messori
Scorro una di quelle pubblicazioni presentate come di “incontro” tra cristianesimo ed ebraismo, mentre spesso si risolvono in un affannarsi di cristiani di oggi per attribuire ai cristiani di ieri tutte le infamie antisemite della storia. Già l’osservammo, qui: proprio quelli che più dicono di avere a cuore la giustizia si preoccupano solo dei loro contemporanei, dimenticando che c’è un dovere di giustizia anche verso coloro che ci hanno preceduti. Occorre essere giusti non solo verso i vivi, ma anche verso i morti: anzi, più che mai verso questi, perché non possono difendersi; e soprattutto se si tratta di fratelli in una fede della quale non solo noi (checché ne pensi la nostra risibile superbia di moderni) abbiamo capito da poco le esigenze. Nella pubblicazione cui mi riferisco, dei cattolici inveiscono tra l’altro contro la Chiesa ottocentesca che avrebbe compiuto scelleratezze come, testualmente, “il sequestro del figlio agli sventurati coniugi Mortara”. Si dice che si tratta di una ignominia, per la quale si chiede perdono, promettendo che questo non potrà più avvenire. Ma allora, proprio per amore di verità e, dunque di giustizia, andiamo a vedere che cosa fu esattamente questo “caso Mortara” che riempì le gazzette ottocentesche di mezzo mondo e provocò addirittura passi diplomatici e interventi infiammati nei parlamenti d’Europa e delle Americhe. Ora l’episodio sembra dimenticato, ma di tanto in tanto càpita di ritrovarlo evocato. Non sarà dunque inutile informare i lettori dei dati corretti di un “caso” doloroso e drammatico, ma con un finale a sorpresa che – guarda caso – non è mai citato dagli accusatori.
Girolamo Mortara Levi, ricco mercante ebreo di Bologna (allora negli Stati pontifici) ebbe nel 1851 dalla moglie, anch’essa ebrea, un figlio cui fu dato il nome di Edgardo. A undici mesi il bambino fu colpito da una gravissima malattia, per cui fu dato per ormai spacciato. Credendo che la morte fosse questione di ore, una domestica cattolica al servizio dei Mortara amministrò di nascosto (e di sua iniziativa, senza consultare alcuno) il battesimo al piccolo. Il quale ebbe però una sorprendente ripresa e tornò alla salute. Nel 1858 – quando Edgardo aveva 7 anni – una donna si presentò spontaneamente all’autorità ecclesiastica di Bologna per informare del caso. L’arcivescovo fece svolgere un’inchiesta minuziosa che constatò che il battesimo era sì illecito perché amministrato senza il consenso dei genitori, ma era valido, secondo la teologia e il diritto canonico. Dunque, con quel “segno oggettivo” che è il battesimo, il piccolo Edgardo era stato inserito – mistericamente ma realmente – nella comunità cristiana. Così, il bambino fu tolto ai genitori (cui fu data peraltro ogni facoltà di visitarlo quando volessero) e, a spese del papa stesso Pio IX, fu ospitato in un collegio romano. Gli ebrei piemontesi denunciarono il caso all’opinione pubblica prima interna e poi internazionale. La protesta, violentissima, partì dal Regno di Sardegna, perché il caso faceva molto comodo alla polemica contro il potere temporale dei papi: “Fino a quando i preti avranno responsabilità di governo saranno possibili barbarie del genere”.
Anche fuori d’Italia il caso, come accennammo, ebbe risonanze immense e gli ambasciatori facevano pressione su Pio IX, il quale, pur confessando la sua sofferenza, rispondeva di non poter agire diversamente, rimarcando tra l’altro che il caso increscioso aveva avuto origine da una illegalità dei Mortara. In effetti, le leggi dello Stato pontificio proibivano agli ebrei di assumere personale di servizio cattolico: e non certo (come sarà per nazisti e fascisti) per questioni “razziali”, ma perché l’esperienza aveva dimostrato che in simili casi potevano nascere non solo pericoli per la fede dei domestici cristiani, ma anche situazioni drammatiche come quella verificatasi appunto a Bologna. Conformandosi al pensiero dei Padri, e poi dì san Tommaso, la Chiesa aveva sempre proibito che i figli minorenni di ebrei fossero battezzati senza il consenso dei genitori: l’autorità paterna (quale che sia la fede dei genitori) è un principio del diritto naturale che è tra i capisaldi del sistema cattolico. Ma il caso Mortara investiva il diritto soprannaturale: il battesimo validamente amministrato rende “cristiani” ex opere operato, imprime il carattere indelebile di “figlio della Chiesa”. Non è la fede dei genitori, è la fede della Chiesa che – nel battesimo – è imputata al bambino. Dunque, poiché valida anche se illecita, l’azione di quella domestica (convinta che il piccolo stesse per morire) rendeva la Chiesa stessa come prigioniera del suo dovere di non respingere quel suo figlio inaspettato e di assicurargli un’educazione cristiana. Proprio per evitare questi casi, i papi avevano moltiplicato le condanne contro “battezzatori” irresponsabili e avevano preso cautele.
