L'”imbroglio” dell’informatica a scuola

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Pubblicato su “Riforma della Scuola” (1989)

di Roberto Renzetti

Sono almeno 25 anni che si aspetta una riforma della scuola secondaria di 2° grado. Gli organi competenti prendono tempo. Il problema è grosso, ma è possibile risolverlo in tempi brevi. Benissimo, supponiamo per un momento di accettare questa giustificazione e vediamo cosa consegue almeno per un altro aspetto che riguarda un tentativo di cambiamento all’interno della scuola: l’introduzione generalizzata dell’informatica.

        Da dove proveniva tutta la fretta del Piano Nazionale Informatica (PNI) della Falcucci? Perché tutti devono saper usare il calcolatore? Si ha paura di rimanere indietro? Rispetto a chi? E misurando quale abilità? È veramente questione di tanta importanza? Davvero occorre vergognarsi di non saper mettere le mani su di una tastiera? Su queste ed altre questioni provo a dare il mio punto di vista, quello di un fisico che insegna matematica e fisica in un liceo scientifico.

        Iniziamo dai luoghi comuni che nascono dalla formazione di tipo crociano e gentiliano dei nostri ‘competenti’ e, in generale, del pubblico che plaude a proposte di questo tipo. Si dice: ormai siamo nell’era elettronica, viviamo nel futuro di A. Clarke, il personal computer (PC) fa parte di questo scenario e, se non si vuole rimanere esclusi, è indispensabile impadronirsi di questa macchina e dei linguaggi che sono alla sua base. Quindi lo scenario prevede un futuro dove scienza e tecnologia giochino un ruolo primario. Ed allora sembrerebbero addirittura ammirevoli coloro che si preoccupano di porre al passo la popolazione, quantomeno scolastica. Ma il dubbio si insinua in chi, addetto ai lavori, da 20 anni si muove al fine che una vera coscienza scientifico-tecnologica divenga patrimonio di base della popolazione (intanto scolastica) del nostro Paese. Potrei iniziare col dire che l’insegnamento scientifico non è stato mai al centro degli interessi del Ministero della Pubblica Istruzione (MPI). Si può ricordare che, per anni, l’insegnamento della fisica e delle scienze in generale è stato sempre tenuto al margine della formazione di base degli studenti. La stessa costrizione di cattedra (matematica insieme a fisica) mostra una incapacità di fondo nel decidere. Alle reiterate richieste di un laboratorio che entrasse nella scuola come elemento portante dell’insegnamento scientifico, si è sempre obiettato, nella migliore delle ipotesi, che non c’erano i soldi. Nella peggiore e più diffusa ipotesi (che implica la prima), la risposta verteva e verte sull’inutilità della pratica di laboratorio. Che dire poi del fatto che sempre ci si è rifiutati di far i ragazzi soggetti attivi nell’uso di strumenti, nel fare esperienza? Vi è poi un altro aspetto della vicenda che mostra la totale incuria del problema insegnamento scientifico nelle scuole: supposto di avere un attrezzatissimo laboratorio di fisica, quanti matematici che insegnano fisica sono in grado di utilizzarlo? E come si è provveduto negli anni a fornire a questi colleghi delle abilità cui avevano diritto, perché gli studenti hanno diritto ad avere insegnamenti non distorti? Ma, riferendosi a sole questioni teoriche, come risolve il collega di matematica la spiegazione di un fenomeno tanto semplice quanto incomprensibile con la fisica classica (l’unica che conosce e non certamente per sua colpa): all’aumentare della temperatura un conduttore tende a diventare isolante mentre un isolante tende a diventare conduttore? Si tratta ancora del problema della matematica e fisica in un’unica cattedra e della mancanza di un aggiornamento sistematico, incentivato e pagato.

        Senza farla troppo lunga, credo si sia capito che vi è «il problema dell’insegnamento scientifico nelle nostre scuole». Ma il nostro Ministero sa come rispondere a tutto ciò; con un colpo di bacchetta mette su il PNI al fine, appunto, di introdurre l’informatica nelle scuole. Con una efficienza invidiabile si mette su un piano di formazione di insegnanti di matematica e fisica: corsi di 120 ore nell’arco del 1988 avrebbero dovuto mettere ben 30.000 insegnanti in grado di diventare a loro volta insegnanti di informatica. E’ una buona iniziativa? Prima dell’eventuale applauso, interamente dovuto alla Sig.ra Franca Falcucci, si rifletta sul fatto che ciò, ad esempio, non è mai stato fatto per preparare sistematicamente alla fisica gli insegnanti di matematica che si devono sobbarcare l’insegnamento della fisica stessa. A questo punto qualche dubbio si insinua, dubbio che riguarda la reale intenzione dei nostri esperti ministeriali: che si tratti di un grosso affare? Vediamo di capire meglio.

