La relatività da Newton ad Einstein (Parte III)

Roberto Renzetti

5 bis – L’INTERVENTO DI POINCARÉ E ANCORA LORENTZ

        Già abbiamo avuto modo di accennare (si veda la nota 572) che la lettura di alcuni brani della prima edizione (1890) del libro di Poincaré, Electricité et optique, aveva aiutato Lorentz nella sua conversione all’azione a contatto. In questo primo lavoro sulle problematiche dell’elettromagnetismo, Poincaré metteva a confronto le varie teorie fino ad allora sviluppate.  Sullo stesso argomento il nostro ritornò nel 1895 con la memoria A proposito della teoria del Sig. Larmor.  (605)  La bontà di una qualunque teoria elettromagnetica,  secondo Poincaré, era legata al soddisfare o meno i seguenti tre requisiti:

    1) essa deve riuscire a spiegare il trascinamento parziale di Fresnel evidenziato dall’esperimento di Fizeau;  

    2) essa deve essere compatibile con il principio di conservazione dell’elettricità e del magnetismo;

    3) essa deve accordarsi con il principio di azione e reazione.

E tutte le teorie fino ad allora elaborate, quella di Helmholtz, quella di Hertz e quella di Lorentz non rispondevano contemporaneamente ai requisiti richiesti. Mentre la teoria di Helmholtz rende conto dei requisiti 1 e 3, non è compatibile con il 2. La teoria di Hertz è in accordo con i requisiti 2 e 3 ma non con l’1. Infine, la teoria di Lorentz possiede i requisiti 1 e 2 ma è completamente carente per quel che riguarda il 3.  Secondo Poincarè, però, le tre teorie non potevano essere rigettate in blocco;  occorreva mantenere quella che presentava meno difetti e spiegava più cose e cioè la teoria di Lorentz (“ciò che abbiano di più soddisfacente …; quella che rende meglio conto dei fatti conosciuti, che mette in luce il più gran numero di rapporti veri…“). Si trattava però di lavorarvi sopra per migliorarla e, possibilmente, eliminare da essa i riconosciuti difetti (“si dovrà probabilmente modificarla, ma non distruggerla“). Era questo, in definitiva, il programma di Poincaré: accettazione della teoria degli elettroni di Lorentz e necessità di lavorarvi per portarla a compimento senza contraddizioni esterne ed interne, senza contraddizioni cioè con i fatti sperimentali e con i principi accettati, da una parte, e con una coerenza logica interna, dall’altra.

        E poincaré iniziò subito con il cercar di capire come sia possibile accordare la teoria di Lorentz con il principio di azione e reazione. Prendendo in esame la teoria e confrontandola con i fatti sperimentali fino ad allora accumulati, egli notava questa sequenza:

    1°) I fatti sperimentali ci dicono che “è impossibile evidenziare il moto assoluto della materia ponderabile o, meglio, il moto relativo della materia ponderabile rispetto all’etere. Tutto ciò che si può riuscire ad evidenziare è il moto della materia ponderabile rispetto alla materia ponderabile”. (606)                                                                                

    2°) L’esperienza di Michelson ha mostrato che quanto detto sopra sembra essere vero almeno al secondo ordine di v/c.

    3°) La teoria di Lorentz rende conto di quanto detto al punto 1° solo al primo ordine di v/c.

     4°) II non accordo della teoria di Lorentz con il principio di azione e reazione ed il fatto che essa non rende conto di termini in v/c superiori al primo ordine, sono “due buchi che debbono … essere riempiti insieme”. (607)

Ed, in definitiva, Poincaré pensava che il sanare una delle lacune della teoria di Lorentz avrebbe permesso di sanare contemporaneamente anche l’altra.

        Sul problema del principio di azione e reazione non in accordo con la teoria di Lorentz, Poincaré tornò in una memoria del 1900, La teoria di Lorentz ed il principio di reazione.  (608) In essa Poincaré osservava che la teoria di Lorentz non solo violava il principio di azione e reazione ma anche la conservazione della quantità di moto. Infatti, perché un elettrone emetta onde elettromagnetiche, è necessario che esso oscilli. La non esistenza di reazione da parte dell’etere fa si che esso rallenta perdendo quantità di moto. E neanche a pensare che la reazione possa avvenire da parte degli altri elettroni, almeno per due motivi: primo, perché essi sono distanti e, poiché l’onda arriva loro dopo un certo tempo, la reazione avverrebbe in ritardo di modo che, nel frattempo, il primo elettrone avrebbe perso quantità di moto; secondo, perché non tutta la radiazione emessa da un elettrone viene assorbita dagli altri elettroni. (609)

        Per accordare queste contraddizioni con la teoria di Lorentz, Poincaré fece l’ipotesi che in un sistema isolato l’energia elettromagnetica possa essere assimilata ad un fluido particolare dotato di una data velocità. E ciò che deve essere costante è la somma delle quantità di moto degli elettroni e del fluido elettromagnetico. Da questa costanza, anche nelle trasformazioni della energia del fluido in altre forme di energia di tipo non elettromagnetico, Poincaré risale alla validità del principio di azione e reazione nella teoria di Lorentz.

        Certamente l’ipotesi è artificiosa ma in ogni caso rispondente a quei criteri di comodità e di semplicità più volte richiamati dallo stesso Poincaré. (610)

        Si era quindi provvisoriamente riempito uno dei due buchi che il fisico-matematico francese aveva evidenziato nella teoria di Lorentz. Si trattava ora di passare a ciò che sembrava ormai inevitabile: la teoria doveva rendere conto della non osservazione di effetti del 2° ordine in un modo più generale di quanto fino allora fatto con l’ipotesi della contrazione (il colpo di pollice di Poincaré).

        Nel 1904 vide la luce una nuova importantissima memoria di Lorentz, Fenomeni elettromagnetici in un sistema in moto con una velocità minore di quella della luce, (611)  in cui, essenzialmente, la teoria veniva estesa a termini d’ordine superiore in v/c (sulle linee già annunciate alla fine di una memoria del 1899 – si veda la nota 608) e ampiamente migliorata in vari punti, soprattutto in seguito alla scoperta di nuovi fatti sperimentali ed alla critica di Poincaré sull’artificiosità di certe ipotesi che sono di volta in volta introdotte per spiegare il presentarsi di fatti nuovi (nota 608).  

             La prima esperienza che doveva trovare una spiegazione all’interno di un quadro di riferimento complessivo era ancora quella di Michelson-Morley.

            Altre esperienze, di diversa concezione ma sempre centrate a cercare di rilevare il moto della Terra rispetto all’etere, erano state pensate ed eseguite in quegli anni. Abbiamo già accennato all’esperienza di Rayleigh (1902) realizzata indipendentemente anche da D.B. Brace (1859-1905) nel 1904. L’idea guida di questa esperienza era che, nell’ipotesi di un etere immobile e di una contrazione dei corpi materiali nella direzione del moto, i corpi trasparenti nei quali si osserva normalmente una ordinaria rifrazione sarebbero dovuti diventare   doppiamente    rifrangenti.    Sia   Rayleigh che    Brace    non   osservarono    alcun effetto. (612) 

            Vi fu poi l’esperienza di F.T. Trouton (1863-1922) e H.R. Noble eseguita nel 1903. (613)   Anche qui, partendo dall’ipotesi di etere immobile e di contrazione dei corpi materiali nella direzione del moto, si cercava di evidenziare l’effetto delle ipotesi mediante il moto di un condensatore attraverso l’etere. Supponiamo vere le ipotesi e disponiamo un condensatore piano, libero di muoversi, in modo che le sue armature formino un certo angolo con la direzione del suo moto con la Terra attraverso l’etere. Secondo la teoria,   (614) l’effetto della contrazione deve creare delle asimmetrie nei campi elettrici e magnetici tali da far agire sul condensatore una coppia di forze: l’effetto di questa coppia dovrebbe tendere ad allineare il condensatore con il vento d’etere. (615)  Trouton e Noble non osservarono alcun effetto.

            In questo modo Lorentz commentava la situazione, (616)  in riferimento anche alle critiche sulle ‘ipotesi’ avanzate da Poincaré (che tra l’altro suggeriva anche di accordare la teoria con il principio di relatività – si veda la nota 608):

Gli esperimenti di cui ho parlato non costituiscono la sola ragione per cui è desiderabile un nuovo esame dei problemi connessi con il moto della Terra. Poincarè ha mosso una obiezione contro le esistenti teorie dei fenomeni elettrici ed ottici nei corpi in moto, sostenendo che, al fine di spiegare il risultato negativo di Michelson, è stata necessaria l’introduzione di una nuova ipotesi e che la medesima necessità può aversi ogni volta che fatti nuovi sono messi in luce. Indubbiamente questo ricorso all’invenzione di ipotesi speciali di fronte a ciascun nuovo risultato sperimentale è, in certo modo,  artificioso.  Sarebbe ben più  soddisfacente di poter mostrare, per mezzo di alcune assunzioni fondamentali e senza trascurare termini di questo o quell’ordine di grandezze, che molte azioni elettromagnetiche sono del tutto indipendenti dal moto del sistema. Alcuni anni or sono ho già tentato di elaborare una teoria di questo genere. Credo sia ora possibile trattare l’argomento con risultati migliori. La sola restrizione sulla velocità consiste nella richiesta che essa sia inferiore a quella della luce.”  

        Quindi Lorentz aderisce al programma di Poincaré, ma non completamente. Quest’ultimo infatti richiedeva che tutti i fenomeni elettromagnetici obbedissero al principio di relatività; il primo poteva solo garantirne molti.

        Lorentz, nella sua memoria, dopo aver ancora una volta riscritto le equazioni di Maxwell più la sua (la forza che agisce su un elettrone in moto in un campo elettromagnetico), cominciò subito con il considerare “un sistema che si muove nella direziono dell’asse x con velocità costante v” rispetto all’etere immobile. Egli indicò poi con u “una qualunque velocità di cui sia dotato un punto dell’elettrone in aggiunta alla precedente “, di modo che valgono le trasformazioni di Galileo per le velocità:

  vx = v + ux;                  vy = uy;                    vz = uz.

Lorentz passò allora a riscriversi le equazioni di Maxwell-Lorentz per un sistema di riferimento con gli assi solidali al sistema in moto, trasformando (617) poi le equazioni ottenute mediante il seguente cambiamento di variabili:

dove le variabili così introdotte erano considerate variabili artificiali e non vere. In queste relazioni g rappresenta un fattore numerico da determinarsi: “esso va considerato come una funzione di v il cui valore è 1 per v=0 e che, per piccoli valori di v, differisce dall’unità per quantità del secondo ordine“.  ( 618)

        Per quel che riguarda la variabile t’, essa “può essere chiamata tempo locale; infatti, quando … [v=0] e g = 1, tale variabile diventa identica a quella che precedentemente già avevo indicato con questo nome” (619) (si veda la relazione 1 del paragrafo 5).

        Occorre osservare che le trasformazioni (5) non sono ancora quelle che conosciamo come ‘trasformazioni di Lorentz‘ (alle quali si arriverà dopo una correzione apportata da Poincaré nel 1905, come vedremo). (620) Con queste trasformazioni, Lorentz cercava di esaudire la richiesta di Poincaré: trovare, appunto, delle trasformazioni che lasciassero invariata la forma delle leggi dell’elettromagnetismo ed in definitiva le equazioni di Maxwell-Lorentz, per qualsiasi traslazione a velocità costante del sistema di riferimento. Con questo insieme di sostituzioni, a cui Lorentz ne aggiunse altre per lo spostamento elettrico D e per il campo magnetico H, egli era in grado di trattare i fenomeni elettromagnetici che si svolgono in un sistema in moto, in modo formalmente equivalente alla loro trattazione in un sistema in quiete. Risolto il problema, la soluzione reale di esso, per Lorentz, si otterrà risostituendo di nuovo le variabili vere a quelle artificiali.  

        Lorentz era confortato sulla correttezza del suo procedimento dal fatto che, come egli diceva,  “le formule per un sistema che non si muova di moto traslatorio sono implicite in quanto precede. Infatti, per un tale sistema, le quantità con apice diventano identiche alle corrispondenti senza apice“; basta solo porre zero in luogo di v nelle (5) per rendersene conto. Tra l’altro questa sostituzione comincia a fornirci una condizione su g: quando v = 0 deve risultare g = 1.

        Si deve osservare che, data l’artificialità delle sostituzioni proposte, non esiste alcuna relazione fisica tra i due sistemi, quello legato all’etere e quello che si muove rispetto a questo con velocità v. Di conseguenza, fino a questo punto, Lorentz non aveva ancora risolto l’altro problema che si era proposto: trovare una spiegazione dell’inosservabilità del moto della Terra rispetto all’etere, per ordini superiori al primo in v/c.

        Per riuscire nel suo scopo, Lorentz introdusse a questo punto tutta una serie di ipotesi che condizionavano con una grossa ipoteca l’intera sua teoria.

       La prima ipotesi era così formulata:   (621)

Supponiamo ora che gli elettroni, che io considero come sfere di raggio R quando sono in quiete, cambino le loro dimensioni per effetto di una traslazione, cosicché le dimensioni nella direzione del moto diventino g/(1- v2/c2)1/2 volte più piccole e quelle nella direzione perpendicolare g volte più piccole.”

Nella trattazione lorentziana compare qui una novità rispetto ai lavori precedenti; ora l’ipotesi macroscopica della contrazione è interpretata come effetto della contrazione microscopica di ciascun elettrone. E proseguiva Lorentz: (622)

La nostra ipotesi equivale ad affermare che in un sistema  elettrostatico S, in moto con velocità v, tutti gli elettroni sono degli ellissoidi schiacciati, con i loro assi più piccoli nella direzione del moto.”

Introducendo la sostituzioni di variabili già data, per un sistema immaginario S ‘ immobile, l’elettrone diventa di nuovo sferico.

A questo punto si passava alla seconda ipotesi: (623)

Supponiamo che le forze che si esercitano tra particelle prive di carica, così come quelle tra tali particelle e gli elettroni, siano influenzate da una traslazione nello stesso identico modo delle forze elettriche in un sistema elettrostatico.”

E ciò vuol dire che se i centri di tutte le particelle costituenti il sistema S sono in una data configurazione di equilibrio, la stessa configurazione di equilibrio (per i centri delle particelle) si avrà anche in S’. L’effetto del moto sarà la deformazione degli elettroni, le coordinate dei cui centri saranno quelle date dalle variabili artificiali (5), senza ulteriori modificazioni. In altre parole ancora, “se animiamo di velocità v il sistema S‘, esso diventerà da sé il sistema S ” (624)    e quindi la traslazione produrrà una deformazione macroscopica.

        L’introduzione di queste prime due ipotesi permetteva a Lorentz di concludere: (625)  

Si potrà facilmente vedere che l’ipotesi che avevo avanzato in passato in connessione con l’esperimento di Michelson, è implicita in quella che è stata ora affermata. Comunque la presente ipotesi è più generale, perché la sola limitazione imposta sul moto è che la sua velocità sia inferiore a quella della luce.” 

        Con le posizioni fatte, il nostro andava a calcolarsi la quantità di moto elettromagnetica di un elettrone , trovando per essa l’espressione:

e, poiché  “ogni cambiamento nel moto del sistema comporterà un corrispondente cambiamento nella quantità di moto elettromagnetica, sarà quindi necessaria una certa forza data in verso ed intensità da: (626)

Lorentz osservava però che l’espressione di questa forza, a seguito delle ipotesi sulle deformazioni elettroniche causate dal moto, diventava molto complicata se si consideravano moti variabili con rapidità. Era quindi necessario supporre moti che variavano in modo sufficientemente lento per poter applicare agevolmente la (6). Diceva Lorentz:   (627) 

L’applicazione della (6) ad una tale traslazione quasi-stazionaria, come è stata chiamata da Abraham, (628)  è un problema molto semplice. Sia, ad un dato istante, a1 l’accelerazione nel verso della traiettoria, ed a2   l’accelerazione perpendicolare ad essa. Allora la forza F sarà data da due componenti aventi i versi di queste accelerazioni e date da:

Quindi, nei fenomeni in cui si ha a che fare con una accelerazione nella direzione del moto, l’elettrone si comporta come se avesse una massa m1 ; in quelli in cui l’accelerazione è normale alla traiettoria, come se avesse una massa m2 . Queste quantità m1 ed m2  possono quindi essere propriamente chiamate le masse elettromagnetiche  longitudinale e trasversale dell’elettrone. Suppongo che non vi sia alcuna altra massa, né veramateriale.”         

Ecco quindi l’introduzione di una terza ipotesi: la massa è puramente elettromagnetica, almeno la massa degli elettroni.

       Come vedremo più in dettaglio nel prossimo paragrafo, il distacco dalla fisica newtoniana comincia a diventare enorme; pur di rimanere in un quadro esplicativo, in ultima analisi, di carattere newtoniano, via via si demolivano le premesse concettuali di questo programma. Ma c’è di più: venivano introdotti i concetti di masse diverse a seconda della direzione del moto, con in più il fatto che la massa dipende dalla velocità di traslazione del sistema.

 Lorentz così proseguiva: (629)

Quando 1/(1 – v2/c2)1/2  e g differiscono dall’unità per quantità dell’ordine di v2/c2 per  piccole  velocità  troviamo:

m1 = m2 = k                                                                (con il solito valore di k)                                                                  

Questa è la massa con cui abbiamo a che fare se ci sono piccoli moti vibratori degli elettroni in un sistema non dotato di moto traslatorio.”

        Con l’introduzione di queste ipotesi, alle quali, come vedremo, se ne aggiungeranno delle altre, e con le conseguenze analitiche che da esse derivavano, Lorentz fu in grado di mostrare che dalla teoria discende l’inosservabilità del moto della Terra mediante fenomeni elettromagnetici.

        Leggiamo ancora da Lorentz:  (630)

Passiamo ora ad esaminare l’influenza del moto della Terra sui fenomeni ottici in un sistema di corpi trasparenti … Per ragioni di semplicità supponiamo che, in ciascuna particella, la carica è concentrata in un certo numero di elettroni separati, e che le forze elastiche che agiscono su uno di questi e che, in connessione con le forze elettriche, determinano il suo moto, sono originate all’interno dei confini dello stesso atomo. Mostrerò che, se partiamo da un dato stato di moto in un sistema non dotato di traslazione, da esso possiamo dedurre uno stato corrispondente che può esistere nello stesso sistema quando esso è in moto di traslazione.

Dall’elaborazione di questa ulteriore ipotesi introdotta, Lorentz trovò un’altra espressione per la massa longitudinale m1  (la massa trasversale m2  rimaneva invece invariata):

Questa eventualità fornisce finalmente l’opportunità di calcolare quanto vale il fattore g; infatti la massa longitudinale m1  deve risultare la stessa indipendentemente dal modo con cui si è ricavata.

        Confrontando la prima delle (7) con la (8), deve risultare:  

Confrontando questo risultato con il  secondo membro della (9), si vede subito che, perché essi siano uguali, deve risultare dg/dv = 0, da cui si può facilmente stabilire che g deve essere una costante (g = cost).

        Ricordando che altrove avevamo visto che, per v = 0, doveva risultare g = 1, il valore di g è determinato (g = 1).  

         Per proseguire però sulla strada della dimostrazione della non osservabilità degli effetti del moto della Terra sui fenomeni elettromagnetici, Lorentz dovette i ntrodurre un’ulteriore ipotesi: (631)

Dobbiamo  ora  supporre  che l’influenza di una traslazione sulle  dimensioni (dei singoli elettroni e di un intero corpo ponderabile) è limitata a quelle che hanno la direzione del moto, diventando queste 1/(1 – v2/c2)1/2  volte più piccole di quelle che sono allo stato di quiete. Se aggiungiamo quest’ipotesi a quelle fatte più su, possiamo essere sicuri che due stati, l’uno nel sistema in moto e l’altro nello stesso sistema in quiete, … possono esistere contemporaneamente.

Se cioè alcune grandezze elettromagnetiche possono essere definite in un sistema in quiete come determinate funzioni del tempo, nello stesso sistema posto in movimento (e quindi deformato) si possono definire le stesse grandezze come funzioni del tempo locale. E ciò si può facilmente mostrare applicando tutte le ipotesi e le equazioni di trasformazione che Lorentz aveva fin qui dedotte. In particolare, affermava Lorentz:  (632)

Se in due punti di un sistema si propagano nella stessa direzione raggi di luce aventi lo stesso stato di polarizzazione, si può mostrare che il rapporto fra le ampiezze [di queste onde elettromagnetiche] in questi punti non è alterato da una traslazione … [e cioè] fornisce una spiegazione del risultato negativo di Michelson … e mostra anche perché Rayleigh e Brace non hanno trovato traccia di doppia rifrazione prodotta dal moto della Terra.

Allo stesso modo diventa chiaro il risultato negativo dell’esperimento di Trouton e Noble se ammettiamo l’ipotesi … [della contrazione degli elettroni, già affermata]. Si può dedurre da questa e dall’ultima ipotesi fatta … che il solo effetto della traslazione deve essere stata una contrazione dell’intero sistema di elettroni, delle altre particelle che costituivano il condensatore carico … [e di tutto il sistema di misura]. Una tale contrazione non doveva dare origine ad un sensibile cambiamento di direzione [del condensatore] .” 

E quanto fin qui affermato è ora vero per qualunque ordine del rapporto v/c.  (633)     

         La memoria di Lorentz si concludeva con una discussione relativa ai moti molecolari.  (634)     Questa parte è interessante perché dalla sua discussione emerge bene il senso assegnato da Lorentz al tempo locale. Abbiamo già detto che ogni posizione occupata dal sistema in moto ha un suo tempo proprio (tempo locale) e che esso non coincide con quello misurato da un osservatore immobile (rispetto all’etere) e non coincide neppure con nessun altro dei tempi relativi agli altri punti del sistema in moto.

        Ora, data una molecola che appartiene ad un sistema in moto, il suo equilibrio è assicurato dalle forze che ad un dato istante t’ (tempo locale) le altre molecole esercitano su di essa. Ebbene, i tempi reali, a cui corrispondono tempi locali t’ per molecole differenti, non sono simultanei per Lorentz. Questa simultaneità di tempi la si può ritrovare solo nel sistema in quiete. Ed allora Lorentz si trovò costretto ad introdurre l’ulteriore ipotesi che

” queste forze [che agiscono tra molecole] abbiano effetto a così piccola distanza che, per particelle agenti l’una sull’altra, la differenza dei tempi locali può essere trascurata.” (635)

Con questa approssimazione la simultaneità era garantita anche nel sistema in moto, in quello delle variabili artificiali. E così, in questo sistema, è possibile ancora lo stato di equilibrio di una molecola, data la simultaneità delle azioni che le altre molecole esercitano su di essa. La non simultaneità dei tempi locali nel sistema in moto non deve evidentemente introdurre il sorgere di forze risultanti che tirino la molecola in oggetto da una parte o dall’altra. Conseguenza di ciò è che (636)

” ognuna, di queste particelle, insieme a quelle ad essa legate nella sfera di attrazione o repulsione, formerà un sistema che subirà la deformazione spesso ricordata.”

Ed in definitiva, (636)

le  tipiche relazioni tra  forze ed  accelerazioni  esisteranno   [sia  nel   sistema in quiete che in quello dotato di moto traslatorio] se supponiamo che le masse di tutte le particelle sono influenzate da una traslazione allo stesso modo delle masse elettromagnetiche degli elettroni.

        E con questa ennesima ed ultima ipotesi (complessivamente Lorentz ne ha fatte 11), che va a generalizzare i risaltati della teoria degli elettroni, Lorentz portò a compimento il suo programma che rappresenta la massima espressione degli sviluppi della fisica classica agli inizi del XX secolo.  

        Alcune considerazioni possono essere fatte. (637)

        Innanzitutto l’intera teoria di Lorentz è basata sull’esistenza di un etere immobile. Questo etere, assimilabile allo spazio assoluto di Newton, gioca il ruolo di riferimento privilegiato. Moto e quiete non hanno un valore meramente relativo, per Lorentz; la quiete è quella assoluta del riferimento dell’etere} rispetto a questo riferimento ha senso considerare moti assoluti. Come si vede, non ostante le critiche di Poincaré, si rimane ancorati ad una concezione che solo formalmente abbisogna di equazioni di trasformazione; in realtà le coordinate vere sono quelle del sistema in quiete. Lorentz, insomma, non contempla nel suo programma l’estensione del principio classico di relatività ai fenomeni elettromagnetici (tant’è vero che le sue trasformazioni non sono reciproche). (638)

        In questo senso le equazioni di trasformazione sono artificiali e la contrazione assume significato fisico solo per rendere conto dell’inosservabilità del moto della Terra attraverso l’etere. D’altra parte è proprio l’etere che origina le deformazioni che impediscono l’osservazione del moto della Terra attraverso di esso: era davvero una grande impresa quella che affrontò e per molti versi risolse Lorentz.

        Ed il tutto nell’ambito di un tentativo di unificazione delle due principali scuole di fisica; quella corpuscolare e quella di campo, quella dell’azione a distanza e quella dell’azione a contatto.

        Come abbiamo già detto, per portare a compimento il suo programma, Lorentz fu costretto ad introdurre delle ipotesi che andavano ad ipotecare pesantemente i risultati ottenuti e che per altri versi negavano le premesse concettuali della fisica newtoniana.

        Forze dipendenti dalla velocità, deformazione degli elettroni, contrazione delle lunghezze, dipendenza della massa dalla velocità, masse differenti a seconda della direzione del moto, natura elettromagnetica dell’elettrone, … : l’insieme di tutte queste assunzioni e/o risultati doveva comportare una profonda revisione di tutti i fondamenti della fisica. E tutto ciò sarà tentato e fatto proprio in quegli anni, ma di questo ci occuperemo nel prossimo paragrafo.  

        Andiamo ora a cogliere il senso dell’ulteriore intervento di Poincaré proprio su questa memoria di Lorentz.

        Per quanto ci servirà, riscriviamoci le equazioni (5) di trasformazione, sostituendo alla g che vi compare il valore 1 determinato da Lorentz:

avendo semplificato l’espressione per il tempo locale con la riduzione del secondo membro allo stesso denominatore.

        E’ a questo punto opportuno fare alcune considerazioni.

        Per Lorentz, indubbiamente, le equazioni di trasformazione di Galileo sono indiscutibilmente valide. Tra l’altro, come abbiamo visto, egli le usa all’inizio del suo lavoro per la composizione delle velocità degli elettroni con quella del sistema di riferimento. Scriviamoci quindi l’equazione galileiana di trasformazione della posizione di un elettrone nel passaggio da un sistema di riferimento (quello dell’etere immobile) all’altro (quello in moto con velocità v rispetto all’etere).  (639)

       Supponiamo che S sia il sistema in quiete (quello dell’etere) e che S’ sia il sistema in moto con velocità v e riferiamoci alle figure 37 e 38.

Al tempo t = 0  i due sistemi saranno situati come in figura 37 e cioè con le origini coincidenti. Dopo un tempo t ≠ 0

i due sistemi saranno situati, sempre l’uno rispetto all’altro, come in figura 38 e cioè con le origini O ed O’ spostate

 di un tratto d (e poiché i due sistemi sono animati, l’uno rispetto all’altro, di moto traslatorio uniforme, si avrà d = vt). A questo punto supponiamo che P rappresenti un elettrone che a t = 0 (figura 37) inizi a muoversi in S, nel verso positivo del riferimento, con velocità u. Dopo un tempo t ≠ 0 (lo stesso di figura 38) l’elettrone occuperà su S la posizione x0; la posizione x che esso occuperà rispetto ad S’ sarà data da (figura 39):

    x0 = x + d      ->        x = x0 – d        ->          x = x0 – vt.