Nel 1860, Bologna era annessa al Piemonte con un colpo di mano e il colonnello della gendarmeria pontificia che aveva materialmente tolto Edgardo ai genitori veniva arrestato e tratto in giudizio. Ma il piccolo era ormai a Roma e non sì poteva dunque liberarlo. L’occasione venne dieci anni dopo, con la breccia del venti settembre. Il giovane Mortara aveva ormai 19 anni, ma ai “piemontesi” precipitatisi nel convento dove pensavano fosse prigioniero, toccava la delusione dì sentirlo affermare che non solo non intendeva rinunciare alla sua vita cristiana, ma aveva deciso di farsi religioso nei Canonici Regolari Lateranensi. Risultò anche che due anni prima le autorità pontificie intendevano rimandarlo presso la sua famiglia, avendo ormai conosciuto bene il cristianesimo e potendo dunque scegliere liberamente. Ma era stato lui stesso a rifiutare. Anzi, proprio nella Roma dove i “liberali” che volevano prendere le sue difese sopprimevano le congregazioni religiose e i monasteri erano trasformati in stalle, caserme, prigioni, Edgardo Mortara (che aveva aggiunto al suo nome quello di Pio, in omaggio al papa che lo aveva fatto allevare nella Chiesa) sceglieva liberamente la via del sacerdozio. Ancor più: la sua insofferenza verso i “liberatori” fu tale che rifiutò ostinatamente di rispondere alla chiamata di leva nell’esercito italiano. I superiori dovettero farlo riparare all’estero, dove divenne apprezzato insegnante dì teologia e famoso predicatore. In grado di parlare in nove lingue moderne, fu instancabile annunciatore del vangelo in molti Paesi, tanto che alla sua morte qualcuno propose il processo di beatificazione. In particolare, dedicò i suoi sforzi alla conversione degli ebrei. In occasione del cinquantesimo anniversario della sua ordinazione sacerdotale, nel 1933, indirizzò proprio al popolo nel quale era nato un appello perché riconoscesse la verità del vangelo, dove diceva di avere trovato ciò che la sua anima religiosa di ebreo andava cercando. Morì a quasi novant’anni, nel 1940, in un monastero del Belgio. Sin sul letto di morte ebbe espressioni di tenerezza per i fratelli in Abramo e di ansia perché tardava il loro ingresso nella Chiesa.
Storia drammatica e singolare, dunque, ma con un lieto fine, malgrado tutto. Una di quelle vicende in cui sembra di vedere all’opera un Dio che “sa scrivere dritto anche su righe storte”. Non sarà inutile, per finire, ricordare le parole di Giacomo Martina, storico attento e pacato: “Mentre alcuni cattolici e quasi tutti i protestanti si stracciavano le vesti per la ferma volontà di Pio IX di educare nella religione cattolica chi vi era stato battezzato, nessuno protestava per l’aperta e violenta coazione nei territori polacchi soggetti alla Russia (ma anche in Inghilterra e nei Paesi scandinavi) a danno della libertà religiosa dei cattolici”.
© Le cose della vita, San Paolo, Milano 1995, p. 322.
“Non diffamate Pio IX il mio santo rapitore”
di Aldo Cazzullo
Messori, dove e come ha ritrovato l’autobiografia di Edgardo Mortara?