        Non c’è dubbio che, oggi, l’informatica è di gran moda. Le stesse inchieste fatte su studenti liceali, inchieste che tendevano a mettere in risalto che l’informatica non danneggia l’ambiente (il grande affare Verde), queste inchieste appunto mettono l’informatica alla testa degli interessi degli studenti. Ma, è lecito chiedersi, cosa rappresenta l’informatica come fatto culturale? Poco, veramente molto poco (aspettino i saggi a criticarmi; aspettino di aver letto quanto segue). Per molti versi l’informatica la sto vivendo dal mondo della scuola. I colleghi di materie scientifiche si sentono ‘out’. O frustrati, o alla rincorsa di una qualche cognizione che non li faccia sfigurare di fronte al più sprovveduto dei propri alunni. Alcuni studenti sono baldanzosi: riusciamo a far cose al di fuori della portata dei nostri insegnanti! E così mi trovo con alcuni ragazzi, incapaci di sommare frazioni, di fare una divisione ‘con la virgola’, di lavorare con un logaritmo o con un esponenziale, di discutere una equazione di secondo grado, di applicare i teoremi di Euclide, di ragionare su moti relativi o su spettri, di studiare circuiti induttivi e incapaci, di… fare tutto ciò che rappresenta la struttura portante di ogni preparazione scientifica, ebbene, dicevo, mi trovo con questi ragazzi che sanno di informatica. Sanno lavorare bene con la tastiera e non hanno altra preoccupazione. Non vogliono occuparsi di chi fa i programmi dei calcolatori, di chi fa i calcolatori stessi, di chi li progetta.

        Sono proprio ciò che si crede occorra alla nostra efficiente società? Ci si può chiedere anche perché, al di là di ogni legittima obiezione a quanto sto dicendo, il Personal Computer ha sfondato in modo così clamoroso. Forse quella storia del grosso affare non è poi così peregrina. Perché, ad esempio, il manovrare uno spettroscopio non ha mai suscitato gli entusiasmi dei più tra i ministeriali? Credo di poter accennare una qualche risposta: perché la tecnologia alla base di uno spettroscopio è comune a tutti i paesi ‘ricchi’; perché nessuno ha mai fatto vedere ai propri studenti uno spettro; perché è difficile e faticoso capire di che si tratta. Per questo la battaglia di chi, per anni, voleva laboratori di fisica attrezzati è stata perdente. Pochi interessi in gioco. Pochi strumenti comprati, pochi ragazzi avevano il piacere di lavorare con essi, pochissimi affrontavano la fatica di capire che cosa accadeva, di fare un minimo di ricerca, di sforzarsi, di costruirsi modelli interpretativi. Ed oggi, quando ancora segue quella battaglia di laboratori attrezzati e versatili, di laboratori per i ragazzi, per la loro ricerca (non parlo di cose sofisticate ma, ad esempio, è legittimo che uno studente provi a calcolarsi come varia il periodo di un pendolo al variare della temperatura? Il saccentone che mi risponde che è inutile perché già si sa che non vi è nessuna dipendenza mi risponda: entro quali intervalli di temperatura, per una data massa, non vi è dipendenza?), oggi, appunto, quando si fanno richieste di nuovo materiale per il laboratorio di fisica (già scarsamente attrezzato — quando c’è), ci si risponde che per la fisica è stato già deciso di comprare svariati Personal Computer, Monitor, Stampanti e quanto altro. E si aggiunge: «in modo che ciascun ragazzo possa lavorare per conto suo». Ma come, io quando chiedevo di poter fare esperienze di laboratorio con gruppi di due o tre ragazzi mi si rispondeva che ci si doveva accontentare di esperienze dalla cattedra, ed ora siete così premurosi? Cosa sta accadendo?

