Proposte minime per la scuola

Pubblicato su “Sapere” (1989)

di Roberto Renzetti

Quando ancora non c’ero completamente dentro riuscivo a parlare di essa. Delle scoperte quotidiane, delle arrabbiature, delle impotenze, della macchina «ammazzaentusiasmi». Adesso mi è sempre più difficile; mi sembra di ripetermi; sembra sia tutto ovvio; sembra che esista davvero il vituperato «destino». E pensare che se l’avessi presa come professione-impiegato-mezze maniche (e calzette) sarebbe stato più facile. Fin dall’inizio avrei risparmiato sul fegato e sui polmoni. Avrei goduto di grande quantità di tempo libero; sarei stato discretamente ammalato di tanto in tanto; avrei coltivato quell’altra attività che — quella sì! — mi avrebbe fatto guadagnar tanto da avere il secondo televisore a colori. Adesso mi sento già vecchio e sfinito. Un ex combattente di una guerra che tra qualche anno nessuno più ricorderà; il vecchietto che fa sorridere l’intero paese. Eppure sono ancora alla macchina da scrivere; vorrà dire che la figura del cretino la farò fino in fondo.

        Come insegnante di fisica e matematica in un liceo scientifico posso tentare una qualche risposta alla domanda di Carlo Bernardini (Sapere, n. 4, 1989, p. 3). Deve però essere ben chiaro che non si tratta di un discorso corporativo: sono infatti convinto, innanzitutto, che, almeno nel tipo di scuola nel quale insegno e fino ad una certa età dei ragazzi, la scuola debba fornire ai suoi fruitori una formazione armonica, complessiva e non sbilanciata. E proprio in questo senso credo di poter dire che i contenuti che noi trasmettiamo ma, soprattutto, i metodi con cui lo facciamo debbano essere drasticamente ed urgentemente rivisti.

        Non possiamo far finta che il mondo che ci circonda non sia radicalmente cambiato dal momento in cui fu pensata questa scuola (1923) e rivista dalla Sottocommissione Alleata all’Educazione (1944). Insomma se, per quel riguarda la fisica, si mettono a confronto i programmi ministeriali con quanto di tecnico e scientifico ci «offre» il mondo contemporaneo, quantomeno, ci accorgiamo che una qualche sfasatura vi deve essere.

        Quando maghi, tarocchi, fatture, oroscopi e quanto altro imperversano da ogni parte e quando il TG1 (5 marzo ’89) apre dicendo che occorre mettere un freno ai danni che il progresso scientifico e tecnologico infligge alla Terra, allora mi spavento.

        Per vedere se la paura è condivisa, provo a dire delle cose: centrali nucleari, effetto serra, buco nella fascia dell’ozono, laser a raggi X, guerre stellari, ingegneria genetica, clonazione, siccità, desertificazione, cambiamenti climatici, AIDS, armi chimiche, armi batteriologiche, armi nucleari, radiazioni, ICBM, controlli informatici… Si tratta di questioni che fanno da sfondo terrorizzante alla nostra vita e sono questioni di «provenienza» scientifica e tecnologica che devono trovare cittadini in grado di argomentare su dati e non su superstizioni. Un solo esempio: io mi sono sempre battuto con coscienza scientifica nel fronte antinucleare; sono però convinto che le scelte che sono state fatte in Italia non hanno nulla a che vedere con una serena e cosciente valutazione di quanto era ed è in gioco. Troppo spesso elementi spuri, quasi sempre irrazionali, si interpongono tra il fatto e la comprensione non ingenua di esso. Ed io sono un insegnante e, per di più, di fisica. Posso far finta di niente e rispondere solo episodicamente (sempre su onde emozionali) a fatti scientifici che drammaticamente convivono con noi? Dove trovano posto queste cose nel mio (o di altri) insegnamento? Niente, non c’è traccia di niente. Eppure, quelli che nel 1923 preparavano i programmi ministeriali erano molto più avanzati di noi: mettevano in programma, e con una certa enfasi introduttiva, le «onde elettromagnetiche», argomento «di punta» di soli 50 anni prima. Se solo oggi facessimo lo stesso dovremmo ben sistemare nei nostri programmi buona parte della fisica dei quanti e della fisica nucleare oltre ché della relatività ristretta e generale.