Padre Mortara la scrisse nel 1888, a 37 anni, in spagnolo, visto che allora predicava nei Paesi Baschi. Se ne fece (forse, ma non è certo) un opuscolo che non sappiamo quale diffusione abbia avuto all’epoca in Spagna ma che, a quanto consta, non fu tradotto in altre e lingue né risulta in alcuna bibliografia. Che padre Mortara abbia condotto una vita devota sino alla morte, a quasi 90 anni, e proclamato e difeso sempre la santità del suo padre spirituale Pio IX, era noto. Ma questo suo memoriale si può considerare inedito. Il testo ricostruisce il caso del bambino ebreo bolognese, dal battesimo furtivo da parte di una domestica nel 1852, al trasporto a Roma per ordine di Pio IX nel 1858, all’ordinazione sacerdotale del 1873 a Poitiers, in Francia. E’ custodito nell’archivio romano dei Canonici Regolari Lateranensi, presso la chiesa di San Pietro in Vincoli. Ma nessuno dei saggisti che si sono occupati di Mortara ha mai ritenuto di dover consultare questa autobiografia, scritta in terza persona dal protagonista stesso.
Perché?
Perché del Mortara “vero”, non quello dello strumento polemico non è mai importato molto a nessuno. Da subito, la sua vicenda fu utilizzata. Da Cavour, che ne fece uno straordinario pezzo di propaganda contro lo Stato pontificio: senza il caso Mortara, che mise in difficoltà i cattolici francesi, Napoleone III non avrebbe potuto stringere gli accordi di Plombières e scatenare la guerra contro l’Austria. Dalle logge massoniche. E dalla comunità israelitica internazionale. Come il caso Dreyfus fu un propellente decisivo per il sionismo (e infatti Herzl se ne rallegrò), che altrimenti sarebbe rimasto una delle tante utopie ebraiche, così il caso Mortara fu alle origini dalla formazione dell’Alliance Israélite Universelle, la prima organizzazione ebraica di autodifesa in una prospettiva mondiale, e poi dell’influente Board of American Israelites.
Queste sue affermazioni desteranno polemiche.
Non sono io a farle. E’ lo stesso responsabile della comunità ebraica romana dell’Ottocento, Sabatino Scazzocchio, a lagnarsi delle incursioni di estranei, compresi potenti rappresentanti dell’ebraismo mondiale, senza cui il caso si poteva risolvere. E’ la politica, dice, non il bambino che interessa. Scazzocchio lo scrive al padre, Samuele Levi Mortara detto Momolo, in una lettera in cui loda “l’indole benigna e caritatevole di chi siede in alto”. Cioè di Pio IX.
Lei stesso, nella lunga introduzione che precede il memoriale, ricorda che alla metà dell’Ottocento Roma è l’unica città occidentale ad avere ancora un ghetto.
Però gli ebrei, pur liberi di farlo, non se ne vanno. Esingolare: negli anni in cui fuggono a navi intere dall’Europa orientale verso l’America, gli ebrei restano a Roma. Rifiutano di appoggiare la Repubblica mazziniana e al ritorno di Pio IX vanno a rendergli omaggio. Quanto all”‘indole benigna e caritatevole” di quel Papa diffamato, nel memoriale Mortara fa una rivelazione: Pio IX aveva deciso di crescerlo in un istituto bolognese, dove la famiglia miglia avrebbe potuto visitarlo regolarmente; dopodiché, verso i diciassette anni, avrebbe deciso se proseguire sulla via del cristianesimo o tornare alla religione dei padri. Fu la resistenza dei suoi, sobillati da altri, a cominciare dal medico di famiglia massone, a costringere il Papa a condurre il piccolo Mortara a Roma. Dove lo accolse e lo amò sempre come un figlio.
Un figlio di soli sette anni. Le pagine dove racconta l’allontanamento dalla famiglia sono tragiche: la disperazione della madre, l’ira del padre, il suo sbigottimento infantile. Alla guardia chiede: «E ora mi taglierete la testa?».
E’ vero. Fu un dramma. E’ anche vero che i funzionari pontifici presero accorgimenti per rendere il distacco il meno traumatico possibile. Ma è lo stesso Mortara a raccontarci come subito dopo la separazione della famiglia fu una misteriosa quiete, anzi gioia, a impadronirsi di lui; e come le prime parole della dottrina cattolica gli parvero familiari, al punto che se ne impadronì sin da subito. Un fenomeno in cui Mortara addita un disegno provvidenziale. Quando, dopo Porta Pia, arrivarono i piemontesi, fuggì all’estero per non farsi “liberare” dal seminario in cui volontariamente era entrato.