        Ma vi è dell’altro. Nell’ipotesi che si parli con gente in buona fede, va ricordato che una preparazione all’informatica in un corso di 120 ore (per chi non sa nulla di essa) è sufficiente solo a rendere abile l’individuo ma non a farne un insegnante (docente di docenti). Ma a questo nessuno ha fatto obiezioni. Anzi, strani consensi sono venuti da parti insospettabili. Ad esempio, la stessa Associazione per l’Insegnamento della Fisica (AIF) non ha detto una parola, ha tacitamente accettato che questo sia un insegnamento per i suoi iscritti (fisici e matematici nella gran maggioranza), ha concordato col Ministero un piano di programma che prevede l’introduzione dell’informatica nell’ambito di corsi di fisica (togliendo spazio alla fisica e dando ragione a chi dice che tanto le ‘tecniche’ spettano a noi), ha inaugurato una rubrichetta sull’Informatica sulla sua rivista. Ma, supposto che questo rospo bisogna ingoiarlo, perché non dire che un serio piano di preparazione dei docenti deve prevedere almeno sei mesi di lavoro a tempo pieno con esonero dalle lezioni oppure un lavoro di straordinariato (pagato profumatamente) che si estenda sull’arco di un anno. Se la cosa non è pensata così allora si crede che l’informatica serve per i videogiochi e che, in ogni caso, anche un insegnante di matematica e fisica è in grado di imparare in tempi brevi. In questa ultima ipotesi, e sempre pensando di parlare con gente in buona fede, una volta compresa l’importanza di uno studio serio che si serva dell’informatica, perché relegarlo allo studio di questioni di matematica e fisica che la scuola per sua struttura non riconosce come formative ma solo informative? È una grande opportunità per la scuola. Che tutte le discipline che ivi si insegnano divengano discipline, con una uguale dignità scientifica. Perché l’informatica è, ‘a priori’, associata a discipline che già hanno una densità insostenibile di concetti da svolgere (senza per altro avere spazi formativi)? Insomma noi abbiamo spazi da rivendicare e non lacune da riempire. L’informatica, come strumento, è neutra e potrebbe essere studiata anche nelle ore di latino. Attraverso di essa non si apprende nulla. Nessuno si è mai vantato di saper usare bene le tavole dei logaritmi; anche qui la ‘tecnica’ in sé non fa capire nulla dei concetti che vi sono dietro (come sono state costruite le tavole?).

        Semmai il problema è proprio quello di imparare a programmare. Su questo non vi possono essere dubbi. Se ci si convince però di questo si deve subito riconoscere che la cosa non si risolve nell’ambito di un corso di fisica o matematica. Servono corsi appositi che vedrei bene in un’area opzionale di una scuola riformata.

        Obiezione che potrebbe essere sollevata a questo punto e non priva di interesse (non credo comunque che gli ‘esperti’ vi abbiano pensato) è che in definitiva nella scuola non è troppo importante passare attraverso determinati contenuti quanto cercare al meglio possibile che gli studenti acquisiscano un metodo di lavoro. Questa tesi è probabilmente sostenibile da chi non sa che stessi e più avanzati meccanismi vengono messi in moto nella risoluzione di qualsiasi problema di matematica o, meglio (per le possibilità più aperte di interazione), portando avanti una qualsiasi esperienza di fisica. In definitiva, al di là di qualunque obiezione, rimane un problema: quali obiettivi formativi ed informativi si intendono raggiungere con l’intera operazione? Non lo si è mai detto e, quel che è peggio non si tiene conto delle esperienze in tal senso portate avanti da altri paesi (ad esempio la non proprio sottosviluppata Svezia).

        Sanno gli ‘esperti’ che l’indagine IEA 1987 ha posto la Svezia, che aveva massicciamente introdotto nella scuola i Personal Computer, agli ultimi posti in Europa per quel che riguarda le abilità di vario genere che devono essere acquisite in una scuola secondaria superiore?

        Se qualcuno risponde che le prove IEA non prevedono l’uso del calcolatore, non ha capito nulla delle finalità didattiche e formative della scuola. È proprio attraverso una prova che fuoriesce dai canoni usuali che si riesce a capire se un dato insegnamento è stato o meno funzionale ad una crescita equilibrata (e migliore) degli studenti. È il problema delle classi di controllo, indispensabili quando in un’altra classe si porta avanti una data sperimentazione.

        Insomma, a sentire quel che dice G. Lombardi (Responsabile Scuola della Confìndustria), i nostri imprenditori sono di gran lunga più avanzati dei nostri governi. A scuola occorre preparare dei cittadini coscienti della società in cui vivono; agili mentalmente, non dogmaticamente formati; in grado di cambiare formazione; in grado di sapersi riciclare. A questo non sono mai servite le tecniche specifiche. A questo sicuramente aiuterebbe una più sostanziosa preparazione scientifica (nei metodi, nei contenuti e nei laboratori).