Quanto detto, esteso alla prima delle trasformazioni (10), ci fa ottenere:

e, più in generale, cambiando opportunamente i simboli adottati:

E’ importante rendersi conto che questi passaggi non sono stati fatti esplicitamente da Lorentz; è solo una ricostruzione a posteriori che permette di farli, tenendo conto, tra l’altro, di un lavoro di Lorentz del 1909, La teoria degli elettroni, (640) nel quale è sostenuto un qualcosa del genere. Ora è di gran rilievo il fatto che le trasformazioni (l0) che Lorentz ha introdotto possono essere scritte, al massimo, con l’introduzione di quanto appena ricavato nella sola prima equazione, in modo da ottenere le equazioni (11) di trasformazione.

Ciò vuol dire che Lorentz non esegue la medesima sostituzione nelle due x che compaiono nelle (10). In particolare, egli non esegue la sostituzione della trasformazione di Galileo per la posizione, nella x che compare nell’espressione del tempo locale. E ciò è in accordo con quanto sostenuto altrove: il tempo locale è diverso per coordinate diverse del sistema in moto; esso varia al variare della posizione del sistema in moto; per esso non può essere stabilita simultaneità; ogni posizione occupata dal sistema in moto ha un suo tempo proprio.

           Passiamo ora ad occuparci del lavoro di Poincaré, Sulla dinamica dell’elettrone, (641) del giugno 1905, appena tre mesi prima del lavoro di Einstein sull’ Elettrodinamica dei corpi in movimento (settembre 1905), del quale ci occuperemo ampiamente nel paragrafo 2 del Cap. V.

           Poincaré, che in varie occasioni si era espresso in modo molto favorevole riguardo al lavoro di Lorentz del 1904, sentì la necessità di intervenirvi sopra. Egli sosteneva:  (642)

L’importanza del problema mi ha spinto a riprenderlo in esame; i risultati che ho ottenuto sono in accordo con quelli trovati dal Sig. Lorentz su tutti i punti importanti; io sono stato solamente condotto a modificarli ed a completarli in qualche punto di dettaglio; si vedrà più avanti che le differenze sono d’importanza secondaria.”

Passando ad un confronto della teoria di Lorentz e delle sue trasformazioni (che egli chiama trasformazioni di Lorentz) con quelle sviluppate da altri, ed in particolare  da  P.  Langevin  (1872-1946),  egli  optò  per  la teoria di Lorentz, poiché, l’altra, risultava incompatibile con il postulato di relatività (anche questa è una denominazione introdotta da Poincaré) che avrebbe dovuto permettere di scrivere le equazioni di Maxwell esattamente nella stessa forma per due sistemi di riferimento in moto traslatorio uniforme l’uno rispetto all’altro (ed il lavoro di Lorentz si avvicinava molto a questa possibilità, anche se non completamente).

         Poincaré si proponeva quindi di ritrovare i risultati di Lorentz “per altra via, facendo ricorso ai principi della teoria dei gruppi“, (645)  tenendo conto di un elemento molto importante,di natura più fisica,così introdotto da Poincaré:

se  si  vuole  conservare [la  teoria  di  Lorentz]  ed evitare  delle  contraddizioni intollerabili, bisogna supporre una forza speciale che spieghi contemporaneamente e la contrazione e la costanza di due degli assi.” (644)

Qui Poincaré si rendeva conto che l’elettrone deformabile di Lorentz poteva arrivare ad esplodere e pertanto era necessario tener conto di una sorta di tensione interna dell’elettrone, di origine sconosciuta, che impedisse il disintegrarsi dell’elettrone.

        Inoltre Poincaré  introduceva un problema nuovo in connessione con l’elettrodinamica: che tipo di influenza hanno tutte le nostre teorie sulle leggi della gravitazione ? Egli diceva: (645)

non possiamo accontentarci di formule semplicemente giustapposte e che vanno d’accordo solo per una felice coincidenza; occorre, per così dire, che queste formule arrivino a compenetrarsi mutuamente.”

Una strada sembrava essere individuata da Poincaré quando affermava:  (646)

se noi ammettessimo il postulato di relatività, [le leggi dei fenomeni fisici sono le stesse per un osservatore in quiete e per un osservatore che si muove di moto traslatorio uniforme], troveremmo nella legge di gravitazione e nelle leggi dell’elettromagnetismo un numero comune che sarebbe la velocità della luce; e lo ritroveremmo ancora in tutte le altre forze di origine qualunque.”

E ciò si può spiegare o ammettendo che questo fatto non è che una apparenza, un qualcosa che dipende dal nostro sistema di misura, o ammettendo che tutti i fenomeni sono di origine elettromagnetica.  

        Fatte queste premesse, Poincaré iniziò la sua memoria riscrivendo le equazioni di Maxwell ed avvertendo che il sistema di unità di misura da lui usato è tale che la velocità c della luce risulta uguale ad 1 (numero puro). Ora, secondo Poincaré, le equazioni di Maxwell possono essere semplificate mediante l’introduzione di una notevole trasformazione introdotta da Lorentz. E questa trasformazione è interessante per il nostro poiché spiegava il perché certe esperienze che volevano evidenziare il moto della Terra rispetto all’etere ci fornivano risultato nullo. Quindi l’attenzione andava a centrarsi su queste trasformazioni che Poincaré riscrisse cambiando le posizioni iniziali (5) di Lorentz nel modo seguente:

dove g ed e sono due costanti qualunque, da determinarsi. Ed in base alle proprietà dei ‘gruppi‘, studiati dal matematico norvegese S. Lie (1842-1899), Poincaré trovò che g doveva risultare uguale ad 1, mentre e = v/c  (dal punto di vista algebrico della teoria dei  gruppi,  e  non può  essere che un numero puro). Con queste sostituzioni le (l2) diventano:

Queste trasformazioni non sono però corrette da un punto di vista dimensionale. Occorre dare significato fisico a quanto ottenuto per via matematica. Per rendere omogenee dimensionalmente le (l3) occorre; moltiplicare per c la quantità (v/c).t che compare a numeratore della prima delle (l3); dividere per c la quantità (v/c).x che compare a numeratore dell’ultima delle (l3). E ciò è corretto anche da un punto di vista algebrico perché, come si ricorderà, si era supposto c = 1. Si ottiene così:

e questo risultato ottenuto da Poincaré è quello che è oggi noto come il gruppo di trasformazioni di Lorentz, (648) quello che, per via completamente diversa, fu ricavato da Einstein nella sua memoria del 1905. Ora, finalmente, le equazioni dell’elettromagnetismo risultano invarianti rispetto a questo gruppo di trasformazioni.

        E’ interessante mostrare che se , nelle trasformazioni ricavate da Lorentz scritte nella forma (11), si esegue la trasformazione di Galileo oltre che nella prima anche nella quarta equazione (quella per il tempo locale), si ottiene il medesimo risultato (14) trovato da Poincaré.

        Scriviamoci allo scopo la quarta delle (11)  e sostituiamo alla x la quantità x – vt ottenuta, come abbiamo visto, mediante una trasformazione di Galileo:

Lo stesso Lorentz, la cui onestà intellettuale deve essere sottolineata con forza in tempi come quelli in cui viviamo, riconobbe posteriormente che le sue trasformazioni erano incomplete; dirà Lorentz: (649)

Si noterà che in questo lavoro le equazioni di trasformazione della Relatività di Einstein non sono state ottenute del tutto … Io non sono stato capace di far sparire il termine – vu’x/c2  nella equazione [di Maxwell per lo spostamento elettrico] e di porre questa equazione..nella forma che vale per un sistema a riposo.”

        Ritornando a Poincaré, pur non stando qui a soffermarci sull’importanza e complessità del suo contributo, occorre sottolineare che esso non può essere banalmente considerato come correttivo; “basti solo notare che con Poincaré si assiste ad un capovolgimento del programma di Lorentz: mentre per quest’ultimo si trattava di ricercare una spiegazione dell’inosservabilità del moto della Terra attraverso l’etere, per Poincaré questa inosservabilità è conseguenza del postulato di relatività che egli assume all’inizio della sua trattazione. E’ in questo quadro di riferimento che la teoria di Lorentz viene accolta da Poincaré: come egli stesso dimostra,

l’ipotesi di Lorentz è l’unica che sia compatibile con l’impossibilità di mettere in evidenza il moto assoluto; se si ammette questa impossibilità, bisogna ammettere che gli elettroni in moto si contraggono così da diventare degli ellissoidi di rivoluzione, due degli assi dei quali rimangono costanti; bisogna dunque ammettere … l’esistenza di un potenziale supplementare proporzionale al volume dell’elettrone.”    (650)

E’ così dunque che l’ipotesi della contrazione, ritenuta in precedenza dallo stesso Poincaré come artificiosa, viene ora pienamente accolta. Inoltre, all’interno della trattazione del fisico-matematico francese, diverse delle ipotesi che Lorentz era stato precedentemente costretto ad introdurre, divengono semplici conseguenze della teoria che ha come presupposti il principio di relatività e la contrazione dell’elettrone.  

        Ci sono altri contributi di Poincaré che meritano di essere ricordati, anche per quanto dovremo discutere in seguito. Il primo è relativo al problema, che per la prima volta viene posto, della sincronizzazione di due orologi,           nell’ ipotesi di esistenza del tempo locale. (651)

        In una conferenza tenuta a St Louis (USA) nel 1904, Poincaré, riferendosi ai risultati dei lavori di Lorentz, diceva: (652)

L’idea più ingegnosa [di Lorentz] è stata quella del tempo locale. Immaginiamo due osservatori che vogliano sincronizzare i loro orologi mediante segnali luminosi. Si scambiano i segnali ma, poiché sanno che la trasmissione della luce non è istantanea, nell’intercettarli adottano delle precauzioni. Quando la stazione B avverte il segnale della stazione A, il suo orologio non deve segnare la stessa ora di quello della stazione A al momento della emissione del segnale, ma questa ora aumentata di una costante che rappresenta la durata della trasmissione. Supponiamo, per esempo, che la stazione A invii il suo segnale quando il suo orologio segna l’ora zero e che la stazione B l’avverta quando il suo orologio segna l’ora t. Gli orologi risultano sincronizzati se il ritardo, uguale a t, rappresenta la durata della trasmissione. Per verificarlo la stazione B manda a sua volta un segnale quando il suo orologio segna l’ora zero; allora la stazione A deve avvertirlo quando il suo orologio segna t. In questo caso gli orologi risultano sincronizzati. Effettivamente segnano la stessa ora alle stesso istante fisico, ma ad una condizione: che le due stazioni siano immobili. In caso contrario la durata della trasmissione non sarà la stessa nei due sensi, poiché, ad esempio, la stazione A va incontro alla perturbazione ottica emessa da B, mentre la stazione B si allontana rispetto alla perturbazione emessa da A.  (653)  Gli orologi sincronizzati in questo modo non segneranno allora il tempo vero; segneranno quello che si può chiamare il tempo locale (654) di modo che uno di essi ritarderà rispetto all’altro. Poco importa perché non abbiamo alcun mezzo per avvertirlo. Tutti i fenomeni che, ad esempio, si producano in A staranno in ritardo, ma tutti avranno lo stesso ritardo e l’osservatore non lo avvertirà poiché il suo orologio ritarda. (655)  E, così come richiede il principio di relatività, non avrà mezzo alcuno per sapere se è in riposo o in movimento assoluto.” (656)

Un altro tema, rilevante per le asimmetrie che comporta, fu affrontato da Poincaré nella conferenza di St Louis; quello di due cariche elettriche statiche che si muovono con la Terra attraverso l’etere. Scriveva Poincaré:  (657)

Supponiamo di avere due corpi elettrizzati che se anche ci sembrano in riposo, sono trascinati dal moto della Terra. Una carica elettrica in moto, ce l’ha insegnato Rowland, equivale ad una corrente; questi due corpi carichi equivarranno quindi a due correnti parallele e con lo stesso verso, e queste due correnti dovranno attrarsi. (658) Misurando questa attrazione misureremmo la velocità della Terra e non la sua velocità rispetto al Sole o alle stelle fisse, ma la sua velocità assoluta … Questa attrazione elettrodinamica si sottrae alla repulsione elettrostatica e la repulsione totale è più debole che se i due corpi si trovassero in riposo. Però, poiché per misurare questa repulsione dobbiamo equilibrarla con un’altra forza e poiché tutte queste forze si trovano ridotte nella stessa proporzione, non avvertiremo il fenomeno.”

Infine, ad ulteriore sostegno del principio di relatività, Poincaré ideò un’immagine fantastica non priva di suggestione ed ancora oggi spesso utilizzata. (659)  Scriveva Poincaré, riguardo alla relatività dello spazio:  (660)

Supponiamo che, in una notte, tutte le dimensioni dell’Universo divengano più grandi: il monde resterà simile a se stesso … Solamente ciò che aveva la lunghezza di un metro, misurerà ora un chilometro; quello che misurava un millimetro misurerà un metro. Il letto in cui dormo ed il mio corpo si sarebbero ingranditi della stessa proporzione; quando mi svegliassi la mattina seguente, che cosa proverei di fronte ad una trasformazione cosìsorprendente ? Beh, semplicemente non mi accorgerei di nulla. Le misure più raffinate non sarebbero in grado di rivelarmi niente di questa immensa rivoluzione, dato che i metri di cui mi servirei sarebbero variati nella stessa proporzione che gli oggetti che io andrei a misurare con essi. In realtà questo scompiglio non esisterebbe altro che per quelli che ragionano come se lo spazio fosse assoluto.”

***

        A conclusione di questo paragrafo si può dire che, agli inizi del XX secolo, la teoria di Lorentz era in grado di rendere conto di quasi tutti i fenomeni elettromagnetici noti. (661)  II programma di Lorentz, di ricondurre tutti i fenomeni fisici (anche quelli meccanici) ai comportamenti dei microscopici elettroni (riduzionismo), era giunto al suo compimento. Nell’evolversi della costruzione della teoria, abbiamo assistito ad “un rovesciamento dei rapporti tra meccanica ed elettromagnetismo, nella prospettiva di fondare la prima sulle basi di quest’ultimo.” (662)  Concetti ben consolidati nella tradizione fisica ne sono usciti completamente modificati; forze che dipendono dalla velocità, lunghezze che si contraggono, masse che variano al variare della velocità, tempi locali, il principio di azione e reazione posto in discussione, … Questo caro prezzo pagato in certezze rende ben conto della profondità, complessità ed intensità dei problemi che si ponevano. Eppure “tutta questa serie di innovazioni e di rotture rispetto alla tradizione newtoniana sono accettate purché sia fatta salva la capacità del quadro di riferimento globale (etere, particelle e loro  interazioni) di garantire l’interpretazione dei fenomeni.” (662)

        Paradossalmente si era operato in questo senso per garantire un supporto materiale a quelle onde elettromagnetiche che, questo si, non si poteva ammettere viaggiassero nel vuoto. Questo supporto materiale era poi sempre diventato più immateriale, fino al punto che era sfuggito ad ogni possibile ricerca. E pur non mostrandosi, l’etere era di fatto diventato quello spazio e riferimento assoluto di newtoniana memoria.

        La fisica newtoniana mostrava varie falle che occorreva chiudere al più presto ma, nel contempo, mostrava tutta la sua potenzialità esplicativa, proprio quella che aveva condotto alle così complesse elaborazioni di Lorentz,

NOTE

(605) H. Poincaré: À propos de la théorie de M. Larmor, L’éclairage éléctrique, Vol.3, pagg.5-13 e pagg. 285-295; Vol. 5, pagg. 5-14 e pagg.385-392; ottobre 1895. Il fisico irlandese J. Larmor (1857-1942) aveva sviluppato una teoria, elaborazione di una teoria del suo compatriota J. Mac Cullagh (1809-1847), che considerava 1’etere come etere girostatico, rotazionalmente elastico. La teoria era stata inoltre applicata da Larmor alla spiegazione dei fenomeni elettromagnetici ed ottici; tutto, come faceva rilevare Poincaré, con grandi difficoltà.

(606) Ibidem, pag. 412. Citato in inglese in bibl. 145, pag. 936. Occorre notare che questa formulazione, negli anni seguenti, sarà chiamata da Poincaré principio di relatività. Vari autori, a partire da Whittaker (bibl.112, Vol.II, pagg.27-55; e, come esempio, bibl. 114), hanno creduto di poter attribuire la prima formulazione relativistica a Poincaré, in connessione con Lorentz, proprio dal brano qui riportato e da altri che vedremo più avanti. Non condivido questa posizione in accordo con altri autori (si veda, ad esempio, bibl.54, 132, 133, 145),  per i motivi che saranno discussi in seguito. Ora basti solo osservare che qui il supposto principio di relatività  viene affermato come legge empirica in attesa di una teoria che possa renderne conto.

(607) Ibidem,  pag. 413. Citato in   inglese  in   bibl. 145,   pag.  936.

(608) H. Poincaré: La théorie de Lorentz et le principe de reaction, scritta in occasione del 25° anno del dottorato di Lorentz e pubblicata in Recueil de travaux offert par les auteurs à H. A. Lorentz, Arch.Keerl., Vol.5, pag. 272; 1900.

Alcuni fatti accaduti tra il 1895 ed il 1900 vanno qui ricordati.

– Nel 1897 J.J. Thomson aveva scoperto l’elettrone (J.J. Thomson, On cathode rays,Phil. Mag., Vol.44; 1897) e nel 1899 ne aveva misurato la carica e la massa (J.J. Thomson, On the masses of ions in a gas at low pressure, Phil. Mag., Vol.48; 1899. Si noti che, soprattutto nella scuola britannica, il termine elettrone aveva il significato di ione monovalente e non quello attuale che fu invece suggerito da O. Drude (1852-1933) nel 1900). Anche se questa scoperta non aveva un legame diretto con la teoria elettromagnetica (si veda la nota 573), pure essa valse da possente sostegno alla teoria di Lorentz.

– Nel 1898 era uscito un articolo di Poincaré,  La mesure du temps  (Revue de Métaphysique et de Morale; riprodotto in La valeur de la science, cap II; 1905. Si veda bibl.142, pagg.32-44), nel quale l’autore si occupa del problema della simultaneità e della sincronizzazione degli orologi. Tra l’altro, in questo lavoro, l’autore afferma:  “Ho cominciato con l’ammettere che la luce ha una velocità costante e, in particolare, che la sua velocità èla stessa in tutte le direzioni. Questo è un postulato senza il quale nessuna misura di questa velocità potrebbe essere tentata. Questo postulato non potrà mai essere verificato dall’esperienza. Questa potrebbe contraddirlo se i risultati delle diverse misure non fossero concordi … [Ebbene questo postulato] ci ha fornito una nuova regola per lo studio della simultaneità ...” così noi sappiamo, per esempio, che una data eclissi di Luna non è avvertita simultaneamente in tutti i punti del globo e questo perché la propagazione della luce non è istantanea e richiede tempi differenti per percorrere distanze diverse. In definitiva, il problema della simultaneità è un problema di misura di tempi e noi non possediamo una intuizione diretta della suddetta simultaneità e neppure dell’uguaglianza di due durate. A ciò serve solo osservare, con Goldberg (bibl.145, pag.939), che il postulato della costanza della velocità della luce qui enunciato “è uno ben strano postulato, che non può essere verificato dall’esperienza, e che può essere contraddetto da essa“. Secondo Goldberg, più che di un postulato, si tratta dell’ipotesi più comoda. Oltre a questo, Goldberg osserva: “La maggior parte dei tentativi di determinare il moto relativo della terra e dell’etere nel diciannovesimo secolo sono stati caratterizzati dal fatto che la velocità della luce doveva essere differente in differenti sistemi di riferimento. Avrebbe Poincaré potuto dire che senza il sistema di riferimento privilegiato [l’etere] la velocità sarebbe stata costante ?” (ibidem).

– Nel 1899 Lorentz aveva pubblicato un altro lavoro, Théorie simplifiée des phénomenes électriques et optiques dans des corps en mouvement (bibl. 134, Vol. V, pagg. 139-155), nel quale venivano ripresi tutti i temi trattati nella Versuch del 1895. A parte il fatto che, a seguito della scoperta di J.J. Thomson, si introduce per la prima volta il termine elettrone in sostituzione di ione (fino ad allora usato), in questa memoria il calcolo viene affinato e molte ipotesi semplificative renderanno più agevole l’intera teoria. Vengono di nuovo date le equazioni di trasformazione per il tempo e per lo spazio in una forma quasi identica a quella definitiva che si avrà solo nella memoria del 1904. Si avanza infine la possibilità di spiegare l’esperimento di Michelson includendo nella trasformazione delle coordinate termini al secondo ordine in v/c, trascurati nella Versuch. E’ interessante notare, con lo stesso Lorentz, che questa possibilità            comporterebbe delle strane conseguenze come, ad esempio, la variazione della massa degli elettroni. Lorentz commenta ciò affermando (bibl.l34, Vol.V, pag. 154. Citato in francese  in bibl.113, pag.37):

Questa idea non è del tutto inammissibile, poiché la massa effettiva di un elettrone può dipendere da ciò che avviene nell’etere, e durante una traslazione la direzione di questa ed una direzione perpendicolare non sono equivalenti. Se questa idea potesse essere ammessa si potrebbe dedurre, nel modo indicato dalle nostre formule, da uno stato di moto su una terra in riposo, uno stato di moto che sarebbe possibile nello stesso sistema ma collocato su una terra in moto. Ed è degno di nota che le dilatazioni determinate dalle [formule di trasformazione delle coordinate spaziali] sono precisamente quelle che io ho dovuto ammettere per spiegare l’esperienza del Sig. Michelson.

E ciò vuol dire che la variazione della massa dell’elettrone risulta tale da uguagliare la contrazione precedentemente ammessa per rendere conto dell’esperienza di Michelson.

– Nel 1900 Larmor, nel suo lavoro Aether and. matter (Cambridge University Press, 1900), afferma la necessità di estendere le equazioni di trasformazione di Lorentz ad ordini superiori di v/c. Egli osserva anche che, vista vera la contrazione di Lorentz-Fitzgerald, un orologio che si muovesse con una velocità v rispetto all’etere, dovrebbe rallentare del rapporto l/(1 – v2/c2)1/2 .

– Nel 1900 Poincaré torna sul principio di relatività in una comunicazione letta al Congresso internazionale di fisica che ebbe luogo a Parigi in quell’anno (la comunicazione è stata pubblicata su La scienza e l’ipotesi, capitoli 9 e 10. Si veda bibl.140, pagg. 137-173). Egli dice (ibidem, 165-166):

Io non credo, malgrado Lorentz, che osservazioni più precise possano mai mettere in evidenza altro che spostamenti relativi dei corpi materiali. Si son fatte esperienze, che avrebbero dovuto svelare i termini del primo ordine: i risultati sono stati negativi … Si è cercata una spiegazione generale, e Lorentz l’ha trovata … Allora si son fatte esperienze più precise [al secondo ordine di v/c]; anch’esse sono state negative … Occorreva una spiegazione; la si è trovata. Se ne trovano sempre: le ipotesi sono la base che non viene mai meno. Ma ciò non è abbastanza … Non è anche un caso questo singolare concorso, il quale fa si che una certa circostanza [teorema degli stati corrispondenti] giunga proprio a punto per annullare i termini del primo ordine, e che un’altra circostanza [la contrazione], del tutto differente, ma anch’essa opportuna, si incarichi di annullare quelli del secondo ordine. No, bisogna trovare una medesima spiegazione per gli uni e per gli altri; e allora, tutto ci porta a pensare che questa spiegazione varrà egualmente per i termini d’ordine superiore, e che l’annullamento reciproco di questi termini sarà rigoroso ed assoluto“. 

Poincaré puntava quindi all’unificazione della teoria manifestando la sua insoddisfazione all’accumularsi di ipotesi successive per rendere conto dei fatti sperimentali che via via si presentavano. In particolare, la sua insoddisfazione relativa alla prima formulazione dell’ipotesi della contrazione fatta da Lorentz (1895) emerge anche dalla lettura della seconda edizione di Électricité et optique (G.Carré e C. Naud, Parigi 1901) nella quale Poincaré sostiene: “Questa strana proprietà sembra essere, nei fatti, un colpo di pollice fornito dalla natura per evitare che il moto della terra sia messo in evidenza mediante fenomeni ottici” (citato in bibl. 145, pag. 937).

(609) Si veda anche Science et Méthode, libro III°, cap.2°,  par.3° (bibl.141, pagg.l70-173)

(610) per dimostrare la validità del principio di azione e reazione occorreva provare che la radiazione elettromagnetica esercitava una pressione. Questa pressione era stata prevista da Maxwell nel Trattato del l873 (bibl. 76, pagg.591 e 592). Dice Maxwell: “l’effetto combinato dello sforzo elettrostatico ed elettrocinetico è una pressione uguale a 2p in direzione della propagazione dell’onda. Ora, 2p esprime pure l’energia complessiva nell’unità di volume. Perciò in un mezzo in cui si propagano delle onde c’è una pressione in direzione normale alle onde, numericamente uguale all’energia dell’unità di volume … Un corpo piatto esposto alla luce del sole subirebbe una pressione [pari a circa 4/100 di atmosfera al secondo] soltanto sul suo lato illuminato, e sarebbe perciò respinto dal lato su cui cade la luce [azione e reazione].” Il risultato previsto da Maxwell fu messo in dubbio ma, nel 1876, il fisico italiano A. Bartoli (1851-1896) mostrò che quanto affermato da Maxwell era una necessaria conseguenza del 2° principio della termodinamica. La pressione di Maxwell-Bartoli fu evidenziata sperimentalmente dal fisico russo P.H.Lebedev (1866-1911) nel 1899. E certamente del fatto non era a conoscenza Poincaré nel 1900 (si noti che ancora nel 1909, nel suo scritto Scienza e Metodo, Poincaré, mentre parla della pressione di Maxwell-Bartoli, non fa cenno a Lebedev),

(611) H.A. Lorentz: Electromagnetic phenomena in a system moving with any velocity less than that of light, Proc. Amst. Acc., Vol.6; 1904. Si veda anche bibl. 134, Vol.5, pagg.172-197 e bibl.131, pagg.11-33. Occorre osservare che tra il 1900 ed il 1904 Lorentz si era occupato del problema del corpo nero pubblicando tre articoli: nel 1900, Teoria della radiazione e secondo principio della termodinamica; nel 1901, Le leggi dell’irraggiamento di Boltzmann e di Wien; nel 1903, Sull’emissione e l’assorbimento da parte di metalli di radiazion di colore di colore di grande lunghezza d’onda. Speoialmente in questa ultima memoria il corpo nero era trattato sulla base della teoria degli elettroni e Lorentz aveva trovato accordo con la formula di Rayleigh-Jeans nel caso di onde lunghe. Per queste tre memorie si veda bibl. 134, rispettivamente in: Vol.6, pagg. 265-279; Vol.6, pagg. 280-292; Vol.3, pagg. l55-176. Per quel che riguarda una breve trattazione del problema del corpo nero si veda l’articolo sulla Nascita della teoria dei quanti in questo sito.