Messori, il caso Mortara è una ferita ancora aperta. Gli ebrei italiani protestarono quando Wojtyla beatificò Pio IX. E’ possibile sostenere che il Pontefice non potesse comportarsi diversamente con quel bambino?
Del caso Mortara, Pio IX avrebbe fatto volentieri a meno. Gliene vennero accuse, calunnie, dolori immensi; non a caso lo definì “il figlio delle lacrime”. Subì pressioni di ogni tipo; anche da James Rothschild, finanziatore di tutti i governi d’Europa, compreso quello pontificio. Ma sempre il Papa rispose: Non possumus. Perché non aveva scelta; sia per il diritto civile, sia per il diritto canonico».
Che cosa c’entra il diritto civile?
I Mortara avevano violato la legge dello Stato pontificio che imponeva agli ebrei di non tenere a servizio cristiani; e questo, proprio per evitare casi analoghi.
Proprio per questo?
Fin dal Medioevo i Papi proibivano con norme severissime il battesimo di figli di genitori non cattolici; a meno che il bambino non fosse in pericolo di vita. E il piccolo Edgardo Mortara lo era. Per questo il battesimo impartitogli dalla domestica fu un atto non solo valido, per un cattolico, ma legittimo. Il diritto canonico non lascia alternative: il battesimo introduce un mutamento irrevocabile, impone di dare al battezzato un’educazione cattolica. Ancora oggi, dopo il Vaticano II, il nuovo codice canonico non innova al riguardo.
Sta dicendo che il caso Mortara potrebbe ripetersi ancora oggi?
In punto di fatto, un nuovo caso Mortara oggi non è concepibile; e sono il primo a rallegrarmene. In punto di diritto, nel suo minuscolo Stato il Papa non potrebbe fare nulla di diverso da quel che fece Pio IX.
In ogni caso, questo riguarda i cattolici. Per gli ebrei, Mortara resta comunque un figlio sottratto alla famiglia.
Sono consapevole, lo ripeto, che il caso Mortara fu un dramma. Lo riconobbi fin da quando me ne occupai per la prima volta, anni fa. Ma sostenni pure che Dio seppe scrivere dritto su righe storte. Ora le parole stesse del protagonista, rimaste inascoltate per un secolo e mezzo, lo confermano. Quanto alla malattia nervosa che fece penare a lungo questo sacerdote, potrebbe trattarsi di un male ereditario, di cui soffrivano altri membri della sua famiglia, compreso il padre, Momolo; come rivelò il processo intentatogli dopo l’Unità per l’omicidio di un’altra domestica, in cui alla fine, in appello, fu assolto.
Messori, ci sono altri passi della sua introduzione che accenderanno polemiche. Come quando racconta che l’Alliance Israélite Universelle promise 20 mila franchi a chi avesse organizzato un’incursione armata a Roma per liberare il bambino e lo definisce «quasi una prefigurazione degli “omicidi mirati” dell’esercito israeliano».
Queste non sono opinioni, sono fatti. E i fatti, per restare in Francia, sono tétus, testardi. Quanto a eventuali sospetti: so bene che è esistito, purtroppo, un antigiudaismo cristiano. Ma su base religiosa; non razziale. L’antisemitismo nasce dopo il darwinismo, con il positivismo ateo, ed è messo in pratica dal nazismo. Non a caso l’ebreo Mortara è accolto dal Papa come un figlio e fu sempre un beniamino della Chiesa; ma, se non fosse morto in Belgio nel 1940, alla vigilia dell’invasione tedesca, sarebbe finito nei lager, come un’altra grande ebrea convertita, santa Edith Stein.