L’articolo che precede l’avevo scritto per Sapere nel 1988. Quello che segue è di 15 anni dopo ed il giornalista lo inizia dicendo: “finalmente qualcuno lo ha detto!“. Molte considerazioni si potrebbero fare sull’ignoranza dei giornalisti o sulla stana eventualità che un fatto esiste solo quando il giornalista ne parla. Basta dire che: “finalmente qualche giornalista se ne è accorto!

Dall’Espresso n° 48 del 28 novembre 2002

Non solo cyber

PC dietro la lavagna

di Franco Carlini

            Finalmente qualcuno l’ ha detto e l’ ha scritto: i computer in classe non sono la soluzione ai problemi dell’apprendimento e non c’è nemmeno la prova provata che risultino davvero utili. La ricerca  è stata condotta da due studiosi,  Joshua Angrist del Massachusetts Institute of Technology e Victor Lavy dell’Università ebraica di Gerusalemme, ed è stata successivamente ripresa dal settimanale inglese “The Economist”.

            I due ricercatori hanno colto l’occasione di una donazione per beneficenza fatta nel 1994 dalla lotteria nazionale di Israele, per l’acquisto di computer in classe nelle elementari e nelle medie. Dando per scontato che le popolazioni siano abbastanza omogenee, sono andati a verificare se il rendimento scolastico risultava migliore nelle classi che ce l’avevano rispetto a quelle che ne erano prive.

           Hanno verificato soprattutto le risposte ai quiz di  matematica, che sono più facilmente misurabili, e i risultati sono sconfortanti: addirittura le classi con il computer hanno dato meno risposte giuste. Anche nelle capacità linguistiche non si notano particolari giovamenti. Naturalmente si tratta di una verifica molto parziale che andrà presa con giudizio, ma sembra contenere un goccio importante di verità che tutti gli insegnanti ben conoscono: ai fini dell’apprendimento conta soprattutto l’ambiente di relazione che si instaura tra gli studenti e tra questi e il docente. Il  che non  significa che  i  PC  in classe siano da buttare, ma piuttosto che vanno usati per quello che sono e che possono dare, senza farsi né creare illusioni. Bando alle mode, insomma, che vengono molto alimentate dai produttori di hardware e software [anche con qualche mazzetta, n.d.r.], per concentrarsi e rivalutare semmai tutti quegli aspetti cruciali dell’insegnamento che non cambiano mai: che si usi la lavagna, il  cinema o le recito scolastiche.


fc@totem.to

Facile profeta:   

L’hi tech e i nuovi media trasformano i modi di apprendimento delle nuove generazioni. Il ruolo di videogiochi e SMS 


PC generation, scompare la memoria 

I ragazzi sono veloci, multimediali, sociali. 
di FRED GUTERL UN TEMPO, quando andavano di moda i giornalini a fumetti, i ragazzi sudcoreani si ritrovavano tutti entusiasti all’edicola all’angolo, per accaparrarsi l’ultimo numero della versione tradotta di “Slam Dunk”, una serie giapponese i cui personaggi sono i giocatori di una squadra di basket del liceo.

Ora, invece, si ritrovano in posti come PC Bang, un internet cafè. Choi Mun Gwon ha 13 anni e si concentra di fronte al monitor in una battaglia tra maghi e guerrieri, schierati per contrastare le forze del male nel videogioco d’azione Diablo. Quando non è a PC Bang, di solito se ne sta a casa, a mandare messaggi ai suoi amici al computer o con il cellulare.
Il mondo degli adolescenti di oggi è molto diverso da quello nel quale sono cresciuti i loro genitori.

A differenza dei precedenti gap generazionali, questo non si incentra sui soldi, sulla moda o la cultura pop, quanto piuttosto sulla tecnologia. I ragazzi non sono mai stati più immersi in una realtà virtuale di adesso. Il loro sapere è acquisito più dai videogiochi che dai libri e tutti i loro sensi sono costantemente bombardati da informazioni provenienti da ogni possibile direzione, a un ritmo sempre più incalzante. In realtà i giovani e i giovanissimi non sono soltanto tecnologici: sono costantemente connessi al mondo cablato e sono veloci ad assorbire le nuove modalità di comunicazione dell’informazione.