(612) Per l’esperienza di Rayleigh si veda Phil. Mag. 6, 4; 1902; pag.678. Per quella di Brace, Phil. Mag. 6, 7; 1904; pag. 317.

(613) Per l’esperienza di Trouton e Noble si veda Phil. Trans. Roy. Soc. Lond., A.202; 1903; pag. 165. Si noti che questa esperienza fu suggerita agli autori da Fitzgerald.

(614) Particolarmente sviluppata da Heaviside. Anche la teoria degli elettroni prevedeva un medesimo effetto.

(615) Si osservi che, secondo la teoria, il momento della coppia doveva dipendere da termini al secondo ordine in v/c.

(616) Bibl. 131, pagg. 12-13. La traduzione è tratta da bibl. 123, pag.175 (la sottolineatura è mia).

(617) Al fine di ottenere equazioni più semplici e formalmente e dal punto di vista della loro risoluzione.  

(618) Ibidem, pag. 15. Per v/c piccolo, con la solita formula per lo sviluppo del binomio, si trova che g  ~  1 + v2/c2.

(619) Ibidem.

(620) Un’altra trasformazione proposta da Lorentz in questa sua memoria è quella relativa alla velocità u di un dato elettrone rispetto al sistema di riferimento in moto (“in aggiunta alla velocità v“):  u’ = u/(1 – v2/c2)1/2 che è, anche qui, un utile cambiamento di variabili con in più il fatto che sono prive di qualunque significato fisico.  

(621) Bibl. 131, pag. 21.

(622) Ibidem.  

(623) Ibidem, pag. 22.

(624) Ibidem. Si noti che con quel da sé Lorentz assegna valore oltre che qualitativo anche quantitativo e reale alla deformazione.

(625) Ibidem, pagg. 22-23.

(626) Ibidem, pag. 23. I simboli da ree usati sono diversi da quelli di Lorentz.

(627) Ibidem, pag. 24.

(628) Abraham, del quale ci occuperemo nel prossimo paragrafo, aveva sostenuto che la massa dell’elettrone è di natura elettromagnetica (1902). Questa ipotesi era stata fatta propria da Lorentz,

(629) Ibidem.

(630) Ibidem, pag. 25.

(631) Ibidem, pag. 28.

(632) Ibidem, pag. 29. La sottolineatura è mia.

(633) Lorentz, a questo punto, sostiene che la sua teoria è data con le dovute riserve a seguito del fatto che la natura degli elettroni ed il loro moto non ci sono ben noti. Nonostante ciò la teoria spiega tutti i fatti sperimentali noti.

(634) L’ultimo paragrafo della memoria, Lorentz lo dedica alla discussione dei rapporti della sua teoria con quella di Abraham ed in modo particolare ai risultati delle esperienze di Kaufmann che sembrano confermare la teoria della massa trasversale di Abraham e dello stesso Lorentz. Su questi argomenti torneremo comunque nel prossimo paragrafo.

(635) Ibidem, pag. 30.

(636) Ibidem.

(637) Per approfondire quanto qui di seguito è sostenuto si pu vedere bibl. 133,  pagg. 116-122 e bibl. 132.

(638) “in quanto indicano una modificazione del sistema in moto rispetto al comportamento di quiete in funzione del valore assoluto della sua velocità di traslazione” (bibl. 133, pag. 119).

(639) Per quanto diremo è utile ricordare quanto da me scritto sulle trasformazioni di Galileo in bibl. 3, pagg. 137-139.

(640) H. A. Lorentz: The Theory of Electrons, Dover, New York, 1909. Si tratta di una raccolta di lezioni che Lorentz tenne alla Columbia University nel 1906.

(641) H. Poincaré: Sur la dynamique de l’électron, Compt. Rend., 140, 1504; 1905. Questo articolo non è altro che un breve sunto del secondo e ben più importante, dallo stesso titolo, pubblicato sui Rendiconti del Circolo Matematico di Palermo, 21, 129; 1906 (ma comunicato il 23 luglio 1905).

(642) Bibl. 139, pagg. 129-130.

(643) Ibidem, pag. 130.

(644) Ibidem. Abbiamo visto che Lorentz, nel suo lavoro del 1904, supponeva che la deformazione dell’elettrone, a causa del suo moto attraverso l’etere, lo trasformasse in un ellissoide schiacciato. Ebbene, secondo Lorentz, due degli assi dell’ellissoide rimangono costanti (quelli perpendicolari alla direzione del moto).

(645) Ibidem, pag. 131.

(646) Ibidem.

(647) I simboli da me usati differiscono da quelli utilizzati da Poincaré.  

(648) Poincaré riconobbe che le trasformazioni di Lorentz, nella versione corretta, costituiscono un gruppo. Riservandoci di tornare su questo argomento quando ricaveremo le trasformazioni di Lorentz nelle ipotesi di Einstein, osserviamo solo che il fatto che esse costituiscono un gruppo è condizione necessaria per garantire l’invarianza delle leggi fisiche nel passaggio da un sistema ad un altro in moto traslatorio uniforme rispetto al primo. Occorre qui ricordare che trasformazioni formalmente simili furono utilizzate dal fisico tedesco W. Voigt (1850-1920) in un lavoro del 1887, Sul Principio di Doppler; in esso la luce era ancora trattata in base alla teoria elastica. Anche Larmor nel 1900 aveva trovato qualcosa di simile. Notiamo a parte che, per piccole velocità v, le trasformazioni di Lorentz ridanno le trasformazioni di Galileo.

(649) Bibl.l48, pag.28. L’equazione di Maxwell per lo spostamento elettrico in un sistema in moto è la prima delle (9) del lavoro originale di Lorentz (bibl. 131, pag.l5):

Se in questa equazione fosse sparito quel termine – vu’x/c2  si sarebbe ottenuta l’identità formale con la stessa equazione per un sistema in quiete (ibidem, pag.l4, riga3) e cioè    div D = r.  Si noti che la non identità di queste due equazioni mostrava che le trasformazioni di Lorentz, almeno nella loro formulazione del 1904, non garantivano l’invarianza delle equazioni di Maxwell nel passare da un riferimento ad un altro, l’invarianza si otteneva solo trascurando effetti del secondo ordine in v/c.

(650) Bibl. 139, pag. 163.

(651) II tema fu affrontato in una conferenza che Poincaré tenne a St  Louis il 24 settembre 1904. Il testo della conferenza fu pubblicata ne La valeur de la science (1905) ai capitoli 7 e 9. Bibl. 142, pagg. 107-130. Il tema fu poi ripreso in un lavoro di Poincaré del 1908 (bibl.123, pagg. 182-187 e bibl.141. pagg. 167-170).

(652) Bibl. 142, pagg. 116-117.

(653) Evidentemente vale anche per la luce la composizione galileiana delle velocità.

(654) Che nello stesso istante – quello vero – non è lo stesso per i due osservatori: assenza di simultaneità per il tempo locale.

(655) Si noti che il ritardo assume una validità assoluta.

(656) Evidentemente, rispetto al riferimento assoluto dell’etere nel quale esiste il tempo vero.

(657) Ibidem, pag. 115 e pag. 118.

(658) Come abbiamo già visto, questo fatto era stato dimostrato da Ampére.

(659) Si veda anche bibl.3, pag.12. Secondo Poincaré l’immagine è suggerita da Delbeuf.

(660) Bibl.l41, pag.74. Si tratta del paragrafo 1 del 1° capitolo del libro 2° di Scienza e Metodo, un lavoro di Poincaré del 1909. Il brano è qui riportato anche se posteriore al lavoro di Einstein del 1905, perché completamente indipendente da esso.

(661) Mancava l’effetto Zeeman anomalo (scoperto nel 1897) ed alcune questioni di importanza fondamentale nell’ambito dello studio del corpo nero.

(662) Bibl. 132, pag. 48.

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7 – MECCANICISMO E  CRISI DELLA MECCANICA.

– TENTATIVI DI COSTRUIRE UNA MECCANICA SU BASI DIFFERENTI (HERTZ).

– LA CRITICA DI MACH: L’EMPIRIOCRITICISMO

        Alla fine dell’Ottocento, una quantità molto grande di fatti sperimentali e di elaborazioni teoriche portavano a concludere sull’insufficienza della meccanica che, così come si era affermata a partire da Newton, attraverso gli sviluppi della Meccanica Razionale ed Analitica soprattutto della scuola francese del XVIII secolo, non riusciva più a rendere conto compiutamente di quanto si andava via via scoprendo. E ciò risultava non dallo sviluppo di un solo campo della fisica ma, praticamente, da tutti.

        Una breve ricapitolazione ci sarà utile.

        Con l’affermarsi della teoria ondulatoria della luce, lo sviluppo dell’ottica dei corpi in movimento, almeno fino all’esperienza di Miehelson-Morley del 1887, tentava di ricondurre i vari fenomeni all’esistenza di un etere che assolveva il duplice compito di sostegno per le vibrazioni e di spazio assoluto cui riferire i fenomeni stessi.

        Con i lavori di Maxwell-Hertz, l’ottica diventa un capitolo dell’elettromagnetismo ed i problemi dell’ottica dei corpi in movimento diventano i problemi dell’elettrodinamica dei corpi in movimento con un etere che si trova sempre a giocare un ruolo di primo piano. E quindi, in definitiva, i problemi sorgono essenzialmente dall’elettrodinamica dei corpi in movimento e più in particolare dalle proprietà e comportamento di quell’etere che, nonostante i numerosi tentativi, rifiuta di mostrarsi.

        E questo per un verso.

        D’altra parte, altri problemi nascono dagli sviluppi della termodinamica.

        Cerchiamo di capire la natura di queste due classi di problemi in relazione ai postulati fondamentali della meccanica.

        Per rendere conto dei fenomeni osservati l’elettrodinamica, come già visto, deve considerare: forze dipendenti da angoli, forze dipendenti da velocità, forze a contatto, la non invarianza delle equazioni di Maxwell per una trasformazione di Galileo, lunghezze che variano, tempi locali, messa in discussione del principio di azione e reazione e del principio di conservazione della quantità di moto, inosservabilità dello spazio assoluto, masse che variano a seconda del verso del moto. Certamente si va costruendo una fisica che via via rende conto dei fatti sperimentali, continuando a rincorrerli, ma, altrettanto certamente, questa fisica va via via negando le premesse dalle quali era nata. E ciò con la convinzione di star lavorando per la sua conservazione. Tutto quanto deve essere tenuto in conto dall’elettrodinamica costituisce un vero e proprio colpo di maglio ai concetti fondamentali della meccanica: lunghezze, masse, tempi, forze, spazio assoluto, principi di conservazione. Tolto questo, che resta della meccanica oltre la spiegazione dei fenomeni strettamente meccanici per cui la stessa era nata ? (662 bis)  Ed il problema si pone con maggior forza proprio perché continua a persistere la volontà di voler spiegare tutto con la meccanica.

        Per parte sua, quali contributi alla messa in discussione della meccanica vengono dalla termodinamica ?  

        La questione certamente più rilevante era posta dall’affermazione di irreversibilità di tutti i fenomeni naturali. Da una parte, con la teoria cinetica, si erano utilizzate le leggi perfettamente reversibili della meccanica, dall’altra la termodinamica, uno dei prodotti dell’elaborazione cinetico-molecolare, forniva dei risultati che avevano perso quella caratteristica di reversibilità. Inoltre, dovendo trattare sistemi composti da un enorme numero di costituenti, era stato necessario introdurre sistematicamente metodi statistici e probabilistici ed, in particolare, il concetto di stato più probabile. Gi si accorgeva sempre più che la trattazione di fenomeni microscopici richiedeva  la formulazione di leggi diverse da quelle ricavate per i fenomeni macroscopici. E per di più, alcune delle conclusioni ricavate a livello microscopico, con quei metodi statistici che incontreranno molti oppositori, venivano estese ai fenomeni macroscopici. E’ il caso dell’introduzione della funzione entropia che veniva ad assumere significati del tutto assimilabili alla grandezza tempo, soprattutto dal punto di vista della sua unidirezionalità. Ma un altro aspetto del problema doveva presentarsi proprio all’alba del nuovo secolo, quando Planck, per rendere conto dei risultati sperimentali relativi all’irraggiamento di un corpo nero (si veda il paragrafo 2 di questo capitolo) e nell’ambito di una trattazione termodinamica del problema, è costretto ad ammettere la discontinuità dell’energia, la sua quantizzazione (si noti che Boltzmann già nel 1872 aveva utilizzato, come mero artificio di calcolo, la quantizzazione dell’energia facendo poi una successiva operazione – il limite per questi quanti tendenti a zero – che rendeva priva di importanza la prima operazione). In questo ambito, le stesse metodologie di lavoro utilizzate nella ricerca fisica sembrano subire un forte contraccolpo. L’uso delle analogie e soprattutto dei modelli meccanici a cosa servono in un mondo microscopico che ubbidisce a leggi differenti da quelle del mondo meccanico macroscopico ?

         C’è insomma una grossa mole di problemi che vanno tutti nella direzione di rimettere in discussione i fondamenti ed i metodi della fisica  affermatasi con Newton e sviluppatasi nell’ambito del meccanicismo.

         L’insoddisfazione latente e molto spesso evidente cominciò a prendere corpo nella seconda metà del secolo XIX, inizialmente con dei tentativi  di riformulazione della meccanica di Newton su basi differenti.

         La questione che maggiormente faceva discutere e che sollevava critiche era il concetto di forza, la sua definizione, la sua esistenza, la sua essenza. A questo problema si aggiungeva quello della massa; cos’è e che rapporti ha con la materia ? e con la forza ? e la materia cos’è ? e cosi via.

         Un primo tentativo di liberare la meccanica dalle forze fu realizzato dal fisico francese Barré de Saint-Venant (1797-1896) il quale, nei suoi Principi di Meccanica basati sulla Cinematica (Parigi, 1851), riprendendo alcune proposizioni di Lazare Carnot, sviluppate nel Saggio sulle macchine in generale (Parigi, 1763) e nei Principi fondamentali dell’equilibrio e del moto (Parigi, 1803) e dopo aver sostenuto che le forze sono una specie di intermediari occulti e metafisici che non intervengono né tra i dati né tra i risultati di un qualunque problema meccanico, definì la massa e la forza a partire dai concetti (da Saint-Venant ritenuti fondamentali e primitivi) di movimento, velocità ed accelerazione. Così egli scriveva: (662 ter)

Masse – La massa di un corpo è il rapporto tra due numeri che esprimono quante volte questo corpo ed un altro     corpo, scelto arbitrariamente e che rimane costantemente lo stesso, contengono parti che, separate e sottoposte due a due ad urti l’una contro l’altra, si comunicano, mediante l’urto, velocità opposte uguali.

  Forze – La forza o l’attrazione positiva o negativa di un corpo su di un altro è un segmento che ha come grandezza il prodotto della massa di quest’ultimo [corpo] per l’accelerazione media dei suoi punti verso quelli del primo e come direzione quella di questa accelerazione.

 Quello che va sottolineato è che Saint-Venant, per primo ha una chiara coscienza del fatto che le definizioni di massa e forza sono strettamente legate tra loro e che, secondo Saint-Venant, è impossibile dare una definizione di forza se prima non si è definita con chiarezza ed univocamente la massa. E la definizione di massa che viene fornita, come si può vedere, è intanto indipendente da quell’equivoco che sempre l’aveva accompagnata: che c’entra la massa con la quantità di materia ? Qui la quantità di materia sparisce. Inoltre questa definizione di massa discende dalla conservazione della quantità di moto e, come vedremo, sarà una delle basi dell’elaborazione di Mach. Anche se Saint-Venant non portò a compimento il suo programma, il suo lavoro si concluse con l’auspicio che presto le qualità occulte come la forza spariscano dalla fisica per essere sostituite solo da velocità e sue variazioni.

        Per parte sua e negli stessi anni, il fisico francese P. Reech (l805 -1874), nel suo Corso di Meccanica secondo la natura generalmente flessibile ed elastica dei corpi (Parigi, 1852), tentava, sulla traccia di Euler che tentò di fondare una dinamica sul concetto di forza anche se poi quest’ultima era definita solo staticamente, di dare la forza come concetto primitivo e cioè non come causa di movimento, ma

effetto di una causa qualunque, chiamata pressione o trazione e che noi apprezziamo con estrema chiarezza in un filo teso, supposto privo della sua qualità materiale o massa.”  (663)

Come si può osservare da questo breve passo, anche per Reech la sola possibile definizione di forza è di natura statica: l’allungamento di un filo o di una molla. Il confronto degli allungamenti può permettere il confronto tra forze. Si tratta di una prima definizione operativa che si scontra però con la sua estensione al caso dinamico. E non a caso Reech definiva come entità misteriose proprio quelle forze di tipo dinamico come le gravitazionali o le elettriche e magnetiche.

        Sulla strada invece di eliminare dalla meccanica il concetto di forza si muoveva anche il fisico tedesco G.B. Kirchhoff. Nelle sue Lezioni di matematica, fisica e meccanica (Lipsia, 1874-1876), egli tentò di costruire una dinamica in cui i concetti di forza e massa fossero derivati dai concetti primitivi ed intuitivi di spazio, tempo e materia. (664)  Secondo Kirchhoff, la meccanica deve limitarsi a descrivere i movimenti disinteressandosi delle loro cause. Considerando la massa (concetto primitivo) come un coefficiente costante di una data particella, la forza risulta definita come il prodotto della massa per l’accelerazione. E poiché in meccanica  non abbiamo mai a che fare con una forza, ma sempre con sistemi di forze che hanno come effetto il moto, noi, dallo studio di questo moto, non possiamo risalire al sistema di forze, ma solo alla loro risultante. Per questo la definizione di forza non può che essere incompleta.

        Su questi argomenti intervenne anche il fisiologo tedesco E. Du Boys-Reymond (1818-1896). (665)  In due opuscoli, I confini della conoscenza della natura (Lipsia, 1872) ed I sette enigmi del mondo (Berlino, l880),  riprendendo alcune posizioni del filosofo positivista britannico H. Spencer  (1820-1903),  (667)  egli sostenne che i metodi della Meccanica, arrivata al suo culmine con Laplace, ci rendono impossibile andare ad una conoscenza completa della natura. In particolare quella Meccanica, che Du Boys-Reymond considera come cosa distinta dal meccanicismo, non è in grado di darci informazioni sulla natura della materia e della forza. Inoltre, nell’ipotesi di un mondo corpuscolare regolato dagli urti delle particelle, ci è impossibile riuscire a cogliere l’inizio del moto. E poi, come è possibile render conto di forze agenti a distanza nel vuoto ? Esse sono addirittura inconcepibili. Scriveva Du Boys-Reymond: (668)

E’ facile scoprire l’origine di queste contraddizioni. Esse sono radicate nell’impossibilità, per noi, di rappresentarci qualcosa che non sia sperimentato con i nostri sensi o con il senso interno.”

Ecco quindi che inizia a porsi, da parte di scienziati, il problema del nostro rapporto con la natura ed in particolare di come esso sia condizionato dai nostri sensi.  

        Anche Hertz, come già accennato, tentò,sulle orme di Kirchhoff, di costruire una meccanica che prescindesse dal concetto di forza. La critica qui va più a fondo perché, pur non negandoli completamente, coinvolge l’uso dei modelli meccanici nella spiegazione fisica. E’ un complesso tentativo di assiomatizzazione quello che condusse Hertz nei suoi Principi della Meccanica  (Lipsia, 1894). A proposito del concetto di forza, scriveva Hertz: (669)

 ” Non si può negare che in moltissimi casi le forze che si usano nella meccanica per trattare problemi fisici sono soltanto dei partner sonnecchianti, che sono ben lungi dall’ intervenire quando devono essere rappresentati i fatti reali.”

Certo che il concetto di forza è stato utile nel passato, ma ora, riguardo all’introduzione di relazioni non strettamente necessarie

tutto ciò che possiamo chiedere è che queste relazioni dovrebbero, finché è possibile, essere limitate, e che una saggia discrezione dovrebbe essere osservata nel loro uso. Ma è stata la fisica sempre parca nell’uso di tali relazioni ? Non è stata essa costretta piuttosto a riempire il mondo all’eccesso con forze dei più vari tipi – con forze che non sono mai apparse nei fenomeni, o anche con forze che sono entrate in azione solo in casi eccezionali ?”  (669)

L’esempio che viene portato è quello di un pezzo di ferro su di un tavolo. Esso è immobile. Quale fisico riuscirebbe a convincere il prossimo che quello stato di riposo è dovuto ad una infinità di forze che si fanno equilibrio ? Hertz può cosi continuare:  (669)

E’ dubbio  se  le  complicazioni  possano  essere  evitate  del  tutto;  ma  non  vi è dubbio che un sistema di meccanica che le evita o le esclude è più semplice, ed in questo senso più adeguato, di quello qui considerato; quest’ultimo infatti non solo consente tali concezioni, ma addirittura ce le impone con la forza.”

Come la forza anche l’energia potenziale pone dei problemi. Se infatti noi ci proponiamo che

nelle  ipotesi dei problemi entrino soltanto caratteristiche che sono  accessibili direttamente all’esperienza … , senza assumere una considerazione preventiva della meccanica, dobbiamo specificare con quali semplici, dirette esperienze proponiamo di definire la presenza di una quantità di energia, e la determinazione del suo ammontare.”  (669) 

 Ora, ciò vuol dire che l’energia deve essere intesa come una qualche sostanza e  

“l’ammontare di una sostanza è  di necessità una quantità positiva;  ma  noi non esitiamo mai ad assumere che l’energia potenziale contenuta in un sistema sia negativa.”  (670)

 Per Hertz, in definitiva, tutte queste incongruenze portano alla necessità di sviluppare la meccanica “in una forma logicamente ineccepibile”, basandola sui tre concetti fondamentali di tempo, massa e spazio. (671)  Ma, attenzione, noi non possiamo che avere un’immagine parziale dei fenomeni; noi introduciamo, secondo Hertz, forze ed energie per rendere conto di un qualcosa che, nascosto ai nostri sensi, opera sui fenomeni stessi. Ma poi, quando dobbiamo descrivere quel qualcosa, è conveniente ricorrere proprio a ciò che cade sotto i nostri sensi e cioè movimenti e masse. Ebbene, ciò lo facciamo per un principio di comodità; diamo dei nomi, ai quali non corrisponde alcuna realtà fisica, a ciò che in realtà non conosciamo, a ciò che ci è nascosto. La nostra meccanica può essere costruita considerando movimenti e masse nascoste, anziché forze ed energie non necessarie, oltre, naturalmente, ai movimenti ed alle masse evidenti.  (672)  Scriveva Hertz: (673)

Se  cerchiamo  di  comprendere  i  movimenti  dei  corpi  che  ci  circondano  e  di  riportarli a delle regole semplici e chiare, ma nel considerare solo ciò che ci cade direttamente sotto gli occhi, in generale le nostre ricerche si arenano … Se vogliamo ottenere un’immagine del mondo chiusa su se stessa, sottomessa a delle leggi, dobbiamo, dietro le cose che vediamo, ipotizzare altre cose invisibili e cercare, dietro la barriera dei nostri sensi, degli attori nascosti.

E la forza e l’energia possono proprio essere intese in questo senso, a patto di descriverle come masse e movimenti: (673)

Noi siamo liberi d’ammettere che ciò che è nascosto non è altro che movimento e massa, non differenti dalle masse e dai movimenti visibili ed aventi solamente non altre relazioni con noi che il nostro modo abituale di percepire … Ciò che siamo abituati a designare con i nomi di forza e di energia si riduce allora ad una azione di massa e di movimento; ma non è necessario che questa sia sempre l’azione di una massa o di un movimento percepibile da parte dei sensi materiali.

L’intera meccanica di Hertz è basata su di un principio fondamentale:

“Un sistema libero è in riposo e descrive in modo uniforme una traiettoria che e’ il cammino più breve [cioè quello che ha una curvatura minore e cioè una geodetica],”

Ora ogni sistema che ci offre la natura è un sistema libero. Ma vi sono anche dei sistemi che sembrano liberi sui quali, in realtà, agiscono delle masse nascoste e dei moti altrettanto nascosti. Più in generale si può dire che un sistema libero è un insieme di sistema nascosto e sistema visibile. E non ci si stupisca di masse o movimenti nascosti. L’etere, di grande attualità all’epoca di Hertz è proprio una massa nascosta. Inoltre, quando si parla di moti vibratori delle particelle costituenti la materia, stiamo in realtà parlando di movimenti nascosti.

        La forza in tutto ciò non compare come entità fisica; essa potrà tuttalpiù figurare come utile strumento matematico e ciò potrà accadere quando si ha la decomposizione di un sistema libero in due parti: bisognerà allora considerare l’azione di una delle parti sull’altra e viceversa.

        Da questo punto, per mezzo di un processo puramente induttivo è possibile ricavarsi l’intera meccanica.  

        In definitiva, un dato sistema che cade sotto i nostri sensi è sempre una parte di un sistema isolato di cui l’altra parte è nascosta. Tramite la teoria dei vincoli è possibile scrivere le equazioni del moto del nostro sistema osservabile. Ciò che in ultima analisi è poi richiesto è l’accordo con l’esperienza; in caso contrario, nell’impostazione del problema, non si è tenuto conto di altri movimenti ed altre masse nascoste. Le masse ed i moti nascosti, intesi come vincoli, sono un ottimo strumento teorico per elaborare l’intera meccanica.

            Abbiamo fin qui accennato ad alcuni tentativi e lavori che cercavano di rifondare la meccanica newtoniana su basi differenti. Ma il rappresentante più noto e più influente di questo movimento di pensiero fu senza dubbio il fisico-fisiologo-filosofo austriaco E. Mach (1838-1916) sul quale occorre soffermarsi un poco.  

           Il nostro, laureatosi in fisica a Vienna nel 1860, iniziò degli studi di fisiologia e nel 1863 pubblicò un primo lavoro, Compendio di fisica per medici, nel quale mostrò di essere un convinto meccanicista: tutte le scienze, come anche la fisiologia, non sono altro che meccanica applicata. Ma fu proprio la fisiologia che poco a poco scosse dalle fondamenta la sua fede meccanicista. La questione, così come si poneva all’inizio, era: come nella fisiologia molte difficoltà sorgono perché si vuole spiegare tutto con la fisica,  allo stesso modo, nella fisica le difficoltà nascono perché si vuole spiegare tutto con la meccanica.

           Mach diede primo corpo alle sue idee nella sua opera principale, La Meccanica nel suo sviluppo storico critico, che vide la luce, in prima edizione, nel 1883.  (674)  In questo lavoro Mach ricostruiva la storia della Meccanica a partire dalle origini. La sua non era una semplice storia ma, come annuncia il titolo dell’opera, una vera e propria critica dei fondamenti della meccanica, al modo in cui sono stati formulati e si sono affermati. L’interesse principale dell’opera di Mach è che questa critica della meccanica si afferma dall’interno del mondo della fisica e la tesi di fondo su cui il lavoro è imperniato è che, nel passato, la meccanica ha svolto un ruolo fondamentale, mentre ora risulta un freno che tende a limitare la grande mole dei diversi fatti empirici.  

           Senza voler entrare in un’analisi che abbia una qualche pretesa di completezza, veniamo a quanto sostenuto da Mach nella sua Meccanica in relazione ad alcuni concetti fondamentali della meccanica: massa, principio di azione e reazione, spazio, tempo e movimento.