© Corriere della Sera
Il Corriere della Sera, 17/06/2005
“Il nostro avo bambino rapito e plagiato da Pio IX”
Il memoriale anticipato dal «Corriere» riaccende la disputa sul piccolo ebreo sottratto alla
famiglia nel 1858 e poi divenuto sacerdote
«Vorrei rassicurare Vittorio Messori: noi discendenti dei Mortara non siamo stati sollecitati da nessuno, come lui insinua nel suo libro, ma soltanto dalla nostra coscienza, a criticare la beatificazione di Pio IX. Semplicemente ci ha lasciati stupefatti che si proponesse come esempio da ammirare il responsabile del sequestro di un bambino sottratto alla sua famiglia». Sorride amaramente Elèna Mortara, docente di Letteratura angloamericana all’Università di Roma Tor Vergata e pronipote di una sorella di Edgardo, mentre respinge l’idea che qualcuno l’abbia aizzata contro l’ultimo Papa-re. E si dice «allibita» per il modo in cui la questione del bimbo ebreo strappato ai genitori nel 1858 viene ora ripresentata. «Non c’è niente di realmente inedito – continua – nel memoriale pubblicato da Messori, perché Edgardo aveva difeso Pio IX in molti altri scritti già noti. Segregato e indottrinato dai sei anni in poi perché diventasse sacerdote, aveva sviluppato il tipico attaccamento del prigioniero verso i suoi carcerieri che si osserva a volte anche nelle vittime adulte dei sequestri di persona. E aveva visto nel Pontefice una figura paterna, sviluppando un forte senso di colpa per i “dolori immensi” che, secondo quanto gli veniva ripetuto dallo stesso rapitore, pensava di avergli arrecato attirandogli contro tante polemiche. Non a caso soffriva di momenti di profonda angoscia, che Messori, con insinuazione di dubbio gusto, vorrebbe far risalire a un fattore ereditario, piuttosto che all’effetto degli incontestabili traumi subiti».
Nei rimproveri dello scrittore cattolico ai famigliari del bambino, la loro discendente avverte un grande astio: «Come si fa a dire che i genitori di Edgardo protestarono perché sobillati? Non è naturale che un padre e una madre reagiscano, quando si vedono portare via un figlio? La loro fu la legittima reazione ad un sopruso. E il padre Momolo fu un eroe coraggioso e sfortunato, “pellegrino del dolore”, che cercò di combattere con la semplice parola un potere così crudele. Ed è grave che si difenda il sequestro e si accusino i Mortara di aver violato le leggi discriminatorie dello Stato pontificio, assumendo la domestica cristiana che impartì al bambino il presunto battesimo, di validità assai dubbia, del quale si ricordò solo cinque anni dopo, quando fu licenziata. È come se oggi si parlasse delle conseguenze delle leggi razziali fasciste (che tra l’altro prevedevano per gli ebrei lo stesso divieto di prendere a servizio i non ebrei), come se si trattasse di un semplice dato di fatto ineluttabile, senza esprimere un giudizio di valore su quelle stesse leggi».
Quanto poi all’atteggiamento della comunità ebraica romana, che non vide di buon occhio le proteste internazionali contro Pio IX, per Elèna Mortara è facilmente spiegabile: «Si trattava di persone intimorite, che vivevano chiuse da secoli in un ghetto, sotto il giogo di un potere dispotico, sottoposte a continue angherie (se ciò nonostante non se ne andavano, come si domanda ironizzando Messori, è perché a Roma vivevano da oltre duemila anni, da prima dei Papi, e sentivano la città come anche loro). È logico che il segretario della Comunità, Sabatino Scazzocchio, si riferisse a Pio IX con la massima deferenza; e tuttavia, anche in un contesto così difficile, ogni sforzo fu compiuto dai massimi esponenti della Comunità di Roma per cercare di far recedere il Papa dal suo atto. In realtà la pratica delle conversioni forzate durava da lungo tempo e il caso Mortara ne era all’epoca l’ultimo esempio. Solo che in quel caso l’abuso non venne sopportato in silenzio. E la famiglia trovò una vasta solidarietà nell’opinione pubblica mondiale, ormai sensibile al problema dei diritti umani».
Proprio quella mobilitazione, però, è nel mirino di Messori, che la giudica strumentale. «Sì, nel suo linguaggio allusivo sull’influenza degli ebrei affiorano pregiudizi antichi e pericolosi. Ma la campagna sul caso Mortara, soprattutto in Francia, coinvolse anche i cattolici liberali. Per esempio lo scrittore Victor Séjour, autore di un’opera teatrale sulla vicenda, rivendicava la sua fede nella Chiesa, ma si stupiva che il Papa potesse compiere un’azione contraria al valore cristiano della famiglia. Se il potere temporale dei pontefici ricevette allora un colpo così duro, come ammette Messori, fu perché la vicenda di Edgardo mostrò a tutti che si trattava di un regime oppressivo ormai anacronistico».