        Niente di tutto questo e di quanto altro si potrebbe ragionevolmente pensare (particelle, astrofisica, elettronica…). Anche perché, tra i supposti riformatori, chi sa di queste cose? Chi tra gli insegnanti, chi tra gli esaminatori? Insomma la frattura tra le due culture si è accentuata nel senso che gli addetti ai lavori della cultura scientifica nella scuola vanno perdendo colpi, non riescono ad aggiornarsi sufficientemente per svariati motivi (mancanza di incentivi, mancanza di divulgatori; istituzioni sorde ed indifferenti. ..) che non è qui il caso di indagare.

        Nel dire questo, comunque, tiro l’acqua ad un mulino che non è il mio. Da anni vado sostenendo che, seppure importanti i contenuti, la scuola deve offrire l’occasione di imparare ad imparare, operazione nella quale tutte le discipline sono chiamate (interdisciplinarità sul metodo di lavoro: il metodo della ricerca su fatti, documenti e quant’altro si ritenga utile in un lavoro di programmazione collegiale e non nell’elucubrazione di un singolo). Per fare quanto detto si richiede tempo e quindi si richiedono degli addetti a tempo pieno. Continuare con una scuola che apre alle 8,30 per chiudere alle 13,30 può andare bene a livello di rapporto diretto con gli studenti. Poi serve lavorare per il giorno dopo, per la settimana dopo, per il mese dopo, per l’anno dopo. Chi lo fa? Dei professionisti e non gli attuali impiegati a mezzo tempo.

        Io, se voglio far bene il mio lavoro, debbo poter discutere di alcune questioni relative proprio al mio intervento su una determinata lezione in classe.

        Provo a dire qualcosa.

        Se riusciamo a togliere qualche argomento di matematica che riteniamo non troppo utile (io dico: progressioni; risoluzione dei triangoli; discussione di problemi…) potremmo anticipare l’analisi al penultimo anno in modo che la fisica la facciamo in altro modo. E poi, durante l’ultimo anno, la matematica può entrare in argomenti, a mio giudizio, di maggiore interesse, come: equazioni differenziali, algebra vettoriale… E con ulteriore ricaduta sulla fisica. Potrebbe anche essere che si debbano aumentare le ore di matematica a scapito della fisica nei primi due o tre anni, in modo da arrivare alle equazioni differenziali ed all’algebra vettoriale alla fine del penultimo anno. La matematica chiuderebbe qui. L’ultimo anno la fisica riprende le ore perdute utilizzando ogni strumento che la matematica può offrire. Si potrebbe anche pensare di fare dei corsi minimali di fisica obbligatori per tutti (contenuti minimi) e poi suddividere gli studenti per opzioni (sempre più accentuate e, comunque, dopo un biennio che deve avere caratteristiche fortemente unitarie).

        Qualunque sia l’ipotesi su cui uno va a lavorare restano altri problemi.

        La fisica inizia con l’argomento più ostico: la meccanica. Se questo capitolo non viene sostenuto da un laboratorio rischia di diventare un’appendice di un testo di matematica con tanti bei teoremi successivamente dimostrati. Occorre programmare un laboratorio nel quale si possano fare esperienze dimostrative e nel quale svariate esperienze possano essere fatte, in gruppo, dai ragazzi.

        Se questo viene istituzionalizzato e non più affidato alla supposta buona volontà dei singoli (della quale buona volontà ho fin sopra i capelli), allora i quaderni di laboratorio diventano efficacissimi elementi di valutazione. Ed allora è possibile pensare al modo di acquistare attrezzature senza passare per quell’iter inventato dal ministero e tale da scoraggiare un elefante e che, comunque, fa costare la strumentazione 5 volte di più di quanto costerebbe andandola a comprare da privato cittadino.