           Cominciamo dalla massa e dal principio di azione e reazione. Scriveva Mach:  (675)

Per quanto riguarda il concetto di massa, osserviamo che la formulazione data da Newton è infelice. Egli dice che la massa è la quantità di materia di un corpo misurata dal prodotto del suo volume per la densità. Il circolo vizioso è evidente. La densità infatti non può essere definita se non come la massa dell’unità di volume.”

Non si può evidentemente definire una grandezza mediante un’altra grandezza non definita e cosi la massa risulta priva di una definizione. Questa difficoltà ne comporta delle altre particolarmente in connessione al principio di azione e reazione. Infatti, come scriveva Mach,  (676)

Poiché Newton ha definito come misura della forza la quantità di moto acquisita nell’unità di tempo (massa per accelerazione), ne segue che corpi agenti l’uno sull’altro si comunicano in tempi uguali quantità di moto uguali ed opposte, ossia si comunicano velocità opposte inversamente proporzionali alle loro masse.”

Se mettiamo ora in relazione quanto qui detto con ciò che Mach aveva osservato a proposito del concetto di massa arriviamo, con Mach, ad affermare: (677)

L’oscurità del concetto di massa si fa evidente quando si applica in dinamica il principio di azione e reazione. Pressione e contropressione possono essere uguali, ma come sappiamo che pressioni uguali producono velocità inversamente proporzionali alle masse ? … [Infatti] i due distinti enunciati con cui Newton ha formulato il concetto di massa ed il principio di reazione dipendono l’uno dall’altro, cioè l’uno suppone l’altro.”

A questo punto Mach passava a formulare il concetto di massa ed il principio di azione e reazione in un modo che rappresentasse un superamento delle difficoltà accennate:  (678)

Dato  che  esperienze  meccaniche  ci  informano  dell’esistenza  nei  corpi  di  una particolare caratteristica che determina l’accelerazione, niente impedisce di formulare in via ipotetica la seguente definizione: Diciamo corpi di massa uguale quelli che, agendo l’uno sull’altro,  si comunicano accelerazioni uguali ed opposte. Con ciò non facciamo altro che designare una relazione fattuale … Se scegliamo il corpo A come unità di misura, attribuiremo la massa m a quel corpo che imprime ad A un’accelerazione pari a m volte l’accelerazione che esso riceve da A. Il rapporto delle masse è il rapporto inverso delle accelerazioni preso con segno negativo … Il nostro concetto di massa non deriva da alcuna teoria. Esso contiene soltanto la precisa determinazione, designazione e definizione di un fatto. La quantità di materia è del tutto inutile.”

Definita così la massa, cosa resta del principio di azione e reazione ?

II  concetto  di  massa  che  noi   proponiamo  rende   inutile  una  formulazione  distinta del principio di azione e reazione. Nel concetto di massa e nel principio di azione e reazione … viene enunciato due volte lo stesso fatto; cosa evidentemente superflua. Nella nostra definizione, dicendo che due masse 1 e 2 agiscono l’una sull’altra, si è già detto che esse si comunicano accelerazioni opposte che stanno tra loro nel rapporto 2:1.”  (679)

A proposito quindi della massa, la cui definizione – secondo Mach – sottende quella del principio di azione e reazione, il nostro autore poteva così concludere:  (680)

Resi attenti dall’esperienza, abbiamo scoperto che esiste nei corpi una particolare caratteristica determinante accelerazione. Con il riconoscimento e la designazione non equivoca di questo fatto, la nostra opera è compiuta. Non andiamo oltre questa designazione, perché qualsiasi aggiunta causerebbe solo oscurità. Ogni incertezza scompare quando si sia capito che nel concetto di massa non è contenuta una teoria, ma una esperienza.”

Prima di andare oltre nella ricostruzione della critica di Mach, sono importanti alcune osservazioni. Innanzitutto (680 bis) è da negare l’ultima affermazione di Mach? all’interno della definizione di massa che egli ci fornisce (rapporto delle masse come rapporto inverso delle accelerazioni, cambiato di segno) c’è una teoria e, pare incredibile, proprio la seconda legge di Newton (oltre alla prima legge della dinamica). Nessuno ci autorizza infatti a sostenere,  basandoci sulla sola osservazione, che due componenti di un dato sistema si muovano sotto la sola influenza delle loro azioni mutue. Affermare ciò prevede l’applicazione della teoria di Newton nel caso di un sistema isolato. Inoltre quella stessa definizione di massa è almeno soggetta ad un’altra critica, si badi bene, all’interno degli stessi ragionamenti svolti da Mach. Come vedremo più oltre una delle polemiche più accese di Mach sarà contro lo spazio assoluto di Newton e conseguentemente contro il moto assoluto. Ebbene, Mach non si preoccupa di estendere la validità della sua definizione né di verificarla in un riferimento diverso, sia esso dotato di moto rettilineo uniforme sia di moto accelerato. E poi, che definizione è la sua ? Non è piuttosto un metodo di misura ? Ed ancora che fine fa il principio di azione e reazione nella statica, dove non compaiono accelerazioni ? In definitiva, con Bunge, si può sostenere che qui Mach fa molta confusione: per rincorrere il fantasma dell’esperimento confonde una uguaglianza (rapporto tra masse = – rapporto inverso tra accelerazioni) con una identità ed assegna quindi lo stesso significato al primo ed al secondo membro, utilizzando il tutto come definizione (c’è una uguaglianza numerica non logica: inoltre il voler considerare la seconda legge come una mera convenzione è di nuovo errato perché, se tale fosse, sarebbe sempre vera ed invece, sperimentalmente, non lo è; infine la definizione stessa in senso stretto ha un limite di validità molto limitato come Bunge mostra nel suo lavoro. (680 bis)

        Ma veniamo ora alla critica di Mach ai concetti di spazio, tempo e movimento.

        Dopo aver ricordato i brani in cui Newton definiva queste grandezze all’interno dei suoi Principia, (681) Mach commentava: (682)

Leggendo questi passi si ha l’impressione che Newton sia ancora sotto l’influenza della filosofia medioevale, e non abbia mantenuto il proposito di attenersi al fattuale. Dire che una cosa A muta con il tempo significa semplicemente dire che gli stati di una cosa A dipendono dagli stati di un’altra cosa B. Le oscillazioni di un pendolo avvengono nel tempo, in quanto la sua escursione dipende dalla posizione della Terra. Dato però che non è necessario prendere in considerazione questa dipendenza, e possiamo riferire il pendolo a qualsiasi altra cosa (i cui stati naturalmente dipendono dalla posizione della Terra), si crea l’impressione errata che tutte queste cose siano inessenziali. Sì, nell’osservazione del moto pendolare possiamo astrarre da tutti i corpi esterni e scoprire che a ciascuna posizione del pendolo corrispondono nostre sensazioni e pensieri diversi. Il tempo ci appare allora come qualcosa a sé stante, dallo scorrere del quale dipende la posizione del pendolo, mentre i corpi che prima avevamo liberamente preso per riferimento sembrano perdere ogni importanza. Ma non dobbiamo dimenticare che tutte le cose sono in dipendenza reciproca e che noi stessi, con i nostri pensieri, siamo solo una parte della natura. Non siamo in grado di misurare i mutamenti delle cose rapportandoli al tempo. Al contrario il tempo è una astrazione, alla quale arriviamo proprio attraverso la constatazione del mutamento, grazie al fatto che per la dipendenza reciproca delle cose non siamo costretti a servirci di una determinata misura.

Con questa critica del tempo com’è allora possibile definire il moto ed, in particolare, quello uniforme (spazi uguali in tempi uguali) ? Scriverà Mach:  (683)

Chiamiamo uniforme quel moto nel quale incrementi uguali di spazio corrispondono ad incrementi uguali di spazio in un moto di riferimento (la rotazione della Terra). Un moto può essere uniforme solo in rapporto ad un altro. Il problema se un moto sia uniforme in sé è privo di significato.”

Ritornando al tempo, dopo questa definizione di moto uniforme, Mach poteva affermare:  (684)

Allo stesso modo non si può parlare di tempo assoluto (indipendente  da ogni mutamento). Infatti questo tempo assoluto non può essere commisurato ad alcun moto, e perciò non ha valore né pratico, né scientifico. Nessuno può pretendere di sapere alcunché al riguardo di esso. E’ dunque un inutile concetto metafisico  (685) … Ogni oscurità metafisica svanisce quando ci rendiamo conto che la scienza si propone solo di scoprire la mutua dipendenza dei fenomeni.”  

Quanto qui sostenuto rappresenta la completa relativizzazione di ogni processo naturale ed è a questo punto che Mach si sofferma un istante a considerare il ruolo della storia delle scienze, che egli considera importante e scientifico nello stesso momento in cui la storia serve a liberare la scienza stessa dai pregiudizi e dalle ipostatizzazioni. (686)

        Quindi Mach passa a sottoporre a critica i concetti di spazio e moto assoluti riprendendo, tra l’altro, l’esperimento e l’interpretazione che lo stesso Newton dà della secchia ruotante. Dopo aver ricordato i brani in cui Newton, sempre nei Principia, definisce i concetti in esame e descrive l’esperimento della secchia,  (687)  Mach passava a ribadire le sue concezioni sulla relatività di tutti i fenomeni fisici e quindi ad esporre la sua critica: (688)

Se in un sistema di corpi distribuiti nello spazio si trovano masse che si muovono con velocità diverse ed in condizione di poter entrare in rapporto reciproco, allora si verificano delle forze. Quanto grandi siano queste forze, può essere stabilito se si conoscono le velocità, alle quali ogni massa può essere portata. Anche le masse in quiete sono forze, se non tutte le masse sono in quiete … Tutte le masse, tutte le velocità, quindi tutte le forze sono relative. Non esiste differenza tra relativo ed assoluto, che noi riusciamo a cogliere con i sensi. D’altra parte non c’è ragione che ci costringa ad ammettere questa differenza, dato che l’ammissione non ci porta vantaggio né teorico né di altro ordine. Gli autori moderni che si lasciano convincere dall’argomento newtoniano del vaso d’acqua a distinguere tra moto assoluto e moto relativo, non si rendono conto che … la teoria tolemaica e quella copernicana sono soltanto interpretazioni, ed entrambe ugualmente valide. Si cerchi di tener fermo il vaso newtoniano, di far ruotare il cielo delle stelle e di verificare l’assenza delle forze centrifughe.”                                                       

E’ importante a questo punto andarsi a rileggere l’argomento di Newton nel paragrafo 1 del capitolo 1 di questo lavoro, in modo da poter seguire meglio le critiche di Mach:  (689)

Consideriamo i fatti sui quali Newton ha creduto di fondare solidamente la distinzione tra moto assoluto e moto relativo. Se la Terra si muove con moto rotatorio assoluto attorno al suo asse, forze centrifughe si manifestano su di essa, il globo terrestre si appiattisce, il piano del pendolo di Foucault ruota ecc. Tutti questi fenomeni scompaiono, se la Terra è in quiete, e i corpi celesti si muovono intorno ad essa di moto assoluto, in modo che si verifichi ugualmente una rotazione relativa. Rispondo che le cose stanno così solo se si accetta fin dall’inizio l’idea di uno spazio assoluto. Se invece si resta sul terreno dei fatti, non si conosce altro che spazi e moti relativi … Non possiamo dire come sarebbero le cose se la Terra non girasse … I principi fondamentali della meccanica possono essere formulati in modo che anche per i moti rotatori relativi risultino presenti forze centrifughe. L’esperimento newtoniano del vaso pieno d’acqua sottoposto a moto rotatorio c’insegna solo che la rotazione relativa dell’acqua rispetto alle pareti del vaso non produce forze centrifughe percettibili, ma che tali forze sono prodotte dal moto rotatorio relativo alla massa della Terra e agli altri corpi celesti. Non ci insegna nulla di più. Nessuno può dire quale sarebbe l’esito dell’esperimento in senso qualitativo e quantitativo, se le pareti del vaso divenissero sempre più massicce, fino ad uno spessore di qualche miglio. Davanti a noi sta quell’unico fatto.

Anche ora quindi si ha a che fare solo con moti relativi; è la stessa cosa pensare la Terra in quiete e le stelle fisse in rotazione, oppure la Terra in rotazione intorno al proprio asse e le stelle fisse in quiete. Nel primo caso però non v’è più appiattimento della Terra ai poli ed il pendolo di Foucault non oscilla più allo stesso modo. La difficoltà nasce da corme è stata definita la legge d’inerzia che va formulata in altro modo. Come si può vedere la tesi di fondo è molto simile a quella di Berkeley, anche se Mach, con il suo richiamarsi alle stesse fisse, non cade nell’agnosticismo del filosofo statunitense. (690)  Per Mach l’esperimento di Newton ha il solo difetto di essere incompleto; manca la parte che vede il secchio fisso e le stelle fisse messe in rotazione. Il nostro ritiene che Newton non avesse bisogno di introdurre lo spazio assoluto che poi dopo non usa nella sua meccanica. Inoltre, con Berkeley, nel ragionamento di Newton occorre introdurre prima uno spazio assoluto per poi riferire il moto di rotazione ad esso. Qui in realtà Mach non coglie la necessità che aveva Newton di quello spazio che, di fatto, entra nella sua meccanica; il problema era quello di distinguere le forze vere da quelle apparenti e Newton credeva di poterlo fare attraverso la distinzione dei moti relativi da quelli assoluti. Per Mach è conseguentemente inutile introdurre fantasticherie quando è possibile rifarsi ai soli fenomeni. Ed è inoltre inutile, o meglio antieconomico, introdurre strane entità. Per rendere conto dei fenomeni basta osservare che: (691)

“Le leggi newtoniane sui moti dei pianeti restano conformi alla legge d’inerzia anche se questi moti sono riferiti al cielo delle stelle fisse … Constatiamo ancora una volta che il riferimento ad uno spazio assoluto non è per nulla necessario.”

Come dicevamo, è il principio d’inerzia che va riformulato: un dato corpo K, in quiete o in moto, lo sarà ora non rispetto ad un illusorio spazio assoluto, ma rispetto ai corpi costituenti l’universo e cioè le stelle fisse. Inoltre la stessa inerzia del nostro corpo esiste solo in virtù del fatto che vi è altra materia nell’universo. (692)

        Il riferire i moti alle stelle fisse era già presente in Newton ma egli preferì non affidare la sua meccanica ad un qualcosa che poteva avere il carattere del provvisorio: (693)   per questo introdusse lo spazio assoluto. Ma Mach osservava che bisogna rifarsi al fattuale e per ora di spazio assoluto non vi è necessità, mentre disponiamo delle stelle fisse. Con l’avvertenza che:  (694)

fino a che punto l’ipotesi delle stelle fisse possa valere anche in futuro, resta naturalmente da stabilire.”

Insomma la meccanica è nata in un determinato contesto in cui sarebbe stato possibile, secondo Mach, utilizzare criteri antieconomici. Oggi è necessario prendere atto che molte delle affermazioni del passato debbono essere riviste. Gli stessi fondamenti della meccanica, nella visione di Poincaré accettata da Mach, non sono altro che delle “convenzioni che avrebbero potuto essere diverse.

         Del resto, secondo Mach,

Tutta la scienza ha lo scopo di sostituire, ossia di economizzare esperienze mediante la riproduzione e l’anticipazione di fatti nel pensiero. Queste riproduzioni sono più maneggevoli dell’esperienza diretta e sotto certi rispetti la sostituiscono. Non occorrono riflessioni molto profonde per rendersi conto che la funzione economica della scienza coincide con la sua stessa essenza … Non riproduciamo mai i fatti nella loro completezza, ma solo in quei loro aspetti che sono importanti per noi, in vista di uno scopo nato direttamente o indirettamente da un interesse pratico.” (695)

Ma allora, si potrebbe obiettare, come mai, proprio nelle parole dello stesso Mach, una volta la scienza poteva essere antieconomica ? Una possibile risposta sembra adombrare  quanto viene più o meno decisamente negato da molti fisici ed epistemologi del nostro tempo (e non solo): La scienza è determinata dal modo di produzione e, nell’epoca di Mach, in connessione con un enorme sviluppo economico (l’età dell’imperialismo), alla scienza si richiede proprio economicità, efficienza.  (696) Questo concetto è ben espresso dallo stesso Mach nelle ultime pagine della sua Meccanica: (697)

La divisione del lavoro, la specializzazione di un ricercatore in un piccolo dominio, l’esplorazione di questo dominio perseguita come compito di tutta una vita sono condizioni necessarie per un fruttuoso progresso scientifico.” (698)

Ritornando alla concezioni di Mach sulla meccanica ed in particolare ai rapporti di essa con la fisica, il nostro arriva alla conclusione che, in questo contesto di economicità della scienza, occorre smetterla di voler interpretare tutto con la meccanica:

Non esistono fenomeni puramente meccanici. Quando delle masse si comunicano accelerazioni reciproche, in apparenza vi è solo un fenomeno di moto, ma in realtà a questo moto sono legate variazioni termiche, magnetiche ed elettriche che, nella misura in cui si producono, modificano quel fenomeno … Volendo parlare con precisione, ogni fenomeno appartiene a tutti i domini della fisica, che sono distinti l’uno dall’altro per ragioni convenzionali, per ragioni fisiologiche o anche per ragioni storiche.

La concezione secondo cui la meccanica è il fondamento di tutte le altre parti della fisica, e perciò tutti i fenomeni fisici devono essere spiegati meccanicamente, è per noi un pregiudizio. La conoscenza più antica in ordine di tempo non deve necessariamente restare il fondamento dell’intelligibilità di ciò che è scoperto più tardi … Dobbiamo limitarci all’espressione del fattuale senza costruire ipotesi su ciò che sta al di là di questo, e non può essere conosciuto e verificato …

Le ipotesi meccaniciste non costituiscono un effettivo risparmio di concetti scientifici … Quando un’ipotesi ha facilitato per quanto è possibile, l’acquisizione di fatti nuovi sostituendo ad essi idee già familiari, ha esaurito la sua funzione. E’ un errore credere che le ipotesi possano spiegare i fatti meglio di quanto facciano i fatti stessi.”  (699)

         La serrata, puntuale e, molto spesso, profonda critica di Mach alla meccanica ebbe certamente molta influenza sul suo tempo. In particolare le critiche allo spazio, al tempo ed al moto, direttamente od indirettamente, andavano prefigurando i profondi rivolgimenti.che avrebbero scosso la fisica in quegli anni, soprattutto con la nascita e l’affermazione della relatività einsteniana.

         Ma vi sono altri aspetti dell’opera di Mach che non possono essere sottaciuti, anche se non potremo occuparci di essi con lo spazio che richiederebbero.

         Innanzitutto, secondo Mach, la nostra conoscenza del mondo è basata  sulle sensazioni che ci provengono dall’esperienza: alla logica del nostro pensiero sta l’ordinare queste sensazioni in una scienza. Solo con le sensazioni possiamo rapportarci alla realtà, che ci circonda; è con l’esperienza che nasce la conoscenza in quanto l’esperienza ci fornisce le sensazioni da ordinare. I fenomeni sono quindi un insieme di interrelazioni tra l’osservatore e le cose osservate; in qualche modo è la soggettività dell’osservatore che determina il fenomeno (idealismo soggettivo). Anche se Mach più volte afferma che egli non vuole costruire un sistema filosofico, nei fatti, quanto abbiamo ora detto è la negazione dell’esistenza di ogni realtà al di fuori dell’esperienza, è la negazione dell’esistenza del mondo in sé di Kant: quando non possiamo rapportarci al mondo con l’esperienza, che ci fornisce le sensazioni, nulla possiamo dire sull’esistenza del mondo stesso. Questa corrente di pensiero rappresenta uno dei due filoni principali del più generale fenomenismo e va sotto il nome di empiriocriticismo; (700)  esso, per certi versi (economicità della scienza), si richiama al positivismo e, per altri (non esistenza di leggi generali, di fenomeni generali, ma solo di casi particolari), al nominalismo. Mach fu il fondatore ed il principale esponente dell’empiriocriticismo;  (701)  egli, come abbiamo visto, ebbe come obbiettivo principale della sua polemica il meccanicismo e, più in particolare, la sua metafisica materialistica. Ebbene, se da una parte ciò riscosse l’approvazione di molti scienziati e studiosi del suo tempo (e non solo),  (702)  dall’altra il tentativo di assimilare meccanicismo con materialismo e di spostare quindi la polemica contro il. materialismo, trovò diversi e qualificatissimi oppositori tra i quali, Boltzmann, Planck e lo stesso Lenin.  

        C’è un punto da distaccare in quel che abbiamo fin qui detto. La negazione di ogni realtà al di fuori dell’ esperienza porterà Mach a schierarsi su una posizione decisamente antiatomistica. Alla domanda “cos’è un atomo ?”, egli era solito rispondere con “mai visto uno”. Ma, al di là di questo aneddoto, la polemica di Mach era incentrata sul fatto che alcuni atomisti non usavano gli atomi come semplici ipotesi ma assegnavano ad essi una realtà fisica; realtà che, in accordo con le premesse di Mach, doveva essere rifiutata in quanto gli atomi non cadono sotto i nostri sensi. Allo stesso modo, l’assegnare agli elettroni della teoria di Lorentz una realtà era tenacemente combattuto da Mach.  (704)

        Ma la polemica di Mach doveva riguardare ogni aspetto che avesse riguardato il meccanicismo e così anche la causalità, intesa come un tipico strumento di quel meccanicismo che si attaccava su tutti i fronti, divenne soggetto di una dura critica da parte di Mach. (705) Così scriveva Mach: (706)

Quando parliamo di causa e di effetto, noi mettiamo arbitrariamente in evidenza quegli aspetti, sul cui rapporto poniamo attenzione in vista di un risultato per noi importante. Ma nella natura non vi è né causa né effetto … Il carattere essenziale della connessione causa-effetto esiste solo nell’astrazione  che compiamo allo scopo di riprodurre i fatti (707)  … Si può dire che c’è una categoria dell’intelletto sotto la quale è sussunta ogni nuova esperienza, purché si riconosca che essa ha avuto origine dall’esperienza. L’idea della necessità del rapporto causa-effetto ha probabilmente la sua prima origine … dall’osservazione dei nostri movimenti volo ntari e dei mutamenti che provochiamo con essi nell’ambiente circostante … Causa ed effetto sono enti mentali aventi una funzione economica. Alla domanda perché essi esistano, è impossibile rispondere, per il fatto che proprio astraendo da ciò che e uniforme abbiamo imparato a chiedere perché.”

In definitiva, per Mach, la causa indica la necessità di un dato effetto; ma noi non ci imbattiamo mai nelle necessità; esse non ci sono mai offerte dalla natura, esulando dalla nostra esperienza. Secondo Mach, il concetto matematico di funzione  può utilmente  sostituire  l’inesistente  dipendenza causa-effetto.  (708)     

        Concludendo su Mach occorre ricordare che, nonostante il complesso delle sue posizioni, che abbiamo fin qui cercato di riassumere, egli non rinuncia alla possibilità di una visione unificata delle scienze. E, nella sua visione, è la termodinamica, soprattutto là dove introduce il concetto di irreversibilità, estraneo alla meccanica, che può proporsi come possibile fisica unificatrice di tutte le scienze. Ed in questo Mach converge con la tesi di fondo dell’energetica, altro filone del fenomenismo, del quale andiamo ora ad occuparci.

NOTE

(662 bis) Ed oltre al fatto che qui deve essere ricordato: i metodi e gli strumenti della meccanica sono quelli che hanno permesso lo sviluppo della fisica fino a questi livelli.

(662 ter) Citato in bibl. 149, Vol I, pag. 42 2. Sulle concezioni di L. Carnot e di B. de Saint-Venant si può vedere bibl. 6, pagg. 227-230.

(663) Citato in bibl. 149, Vol.I, pag. 423. Il più noto rappresentante di questa scuola, detta scuola del filo, fu il fisico francese J. Andrade (1857–1933) che espose la sua meccanica nelle Lezioni di Meccanica fisica (Parigi, 1898). Anche Jean Perrin, nel suo Traité de chimie physique (1945), aderì alla scuola del filo.

(664) Si veda, allo scopo, bibl.149, pagg.426-428. Si veda anche bibl.6, pagg.235-237. 

(665) Si veda la nota 355 al paragrafo 7 del capitolo III.

(666) Ambedue riportati in bibl. 99. Gli opuscoli sono le trascrizioni di due conferenze.

(667) Soprattutto per quel che riguarda il carattere relativo delle nostre conoscenze.  

(668) Bibl. 99, pag. 27.

(669) Bibl. 56, pag. 278 e segg. Si veda anche bibl. 6, pagg. 237-242.

(670) Ibidem. Si noti che in queste argomentazioni di Hertz vi è polemica nei riguardi della scuola degli energetisti che, all’epoca, si andava diffondendo, come più avanti vedremo.

(671) E mediante l’utilizzazione del principio del minimo sforzo elaborato da Gauss e della teoria dei vincoli nel senso di Lagrange.

(672) L’energia potenziale non è altro che l’energia delle masse nascoste.

(673) Citato in bibl. 149, pag. 432.

(674) L’opera ebbe varie edizioni aggiornate da Mach: dalla 2ª del 1888 alla 7ª, l’ultima curata da Mach, del 1912. L’edizione alla quale farò riferimento è la ristampa della 9ª edizione (l933), curata dal figlio di Mach (bibl. 97).

(675) Bibl. 97, pag. 215.

(676) Ibidem, pag. 220. Si noti che dalla relazione  m1v1 = – m2v2  discende  m1/m2 = – v2/v1 e cioè la proporzionalità inversa di masse e velocità.           

(677) Ibidem, pag. 221.

(678) Ibidem, pagg. 236-237.

(679) Ibidem, pag. 239.

(680) Ibidem, pagg. 239-240.

(680 bis) Alcune delle cose che qui sosterrò traggono ispirazione da un lavoro di M. Bunge, Il tentativo di Mach di ricostruire la meccanica classica, American Journal of Physics, 34; 1966; pagg. 585-596.

(681) Si riveda il paragrafo 1 del Cap. I. Si veda inoltre bibl. 3, pagg. 113-117.  

(682) Bibl. 97, pag. 241.

(683) Ibidem.

(684) Ibidem, pagg. 241-243.  Molte delle cose che Mach afferma sono certamente ispirate a Berkeley (cfr. paragrafo 3 del Capitolo I). Si noti inoltre che una completa relativizzazione del tempo e dello spazio era stata sostenuta anche da Maxwell nella sua maturità (si veda nota 268 al paragrafo 5. Cap. III).

(685) Aggiungeva Mach che “ quando diciamo che il tempo fluisce in una direzione determinata ciò significa semplicemente che i processi fisici (e per conseguenza anche quelli fisiologici) si svolgono in una direzione determinata.

(686) Qualche pagina più avanti (pagg.271-272) Mach sostiene: “La ricerca storica sullo svolgimento che una scienza ha avuto è indispensabile, se non si vuole che i principi che essa abbraccia degenerino a poco a poco in un sistema di prescrizioni capite solo a metà, o addirittura in un sistema di dogmi. L’indagine storica non soltanto fa comprendere meglio lo stato attuale della scienza, ma, mostrando come essa sia in parte convenzionale ed accidentale, apre la strada al nuovo. Da un punto di vista più elevato, al quale si arriva per cammini diversi, si può guardare con una visuale più ampia, e scoprire strade non ancora percorse.”  Per sua stessa ammissione Mach ignorava però la storia della filosofia; riguardo alla storia della meccanica non conosceva completamente il periodo medioevale; Truesdell ha poi mostrato che si serviva di fonti non attendibili (Bunge, in nota 680 bis).