Ma perché Pio IX insistette tanto su una posizione che lo indeboliva politicamente? «Mi sembra il tipico errore di chi si considera il detentore assoluto della verità. Del resto tutta la vicenda si fonda su questa pretesa, fonte dell’intolleranza religiosa. Io auspico la comprensione e il dialogo tra le fedi. Amo il passo biblico di Isaia (11, 6-7) in cui si legge che il lupo abiterà con l’agnello e il leopardo giacerà con il capretto. Mi pare che prefiguri un futuro di dialogo e convivenza nel rispetto reciproco. Devo aggiungere però che il libro di Messori va nella direzione opposta. E mi auguro che dal mondo cattolico, specie dalle più alte autorità ecclesiastiche, giungano segnali diversi. Tra l’altro mi sconcerta l’affermazione di Messori che il caso Mortara, a norma del diritto canonico, potrebbe ripetersi ancora oggi. Sarebbe opportuno che la Chiesa facesse chiarezza su un punto tanto delicato».
Tuttavia, secondo Elèna Mortara, il libro di Messori non chiama in causa solo il mondo cattolico. «Mi rattristano attacchi così violenti al Risorgimento, che presentano l’unità dell’Italia come un evento negativo, quasi una conseguenza deprecabile del caso Mortara. Ma io rovescio l’impostazione di Messori. Secondo lui “Dio scrisse dritto su righe storte” perché da quel dramma derivò la conversione di Edgardo. Secondo me l’aspetto provvidenziale sta nel fatto che l’abuso compiuto da Pio IX, per lo scandalo che ne nacque, contribuì all’unificazione italiana sotto un regime liberale e alla fine della teocrazia pontificia».
http://www.cristianesimo.it/mortara.htm
LA VERA STORIA DI
EDGARDO MORTARA
IL BIMBO RAPITO CON LA BENEDIZIONE DI PIO IX
GIOVANNI PAOLO II HA BEATIFICATO PIO IX,
PERTANTO QUESTO GENERE DI FANATISMO
FONDAMENTALISTA E’ TUTTORA PRESENTE
NELLA NOSTRA SOCIETA’.
Intervista di David Gabrielli ad Elena Mortara, pronipote.
La beatificazione di Pio IX voluta da Giovanni Paolo II ha aperto una ferita dolorosa nella comunità ebraica romana ed italiana, ma anche in tutti coloro che hanno a cuore i diritti umani più elementari.
Nonostante le accurate censure di Stato applicate su stampa e TV, non può dimenticare che il papa che Karol Wojtyla ha proposto come “esempio” ai suoi fedeli approvò il rapimento di Edgardo Mortara, un bambino ebreo battezzato furtivamente all’insaputa dei genitori, e quindi sottratto loro con la violenza per educarlo a Roma nella “vera religione”. Abbiamo parlato della vicenda di un tempo, e dello sbigottimento odierno di fronte alla decisione vaticana, con Elèna Mortara, la cui bisnonna paterna era sorella dello sfortunato bambino.
Tutto cominciò a Bologna, allora parte degli Stati della Chiesa, la sera del 23 giugno 1858. Due gendarmi si presentarono all’improvviso alla casa dei coniugi Mortara, ebrei, per avvertirli che il rappresentante del Sant’Uffizio nella città, l’inquisitore Pier Gaetano Feletti, frate domenicano, aveva dato ordine di portare via dalla famiglia Edgardo (sesto di otto figli), che aveva sei anni, perché il piccolo, come si venne a sapere nei giorni successivi, era stato segretamente battezzato da Anna (Nina) Morisi, una ragazza della campagna bolognese che stava a servizio dai Mortara.
Infatti, tempo prima, all’età di forse due anni (i racconti dell’epoca sono molto confusi e reticenti in proposito, per la scarsa chiarezza della protagonista della confessione), Edgardo aveva avuto una gran febbre e allora la Nina, temendo che morisse, all’insaputa dei genitori aveva battezzato il piccolo, e raccontato poi tutto, non di sua spontanea volontà ma su precisa richiesta del tribunale dell’Inquisizione, a padre Feletti che – ‘per ordine di Roma’, come dirà poi in seguito – decretò che il bambino, ormai battezzato nella Chiesa cattolica, fosse sottratto ai genitori.