        E poi, tutta la meccanica? Per favore semplifichiamo, rendiamo tutto più agile: via ad esempio le macchine e la meccanica dei fluidi e dentro, ad esempio, elementi di relatività ristretta.

        La termodinamica deve avere ampio spazio. Oltre a quanto normalmente si fa, occorre dare molta enfasi al 2° principio, al rendimento del primo e del secondo ordine. Qui alcune macchine ci portano al mondo contemporaneo: la macchina a vapore-centrale nucleare può essere facilmente capita dando la sorgente di calore come una scatola chiusa. Si elimini l’acustica, l’ottica geometrica, gli specchi e le lenti; alla fine dell’ottica fisica, dopo la spiegazione dell’effetto fotoelettrico, si introducano con qualche dettaglio i quanti. Introducendo, ad esempio, la sola legge di Coulomb (è appena l’inizio dell’attuale programma dell’ultimo anno che si può agevolmente anticipare) è possibile sviluppare in modo analitico l’atomo di Bohr (con importanti ricadute per la chimica e per la stessa elettricità dell’anno successivo: si pensi che con il solo atomo di Bohr unitamente a quanto poco di quanti si è già fatto ed al principio di Pauli è possibile avvicinarsi alla comprensione delle teorie dell’elettrone libero e delle bande di conduzione con eventuale passaggio ai semiconduttori). Gli spazi liberati l’ultimo anno unitamente a qualche legge di Biot-Savart che può essere tralasciata, insieme, e questo è il fatto più importante, al buttare via le 17 volte che il programma ministeriale dell’ultimo anno cita la parola «Cenni», permettono agilmente uno svolgimento abbastanza approfondito di fisica del nucleo atomico con puntate agli acceleratori di particelle (e loro applicazioni, ad esempio, mediche). Tra l’altro le prospettive del futuro cittadino si aprono di più. Avendo più informazioni della fisica della quale più si sente parlare, il cittadino potrebbe cominciare a capire come è fatta quella scatola chiusa che alimenta una centrale nucleare, potrebbe entrare in valutazioni più coscienti sugli enormi investimenti necessari alla big science.

        Nel far tutto questo non occorre perdere di vista il laboratorio che via via cede sempre più il passo all’elaborazione teorica.

        Occorre capire cosa vuol dire misurare, cosa vuol dire la realizzazione di un oggetto che serve ad un determinato scopo. Vi sono bellissime esperienze di termologia, esperienze che passo passo possono condurci all’equivalenza tra lavoro e calore. E poi in elettricità, magnetismo ed elettromagnetismo (elettronica o quanto altro si pensi di fare) ci si può davvero sbizzarrire. Anche semplici esperienze dimostrative sui quanti, sul decadimento radioattivo,… sono ormai alla portata di tutti (certo: se il laboratorio è attrezzato!).

        Chi si preoccupasse dell’eccessivo peso che il laboratorio sembra acquistare, pensi solo a quale dialettica (mani-cervello) si mette in moto; a quale miracolosa operazione teorica (sic!) è l’invenzione sperimentale; a quali e quante teorie vengono costruite e subito rigettate nella nostra mente; a quanti cambiamenti di rotta si è costretti;…

        Il problema non deve essere questo. Semmai un altro. Che spazio ha l’insegnante di scienze nella formazione «umanistica»? Solo casuale. Sembra che quelli che hanno sofferto, creato drammi ed indimenticabili opere d’arte sono solo «gli altri». Non è così. Ma dove posso argomentarlo, dove posso raccontare l’enorme valore formativo che ha la storia della scienza, dove trova posto questa disciplina? Non c’è. E neanche a pensare che il collega di filosofia ci possa dare una mano. Come facciamo? Non è degno di gentiluomini fare il mercato delle ore d’insegnamento però io, notorio cafone, voglio cominciare a farlo, rivendicando ore per l’insegnamento della Storia della Scienza.