(687) Si riveda il paragrafo 1 del Cap. I. Si veda poi bibl.3, pagg. 121-126.

(688) Bibl. 97, pagg. 245-246.

(689) Ibidem, pagg. 248-249.

(690) Mach respingerà ripetutamente l’accusa di berkeleysmo (si veda ad esempio in ibidem, pag. 493).

(691) Ibidem, pagg. 249-250.

(692) Ibidem. Secondo Mach, le forze inerziali che nascono in sistemi accelerati discendono da una interazione con le stelle fisse. Le forse centrifughe che nascono dentro una piattaforma in rapida rotazione sono dovute alle stelle fisse. Se nell’universo non vi fossero queste masse, spari rebbero le forze inerziali e lo stesso parlare di rotazione non avrebbe più alcun significato. L’insieme di questa formulazione di Mach del principio d’inerzia fu chiamato da Einstein Principio di Mach. Si osservi che a Mach è dovuto anche il riconoscimento che il principio d’inerzia e la 2ª legge della dinamica  “sono già contenute nella definizione della forza, secondo la quale senza forza non si ha accelerazione e quindi si ha quiete o moto rettilineo uniforme” (ibidem, pag 261).

(693) Come già detto, il fatto che le stelle fisse non sono fisse fu scoperto da  Halley nel 1718.

(694)  Ibidem, pag. 250.

(695) Ibidem, pagg. 470-471. Qualche riga più avanti Mach introduce un elemento che sarà poi la base delle sue concezioni e sul quale torneremo: “ Non le cose (i corpi), ma piuttosto i colori, i suoni, le pressioni, gli spazi, le durate (ciò che di solito chiamiamo sensazioni) sono i veri elementi del mondo.”                                                 

(696) Anche l’economista britannico Adam Smith (1723-1790) fondatore del liberismo economico, aveva sostenuto concetti simili a proposito dell’economia della scienza. La cosa e’ ricordata dallo stesso Mach in ibidem, pag. 481.

(697) Ibidem, pagg. 493-494.

(698) Le cose oggi funzionano proprio così. Rimane un interrogativo, per me retorico, chi tira le fila del tutto e a quali fini ? Poiché solo a pochi è concesso il privilegio di credere alle curiosità della scienza, ai più resta l’amarezza di vedere schiere di scienziati che lavorano per lo sfruttamento e per la guerra.

(699) Ibidem, pagg. 484-487.  

(700) L’altro filone del fenomenismo è quello dell’energetismo del quale ci occuperemo nelle pagine seguenti.

(701) Un altro nome che si associa all’empiriocriticismo è quello del fisiologo  e filosofo fenomenista tedesco R. Avenarius (1843-1896) il quale, partendo da presupposti diversi (tentativo di porre la filosofia come unificatrice ad un livello superiore di tutte le scienze e di fornire ad essa una base oggettiva analoga alla scienza), converge con alcune delle tesi di Mach. L’opera principale di Avenarius (bibl. 154) è Critica dell’esperienza pura (1889-1890).

(702) Si può citare ad esempio il fatto che i neopositivi viennesi intitoleranno a Mach il loro Circolo (1929). Alle idee di Mach si ispirerà anche la Scuola di Copenaghen (1926) alla quale faranno capo Bohr, Heisenberg, Jordan, Born e che vedrà come oppositori Planck, Einstein, De Broglie, Schrodinger. Infine anche il pragmatismo che si sviluppò negli Stati Uniti ad opera principalmente di H. James (1842-1910) si ispirerà alle vedute economicistiche di Mach.

(703) Di Boltzmann ci occuperemo più oltre, accenniamo ora alle polemiche di Planck (da una parte) e Lenin. (dall’altra) contro Mach e l’empiriocriticismo. Planck, in un suo scritto del 1908, L’unita’ dell’immagine fisica del mondo (bibl.l53, pagg.11-43), sostenne che se si dovessero accettare le idee di Mach, “ l’adattamento economico del nostro pensiero alle nostre sensazioni“, ne conseguirebbe che “ogni fisico coscienzioso dovrebbe aver cura di distinguere la propria immagine del mordo, come cosa concettualmente unica ed isolata, da quella di tutti gli altri, e se per caso due suoi colleghi eseguendo indipendentemente l’uno dall ‘altro lo stesso esperimento ritenessero di essere giunti a risultati opposti, come talvolta succede, commetterebbe un errore di principio se volesse concluderne che almeno uno dei due è in errore. Il contrasto potrebbe essere infatti dovuto alla differenza del loro modo di vedere il mondo. Io non credo che un vero fisico potrebbe mai cadere in cosi strani sofismi.” (ibidem, pag. 39).

Mach obietterà in un articolo del 1910, I pensieri direttivi della mia teoria della conoscenza scientifica e la loro accoglienza presso i contemporanei (Scientia, fasc.2; 1910; pag. 225 e segg.), che quanto sostenuto da Planck non intacca la sua teoria della conoscenza ed inoltre che lo stesso Planck non ha nemmeno la capacità di collaborare alla medesima teoria della conoscenza fisica.

Planck replicò con un nuovo articolo del 1910, Intorno alla teoria di Mach sulla conoscenza fisica (bibl. 117, pagg. 84-92), nel quale sostenne:

Ancora al tempo della mia permanenza in Kiel (1885-1889), mi annoveravo tra i partigiani risoluti della filosofia di Mach, che, come volentieri riconosco, ha esercitato una forte azione sul mio pensiero fisico. Ma più tardi mi sono allontanato da essa, perché ero giunto alla convinzione che la filosofia della natura di Mach non è in grado in alcuna maniera di mantenere la brillante promessa che gli ha guadagnato la maggior parte dei suoi seguaci: l’eliminazione di ogni elemento metafisico dalla teoria della conoscenza fisica.” (ibidem, pag.85). Come esempio Planck va a discutere il concetto stesso di economia della scienza. “ La scienza fisica, come ognuno riconosce, è nata dai bisogni pratici; dunque, conclude Mach, la conoscenza fisica è, in fondo, di natura economica“; ma Mach aggiunge che “l’economia di pensiero non è per questo limitata e legata nei suoi fini alla ricerca di bisogni economici pratici nuovi.” A questo osserva Planck: “Non è possibile, prima, rappresentare il principio dell’economia come un trionfo contro la metafisica con l’appello esplicito al suo significato pratico umano, e poi in seguito, quando la cosa così non va più, negare di nuovo esplicitamente l’aspetto pratico umano dell’economia” e aggiunge: « L’economia di pensiero nei suoi fini non è legata ai bisogni pratici umani ! Già, a quali altri bisogni allora ?” arrivando a rigettare su Mach l’accusa di fare della metafisica, “ oso affermare che il concetto di economia perde il suo primitivo significato e si trasforma senz’altro in uno metafisico” (tutte le citazioni provengono da ibidem, pag.86).

Più oltre poi Planck sostiene che nessun contributo alla fisica potrà venire dalle idee di Mach, andando infine a discutere alcune sue affermazioni in ambito fisico ritenute imprecise o addirittura errate.

In uno scritto più tardo, Positivismo e mondo esterno reale (1930), Planck, riferendosi alle teorie dei neopositivisti ma anche a queIle di Mach, sosterrà che per fondare una vera scienza è necessario servirsi delle esperienze di più ricercatori i quali dovranno comunicarsi i risultati. “Le esperienze sensibili altrui ci sono date infatti secondariamente attraverso informazioni. Qui si insinua dunque nella definizione della scienza un nuovo fattore; l’attendibilità e la sicurezza delle informazioni, e con ciò viene già ad essere logicamente rotta in un punto quella che è la base del positivismo, l’esigenza cioè che il materiale scientifico sia costituito da dati immediati” (bibl. 153, pag. 223).

      Per quel che riguarda Lenin, egli, nel 1909, darà alle stampe un volume tutto centrato sulla polemica con Mach e soprattutto con i suoi seguaci. Si tratta del noto Materialismo ed empiriocriticismo (bibl.156) sul quale non possiamo che dire due parole rimandando, ad esempio, a bibl. 78 e a bibl. 53, pagg. 170-192.

      Certamente, osserva, Lenin, il meccanicismo è pericoloso per il sostegno che esso fornisce al materialismo dogmatico, ma ancora più pericoloso è il fenomenismo che porta alla metafisica, al fideismo, all’irrazionalismo.

      Al materialismo meccanicistico e dogmatico ed al fenomenismo, Lenin contrappone il materialismo dialettico (là dove la sottolineatura, ad opera dello stesso Lenin, è solo sul dialettico), già definito da Engels (bibl. 103), che offre una visione del mondo estremamente articolata in una serie di nessi e processi. Lenin distingue scienza da ideologia (alla prima assegna la conoscenza del mondo ed alla seconda l’organizzazione di esso) ed afferma il carattere relativo di qualunque conoscenza. Per concludere si tenga conto che l’analisi critica di Lenin va vista strettamente legata al suo tempo.

(704) In proposito Planck osserverà (bibl.153, pag.40) “ Debbo esplicitamente dichiarare che ritengo ingiustificati ed insostenibili gli attacchi mossi da quella parte contro l’ipotesi atomica e la teoria degli elettroni. Anzi a queste obiezioni io oppongo la recisa affermazione … che gli atomi, anche se noi non sappiamo nulla sulla loro intima natura, sono reali né più né meno che i corpi celesti e gli oggetti terrestri che ci circondano. Quando io dico che l’atomo d’idrogeno pesa 1,6.10-24 g non ho maggiori probabilitàdi sbagliare che quando dico che la Luna pesa 7.1025 g. Certamente non posso mettere un atomo di idrogeno sulla bilancia e non lo posso vedere, ma non posso mettere su un piatto di bilancia nemmeno la Luna, e, quanto al vedere, è noto che ci sono dei corpi celesti invisibili la cui massa è stata misurata con discreta precisione: fu misurata perfino la massa di Nettuno, prima ancora che gli astronomi lo cogliessero nell’obiettivo dei loro telescopi.”

Si osservi che Boltzmann interverrà in termini addirittura accorati in difesa delle concezioni atomistiche (come vedremo più oltre). Ed ancora relativamente a Planck, c’è da osservare che egli, pur partito da posizioni critiche nei riguardi delle concezioni statistiche di Boltzmann, già nel 1896 diventerà un duro critico delle posizioni dell’energetismo (si veda più oltre) sostenendo che è arrivato “alla conclusione irrefutabile che la nuova energetica manca di una qualsiasi base dotata di serietà; che le sue semplici dimostrazioni, quelle stesse a cui i suoi sostenitori danno grande importanza, non sono che delle apparenze di dimostrazioni, che esse non affrontano i veri problemi e ancora di più non sanno contribuire a risolverli.” (Citato in bibl. 54, pag. 246).

(705) Oltre a quanto qui diremo si può vedere anche cosa sostiene Robert Musil nella sua tesi di dottorato (bibl. 151, pagg. 47-66).

(706) Bibl.97, pagg.472-473.

(707) Come lo stesso Mach ricorda, il primo a porre questa questione fu lo storico e filosofo britannico D. Hume (1711-1766).

(708) Osserviamo a parte che ulteriore conseguenza della non esistenza di una realtà al di là dell’esperienza, in connessione col fatto che ci rapportiamo al mondo con le nostre sensazioni, fa concludere a Mach che non esistono leggi scientifiche definitive; ed in questo contesto non ha alcun senso parlare, come fa Newton, di esperimenti cruciali.

(709) Altri aspetti dell’opera di Mach sono messi in evidenza da vari autori. In particolare:

P. Frank tratta del rapporto tra Einstein, Mach ed il positivismo logico (bibl. 168, pagg. 219-236).

T. Hirosige tratta delle influenze di Hume and Mach sul pensiero di Einstein (bibl. 124, pagg. 56-57).

G. Holton si occupa di Mach, Einstein e la ricerca della realtà (bibl. 127, pagg. 164-203).

K. R. Popper si occupa di Berkeley quale precursore di Mach ed Einstein (bibl. 14, Vol. I, pagg. 287-391).

G. Lenzi tratta, tra l’altro, di Mach fisico sperimentale e didattico (bibl. 157, pagg. 3-8).

Infine brani originale di Mach su argomenti diversi sono riportati in bibll. 54, 56, 85.

Di passaggio ricordo che Mach, pur rimanendo molto ben impressionato dal tentativo di Hertz di costruire una nuova meccanica, criticherà la cosa perché la riterrà troppo astratta (bibl. 97, pagg. 272-277). Analogamente Hertz avrà modo di criticare il fenomenismo di Mach.

     8 – LA POSIZIONE DI OSTWALD E DUHEM: L’ENERGETISMO. LA TERMODINAMICA ALLA BASE DI UNA NUOVA FISICA. LE POSIZIONI DI BOLTZMANN E POINCARE’.

        II primo che tentò di costruire una fisica fondata sulla termodinamica, sull’onda del successo del lavoro di Helmholtz Sulla conservazione della forza, fu il fisico britannico W.J.M. Rankine (1820-1872).  (710)  Nel suo Lineamenti di una scienza dell’energetica (1855), egli sostenne che il metodo più proficuo per conoscere la natura è quello che si affida ad astrazioni che sono in grado di essere formalizzate per condurci alla scoperta di principi generali. La termodinamica, nella quale l’energia gioca il ruolo più importante perché da essa dipendono i cambiamenti, è il migliore strumento che può servire alla conoscenza della natura. In definitiva, per Rankine, la scienza energetica è il sistema teorico più generale per la conoscenza del mondo naturale che ci circonda.

        La tesi di Rankine venne ripresa dal fisico tedesco G.  Helm  (1851-1923) il quale, nel suo Lezioni sull’energia (1877), sostenne, in accordo in questo con Mayer, che tutte le forme di energia sono equivalenti, togliendo in questo modo un qualche ruolo privilegiato all’energia meccanica. E poiché tutte le forme di energia sono equivalenti, la materia, che in meccanica è il veicolo di trasmissione dell’energia, perde il suo ruolo centrale (Helm aveva buon gioco a sostenere questa tesi soprattutto a partire dal 1886, dopo le prime esperienze di Hertz). In questo quadro esplicativo veniva, rifiutata l’idea di atomo e di corpuscolo e quindi di ogni descrizione modellistica. Per fare scienze,  occorre  osservare  i  fenomeni  cercando  delle  relazioni matematiche  tra  le  diverse osservazioni senza introdurre ipotesi; le stesse osservazioni, comunque, non hanno mai una validità assoluta. (711) Scriveva Helmt:  (712)

Per la fisica teorica generale non vi sono né atomi né energia, né nulla di simile, ma solo esperienze tratte immediatamente da gruppi di osservazioni. Perciò penso che il maggior pregio dell’energetica consista nella sua facoltà di adattarsi in modo immediato alle esperienze, molto più di quanto non potessero farlo le vecchie teorie.”  

        Dopo questi brevi cenni agli iniziatori, arriviamo al più noto rappresentante dell’energetica, il chimico-fisico tedesco W. Ostwald (1853-1932).  (713) Egli avanza delle idee addirittura più radicali di quelle di Helm: non solo l’energia è la base di tutti i fenomeni naturali, ma essa. è addirittura una sorta di nuova sostanza. (714)  In una sua opera, L’energia (1908), che ebbe una notevolissima influenza sugli scienziati del tempo, egli formula così le sue concezioni;

Si intende per energetica lo sviluppo dell’idea secondo la quale tutti i fenomeni della natura debbono essere concepiti e rappresentati come delle operazioni effettuate sulle diverse energie. La possibilità di una simile descrizione della natura, non poté essere immaginata che quando fu scoperta la proprietà generale che possiedono le diverse forme di energia di potersi trasformare le une nelle altre. Robert Mayer fu dunque il primo che poté prendere in considerazione questa possibilità.

Fino a lui tutti gli scienziati aderivano alla concezione meccanicista, cioè all’idea che i fenomeni naturali sono tutti, in ultima analisi, di natura meccanica, il che vuol dire che possono essere ricondotti a dei movimenti della materia. Là dove non si poteva dimostrare l’esistenza di questi movimenti, come nel caso del calore e dell’elettricità,  si ammetteva che essi si producessero negli atomi, cioè in particelle così piccole da sfuggire all’osservazione diretta …

L’ipotesi meccanicista ha due inconvenienti molto grandi; in primo luogo essa obbliga ad adottare un gran numero d’altre ipotesi indimostrabili, quindi essa è impotente a farci comprendere il legame che esiste incontestabilmente, dal momento che lo constatiamo giornalmente, tra i fenomeni fisici nel senso stretto del termine ed i fenomeni psicologici

Ora, sono le teorie meccaniche tali da poter essere applicate in un modo sufficientemente generale ? Ebbene no, non c’è dubbio che esse non lo sono. Bisogna in primo luogo far notare che tra i fenomeni a noi conosciuti non ce ne sono che pochi (la maggioranza dei fenomeni astronomici) che soddisfano alle leggi meccaniche … Noi spieghiamo questo fatto mediante l’attrito. Il problema che allora si pone è di far rientrare i fenomeni d’attrito nelle leggi meccaniche …

Un’altra strada fu seguita da R. Mayer. Essa consisteva nel considerare i fenomeni meccanici come semplici casi particolari delle generali trasformazioni dell’energia, che sottostanno tutte alla legge di conservazione.”

Se non si sceglie questa strada, com’è possibile, secondo Ostwald, dar conto dell’elettricità statica ? Dove stanno qui i movimenti ?

Questo problema è nato unicamente dall’ipotesi arbitraria che si abbia a che fare con un fenomeno meccanico, quando esso non lo è affatto. Esso è, con tutta la forza del termine, uno pseudoproblema, per usare un’espressione molto corretta di E. Mach …

Di fronte alla concezione meccanicista si erge quella di Mayer, che noi chiamiamo la concezione energetica poiché essa si fonda essenzialmente sulla nozione di energia … Non è possibile caratterizzare in modo migliore il metodo dell’energetica; essa estrae dai fenomeni le proprietà delle differenti specie di energia, e generalizza queste proprietà per mezzo dell’induzione …

Così si deve considerare Robert Mayer come il primo degli energetisti. Ai suoi occhi, l’energia è un oggetto reale, ed egli la colloca come tale, a lato della materia, dalla quale, per lui, si distingue per la sua imponderabilità …

Un tratto che contribuisce a fare di Mayer un vero energetista, un energetista con spirito moderno, è la sua avversione per le ipotesi.”

Con queste parole Ostwald traccia il nucleo centrale dell’energetica. Ma, come abbiamo visto per Mach, la polemica contro il meccanicismo non si ferma qui: essa tende a diventare dura polemica contro tutto il materialismo.  (716 bis)

        Nel 1895, al congresso dei medici e naturalisti che si tenne a Lubecca, Ostwald lesse una comunicazione dal titolo, molto significativo, Il superamento del materialismo scientifico. Tra le altre cose Ostwald disse:

La materia è un’invenzione, del resto abbastanza imperfetta, a cui facciamo ricorso per rappresentarci quanto vi è di permanente in tutto ciò che accade. La realtà effettiva, quella che opera su di noi, è l’energia, [inoltre] l’irreversibilità di fatto dei fenomeni effettivi della natura dimostra che vi sono processi i quali non sono descrivibili mediante equazioni meccaniche, e con ciò il verdetto sul materialismo scientifico è deciso.”

Ed Helm,  presente a quel congresso,  nello scrivere la sua cronaca (l898),  coglie bene i livelli e l’intensità dello scontro, che non erano banalmente legati a questa o a quella teoria, ma ad un modo nuovo o almeno diverso di fare scienza e, più in generale, ad una diversa concezione del mondo. Scrive Helm:  (719)

Nella polemica che si accese a Lubecca non si trattava di atomismo o di spazio occupato da materia continua, non della irreversibilità nella termodinamica, o dei fondamenti energetici della meccanica. Queste sono tutte bazzecole. Si trattava in realtà dei principi della nostra conoscenza della natura.”

Anche A. Sommerfeld (l868-195l) era presente a quel congresso e così descriveva (1944) la situazione: (720)

Il campione dell’energetica era Helm, dietro di lui stava  Ostwald e dietro entrambi la filosofia di Ernst Mach (che non era presente di persona). A loro si opponeva Boltzmann, assecondato da Felix Klein. (721) La battaglia tra Ostwaid e Boltzmann fu molto simile ad un duello tra un toro ed un agile torero. Tuttavia, questa volta il toro sconfisse il torero nonostante la sua agilità.

Gli argomenti di Boltzmann non trovarono resistenza. Noi giovani matematici eravamo tutti dalla parte di Boltzmann; fu subito ovvio per noi che era impossibile che da una sola equazione per  l’energia potessero seguire le equazioni del moto anche di un solo punto materiale.

        Spero si intuisca da quanto qui brevemente riportato a che livello e con che asprezza ci si scontrava.

        La tesi di Ostwald e di tutta la corrente fenomenista, che vedeva Boltzmann praticamente solo a tentare una qualche opposizione, era sostanzialmente la seguente.

        Molti fenomeni fisici e, si noti l’accostamento, psicologici, non sono spiegabili con la meccanica. In particolare, e qui si ritorna ad una obiezione che Loschmidt fece a Boltzmann,  (722)  “l’irreversibilità termodinamica non può essere spiegata dalla meccanica che ha delle equazioni che risultano completamente reversibili. Inoltre il complesso dei fenomeni elettromagnetici non è riconducibile ad una interpretazione meccanicista. Ed in definitiva, secondo Ostwald, tutta l’enorme varietà dei nuovi fenomeni sfuggono ad una interpretazione meccanica a meno di supporre strane entità, come gli atomi, delle quali non si ha nessun indizio sperimentale o a delle ipotesi   (723)  che sfuggono a qualunque verifica sperimentale. Il rifiuto della meccanica e dei suoi metodi comporta il rifiuto dei fondamenti della meccanica ed in particolare di quella entità, la materia, che non è altro che una particolare energia che noi percepiamo come materia con i nostri sensi. Tutto ciò che ci circonda non è altro che energia. Noi abbiamo a che fare con differenti forme di energia che si trasformano l’una nell’altra facendo salvi i principi di conservazione e di degradazione (l° e 2° principio della termodinamica). L’energia è alla base di tutto, anche dei fenomeni psicologici. In particolare:   (724)

Ciò che udiamo trae origine dall’azione esercitata sul timpano dalle vibrazioni dell’aria. Ciò che vediamo è soltanto energia raggiante che esercita sulla retina un’attività chimica, la quale viene percepita come luce … Da questo punto di vista la totalità della natura ci si presenta come una serie di energie continuamente mutevoli nel tempo e nello spazio, delle quali abbiamo conoscenza nella misura in cui percuotono il nostro corpo, e specialmente gli organi di senso dotati di una forma adatta a ricevere le energie appropriate.

Ma, con ancora maggiore chiarezza, l’energetica è la panacea che fa comprendere all’uomo tutto ciò che durante secoli si è affannato a cercare di conoscere:  (725)

Il materialismo è incapace di rispondere alla questione di sapere come il corpo può arrivare a produrre lo spirito, che differisce totalmente da esso, e lo spiritualismo è impotente a confutare l’obiezione che il mondo, per il solo fatto che non si conforma alla nostra volontà, ma continua, molto spesso a nostre spese, per la sua strada, non dovrebbe essere una creazione del nostro spirito.

L’energetica permette, a mio avviso, di uscire da tutte queste difficoltà in una sola volta ed in un modo del tutto naturale, grazie al fatto che essa ha distrutto l’idea di materia … Non bisogna più preoccuparsi di come lo spirito e la materia possano agire l’una sull’altra; la questione che bisogna risolvere è quella di sapere in quale relazione la nozione di energia, che è molto più ampia di quella di materia, si incontri con la nozione di spirito.

In definitiva, mediante l’introduzione dell’energia nervosa e di quella psichica, Ostwald riconduce la psicologia all’energetica. Così “la coscienza ha delle basi energetiche” ed anche la sociologia, intesa come rapporto tra individui, può essere ricondotta all’energetica.  (726)

        Su queste basi Ostwald metteva in discussione le ipotesi non verificabili dei meccanicisti. Una metafisica dell’energia! E quel che più conta è il grande seguito che queste idee avevano. (727)

          Ma ancora più rilevante è l’estrapolazione che veniva fatta e che rispondeva a questa successione: fallimento del meccanicismo; la materia non esiste;  (728)  superamento del materialismo nell’interpretazione del mondo.

         Ed in questo vi fu una netta e chiara convergenza delle due correnti del fenomenismo: l’empiriocriticismo e  l’energetica. L’empiriocriticismo forniva all’energetica la critica puntuale, attenta e precisa della meccanica; l’energetica forniva all’empiriocriticismo l’unificazione della scienza sulla base della termodinamica. Ambedue si incontravano sull’antimaterialismo.

         C’è un ultimo aspetto delle concezioni di Ostwald al quale bisogna accennare poiché riguarda uno degli argomenti al quale abbiamo dedicato varie pagine: il ruolo dell’etere nella visione fenomenista. In un suo scritto del 1903, Energia e chimica, così si esprimeva Ostwald: (729)

Io non credo che l’ipotesi di questo mezzo, l’etere, sia inevitabile … Non c’è necessità di cercare un portatore quando l’incontriamo dappertutto. Questo ci pendette di considerare l’energia raggiante come qualcosa che esiste indipendentemente nello spazio.

 Ma qui ci troviamo nel pieno di ipotesi in libertà, formulando le quali nulla è dato per la loro verifica sperimentale e, quantomeno, non si capisce bene perché vengano formulate se non per servire da completamento della tesi di  fondo. Questa negazione dell’etere ha, se possibile, un valore ancora minore della sua affermazione. Così come quando Ostwald prende a prestito l’affermazione di Hertz (ben altrimenti motivata !) sul fatto che “la teoria di Maxvell è il sistema delle equazioni di Maxwell“: in questo non c’è altro che la volontà di screditare l’elaborazione maxwelliana che, come abbiamo visto, almeno in una prima fase, era strettamente legata agli strumenti ed ai metodi del meccanicismo (le analogie, i modelli,  … ). Del resto abbiamo già accennato al giudizio che un altro fenomenista, il fisico francese M.P. Duhem (1861-1916), dava dei lavori di Maxwell. Ed anche Duhem afferma che “ciò che c’è d’essenziale nelle teorie di Maxwell sono le equazioni di Maxwell.” (730)

        Ma, poiché sono inaccettabili i metodi che hanno portato Maxwell a ricavare le sue equazioni, sarà almeno possibile, si domanda Duhem, mantenerle come punto di partenza per ricavare nuove teorie ?

        Ciò sarebbe lecito ad un matematico ma non ad un fisico poiché il fisico non può prescindere dall’ “insieme delle ipotesi e dei ragionamenti con i quali è giunto alle equazioni in questione.” Si nega quindi, oltreché i

risultati sperimentali, quanto sostenuto da Hertz. Non è vero che due teorie sono equivalenti, se conducono agli stessi risultati; occorre tener conto anche dei ragionamenti, delle ipotesi e dei metodi che hanno condotto a quei risultati. Così Duhem può continuare:

Non si possono dunque adottare le equazioni di Maxwell se non si ricavano da una teoria dei fenomeni elettrici e magnetici; e poiché queste equazioni non s’accordano con la teoria classica, che discende dai lavori di Poisson, sarà necessario respingere questa teoria classica, di rompere con la dottrina tradizionale e di creare con delle nozioni nuove, su delle ipotesi nuove, una teoria nuova dell’elettricità e magnetismo.”