La disperazione della famiglia e l’intervento della comunità ebraica di Bologna fece slittare di un giorno, un solo giorno, l’esecuzione dell’ordine. Il 24 giugno Edgardo fu portato via dai gendarmi, e spedito a Roma, ove venne ospitato nella Casa dei catecumeni, per ricevere finalmente l’educazione cristiana che, secondo la Chiesa, gli spettava.
A Roma Pio IX assunse in prima persona la responsabilità del rapimento, impegnandosi personalmente per difendere l’operato del Sant’Uffizio e per far dare un’educazione cattolica al bambino. Il papa disse di considerare Edgardo come un ‘figlio’ e lo volle accanto a sé‚ in tributi di riverenza annuali, accompagnati da forme di umiliazione pubblica, che il giovane giustificava come giusta punizione per le sofferenze provocate al papa con il suo caso.
Edgardo, da parte sua, con il tempo, dopo che per anni fu separato dai suoi, considerò il papa il suo vero e nuovo ‘padre’. E’ evidente, ma va ribadito di fronte alla minimizzazione che di questo aspetto capitale ha fatto una parte del mondo cattolico, l’inaudita violenza subìta da questo bambino di sei anni: violenza psicologica, esistenziale, religiosa. Che sarà passato nella mente e nel cuore del piccolo, strappato alla sua famiglia presentatagli come ‘indegna’, e forzatamente costretto a ripudiare le sue radici?
Uno squarcio del dramma interiore del povero bambino, e dell’attaccamento all’ebraismo famigliare che era in lui prima delle pressioni subite in seguito, lo possiamo intuire dal primo incontro dopo il rapimento che egli ebbe con la madre, nell’ottobre ’58, quando la donna dopo molte tribolazioni e rifiuti ottenne dalle autorità ecclesiastiche il permesso di rivedere, per brevi istanti, il figlio, naturalmente presenti e vigili alcuni sacerdoti.
Edgardo riuscì a dire alla mamma: ‘Sai, la sera recito ancora lo Shemà Israel’ (‘Ascolta Israele: il Signore è nostro Dio…’ – Deut. 6,4). Ma in seguito il bambino, e poi ragazzo, cui – violenza atroce – fino al 1870 non fu più concesso di rivedere la famiglia, non dirà più così. Egli era stato interiormente cambiato. E tenterà perfino di convertire alla fede cattolica i suoi familiari, inutilmente.”.
***
Diversamente da altri drammi analoghi, spesso rimasti nell’ombra, il ‘caso Mortara’ ebbe enorme eco in Italia, in Europa, e perfino negli Stati Uniti d’America: nel solo mese di dicembre 1958, sul New York Times apparvero almeno 20 articoli su quello che era ormai diventato uno scandalo internazionale.
Si mossero non solo le comunità ebraiche (per inciso: esso fu uno dei motivi che spinsero gli ebrei a cercare di unirsi per difendersi da questi soprusi, e quindi a creare in Francia l’Alliance Israélite Universelle), ma anche autorità politiche, da Cavour a Napoleone III di Francia.
Quell’atto di Pio IX, in piena età di costituenti liberali e di emancipazione ebraica nel resto d’Europa, fu infatti considerato dall’opinione pubblica occidentale, soprattutto in Francia, Stati Uniti, Inghilterra e Olanda, – giustamente, mi sembra! – come uno scandalo e un crimine.
Il rapimento del ragazzo Mortara ebbe ripercussioni, oggi poco note, nella stessa storia del Risorgimento italiano, e il silenzio che ha coperto questa vicenda nei decenni successivi fino a tutt’oggi è un indizio grave di rimozione.
La perdita di prestigio morale che ne derivò per la Chiesa contribuì ad accelerare il processo di unificazione nazionale e alla fine di un potere temporale che appariva anacronistico e non più difendibile.
Le lettere di Cavour e dell’ambasciatore in Francia del Regno di Sardegna in questo periodo ne sono testimonianza storica. Per questi, come per altri documenti su tutta la vicenda, si rimanda al libro di David Kertzer, Prigioniero del Papa Re (Rizzoli, 1996), e a quello di Daniele Scalise, Il caso Mortara. La vera storia del bambino ebreo rapito dal papa (Mondadori, 1997).
Per la cronaca, Pio IX fu anche quel papa che, per colmo di arroganza, nel 1870 proclamò se stesso e i suoi successori “infallibile”. Mai la Chiesa Cattolica aveva raggiunto una simile pretesa, nemmeno ai tempi dell’Inquisizione.
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