        Le cose non sono ancora finite qui. Ho altri problemi legati al giorno per giorno. Fin dove mi spingo quando faccio la dinamica? Può bastare quella del punto? I sistemi, dove li metto? La velocità istantanea come la posso introdurre in laboratorio (se dispongo di due fotocellule, per quanto vicine, ho una velocità media; se uso uno strumento più sofisticato, rischio di distrarre l’attenzione dei ragazzi dalla questione fondamentale che stiamo tentando di capire)?

        Come posso introdurre il concetto di forza? Se lo faccio in modo dinamico i miei studenti si accorgono che nel laboratorio lavoro con misure statiche.Avesse ragione Hertz? Quando faccio il secondo principio fino a che punto spingo con la «meccanica statistica»? In elettrostatica si lavora comunemente con E, perché nel magnetismo si lavora con B? Se introduco H, come spiego il cambiamento di verso delle linee di forza del campo magnetico all’interno della sostanza? La conservatività del campo elettrico (e gravitazionale) è relativamente semplice mostrarla; come posso mostrare la non conservatività del campo magnetico?

        Insomma ho tantissimi problemi su cui non so proprio chi consultare.

        Il discorso a questo punto tende verso l’utopia.

        Sembrerebbe estremamente utile spostare moltissimi concetti «classici» a livello di biennio dove l’approccio dovrebbe essere essenzialmente sperimentale. All’inizio del triennio i concetti introdotti potrebbero essere ripresi e, senza paura, assiomatizzati. A questo punto diventa indispensabile il tentare di capire quali sono i concetti più importanti che in un corso di fisica a livello secondario superiore devono tentare di passare. Provo a dire qualcosa: approccio sistematico al mondo naturale, individuazione di differenti metodologie, casualità, trasduttori, problemi di scala, dimensioni, invarianza, conservazioni, trasformazioni, irreversibilità. Ecco, i concetti elencati dovrebbero in grandissima parte fare da «colonna sonora» ai contenuti che si intendono portare avanti. Tra i contenuti certamente privilegerei quelli che più si prestano alla comprensione dei concetti suddetti. Ad esempio: lo spettro delle onde elettromagnetiche che racchiude dentro di sé una quantità di fenomeni apparentemente diversi: la conservazione e la degradazione (sarebbe interessante discutere di questo valore morale che nell’Inghilterra vittoriana si dava ad un concetto fisico) dell’energia; l’equivalenza massa-energia; i sistemi di riferimento; la probabilità e le fluitazioni; vari tipi di integrazioni …Altre cose si possono pensare, fermo restando il fatto che occorre una articolazione comunicabile e ripetibile di concetti e contenuti.

        Ci si può inoltre chiedere: la risoluzione di problemi (con un minimo di aggancio a questioni reali) può aiutare alla comprensione della fisica?

        Ultima cosa e poi chiudo. Io ritengo che tutta la fisica si debba fare con a fianco l’analisi dimensionale (ha una potenza di comprensione e verifica incredibile). Nei 20 anni in cui i miei studenti sono andati a far esami non sono mai riusciti a dimostrare quanto sono bravi. Voglio dire che, qualunque cosa noi facciamo (e, per presuntuosa ipotesi, molto bene), resta sempre il problema della preparazione di coloro che dovranno esaminare i nostri studenti e, più in generale, di una qualche uniformità di preparazione tra i docenti di fisica (cosa che, anche per legge, attualmente non è). Quando ho lavorato da membro interno agli esami di maturità ho tremato per i miei studenti solo quando arrivava colui che la fisica non sapeva.

        Insomma, i problemi sono una montagna e poi occorre coordinarli con i problemi delle altre discipline nella visione di una scuola che non deve preparare scienziati ma cittadini. Nessuno lavora con noi, neanche la maggior parte degli insegnanti (ma come dargli torto con la miseria con cui è pagato il nostro «strano» lavoro). Quelli che da anni governano sono usciti da scuole cattoliche private che non hanno questi problemi; gli altri non credo abbiano frequentato un corso regolare di studi o, se l’ hanno fatto, devono essere stati spesso bocciati; non si spiega altrimenti questo menefreghismo per un bene tanto prezioso come la Scuola.



Categorie:Didattica, Didattica della Fisica

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