C’è qualcuno che abbia tentato questa strada ? Certamente, si risponde Duhem, e questi è Boltzmann il quale è riuscito a ricavare le equazioni di Maxwell “in un modo logico“.  (731)

Ma Duhem ha ancora dei dubbi, soprattutto perché:

Se per ricavare le equazioni di Maxwell in un modo logico, seguiamo i metodi proposti dal Sig. Boltzmann, ci vediamo costretti a dover abbandonare in parte l’opera di Poisson e dei suoi successori … una delle parti, cioè, più precise e più utili della fisica matematica. D’altra parte, per salvare queste teorie, dobbiamo rinunciare a tutte le conseguenze della teoria di Maxwell e, in particolare, alla più seducente di queste conseguenze, alla teoria elettromagnetica, della luce ?

Anche Poincaré, del resto, ha notato l’impossibilità di rinunciare alla teoria elettromagnetica della luce. Come risolvere il problema ? Come venir fuori dal dilemma ? Ebbene, secondo Duhem, c’è un’altra teoria che ci permette di superare ogni difficoltà: si tratta della teoria di Helmholtz, esposta nel suo lavoro del 1870, Sulle equazioni del movimento dell’elettricità per corpi conduttori in moto (che già abbiamo discusso nel paragrafo 3 di questo capitolo). Questa teoria, sempre secondo Duhem, permette di conciliare logicamente l’antica elettrostatica, il vecchio magnetismo e la nuova teoria della propagazione delle azioni elettriche in mezzi dielettrici. Questa teoria 

è un ampliamento naturale dei lavori di Poisson, d’Ampère, di Weber e di Neumann … ; senza perdere nessuna delle recenti conquiste della scienza elettrica, essa ristabilisce la continuità della tradizione.

Insomma, per Duhem, occorre ripristinare la tradizione. Per far questo occorre ritornare ad Helmholtz che, se da una parte è quello che ha dato il via alla energetica con il suo lavoro del 1847, Sulla conservazione della forza, dall’altra è certamente un atomista che vede appunto la corrente elettrica come flusso di corpuscoli. Il fenomenista Duhem ammette quindi le particelle che la sua corrente di pensiero respinge in modo deciso ? Certamente che no, anche se

la logica, da Duhem più volte reclamata, ne soffre un poco. Nel suo Introduzione alla Meccanica Chimica (l893), Duhem sostiene:  (732)

“Perché cercare di sostituire delle costruzioni  meccaniche ai corpi ed alle loro modificazioni, invece di considerarli per come i sensi ce li offrono, o piuttosto per come la nostra capacità di astrazione, lavorando sui dati sensibili, ce li fa concepire ? … Perché immaginarsi i cambiamenti di stato come degli spostamenti, delle giustapposizioni di molecole, dei cambiamenti di traiettoria, invece di caratterizzare un cambiamento di stato per il turbamento che provoca rispetto alle proprietà sensibili e misurabili di un corpo … ? …

Queste riflessioni conducono a rovesciare il metodo finora seguito in fisica; … la teoria migliore sarà quella  che non farà entrare nei suoi ragionamenti altre nozioni che non quelle che hanno un senso fisico, che siano direttamente misurabili … ; quella che non prenderà come principi che delle leggi di origine sperimentale … ; quella che si proporrà come fine non di spiegare i fenomeni ma di classificarli”

e tutto questo, osservo io, con buona pace di Galileo e di tutti coloro che si sono battuti contro l’aristotelismo. (733)

          Ma c’è di più. Occorre far risaltare quanto già annunciato: la coerenza logica di Duhem. Da una parte si ammettono le non sperimentabili particelle di Helmholtz, per rendere conto di ciò che della teoria di Maxwell interessa a Duhem, al fine di affermare la tradizione e la sua continuità nella fisica. Dall’altra si afferma la necessità di rovesciare il metodo finora seguito in fisica  rinunciando a tutto ciò che come gli atomi non è né misurabile né sperimentabile.

         Anche Duhem poi sente l’esigenza di trovare una scienza che si ponga come unificatrice rispetto alla fisica. E questa scienza è naturalmente la termodinamica, che ci permette di descrivere logicamente il mondo che ci circonda su una base perfettamente sperimentabile. In questo senso dunque Duhem si pone come uno tra i più convinti sostenitori dell’energetica anche se, per il vero, non raggiunge gli eccessi metafisici e fanatici di Ostwald (situandosi più vicino a Mach che non allo stesso Ostwald). Anche Duhem avrà quindi una grossa parte nella polemica antimeccanicista, sull’altro fronte della quale si batteva, come già ricordato, il fisico austriaco L. Boltzmann.

        Questi, subito dopo il congresso di Lubecca, introdusse alcuni brani significativi nel suo Lezioni sulla teoria dei gas  (Lipsia, 1896-1898). Scriveva Boitzmann:  (734)

Sono convinto che questi attacchi sono basati puramente su un malinteso e che il ruolo della teoria dei gas nella scienza non sia ancora esaurito … Secondo me sarebbe una grande tragedia per la scienza se la teoria dei gas fosse temporaneamente dimenticata a causa di un momentaneo atteggiamento ostile verso di essa.”

Del resto Boltzmann aveva sempre inteso che gli atomi non fossero altro che un’ipotesi, aggiungendo la considerazione (l886) che “forse, un giorno, l’ipotesi atomica sarà sostituita da qualche altra ipotesi: ma non è molto probabile che ciò accada.”  (735)  Ed inoltre egli era convinto che:

noi ricaviamo l’esistenza delle cose unicamente dalle impressioni che esse incidono sui nostri sensi.”  (736) 

Conseguentemente, per fare scienza:

la via più diretta dovrebbe essere quella di partire dalle nostre sensazioni immediate per dimostrare come, per mezzo di esse, abbiamo ottenuto conoscenza dell’universo. Tuttavia, poiché questa via non sembra condurci  al nostro scopo, dobbiamo seguire la via opposta, che è quella della scienza naturale.” (737)

Quindi Boltzmann contrappone il dato immediato dei nostri sensi al dato mediato della scienza naturale e ciò a causa del fatto che non s’intravede ancora il modo di fare scienza con il solo dato sensoriale immediato. Inoltre, per far scienza occorre una metodologia che sfrutti tutto quanto sia utile all’elaborazione teorica (analogie, modelli,  …  ), fatta salva la verifica sperimentale. Molto lucidamente scriveva Boltzmann:  (738)

II compito principale della scienza è precisamente quello di costruire delle immagini che servano a rappresentare un insieme di fatti in modo tale che si possa predire da questi l’andamento di altri fatti simili. Naturalmente si intende che la previsione deve essere sempre verificata sperimentalmente. Probabilmente essa sarà verificata solo in parte. Vi è allora una speranza che si possano modificare e perfezionare le immagini in modo tale che esse rendano conto anche dei nuovi fatti.”

In questo contesto una teoria meccanica ( e non una spiegazione meccanica) ha senso solo se è in grado di fornirci  “le leggi più semplici possibili” mentre la, fenomenologia non è altro che una pura illusione. Aggiungeva Boltzmann:  (739)  

La fenomenologia ha creduto di poter rappresentare la natura senza, in alcun modo, andare al di la dell’esperienza, ma io penso che questa sia un’illusione. Nessuna equazione rappresenta con accuratezza assoluta un qualsiasi processo, ma lo idealizza sempre  sottolineando certi aspetti comuni a più processi e trascurando ciò che è differente, andando in tal modo al di là dell’esperienza. E che ciò sia necessario, se vogliamo avere una qualche idea la quale ci permetta di predire un qualcosa nel futuro, discende dalla natura dello stesso processo intellettuale, che consiste appunto nell’aggiungere un qualcosa all’esperienza e nel creare una rappresentazione mentale che non è esperienza e che può pertanto rappresentare molte esperienze.”   (740)

La posizione di Boltzmann è dunque in netta opposizione alla fenomenologia del suo tempo: occorre trascendere l’esperienza per poter avere una visione più generale del mondo che ci circondar e più andiamo al di là dell’esperienza e “più sono sorprendenti i fatti che riusciamo a scoprire.” Ma, avverte Boltzmann,  l’andare al di là dell’esperienza in modo troppo audace può indurci in qualche errore. “La fenomenologia pertanto non dovrebbe vantarsi di non andare al di là dell’esperienza, ma dovrebbe invece, semplicemente,  dice Boltzmann, ammonire a non compiere eccessi in tal senso.” Ed in definitiva, ribadisce il nostro,  (741)

i migliori risultati si otterranno, senza dubbio, se potremo sempre fare uso di ogni immagine che sia necessaria, senza trascurare di mettere le immagini alla prova  ad ogni passo, nei confronti di nuove esperienze.

Inoltre in questo modo non si sopravvaluteranno i fatti, essendo accecati dall’immagine, come spesso si argomenta contro gli atomisti. Ogni teoria, di qualunque tipo essa sia, porta ad una simile forma di cecità qualora sia seguita in modo troppo unilaterale.”

Certamente Boltzmann era sostenuto, nel portare avanti le sue tesi, proprio dall’esperienza, da quanto cioè si andava realizzando, con la forza dell’ipotesi, in quegli anni (si pensi a Maxwell, a Lorentz, … ); altrettanto certamente egli era convinto della necessità di non produrre rotture radicali con il passato: l’unità concettuale della fisica andava mantenuta e questo non era certamente garantito dal fenomenismo e tanto meno dall’energetica. E’ una posizione di grande onestà intellettuale quella di Boltzmana che si batte, tra l’altro, per dare un senso alla ricerca scientifica. Nella conferenza di St. Louis del 1904, della quale abbiamo già parlato, Boltzmann sostenne una posizione metodologica che, sfortunatamente ed efficientemente, la ricerca fisica del nostro secolo non farà sua:  (742)

Gli scienziati sono ora propensi a mostrare una spiccata predilezione per discutere tesi filosofiche, ed hanno tutte le ragioni per farlo. Una delle prime regole per la ricerca sulla natura è infatti quella secondo la quale non bisogna mai prestare una fiducia cieca nella verità con gli strumenti con i quali si lavora, ma bisogna invece analizzarli in tutte le direzioni … Se un progresso reale è  possibile,  lo si può  attendere  solamente da una collaborazione tra scienza e filosofia.”  (743)

E su questa illusione, che si dovrà scontrare con i bisogni di efficienza che vengono indotti nella fisica dalle necessità produttive si chiuderà, col suicidio, la vita di Boltzmann (1906).

          Proprio nell’anno della morte di Boltzmann, Duhem, nel suo lavoro La teoria fisica (1906), sosteneva: (744)

Queste due domande:                                                                     

  Esiste una realtà materiale distinta dalle apparenze sensibili ?

   Di quale natura è questa realtà ?                                                      

non entrano affatto nel campo del metodo sperimentale; quest’ultimo non conosce altro che delle apparenze sensibili e non sa scoprire ciò che le supera. La soluzione di tali domande è trascendente rispetto ai metodi di osservazione di cui fa uso la Fisica, ed è oggetto della Metafisica.                          

Pertanto, se le teorie fisiche hanno come oggetto la spiegazione delle leggi sperimentali, la Fisica teorica non è una scienza autonoma: essa è subordinata alla Metafisica.”                                                               

         In questo duro scontro tra posizioni radicalmente diverse, si inserisce la posizione epistemologica di H. Poincaré, che ridiscusse i fondamenti di tutti i capitoli più rilevanti della fisica, a partire naturalmente dalla meccanica. Ne La scienza e l’ipotesi  Poincaré inizia con l’osservazione che occorre ben distinguere, nella meccanica,  “ciò che è esperienza e ciò che è ragionamento matematico, ciò che è convenzione e ciò che è ipotesi“. Quindi, dopo aver sottolineato che: (745)

non vi è spazio assoluto e noi concepiamo solo moti relativi … ; non vi è tempo assoluto … [e due durate sono uguali solo] per convenzione; … non abbiamo [l’intuizione diretta] della simultaneità di due avvenimenti producentisi in due teatri diversi; … la nostra geometria euclidea non è che una specie di convenzione di linguaggio [e quindi] possiamo enunciare i fatti meccanici, riferendoli ad uno spazio non euclideo“,

 con la conseguenza che i concetti suddetti  “non sono condizioni che s’impongono alla meccanica“, Poincaré passa a discutere i principi della meccanica.

         Riguardo al primo principio, quello d’inerzia, esso “non s’impone a noi a priori” inoltre è impossibile verificarlo sperimentalmente poiché è impossibile, in tutto l’Universo, disporre di “corpi sottratti all’azione di ogni forza“. Poincaré propone quindi di sostituire il principio d’inerzia con una legge d’inerzia generalizzata avente il seguente enunciato: (746)

l’accelerazione di un corpo dipende dalla posizione del corpo stesso, dai corpi vicini e dalla loro velocità.

 Questa nuova legge è certamente quella con cui si è avuto a che fare in tutti i casi in cui si è dovuto fare una misura e quindi essa è stata verificata sperimentalmente in alcuni casi particolari. Inoltre essa

può essere estesa senza timore ai casi più generali, poiché sappiamo che in tali casi generali l’esperienza non può più né confermarla, né contraddirla.”  (747)

        Riguardo poi al secondo principio, Poincaré dice che così come esso è definito, basato cioè sul concetto di forza come causa di accelerazioni di date masse, è privo di significato perché non sappiamo né cos’è la massa né cos’è la forza. Quindi, “quando si dice che la forza è la causa di un movimento si fa della metafisica.”  (748) Perché la definizione di forza abbia senso occorre potere e sapere misurare quest’ultima, e per far ciò non c’è altro modo che passare al confronto diretto di due forze che ci permetta, ad esempio, di stabilire quando esse sono uguali. Per realizzare questo proposito, secondo Poincaré, disponiamo di tre regole: l’uguaglianza di due forze che si fanno equilibrio; l’uguaglianza dell’azione e della reazione (terzo principio); l’ammissione che certe forze, come il peso, sono costanti nella grandezza e nella direzione. Il fatto poi che il principio di azione e reazione debba intervenire nella definizione dell’uguaglianza di due forze fa si che

tale principio non deve essere più considerato come una legge sperimentale ma come una definizione.” (749)

Poste così le cose, si può affermare, con Kirchhoff, che la forza è uguale alla massa per l’accelerazione ma, “la legge diNewton cessa a sua volta di essere considerata una legge sperimentale; è una semplice definizione“.

         Ed anche come definizione è ancora insufficiente  “perché non sappiamo cos’è la massa“. Per completarla occorre di nuovo far ricorso alla definizione di azione e reazione:

Due corpi A e B agiscono l’uno sull’altro; l’accelerazione di A moltiplicata per la massa di A è uguale all’azione di B su A; nello stesso modo, il prodotto dell’accelerazione di B per la sua massa è uguale alla reazione di A su B. Poiché, per definizione, l’azione è uguale alla reazione, le masse di A e di B sono in ragione inversa delle accelerazioni di questi due corpi. Ecco definito il rapporto delle due masse: spetta all’esperienza verificare che esso è costante.”  (750)

Ma anche qui si tratta solo di un’approssimazione, poiché bisognerebbe tener conto delle attrazioni che tutti i corpi dell’universo esercitano su A e su B. E l’approssimazione è lecita solo se noi ammettiamo l’ipotesi delle forze centrali.

Ma abbiamo il diritto di ammettere l’ipotesi di forze centrali ?

Se dovessimo abbandonare questa ipotesi ci troveremmo di fronte al crollo dell’intera meccanica; non sapremmo più come misurare le masse ed il principio di azione e reazione dovrebbe essere enunciato così:

Il movimento del centro di gravità di un sistema sottratto ad ogni azione esteriore sarà rettilineo ed uniformeMa [poiché] non esiste sistema che sia sottratto ad ogni azione esteriore, la legge del movimento del centro di gravità non è rigorosamente vera, se non applicandola all’universo tutto intero.” (751)

Ma in che modo potremmo noi misurare le masse seguendo i movimenti del centro di gravità dell’universo ? La cosa è manifestamente assurda ed allora siamo costretti a riconoscere la nostra impotenza ricorrendo alla seguente definizione: 

le masse sono dei coefficienti che è comodo introdurre  nei calcoli.” (752)

Insomma, l’esperienza è certamente potuta servire di base ai principi della meccanica ma, poiché questi principi non sono altro che approssimazioni (e già lo sappiamo), esperienze più precise non potranno aggiungere mai niente a quanto sappiamo e quindi l’esperienza non potrà mai contraddire questi principi.

        Più oltre Poincaré definisce quello che da lui è chiamato il “principio del movimento relativo“:

Il movimento di un sistema qualunque deve ubbidire alle stesse leggi, che si riferiscono a degli assi fissi, o a degli assi mobili trascinati da un movimento rettilineo ed uniforme.” (753)

Ed  osserva che?

Così enunciato il principio del movimento relativo rassomiglia singolarmente a ciò che ho chiamato il principio dell’inerzia generalizzato; ma non è la stessa cosa, poiché, qui si tratta delle differenze di coordinate, e non delle coordinata stesse. Il nuovo principio c’insegna dunque qualcosa di più.”  (754)

Ma poiché, per questo principio si può fare la stessa discussione fatta per il principio d’inerzia generalizzato, ne consegue che anche esso non può essere né dato a priori, né ricavato come risultato immediato dell’esperienza.

           E veniamo ora a quanto Poincaré dice a proposito di energia e termodinamica e di come quindi egli si rapporta all’energetica. Dice Poincaré: (755)

La teoria energetica presenta sulla teoria classica i vantaggi seguenti:

     1°) Essa è meno incompleta; cioè, i principi della conservacene dell’energia e di Hamiton  (756) ci insegnano più dei principi fondamentali della teoria classica ed escludono certi movimenti non realizzati dalla natura e compatibili con la teoria classica. 2°)Essa ci dispensa dall’ipotesi degli atomi, quasi impossibile da evitare con la teoria classica. Ma solleva a sua volta nuove difficoltà: le definizioni di due specie di energia sono appena più facili di quelle della forza e della massa nel primo sistema.”

Inoltre, poiché nella conservazione dell’energia occorre tener conto di tutte le varie forme di energia bisognerà considerare anche l’energia interna molecolare (Q), sotto forma termica, chimica o elettrica. Così, se indichiamo con T l’energia cinetica e con U quella potenziale, possiamo scrivere il principio di conservazione dell’energia nella forma seguente:

                     T + U + Q  =  costante.

Tutto andrebbe bene se i tre termini fossero assolutamente distinti, se T fosse proporzionale al quadrato della velocità, U indipendente da queste ultime e dallo stato dei corpi, Q indipendente dalle velocità e dalle posizioni dei corpi e dipendente soltanto dal loro stato interno … Ma non ècosì. Consideriamo dei corpi elettrizzati; l’energia elettrostatica dovuta alla loro mutua azione, dipenderà evidentemente dalla loro carica, cioè dal loro stato; ma essa dipenderà anche dalla loro posizione. Se questi corpi sono in movimento, agiranno l’uno sull’altro elettrodinamicamente e l’energia elettrodinamica dipenderà non soltanto dal loro stato e dalla loro posizione, ma anche dalle loro velocità. Non abbiamo più dunque alcun mezzo per fare la cernita dei termini che devono far parte di T, di U e di Q, e di separare le tre parti dell’energia.”  (757)

L’unica cosa che possiamo dire è allora che vi è una certa funzione

                     f  (  T + U + Q )

che  rimane costante e nessuno ci autorizza a ritenere che questa particolare funzione, che si chiamerebbe energia, è nella forma

                     T + V + Q  =  costante.

In definitiva la corretta enunciazione del principio di conservazione dell’energia è: vi è qualcosa che rimane costante.

Sotto questa forma, esso si trova a sua volta fuori degli attacchi dell’esperienza e si riduce ad una specie di tautologia. E’ chiaro che se il mondo è governato da leggi, vi saranno delle quantità che rimarranno costanti. Come accade per il principio di Newton e per una ragione analoga, il principio della conservazione dell’energia, fondato sull’esperienza, non potrà più essere infirmato da essa. Questa discussione mostra che, passando dal sistema classico al sistema energetico, si è realizzato un progresso; ma essa mostra altresì che questo progresso è insufficiente.” (758)

Riguardo poi al principio di minima azione vi è una obiezione ancora più grave. Quando si pensa che, a seguito di questo principio, una molecola per spostarsi da un punto ad un altro seguirà la linea più breve, sembra quasi che questa molecola, “come un essere animato e libero“, dopo essersi fatta tutti i suoi conti sui possibili cammini, scelga quello più breve. Ciò ripugna letteralmente  Poincaré (quasi che il principio di minima azione fosse dato a priori e non a posteriori!).

          In ultima analisi, i principi della meccanica, da una parte sono verità fondate su una esperienza grossolana, dall’altra sono postulati applicabili all’intero universo da considerarsi come veri. Ebbene, se possiamo considerare i principi della meccanica come postulati è per una semplice convenzione, la quale non è arbitraria ma, come alcune esperienze ci hanno mostrato, comoda.

          Occorre quindi rifarsi a questi principi generali, che sono cinque o sei,  (759)  poiché la loro

applicazione … ai differenti fenomeni fisici basta per insegnarci ciò che ragionevolmente possiamo aspettarci di conoscere di una cosa … Questi principi sono il risultato di esperienze sommamente generalizzate, e dalla loro stessa generalità sembrano acquistare un grado elevato di certezza. In effetti, quanto più generali sono, tanto più frequentemente si ha l’occasione di metterli alla prova, e moltiplicandosi le verifiche, assumendo le forme più diverse e più insperate, finiscono per non lasciar posto a dubbi.”   (760)

Ma, allo stato presente, questi principi mostrano alcune crepe che occorre chiudere al più presto in qualche modo. Una miriade di fatti sperimentali sembra non accordarsi con essi. Consideriamoli uno ad uno e vediamo dove essi sembrano cadere in difetto.

2° principio della termodinamica

Osservazioni recenti, più accurate, del moto browniano (761) e la spiegazione datane dal matematico tedesco C. Wiener (1826-1896) nel 1863 e dal chimico britannico W. Ramsay (1852-1916) nel 1876 mostravano che in un mezzo in equilibrio termico (una soluzione colloidale) del calore viene trasformato spontaneamente in lavoro (delle particelle in sospensione nella, soluzione si muovono rapidamente da una parte e dall’altra, con maggiore velocità quanto più sono piccole).  (762)  Questo fenomeno sembra negare la validità del 2° principio.

– Principio di relatività

L’esperienza di Michelson-Morley sembra metterlo in discussione. Lorentz è stato costretto ad accumulare ipotesi per cercare di sistemare le cose: tempo locale, contrazione delle lunghezze, …

– Principio di azione e reazione

In difficoltà per quanto già discusso ed in particolare perché, nell’ipotesi di Lorentz, nell’emissione di radiazione da parte di cariche elettriche accelerate esso non sembra rispettato.

– Principio di conservazione della massa

Recenti studi di Abraham, confermati da esperienze di Kaufmann, hanno mostrato la natura puramente elettrodinamica della massa. Ebbene, questa massa deve allora aumentare con la velocità: la massa non si conserverebbe più. Ma anche supponendo una massa meccanica essa, come Lorentz ha mostrato, sarebbe soggetta a contrazioni.

– Principio d’inerzia

Se non ha più validità il principio di conservazione della massa, anche il principio d’inerzia cessa d’essere valido. Infatti, in questo caso, qual è il centro di gravità che continua a muoversi di moto rettilineo uniforme ? A parte si può osservare che nel caso la massa non si conservi, che ne è della legge di gravitazione universale di Newton ?

– 1° principio della termodinamica

Da quando P. Curie  (1869-1906)  e M. Curie  (1867-1934) hanno posto del radio in un calorimetro ed hanno osservato che la quantità di calore, prodotta incessantemente, era notevole, il principio di conservazione dell’energia sembra in grave difetto.

– Principio di minima azione

E’ l’unico che sembra rimanere intatto (anche se così come è formulato ripugna Poincaré).

               Dopo questa rassegna abbastanza scoraggiante – e dalla quale si può subito capire che Poincaré aveva colto tutti gli elementi alla base dei radicali cambiamenti che presto avrebbero interessato la fisica – Poincaré formula un accorato appello:

E’ necessario che non si abbandonino i principi prima di aver fatto uno sforzo leale per salvarli.”

Ed aggiunge:     (764)  

E’ inutile accumulare ipotesi, poiché non si possono soddisfare in una volta. tutti i principi.  Pino ad ora non si è  riusciti  a salvaguardarne  alcuni senza sacrificarne degli altri, ma la speranza di ottenere migliori risultati non è del tutto persa.”

Com’è possibile far ciò ? La risposta a questa domanda permette a Poincaré di scrivere la seguente proposizione di grande interesse:  (765)

Forse … dovremmo  costruire  tutta  una  nuova  meccanica che non facciamo altro che intravedere, nella quale, aumentando l’inerzia con la velocità, la velocità della luce diventerebbe un limite insuperabile. La meccanica ordinaria, più semplice, rimarrebbe come una prima approssimazione, dato che sarebbe vera per velocità non molto grandi, di modo che ancora torneremmo a trovare l’antica dinamica al di sotto della nuova.

Come risulta evidente, la critica di Poincaré è molto attenta agli sviluppi della fisica, ed il fisico-matematico francese, anche se non fa il passo definitivo, ha intuito tutti i problemi che investono il mondo della fisica.. Ben altra classe rispetto agli Ostwald o Duhem.                                     

NOTE

(710) Per quanto dirò su Rankine ed Helm mi sono rifatto a bibl. 17, Vol. 5, pagg. 224-225.

(711) Mach loderà il lavoro di Helm (si veda, ad esempio, bibl.97, pag. 492).

(712) Citato in bibl.7, Vol.5, pag.310 e tratto da Helm, L’energetica nel suo sviluppo storico (1898).         

(713) Ostwald fu premio Nobel per la chimica nel 1909.

(714) Helm osserverà che: “nei tentativi di attribuire all’energia un’esistenza sostanziale, vi è una preoccupante deviazione rispetto alla chiarezza originale delle vedute di Mayer” (ibidem),

(715) Bibl. 155, pag.119 e segg. Si tratta di una edizione francese dell’opera di  Ostwald, datata 1910. Una traduzione di alcuni brani si può trovare in bibl. 54, pagg.189-192. Si noti che la conversione di Ostwald dal meccanicismo all’energetica avviene a seguito della lettura del lavoro di Helm citato e la  prima opera di Ostwald in tennini di energetica è la 2ª edizione (1893) della sua Chimica generale (bibl.127, pag.166).                                       i

(716) Ostwald. si riferisce principalmente alle ipotesi particellari che si erano sviluppate nella chimica, ma anche (l’opera in cui scrive queste cose è del 1908) alle teorie particellari dell’elettricità.

(716 bis) Si osservi che l’identificazione tra materialismo  e  meccanicismo  è di Hegel e contro questa identificazione si batterà Engels (bibl.103, pagg. 258-263).

(717) Citato in bibl. 54, pag. 106.

(718) Citato in bibl.158, pag. 180. Altri brani di Ostwald si possono trovare in bibl.56, pagg. 308-314 ed in bibl. 159, pagg. 119-195.

(719) Citato in bibl.7, Vol.5, pagg.309-310.