Fino a qualche anno fa l’invio di messaggi di testo tramite i telefoni cellulari era qualcosa di nuovo, ma già ora i ragazzi coreani utilizzano le loro tastiere per scaricare sul cellulare canzoni a un dollaro ciascuna. Le videocamere stanno diventando la regola sui cellulari ed esistono persino capi di abbigliamento che già contengono nelle loro cuciture microfoni e lettori mp3.

Ma tutto ciò è positivo? Gli stimoli che i nuovi media trasmettono prepareranno i giovani al futuro mondo dell’hi-tech o li trasformeranno in sciocchi individui antisociali e superficiali? Una risposta ancora non c’è. Di tutte le innovazioni tecnologiche che si sono succedute, due sono quelle che hanno principalmente affascinato e coinvolto i giovani: videogiochi e messaggistica istantanea. Che cosa accade nel sensibile cervello di un ragazzo esposto per tanto tempo agli incalzanti stimoli di un mezzo visivo?

Molto semplicemente possiamo dire che il suo cervello si adatta. Il cervello è elastico, e reagisce con la massima tempestività agli stimoli che gli arrivano. Daphne Bevalier, neuroscienziato dell’apprendimento, iniziò ad avanzare il sospetto che i videogiochi alterassero i cervelli dei giovani circa due anni fa, quando sottopose ad un test alcuni studenti dell’Università di Rochester a New York per misurare le loro percezioni visive. I risultati di chi giocava ai videogiochi era mediamente superiore del 30 per cento rispetto agli altri. Tuttavia, restano senza risposta altre domande.

E’ da poco che gli scienziati hanno intrapreso a studiare come le tecnologie legate ai messaggi influenzino lo sviluppo sociale dei ragazzi. Per adesso stanno ancora catalogandone i comportamenti. Alcuni ricercatori del Children’s Digital Media Center dell’università di Georgetown hanno formato alcuni gruppi di 10-12enni in “ambiente virtuale” e li hanno lasciati liberi di interagire gli uni con gli altri. Con loro grande sorpresa, i ragazzi hanno scelto degli alter ego che ricalcavano da presso la loro natura, stesso sesso e stesse caratteristiche di base.

“I maschi si muovevano rapidamente, cambiando gli scenari e le emozioni con grande facilità, mentre le ragazze scrivevano più a lungo”, ha spiegato la psicologa Sandra Calvert. Potrebbe presto essere ufficialmente smentita anche un’altra comune teoria, quella secondo cui i ragazzi ossessionati da internet sono dei solitari antisociali. La tecnologia, a quanto risulta, incoraggia i giovanissimi a rimanere in contatto con i loro compagni del mondo reale e non li isola in un mondo immaginario a sé.

Forse la vera questione non è tanto capire cosa facciano i giovani con le nuove tecnologie a loro disposizione, quanto piuttosto capire che cosa implica il loro uso da parte dei sensi. Il multitasking – la capacità di effettuare operazioni diverse simultaneamente – è un’abilità fondamentale per sopravvivere nel mondo contemporaneo. Se prima la televisione era solita far scorrere i titoli e le notizie importanti sul bordo inferiore dello schermo soltanto in occasione di fatti eccezionali, oggi questa è la norma. Anche l’instant messaging obbliga a condurre più di una conversazione alla volta.

Gli studi sull’attività cerebrale hanno evidenziato che il cervello non sposta l’attenzione da una cosa ad un’altra istantaneamente: occorrono sette decimi di secondo perché questo accada. David Meyer, psicologo presso l’Università del Michigan ad Ann Arbor ha sottoposto un gruppo di adulti ad un test, facendo sì che si concentrassero tra la soluzione di alcuni problemi di matematica e il riconoscimento di alcune forme. I soggetti hanno impiegato più tempo per svolgere entrambe le operazioni simultaneamente, più di quanto ne avrebbero richiesto svolgendo i due compiti separatamente. Inoltre l’hanno fatto con risultati meno accurati.

Non è chiaro che ruolo possano giocare i media elettronici nei giovani studenti affetti da disturbi dell’attenzione, una patologia in forte espansione. E’ possibile che un cervello giovane sottoposto ad un regime di sovrastimolazione reagisca e fiorisca fornendo prestazioni migliori? Sì e no. “I ragazzi stanno migliorando nell’attenzione che prestano a più cose alla volta”, dichiara Patricia Greenfield, direttrice del Children’s Digital Media Center dell’Ucla. “Ma il guaio è che lo fanno in modo superficiale”.
Copyright Newsweek (Traduzione di Anna Bissanti)
( 19 agosto 2003 )



Categorie:Didattica della Fisica

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