(720) Citato in bibl. 54, pag. 193.

(721) F. Klein (1849-1925),  matematico, collaborò con Lie allo sviluppo della teoria dei gruppi  e dette notevolissimi contributi in quasi tutti i campi della matematica dell’epoca. Si occupò anche di didattica e di storia della matematica.  

(722) Si veda la nota 428.

(723) Ostwald afferma che bisogna passare dalle ipotesi alle prototesi, essendo queste ultime delle ipotesi verificabili sperimentalmente. Riguardo al rifiuto degli atomi, Ostwald, nel 1909, nei suoi Fondamenti di chimica generale (4ª edizione), ritornò sulle sue posizioni ammettendone l’evidenza sperimentale.

(724) Citato in bibl. 16.Vol.2, pagg. 523.

(725) Bibl.155, pagg. 199-200.

(726) Quando Ostwald sviluppa l’argomento dell’energetica sociologica, dice una sola cosa che mi sento di condividere: “Il compito generale della civilizzazione consiste nell’ottenere, per le energie da trasformare, dei coefficienti di trasformazione i più vantaggiosi possibile.”

Si noti poi l’assonanza di molte delle cose qui sostenute con quelle che più tardi saranno del fascismo e del nazismo.

(727) Bellone (bibl.l58,pag.l80) osserva:”Il fatto che la tesi di Ostwald abbia avuto numerosi seguaci è del tutto irrilevante, se è vero che in materia di scienze fisiche i problemi non si risolvono per alzata di mano. ” E’ già dubbio che quanto afferma Bellone sia vero per una storia interna se solo si pensa che certe ricerche, nell’ambito delle istituzioni scientifiche, vengono finanziate solo se ci sono sufficienti alzate di mano. E’ del tutto falsa in relazione ad una storia esterna.

(728) Bellone osserva giustamente (ibidem) che qui si usa “ lo strattaggemma per cui la categoria filosofica di materia viene fatta coincidere con la categoria di materia operante nel mondo fisico.”

(729) Citato in bibl.l27, pag.l66. Citando questo brano Holton avanza l’ipotesi che la posizione in esso espressa dovesse incontrare il favore del giovane Einstein.

(730) Per quanto diremo in proposito e per le citazioni senza indicazione bibliografica che immediatameate seguiranno, si veda l’opera di Duhem (1902) di bibl. 105, pagg. 221-225.

(731) Duhem si riferisce qui ad un lavoro di Boltzmann in due volumi: Lezioni sulla teoria di Maxwell dell’elettricità e della luce (l891-l893).

(732) Citato in bibl. 54, pagg. 186-187.

(733) Si osservi che Duhem non solo sosteneva che la teoria di Maxwell era “un tradimento della ragione“, estendendo questo giudizio anche alla meccanica statistica di Boltzmann, ma anche che la Relatività di Einstein era una pura e semplice follia che non ha nulla a che vedere né con la ragione né con il buon senso (si veda l’opera di Duhem, La teoria fisica – l906 – nella prima e seconda edizione).              

(734) Citato in bibl. 54, pag. 179. Boltzmann, dopo Lubecca, scrisse anche un arti colo dal tono vagamente ironico, Una parola della matematica all’energetica, Wiedemann’s  Annalen, 1896.   

(735) Bibl.95, pag.265. La citazione è tratta da una conferenza di Boltzmann del 1866 dal titolo: La seconda legge della termodinamica.

(736) Ibidem, pag. 263. 

(737) Ibidem, pag. 265.

(738) Citato in bibl. 54, pag. 198. Si tratta di un articolo di Boltzmann del 1897, L’indispensabilità dell’atomismo nelle scienze naturali, raccolto, insieme ad altri in: Boltzmann, Theoretical Physics and Philosophical Problems, Reidel, 1975. Come si potrà osservare si tratta della definizione e della difesa della nascente fisica teorica.

(739) Si tratta di un articolo di Boltzmann del 1899 (si veda nota precedente e bibl. 95, pagg. 270-271).  

(740) Altrove (bibl.54, pagg. 194-195; si veda la nota 738) Boltzmann aveva sostenuto il medesimo concetto con parole differenti: “ Mi sembra che di un coerente insieme di fatti non possiamo mai avere una descrizione diretta ma solo e sempre un’immagine mentale. ” Si noti che, come sempre, sono i materialisti quelli che più esaltano le capacità creative dell’intelligenza (dello spirito?).

(741) Bibl. 95, pag.271. Si noti che un’analisi lucida e penetrante  dei rapporti tra Boltzmann, la crisi del meccanicismo e la nascita della teoria dei quanti si può trovare nel saggio di Ciccotti e Donini in bibl. 79, pagg. 145-159.  

(742) Si pensi alle scelte che saranno della Scuola di Copenaghen (1926)  alla quale abbiamo accennato in nota 702. In breve si può dire che di fronte alla domanda: “Esiste una realtà indipendente dalle nostre osservazioni ?” i fisici di  quella scuola, in maggioranza, risposero: “La questione non ci interessa.” Allo scopo si può vedere bibl.57 ed anche il bel saggio di F. Selleri, Sull’ideologia nella fisica contemporanea, bibl.53, pagg.l20-150.              

(743) Bibl. 95, pagg. 280-281.

(744) Ibidem, pag.273. Si noti che più avanti Duhem sosterrà che la scienza deve far ricorso al senso comune.

(745) Bibl. 140, pagg. 93-95.

(746) Ibidem, pag. 96.

(747) Ibidem, pag. 100. Si noti che quest’ultima affermazione è sostenuta da Poincaré sulla base del fatto che, se dovessero sorgere accelerazioni impreviste, si potrà sempre supporre che esse derivano dalla presenza (posizione e velocità) di altri corpi di cui non sospettavamo l’esistenza.

(748) Ibidem, pag. 101.

(749) Ibidem, pag.102.

(750) Ibidem, pag.103. Ritorna la legge di Mach.

(751) Ibidem, pag.105.  

(752) Ibidem, pag. 106.

(753) Ibidem, pag. 113.

(754) Ibidem, pagg. 114-115. Si noti che Poincaré critica la meccanica di Kirchhoff per essere egli partito dalla definizione di forza ricavata dai concetti, supposti primitivi, di spazio, tempo e materia. Ma, ancora di più, critica la Scuola del filo per la scarsa generalità della definizione che viene data al concetto di forza. In ogni caso anche questa definizione è convenzionale come quella di Kirchhoff (convenzionali si,  ma non arbitrarie, poiché, in qualche modo, discendono dalle esperienze).

(755) Ibidem, pagg. 123-124.

(756) Il principio di Hamilton è uno dei possibili enunciati del principio di minima azione.

(757) Ibidem, pag. 126.  

(758) Ibidem, pag. 127.

(759) I principi cui fa riferimento Poincaré sono: quello di conservazione dell’energia, quello di degradazione dell’energia (o di Carnot), quello di azione e reazione (di Newton), quello di relatività», quello di conservazione della massa (di Lavoisier), quello di minima azione (di Maupertuis).

(760) Questo brano e gli altri citati nel seguito sono tratti dall’intervento di Poincaré alla conferenza di St.  Louis del 1904, interamente riportato ne Il valore della scienza (1904). Bibl. 142, pag. 111.

(761) II fenomeno fu scoperto dal botanico britannico R. Brown (l773-l858) nel 1827.

(762) La spiegazione di ciò è di origine statistica. Le particelle più grandi urtate da tutti i lati dagli atomi in moto, rimangono ferme perché c’è compensazione tra gli urti. Le particelle più piccole ricevono invece pochi urti perché si realizzi la compensazione e quindi sono incessantemente in moto.  

(763) Ibidem, pag.125. Anche Einstein si rifarà ad una fisica dei principi, ma il senso è del tutto diverso, come vedremo più oltre. Si veda bibl. 161, pagg. 212-213.

(764) Ibidem.

(765) Ibidem, pag. 130.  

 9 – TENTATIVI DI COSTRUIRE UNA NUOVA FISICA FONDATA SULL’ELETTROMAGNETISMO: WIEN ED ABRAHAM.

        Non ci resta ora che andare a discutere di un altro tentativo che, proprio al nascere del nuovo secolo, venne tentato per cercare di mettere a posto   le  cose:   fondare  una  nuova  fisica   su  basi   elettromagnetiche.

          Abbiamo già fatto cenno alla raccolta di saggi che nel 1900 si pubblicò in onore di Lorentz. Tra questi abbiamo citato quello di Poincaré che discuteva del non accordo della teoria di Lorentz con il principio di azione e reazione.

         Tra questi saggi ve ne era uno del fisico tedesco W. Wien (1864-1928) lo stesso che abbiamo incontrato quando ci siamo occupati dell’irraggiamento del corpo nero , Possibilità di una base elettromagnetica per la meccanica, nel quale, dalla ripresa di alcune idee avanzate da J.J. Thomson nel 1881 e successivamente sviluppate da Heaviside nel 1889,  (766)   si prospettava la possibilità di ricavare le equazioni fondamentali della meccanica a partire dalle equazioni del campo elettromagnetico. In questo lavoro Wien ritiene di poter generalizzare il risultato di Heaviside ricavando dalla teoria eletiromagnetica l’inerzia meccanica. Egli scrive: (767)

L’inerzia della materia, che ci dà una definizione della massa indipendentemente dalla gravità, si può dedurre senza altre ipotesi dalla nozione già frequentemente impiegata di inerzia elettromagnetica.”

L’elaborazione di questi concetti lo portò a trovare un risultato in accordo con quello di Heaviside per piccole velocità. La massa di una particella carica in moto era dunque dovuta alla sua massa a riposo, alla quale si aggiungeva una massa elettromagnetica, che nasceva a seguito del moto per un effetto di autoinduzione. Quando infatti una particella carica è in moto essa equivale ad una corrente alla quale si accompagna un campo elettromagnetico costante. Ogni variazione di velocità di questa particella comporterà una variazione di intensità del campo magnetico che la circonda ed ogni variazione di questo campo comporta il nascere di una corrente indotta (in questo caso autoindotta). (768)   Poiché le correnti indotte tendono ad opporsi alle cause che le hanno generate (legge di Lenz), si originerà una forza che tenderà ad opporsi alle accelerazioni della particella (sono quelle che provocano l’autoinduzione). Tutto va come se la particella avesse un’inerzia più grande e cioè una massa più grande che, originatasi in questo modo, è di natura elettromagnetica.  (769) Questo aumento di massa sarà tanto più grande quanto più è grande la velocità della particella poiché a velocità maggiori della particella corrispondono campi magnetici più intensi e quindi autoinduzioni più intense (nel caso in cui la particella subisca accelerazioni). Data poi l’asimmetria della variazione del campo magnetico nella direzione del moto (longitudinale) ed in quella perpendicolare (trasversale) bisognerà considerare, al momento della variazione della velocità, due masse differenti, quella longitudinale e quella trasversale.

        Naturalmente questa e le altre elaborazioni teoriche che seguirono traevano spunto dalla scoperta dell’elettrone da parte di J.J. Thomson. E, sull’onda delle esperienze di quest’ultimo, altre ne furono immediatamente pensate e realizzate. Alcune di queste ebbero una notevole influenza sugli ulteriori sviluppi della fondazione elettromagnetica della meccanica.

        In particolare, grande interesse suscitarono i lavori sperimentali del fisico tedesco W. Kaufmann. (1871-1947). Egli, con esperienze estremamente complesse e delicate (1901-1905), (770)  nel misurare il rapporto tra la carica e la massa degli elettroni emessi dal bromuro di radio (a velocità molto elevate), ebbe modo di osservare una notevole variazione della massa con la velocità; in particolare trovò che a grandi velocità  il rapporto tra la carica e la massa diminuiva e, poiché era fuori discussione la costanza della carica (la teoria degli elettroni non la contemplava), se ne doveva concludere che era la massa ad aumentare. Nel suo primo lavoro (190l) Kaufmann concluse che la massa meccanica dell’elettrone era dello stesso ordine di grandezza della massa elettromagnetica. Successivamente (1902-1903) egli affermò che l’intera massa dell’elettrone era di natura elettromagnetica.

        Dalle esperienze di Kaufmann e dai lavori di Wien presero spunto le elaborazioni teoriche del più noto tra i sostenitori del programma elettromagnetico, il fisico tedesco M. Abraham (1857-1922). Egli, in due successive memorie (1902-1903),  (771)    sostenne la sua tesi di fondo che consisteva nel considerare tutta la massa come elettromagnetica, trovando dei risultati che sembravano in perfetto accordo con le esperienze di Kaufmann. Per elaborare la sua teoria Abraham: ricorse ad alcuni risultati conseguiti da Poynting nel 1884 (teorema omonimo),  (772) che gli servirono per introdurre (1903) nella sua trattazione il concetto di quantità di moto elettromagnetica; fece uso della espressione data da Lorentz per la forza cui è soggetta una particella carica in un campo elettromagnetico (forza di Lorentz) e più in generale delle equazioni di Maxwell scritte nella forma di Lorentz; partì dall’ipotesi di esistenza di elettroni dotati di carica negativa in tutti i corpi la cui massa fosse di natura elettromagnetica.

        Una grande difficoltà nasceva però fino dall’inizio; se un elettrone è di natura puramente elettromagnetica ed è carico negativamente, come fa ad essere stabile ? Quali forze e di che natura lo tengono unito, visto che le sue diverse parti, essendo cariche dello stesso segno, tendono a respingersi e quindi a disintegrarlo ?

        Per evitare questa difficoltà, Abraham ricorse ad un’ipotesi discutibile, almeno a questo punto dell’elaborazione teorica. Egli suppose che l’elettrone fosse una sfera perfettamente rigida ed indeformabile (sia quando esso era in quiete sia quando era in moto) nel quale la carica fosse distribuita in modo uniforme (o nel volume o nella superficie) .  (773) In particolare, secondo Abraham, l’ipotesi di un elettrone deformabile doveva essere respinta poiché essa:

implica che si dovrebbe svolgere, a causa della deformazione, un lavoro meccanico, e che si dovrebbe quindi tener conto, oltre che dell’energia elettromagnetica, di un’energia interna dell’elettrone. In questo caso diventerebbe impossibile un’interpretazione elettromagnetica della teoria dei raggi catodici o di Becquerel, che sono fenomeni puramente elettrici, e bisognerebbe rinunciare fin dall’inizio a fondare la meccanica sull’elettromagnetismo. (774)

         L’ipotesi di indeformabilità veniva dunque a trovarsi in contrasto con altre elaborazioni teoriche ed in particolare con quella di Lorentz. Essa permetteva però, come già detto, di ricavare dei risultati in accordo con  le esperienze di Kaufmann ed in particolare che la massa dipende dalla velocità. Tra l’altro, con l’introduzione della quantità di moto elettromagnetica, Abraham  riuscì  a  superare  le  obiezioni che  Poincaré  fece  a Lorentz  e  relative  al non accordo della teoria degli elettroni con la conservazione della quantità di moto. Con la quantità di moto elettromagnetica si può infatti rendere conto di quella pressione di radiazione che in quegli anni veniva, per la prima volta, misurata (P. Lebedev, 1901; E. Hichols – G. Hull, 1903): quando un elettrone in moto accelerato emette onde elettromagnetiche, la quantità di moto che perde è uguale alla quantità di moto elettromagnetica della radiazione. Dalla quantità di moto elettromagnetica è poi relativamente semplice ricavarsi la massa elettromagnetica, cosa che Abraham fece, calcolando per la prima volta (1903) le masse longitudinale e trasversale di un elettrone in moto. (775)  I valori di queste masse risultarono diversi da quelli che l’anno successivo (1904) fornì Lorentz e la cosa sembrava una seria obiezione alla teoria di  quest’ultimo, in quanto i risultati sperimentali di Kaufmann davano ragione ad  Abraham.  (776)

         Solo più tardi (1908) nuove esperienze, effettuate con maggiore cura sperimentale dal fisico tedesco A.H. Bucherer (1863-1927) e successivamente da altri, mostrarono che effettivamente le relazioni trovate da Lorentz erano quelle corrette.

        Nel 1903, comunque, la teoria di Abraham aveva il conforto sperimentale ma al suo interno poneva dei problemi che lo stesso Abraham fa risaltare.

Egli scrive (777)  che le equazioni del moto che ha trovato

corrispondono esattamente alle equazioni differenziali che si ottengono per il moto di un corpo solido in un fluido perfetto. Tuttavia, mentre per il problema meccanico, le componenti dell’impulso e del momento dell’impulso sono funzioni lineari della velocità attuale di traslazione e di rotazione, ... nel problema elettrodinamico l’impulso ed il momento dell’impulso non dipendono solo dal moto attuale dell’elettrone ma anche dalla sua storia precedente …

Questa circostanza crea una grande complicazione nel nostro problema, che non sembra rendere possibile una soluzione completa della dinamica dell’elettrone.”

Come osservano Petruccioli e Tarsitani, “si perdeva il ‘carattere  deterministico‘ delle equazioni differenziali che regolavano il moto dei corpi materiali, nel senso che l’impulso ed il momento – ora ‘grandezze‘ di natura elettromagnetica – non erano più definite in modo univoco in un punto dello spazio e del tempo, una volta assegnate le condizioni iniziali, ma contenevano informazioni riguardanti tutta la vita degli elettroni anteriore all’istante considerato.”  (777 bis)

        Altre difficoltà sorsero poi quando si vollero estendere i risultati di Abraham agli altri costituenti la materia che non fossero gli elettroni, alle forze molecolari ed a quelle gravitazionali. (778)  Sembra ritrovarsi qui la situazione creatasi con l’opera di Copernico, cambiare i ruoli di Terra (meccanica) e Sole (elettromagnetismo) senza preoccuparsi di tutti i problemi fisici che la nuova struttura avrebbe comportato.

        Ricapitolando brevemente, si può dire che a cavallo dei due secoli esistevano grosse differenze di opinione, contrasti anche molto duri, sui fondamenti ed i metodi (ed anche oltre) dell’intera scienza fisica. C’è chi ama parlare di ‘crisi‘, chi di ‘continuità‘; personalmente ritengo che certamente una quantità di problemi nascevano dall’esigenza di sistematizzare l’enorme messe dei dati sperimentali che si veniva producendo nei più svariati campi della fisica, sotto le pressioni delle esigenze tecnologiche della seconda rivoluzione industriale. Ed una qualche crisi doveva ben esserci se solo si pensa, in termini di storia interna, che una quantità di risultati non rientrava in una spiegazione razionale, determinata e conseguente con la fisica che fino ad allora si era costruita. L’eventuale crisi quindi nasceva dal venir meno dell’ideale di scienza unificata, di possibilità di interpretazione della realtà naturale a partire da un unico principio unificante, fosse esso quello meccanico, quello termodinamico, quello elettromagnetico.

        Semplificando molto si può dire che almeno quattro correnti di pensiero si contendevano il primato nell’ambito della fisica:

– quelli che ritenevano di dover procedere con gli strumenti ed i metodi fino ad allora seguiti;

– quelli che sentivano l’indispensabilità di una rifondazione della meccanica;

– quelli che ritenevano di poter basare l’intera fisica sulla termodinamica;

– quelli che ritenevano di poter basare l’intera fisica sull’elettrodinamica.

E neanche a pensare che non ci fosse sovrapposizione; molto spesso i sostenitori di una posizione confluivano in un’altra, purché, ad esempio, l’ideale comune antimeccanicistico (che sempre più diventava antimaterialistico) fosse realizzato. .Oppure quando si pensava che una data posizione non escludesse l’altra, o quando si tentava di mediare per garantire la continuità. In ogni caso, vi erano ancora quelli che credevano alla ‘curiosità scientifica‘, dei sopravvissuti ‘filosofi naturali‘, dei quali si perderà ogni traccia nel nostro secolo.

        Un’altra corrente di pensiero, in aggiunta a quelle schematicamente ricordate, vincerà sul piano scientifico ma non su quello filosofico, interpretativo e politico generale: si tratta, dei Planck e degli Einstein.  

NOTE

(766) J.J. Thomson: On the electric and magnetic effects. produced by the motion of electrified bodies, Phil. Mag. 11; 1881; pagg. 229-249. O Heaviside: On the electromagnetic effects due to the motion of electrification through a dielectric, Phil. Mag. 27; 1889; pagg. 324-339. Nel lavoro di Thomson era avanzata la possibilità di poter considerare l’inerzia come un fenomeno elettromagnetico. In questa ipotesi, un conduttore carico in movimento doveva aumentare di massa, anche se questo aumento risultava indipendente dalla velocità del conduttore. Heaviside dette a questo aumento di massa un significato fisico preciso, forza d’inerzia elettrica, distinguendolo così dall’inerzia puramente meccanica. Si veda bibl. 160, pagg. 140-145.

(767) Citato in bibl. 160, pag. 147.

(768) Per rendersi conto qualitativamente dei campi che circondano una particella carica in moto a velocità costante e in moto accelerato (emissione di onde elettromagnetiche), si può vedere bibl. 222, Vol. II, pag. 536.

(769) Questo fatto si può anche dire nel modo seguente: per mettere in moto una particella priva di carica, occorre vincere solo l’inerzia meccanica; quando la particella è carica, ad una sua messa in moto corri sponde la creazione di un campo magnetico; in quest ‘ultimo caso vi sono quindi due inerzie da vincere, poiché la creazione di un campo magnetico si ottiene a spese di un dato lavoro (inerzia elettrica) che va ad aggiungersi all’ordinario lavoro che bisogna fare per mettere in moto la massa (inerzia meccanica).

(770) I risultati di Kaufmann di cui si parla sono discussi nelle memorie seguenti:

      W. Kaufmann: Sulle deviazioni elettriche e magnetiche delle radiazioni di Becquerel e sulla massa. apparente degli elettroni, Gött. Nachr. 1901.

     W. Kaufmann:  Sulla ‘Massa Elettromagnetica’ degli elettroni,  Gött. Nachr. 1903.   

     W. Kaufmann: Sulla costituzione degli elettroni, Sitzb. preuss. Akad. Wiss., 1905.

(771) M. Abraham: Sulla dinamica degli elettroni, Gött . Nachr., 1902. M. Abraham: Principi di dinamica degli elettroni, Annalen der Physik, 1903. Si noti che anche A. Sommerfeld aderì al programma di Wien-Abraham, programma al  quale,  per  breve  tempo,   aderì  anche  Planck.

(772) J.H. Poynting: On the transfer of energy in an electromagnetic field, Phil. Trans., 175; 1884.

(773) Abraham si fece i conti nei due casi, trovando gli stessi risultati.

(774) Citato in bibl. 160, pag. 151.

(775) Nel suo lavoro del 1904 Lorentz troverà valori differenti per queste masse ed osserverà (bibl.131, pagg. 30-31):

I valori che ho trovato per le masse longitudinale e trasversale di un elettrone, espresse in funzione della sua velocità, non sono gli stessi di quelli precedentemente ottenuti da Abraham. Il motivo di questa differenza nasce dall’unica circostanza che, nella sua teoria, gli elettroni sono trattati come sfere di dimensioni invariabili. Ora, riguardo alla massa trasversale, i risultati di Abraham sono stati confermati in modo brillante dalle misure di Kaufmann della deflessione di radiazioni in campi elettrici e magnetici. Quindi, se non vi sono obiezioni più serie alla teoria da me ora proposta, deve essere possibile mostrare che queste misure sono in accordo con i miei valori quasi allo stesso modo che con quelli di Abraham.

(776) Poincaré, preso atto di questa conclusione, cominciò a porsi del problemi sulla validità del principio di relatività (bibl. 141, pag. 175), dicendo:

Il principio di relatività non avrà allora il valore che si à cercato di attribuirgli“, e subito dopo osservando che “ prima di accettare questa conclusione, è necessario riflettere un poco“.  

(777) Citato in bibl. 133, pag. 62.

(777 bis) Ibidem.

(778) Per ulteriori notizie sui lavori di Abraham si veda bibl. 160, pagg. 148-15 7.  

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30  – La Relatività da Newton ad Einstein (Cap. V).  La nascita della della Relatività di Einstein.

1 – LA FORMAZIONE DI EINSTEIN. I SUOI LAVORI ANTERIORI AL 1905. I LAVORI DEL 1905 SUL MOTO BROWNIANO E SUI QUANTI DI LUCE.

        Albert Einstein (1879-1955) nacque in Germania (Ulm – Würtemberg) dove fece i suoi primi studi (Ginnasio di Monaco). Quindi passò in Svizzera, dove, dopo un anno alla Scuola Cantonale di Aarau, riuscì  conseguire l’iscrizione al Politecnico di Zurigo (1896), nel quale si laureò nel 1900 in Fisica e Matematica. (77 9)  E’ da distaccare il fatto che tra i suoi docenti vi fu il grande matematico, di origine russa ma di formazione tedesca, H. Minkowski (1864-1909) il quale avrà grande parte nello sviluppo successivo della teoria della relatività.

        I lavori che certamente conosceva, almeno fino al 1905, erano quelli di Helmholtz, di Kirchhoff, di Hertz e di Boitzmann. Egli era certamente a, conoscenza dei lavori di Maxwell i quali lo avevano affascinato . E’ da notare però che il suo professore al Politecnico, H. Weber, non aveva incluso le teorie di Maxwell nel suo corso e, anche se non abbiamo nessuna sicurezza nell’affermarlo, pare probabile che Einstein conoscesse Maxwell, almeno all’inizio, solo attraverso i lavori di Helmholtz e di Hertz. Egli aveva inoltre letto i lavori di Lorentz del 1892 e del 1895, la Chimica generale di Ostwald, la Meccanica nel suo sviluppo storico-critico  ed I principi del calore nel loro sviluppo storico-critico, oltre ad altre opere, di Mach, almeno la prima memoria di Abraham del 1902, le memorie di Kaufmann del 1901-1902-1903, la memoria di Planck del 1900 nella quale si introduceva la quantizzazione dell’energia, l’opera La scienza e l’ipotesi di Poincaré. Conosceva bene Kant e Spinoza ed era rimasto molto influenzato dalla critica della meccanica fatta da Mach, (780)  ma ancora di più dalle concezioni filosofiche di D. Hume (in particolare dalla   critica della causalità e dei concetti di spazio e soprattutto di tempo).  (780 bis) Anche Ostwald, come del resto Abraham, aveva esercitato una notevole influenza su di lui; soprattutto là dove Ostwald negava la realtà di tutti quegli enti inosservabili come l’etere e portava avanti una fisica, quella termodinamica, che, come vedremo, rispondeva agli ideali di Einstein. Ben presto però (intorno al 1902) Einstein si distaccò sia da Ostwald sia dal programma elettromagnetico poiché non li trovava più aderenti alle sue esigenze di unità (in particolare il programma elettromagnetico tentava di fondarsi sulle equazioni di Maxwell-Lorentz che, come vedremo, Einstein trovava difettose). Altre sue letture erano poi le opere di Galileo, Kepler, Newton, Darwin e Riemann. Sembra accertato che Einstein non avesse conoscenza dei lavori di Michelson e Morley se non indirettamente, attraverso le memorie di Lorentz. (781)  Allo stesso modo egli non era a conoscenza né del lavoro di Lorentz del 1904, né di quelli di Boltzmann e Gibbs che trattavano del moto browniano e di questioni ad esso connesse come le fluttuazioni (in particolare non conosceva il lavoro di Gibbs del 1902). (78l ter)

         La matematica era ben conosciuta da Einstein. Come egli stesso sostie ne nelle sue Note autobiografiche (1946), già ai 16 anni aveva una buona conoscenza delle nozioni fondamentali della matematica, della geometria analitica, del calcolo differenziale ed integrale. Ciò nonostante non fu la matematica a cui Einstein dedicò il suo maggior impegno nel periodo universitario. Al contrario, gran parte del suo tempo lo passava nei laboratori (ricchissimi di strumenti poiché il Politecnico di Zurigo, attraverso il prof. H. Weber, era una emanazione del già enorme Gruppo Siemens), affascinato dal contatto diretto con l’esperienza (il suo biografo Reiser sostiene che nel periodo universitario Einstein era, dal punto di vista scientifico, un empirista puro). E non che la matematica a lui non piacesse, era soltanto che non si sentiva in grado  di scegliere, tra l’enorme varietà dei suoi rami, verso quale indirizzarsi. Racconta Einsteins   (782)

Certo anche la fisica era divisa in diversi rami … Anche qui la massa di dati sperimentali non sufficientemente collegati tra loro era enorme. Ma in questo campo imparai subito a discernere ciò che poteva condurre ai principi fondamentali da quella moltitudine di cose che confondono la mente e la distolgono dall’essenziale. Il guaio era, naturalmente, che, piacesse o no, bisognava ammucchiare tutta questa roba nella testa per gli esami.”

Quindi la fisica era al centro degli interessi di Einstein. In un primo tempo, fino al 1904, il suo approccio ai problemi in studio fu di tipo meccanicistico. Ma piano piano veniva maturando in lui una concezione diversa. Nelle sue Note autobiografiche, scritte da Einstein tra la fine del 1946 e gli inizi del 1947, così egli racconta:

” Fu Mach a scuotere, nella sua Storia della Meccanica, questa fede dogmatica: il suo libro, quand’ero studente, esercitò una profonda influenza su di me. Oggi riconosco la grandezza di Mach nel suo scetticismo incorruttibile e nella sua indipendenza; ma negli anni della mia giovinezza rimasi influenzato molto profondamente anche dalla sua posizione epistemologica, che oggi mi sembra sostanzialmente insostenibile.” (783)                                                                         

        Prima di passare ad occuparci dei lavori che Einstein portò a termine subito dopo la laurea, è necessario soffermarci su un aspetto che ancora oggi è fuorviante.  Riguarda la disinvoltura con cui molti  storici  o pedagoghi affrontano il tema dei rapporti tra la teoria della relatività e 1’esperienza di Michelson-Morle.y, gli uni nel tentativo di costruire una linearità nella storia delle conoscenze scientifiche, di accreditare il fatto che nella scienza si procede con un meccanismo di accumulazione di conoscenze, gli altri per una pretesa semplificazione didattica. Una testimonianza dello storico R.S. Shankland, riportata da Holton, si riferisce a due successive interviste che ebbe con Einstein nel 1950 e nel 1952 e ad uno scritto del 1952 che lo stesso Shankland richiese ad Einstein, in occasione della commemorazione del centenario della nascita di Michelson. Il racconto che Shankland fa della prima intervista riporta questo brano: (784)

Quando gli chiesi di come aveva avuto notizia dell’esperimento di Michelson-Morley, mi disse che lo aveva conosciuto attraverso gli scritti di H.A. Lorentz, ma che solo dopo il 1905 gli aveva prestato attenzione !, altrimenti disse  lo avrei menzionato nel mio articolo. Continuò dicendo che i risultati sperimentali che maggiore influenza avevano avuto su di lui erano le osservazioni dell’aberrazione stellare e le misure di Fizeau della velocità della luce nell’acqua in movimento. Questo fu sufficiente mi disse.”

Ad una analoga domanda, posta da Shankland nella seconda intervista, Einstein rispose:

Non  è così semplice  dirlo,   non  sono  sicuro  di   quando  venni  a  conoscenza  per la prima volta dell’esperimento di Michelson. Non ero cosciente del fatto che   avesse avuto influenza su di me in modo diretto durante i sette anni in cui la relatività era tutta la mia vita. Credo che semplicemente lo accettai come veritiero

e quindi aggiunse che di quell’esperienza aveva avuto notizia dai lavori di Lorentz. Infine, nello scritto del 1952, Einstein dice:

“L’influenza del famoso esperimento di Michelson-Morley nei miei lavori è stata abbastanza indiretta. Ebbi notizia di esso dalle decisive investigazioni di Lorentz sull’elettrodinamica dei corpi in movimento (1895), che conoscevo bene prima di sviluppare la Teoria Speciale della Relatività.”

In definitiva, va ribadita la non conoscenza da parte di Einstein dell’esperienza di Michelson-Morley. Capiremo più avanti che agli occhi di Einstein, che non si poneva sulla strada di teorie costruttive ma su quelle di teorie dei principi, (785) era in definitiva inessenziale la conoscenza di quella esperienza.

        E veniamo ora ai lavori di Einstein anteriori il 1905.  

        Il primo lavoro  è del 1901, un anno dopo la sua laurea ed in una situazione di grossa incertezza economica (non aveva più il modesto assegno mensile che gli forniva il padre, non era riuscito ad avere il posto di assistente al Politecnico,  (786) stava studiando per ottenere un qualche titolo accademico come il dottorato di ricerca). Questo suo primo lavoro venne pubblicato sulla più prestigiosa rivista tedesca, gli Annalen der Physik;  ed Einstein lo utilizzò come referenza per farsi assumere come assistente presso i laboratori di Ostwald a Lipsia e quindi presso quelli del fisico H. Kamerlingh Onnes (l853-1926) a Leida. Questi tentativi non ebbero successo come del resto altri   che seguirono (suoi articoli successivi venivano respinti come tesi per ottenere il dottorato ma venivano accettati dagli Annalen). (787)

        In precarie condizioni economiche, Einstein dovette occuparsi (mediante una raccomandazione!) all’Ufficio Brevetti di Berna (giugno 1902). (788)  E, non ostante questo impegno a tempo pieno, riuscì a portare a compimento l’intera sua produzione scientifica fino al 1909.

        Ma veniamo al contenuto dei primi lavori di Einstein.

        Quello del 1901, il suo primo cui ci siamo già riferiti, ha per titolo Considerazioni sui fenomeni di capillarità.  (789) In esso Einstein tenta di dare alla chimica delle basi meccaniche a partire dall’idea che le forze chimiche, quelle che legano le molecole tra loro sono di tipo meccanico ed in particolare di tipo gravitazionale (forze centrali e azioni a distanza). C’è da notare che la particolare trattazione portata avanti dal nostro coinvolge i principi della termodinamica. Sulla stessa strada si muoverà Einstein nel suo secondo lavoro. Sulla teoria termodinamica della differenza di potenziale tra metalli … (1902).  (790)   Egli tenta qui di estendere la sua teoria delle forze chimiche dai liquidi ai gas e, durante questo tentativo, ebbe modo di familiarizzarsi con i metodi statistici di Boltzmann.

        Dall’insieme di questi due lavori si può ricavare un primo tentativo di Einstein di fornire una teoria unificata delle forze. Questa prima bozza di programma sarà ancora portata avanti dal successivo lavoro, Sulla teoria cinetica dell’equilibrio termico e del secondo principio della termodinamica (1902).  (791) In questo terzo articolo Einstein estende quanto discusso nei primi due alle molecole di un gas utilizzando la teoria cinetica del calore con i metodi di Boltzmann di meccanica statistica. Ma l’interessante è che in questo lavoro egli, indipendentemente, ritrova tutti i risultati che contemporaneamente avevano trovato sia Boltzmann che Gibbs come, ad esempio, il teorema di equipartizione dell’energia e le interpretazioni microscopiche di entropia e temperatura, risultati che, è bene sottolineare, non erano ancora a conoscenza di  Einstein. Per rendere però conto su quale strada si muoveva ancora il nostro,  basti dire che egli si proponeva l’operazione che, a suo giudizio, non era riuscita del tutto a Maxwell e a Boltzmann: la fondazione completa del secondo principio della termodinamica sulla meccanica. La tesi principale dell’articolo è infatti che la seconda legge si prospettacome una conseguenza necessaria della concezione meccanica della natura.” (7 92 ) Si può certamente osservare che a questo punto in Einstein ancora erano molto forti gli influssi diretti della concezione meccanicistica che era di molti suoi insegnanti al Politecnico. Ma ancora nei suoi ulteriori lavori del 1903, Sulla teoria dei fondamenti della termodinamica,  (793)  e 1904, Sulla teoria molecolare generale del calore, (794) Einstein prosegue nel suo tentativo di portare a termine la fondazione della termodinamica sulla meccanica. Àncora si sviluppa la meccanica statistica (e poiché temperatura ed entropia sono definite per un dato insieme, prima di passare a considerazioni probabilistiche, è più corretto parlare di termodinamica statistica, e questo sia per Einstein che per Gibbs), questa volta su strade non toccate da Gibbs (l’insieme temporale, ad esempio, è utilizzato da Einstein per definire in un nuovo modo lo stato di equilibrio, quello più probabile, di m sistema termodinamico: lo stato macroscopico del dato sistema è quello che esso occupa durante la maggior parte della sua evoluzione temporale), e sistematicamente si inizia lo studio delle fluttuazioni di energia (795) che assume ranno un ruolo fisico centrale nella sua teoria. In particolare Einstein mostrò (1904) che la fluttuazione quadratica media dell’energia dipende dalla costante k di Boltzmann la quale determina quindi la stabilità di un sistema. A questo punto c’è il passo importante di Einstein, soprattutto per gli sviluppi dei due articoli dell’anno seguente sul moto browniano e sui quanti di luce.

Dice Einstein: (796)

L’equazione che abbiamo ricavato permetterebbe una determinazione esatta della costante universale k se fosse possibile determinare la fluttuazione di energia di un sistema; ma, dato il presente stato della nostra conoscenza, non ci troviamo di fronte a questa eventualità. Per di più esiste solo una classe di sistemi fisici nei quali possiamo presumere, per esperienza, che si abbia una fluttuazione di energia. Questo sistema è quello dello spazio vuoto, pieno di radiazione termica.

Einstein inizia così a mettere in relazione la costante k con l’altra costante (l max .T) della  legge  dello  spostamento,  trovata  da  W.  Wien nel  1894  (si  veda il mio articolo La nascita della teoria dei quanti pubblicato nel sito e si ricordi che l max è la lunghezza d’onda cui compete il massimo d’energia irradiata da un corpo nero che si trovi ad una temperatura assoluta T). In questo modo si inizia lo studio del corpo nero mediante le fluttuazioni ed Einstein trova che l max deve risultare:

 l max  = 0,42/T

  valore in ottimo accordo con i risultati sperimentali che davano:

l max = 0,293/T

E’ un risultato di grande rilievo che convince Einstein a proseguire sulla strada dell’applicazione dei principi generali della termodinamica alla pura radiazione elettromagnetica ma lo farà, come vedremo più oltre, cambiando approccio al problema. Per ora basti osservare che certamente Einstein conosce i lavori di Planck sulla quantizzazione dell’energia, tant’è vero che utilizza, la definizione di entropia che Planck fornisce in questi lavori; mentre ancora non ha nulla da aggiungere alla parte propriamente quantistica, tant’è vero che non utilizza, e non dice nulla sulla relazione di Planck per l’emissione e l’assorbimento di radiazione da parte di un corpo nero.

         In definitiva l’elaborazione teorica, la meccanica statistica (legge di Boltzmann che lega entropia a probabilità e teoria delle fluttuazioni), utilizzata indipendentemente da ipotesi riduzioniste ma come un insieme di principi generali, mostrava un’unità tra i fenomeni che si verificavano tra molecole nell’ipotesi meccanica ed i fenomeni elettromagnetici.

         Il percorso seguito da Einstein per arrivare a questo risultato è così descritto da Battimelli: (797)

E’ un modo di affrontare il problema che mostra in modo spiccato le caratteristiche di quelle che Einstein chiama teorie dei principi senza partire da elementi ipotetici si considerano proprietà generali dei fenomeni osservate empiricamente (per esempio la tendenza di un qualsiasi sistema isolato a portarsi verso uno stato finale di equilibrio) e se ne deducono formule matematiche di tipo tale da valere in ogni caso particolare che si presenti. Il comportamento del sistema non viene più dedotto dalle proprietà dinamiche del modello meccanico che lo rappresenta, ma da una struttura formale, la meccanica statistica, autonomamente fondata e svincolata da ogni riferimento ad un modello particolare. Non è quindi più necessario dare il modello meccanico del sistema: i risultati ottenuti sono applicabili in tutta generalità a qualunque caso si presenti, per quanti siano i gradi di libertà del sistema e qualunque sia la sua struttura.”  (798) 

        Occorre osservare a questo punto che negli anni che vanno dal 1902 al 1904 Einstein ebbe un intenso rapporto intellettuale con alcuni suoi amici,

particolarmente M. Grossmann (fisico), K. Habicht (matematico), M. Solovine (filosofo), P. Adler (fisico) e M. Besso (ingegnere) . Con essi ebbe modo di discutere dei fondamenti della fisica, della matematica e della filosofia in quegli anni cruciali che segnarono il cambiamento di posizione epistemologica di Einstein (avvicinamento alle posizioni di Mach).                                                            

         Proprio sul finire del 1904 Einstein si rivolgerà sconfortato al caro amico Besso (l’unico che ringrazierà per l’aiuto fornitogli in occasione del suo lavoro di relatività del 1905) confidandogli le difficoltà che non riusciva a superare in certi suoi lavori (quelli del 1905). Diceva: (799)

E’ inutile che continui. Rinuncerò … Quando si arriva a disperare nulla può servire, né le ore di lavoro, né i successi precedenti, niente. Sparisce ogni senso di sicurezza. E’ finita … tutto è inutile. Non ho ottenuto nessun risultato …

        Soltanto qualche mese dopo (primavera 1905) Einstein scriveva euforico al suo amico Habicht dicendogli che gli avrebbe mandato quattro suoi saggi, aggiungendo “il primo dei quali … è molto rivoluzionario”  (Einstein fa riferimento al suo articolo sui quanti di luce). Le difficoltà erano dunque superate; il risultato erano quattro articoli per gli Annalen der Physik, che vennero pubblicati nel 1905. Ci occuperemo qui dei primi due, Sul moto di piccole particelle sospese in un liquido stazionario, richiesto dalla teoria cinetico-molecolare del calore  (800) e Sull’emissione e trasformazione della luce da un punto di vista euristico  (801) , per gli altri due rimandiamo al prossimo paragrafo.

        Questi due articoli, come del resto gli altri due che discuteremo nel prossimo paragrafo, hanno in comune una definitiva maturazione metodologica ed epistemologica del pensiero di Einstein. Essi rappresentano una vera e propria svolta nel modo di fare scienza, proprio perché vengono ribaltate le antiche premesse metodologiche e si afferma con chiarezza l’esigenza di non andare più ad inseguire spiegazioni di fenomeni particolari ma di fornire la fisica di basi più generali e più produttive, da cui ricavare, come casi di semplice applicazione, i singoli fenomeni. Il brano di Einstein tratto dal suo Tempo, spazio e gravitazione (1948), che abbiamo citato in nota 785, descrive molto lucidamente i caratteri interni della svolta. Ma su questo argomento già Einstein aveva detto qualcosa nelle sue Note autobiografiche (1946). Ricordando le difficoltà che via via incontrava nel portare avanti il suo lavoro scientifico prima del 1905, Einstein dice:  (802)

A poco a poco incominciai a disperare della possibilità di scoprire le vere leggi attraverso tentativi basati su fatti noti. Quanto più a lungo e disperatamente provavo, tanto più mi convincevo che solo la scoperta di un principio formale universale avrebbe potuto portarci a risultati sicuri.”

Quanto qui detto lo si può subito confrontare con quanto Einstein sostiene in apertura del suo articolo sul moto browniano (il primo dei due in oggetto – nota 800). Egli non cerca di spiegare il fenomeno scoperto da Brown, che tra l’altro non conosceva nei dettagli, ma, come lo stesso titolo del lavoro suggerisce, egli tenta di costruire una teoria nella quale sia compresa la descrizione di quelli che sono i possibili movimenti di particelle in sospensione in un liquido, in accordo con la teoria cinetico-molecolare del calore, i quali movimenti   

se   potessero   essere   osservati   (assieme   alle   leggi  che  ci   si   aspetterebbe  di trovare), allora la termodinamica classica non potrebbe più essere considerata applicabile con precisione anche a corpi di dimensioni distinguibili al microscopio: ma determinazione esatta delle effettive dimensioni atomiche sarebbe allora possibile. D’altra parte, se la predizione di questi movimenti risultasse scorretta, si avrebbe una pesante obiezione alla concezione cinetico-molecolare del calore.”   (803)

I principi fondamentali su cui basa il suo lavoro sono quelli che egli ha affinato nei lavori precedenti ed in particolare in quello del 1904: la legge di Boltzmann che lega l’entropia alla probabilità e, soprattutto, le fluttuazioni. Ed in questo lavoro l’idea guida di Einstein è proprio, come sostiene D’Agostino, “la ricerca di fluttuazioni osservabili che potessero essere adoperate per fissare con precisione la scala delle grandezze molecolari.” (804)

        Il ragionamento di Einstein è press’a poco il seguente.

Poiché è impossibile seguire nel tempo i movimenti di una singola particella,   ci si può rifare al suo spostamento quadratico medio  in un tempo t. Ebbene Einstein dimostra che queste due grandezze sono tra loro, a meno di una costante, in un rapporto costante chiamato coefficiente di diffusione D. (805)  In particolare trova:

Per altra via poi egli ricava che questo coefficiente di diffusione è dato anche dalla relazione:

dove R è la costante universale dei gas; T è la temperatura assoluta; h il coefficiente di viscosità del liquido in cui le particelle si trovano in sospensione; r è il raggio delle particelle; N è il numero di Avogadro. Mettendo insieme le due relazioni e tenendo conto che tutte le altre quantità sono misurabili, si può risalire al valore del numero N di Avogadro. (806)

        Partendo quindi da principi generali, Einstein riesce a ricavare una relazione la quale può permettere, su scala macroscopica, una verifica sperimentale della costituzione atomica delle sostanze. E lo stesso Einstein nelle sue Note autobiografiche, riferendosi a questo lavoro, dice:  (807)

Il mio scopo precipuo era di trovare fatti che confermassero, per quanto era possibile, l’esistenza di atomi di determinate dimensioni finite … Il fatto che queste considerazioni concordassero con l’esperienza, unitamente alla determinazione delle vere dimensioni molecolari compiuta da Planck con la legge della radiazione (per alte temperature), convinse gli scettici, a quel tempo molto numerosi (Ostwald, Mach), della realtà degli atomi.”

E’ interessante notare, in queste parole di Einstein, che i fatti sono il trattamento teorico generale da cui discende una particolare deduzione che poi si va a controllare essere o meno d’accordo con l’esperienza, che è un semplice caso particolare che il trattamento teorico generale è in grado di spiegare.                                                                              

         Come già accennato, lo stesso procedimento, dai principi agli effetti particolari, è seguito da Einstein anche nel secondo dei lavori che stiamo discutendo, quello sui quanti di luce (nota 801) . Questo articolo è comunemente indicato come quello dell’effetto fotoelettrico (808)  ma questa denominazione non è propriamente corretta. Anche qui lo scopo di Einstein non è quello di discutere l’effetto fotoelettrico, ma di trovare dei principi generali dai quali, tra l’altro, discenda la spiegazione di questo effetto. C’è comunque un altro elemento, di tipo euristico, che emerge in questo lavoro. Si tratta di sistemare una asimmetria che Einstein individua: identico procedimento a quello che sarà seguito nella memoria sulla relatività che discuteremo nel prossimo paragrafo. L’asimmetria in questione consiste nel fatto che nelle elaborazioni  dei  fisici si assegna una natura discontinua alla materia ponderabile ed una natura continua alla radiazione elettromagnetica del vuoto. Dice Einstein in apertura del suo lavoro:

Esiste una differenza formale di grande importanza fra le concezioni che sostengono i fisici nei confronti dei gas e degli altri corpi ponderabili e la teoria di Maxwell riguardante i processi elettromagnetici nel cosiddetto vuoto … Secondo la teoria di Maxwell l’energia presente in tutti i fenomeni di carattere esclusivamente elettromagnetico (e quindi anche la luce) è da considerarsi una funzione spaziale continua, mentre i fisici moderni concepiscono l’energia di un corpo ponderabile come risultato di una somma sugli atomi ed elettroni.”

Questa introduzione, che sembra così inoffensiva,  pone tutta una serie di problemi. Innanzitutto Einstein non fa riferimento a nessun etere e parla esplicitamente di vuoto. Quindi egli sottolinea la natura elettromagnetica della luce che gli servirà tra un momento per estendere la quantizzazione di Planck ai fenomeni luminosi (e per togliere ad essa il carattere che Planck gli aveva assegnato di mero artificio matematico). Inoltre si fa presente l’insoddisfazione per quel dualismo (continuità dei campi, discontinuità delle particelle), soprattutto presente, anche se non la si cita, nella teoria degli elettroni di Lorentz.  Infine, con Holton, sembra quanto meno strano che, con tutti i problemi che aveva l’elettrodinamica, la critica andasse ad appuntarsi ad una questione di differenza formale. (810)

         Comunque, nella sua introduzione, Einstein dà atto alla teoria ondulatoria della luce di rendere conto di svariati fenomeni ma solo su scala macroscopica, tant’è vero che aggiunge: (811)

Tuttavia, bisogna tener presente che le osservazioni ottiche si riferiscono a valori medi nel tempo e non a valori istantanei.

L’esigenza di fare questa precisazione nasceva in Eistein per il fatto che le equazioni di Maxwell si dimostravano non corrette se applicate a fenomeni microscopici. Era il campo in discussione: la teoria di Maxwell sembra valida solo per fenomeni macroscopici; i fenomeni microscopici debbono trovare la loro spiegazione in un altro principio, i quanti; una trattazione di tipo statistico di questi ultimi deve ridare i fenomeni macroscopici. Quindi, sebbene la teoria ondulatoria della luce spieghi una quantità di fenomeni, è pensabile che essa,

“fondata su funzioni spaziali continue, possa entrare in conflitto con l’esperienza, qualora venga applicata ai fenomeni di emissione e trasformazione della luce. (811)

A quali fenomeni fa riferimento Einstein ?

Mi sembra che le osservazioni compiutesi sulla radiazione di corpo nero, la fotoluminescenza, (812)  l’emissione di raggi catodici tramite luce ultravioletta (813)   ed altri gruppi di fenomeni relativi all’emissione ovvero alla trasformazione della luce, risultino molto più comprensibili se vengono considerate in base all’ipotesi che l’energia sia distribuita nello spazio in modo discontinuo.” (814)

Ed ecco il modo utilizzato da Einstein per eliminare l’asimmetria: si tratta di considerare come discontinua l’energia associata alla radiazione elettromagnetica (e questo per rendere conto di fenomeni come quelli elencati che possono trovare solo una spiegazione microscopica) estendendo l’ipotesi di Planck alla luce mediante i quanti di luce o fotoni (quest’ultimo nome sarà introdotto dal fisico americano A.H. Compton nel 1923). Dice Einstein: (815)

Secondo l’ipotesi che voglio qui proporre, quando un raggio di luce si espande partendo da un punto, l’energia non si distribuisce su volumi sempre più grandi, bensì rimane costituita da un numero finito di quanti di energia localizzati nello spazio e che si muovono senza suddividersi, e che non possono essere assorbiti o emessi parzialmente.

Con questa ipotesi Einstein fa un notevole passo avanti rispetto alla prima quantizzazione di Planck: allora si trattava di un artificio matematico per far concordare l’elaborazione teorica con i dati sperimentali ed inoltre la quantizzazione, ammessa per l’energia degli oscillatori che producevano la radiazione, veniva negata per le onde elettromagnetiche (ammessa in emissione e negata in assorbimento); ora la quantizzazione viene assunta a principio generale, con un preciso significato fisico legato al modo con cui la materia emette od assorbe energia. C’è da aggiungere che si ribadisce ancora, di più l’insoddisfazione nei riguardi della massima elaborazione dell’elettrodinamica, la teoria di Lorentz, la quale non riesce a rendere conto dei fenomeni che Einstein cita. Inoltre alcune difficoltà che egli riscontra nella teoria del corpo nero elaborata da Planck (aumentando il campo di frequenze ammesso per gli oscillatori, l’energia che essi dovrebbero fornire sarebbe, al limite, infinita), vengono da Einstein attribuite ancora ad insufficienze della teoria di Maxwell-Lorentz.

        Nel seguito del lavoro Einstein elabora il problema in  accordo con il suo programma precedente (soprattutto l’articolo del 1904). Rifiuta ipotesi riduzioniste affidandosi solo ai principi generali che gli sono forniti dalla termodinamica.  (816) Egli va quindi a calcolarsi l’entropia di un gas in funzione del volume da esso occupato e l’entropia della radiazione sempre in funzione del volume (quest’ultima la trova a partire dalla legge di distribuzione di Wien, e non di Planck, ben sapendo che i suoi limiti di validità impongono delle restrizioni). I risultati che trova mostrano che

l’entropia di una radiazione monocromatica di densità abbastanza ridotta varia in funzione del volume, seguendo la stessa legge che vale per l’entropia di un gas ideale o di una soluzione diluita.” (817)

In particolare, confrontando le due relazioni, si trova: (818)

 E/bn  = n.(R/N)

dove: E è l’energia della radiazione; n è la sua frequenza; b  è una delle due costanti della formula di Planck-Wien (si veda la sezione Spettroscopia al paragrafo 2 del precedente capitolo, alla data l896) per la quale Einstein fornisce il valore b = 4,866.10-11 °K.sec; (819) n è il numero delle molecole del gas; R è la costante universale dei gas ed N il numero di Avogadro. Da questa relazione si può facilmente ricavare (ponendo R/N = k = costante di Boltzmann):

                                                                             E = nkbn

  mentre per una sola molecola si ha: (820)

e = kbn                   

Dato che questo risultato lo si è ottenuto uguagliando le due relazioni che forniscono l’entropia per un dato volume, rispettivamente per un gas e per la radiazione, Einstein ne deduce che: (821)

Una radiazione monocromatica di densità ridotta (nei limiti di validitàdella legge di Wien) si comporta, nell’ambito della termodinamica, come se fosse composta di quanti di energia di grandezza kbn, indipendenti tra loro.”

Il grande passo è fatto: dalle entropie che hanno la stessa forma per gas e radiazione, il nostro conclude che anche la struttura corpuscolare, per gas e radiazione, deve essere la stessa; egli dice infatti: (822)

Se una radiazione monocromatica (di densità sufficientemente ridotta) si comporta, rispetto alla relazione entropia-volume, cosse un mezzo discontinuo, costituito da quanti di energia kbn, dovremo esaminare l’ipotesi che le leggi di emissione e di trasformazione della luce siano costituite anche loro, come se la luce fosse formata da simili quanti di energia.”

E a questo punto, dopo aver stabilito i principi generali, Einstein passa a ricavarne alcune conseguenze ed in particolare fa vedere come sia i fenomeni di fotoluminescenza (regola di Stokes), sia l’emissione di raggi catodici tramite esposizione di corpi solidi, sia infine l’effetto fotoelettrico, possano essere interpretati mediante la sua teoria dei quanti di luce. (823)                                     :

        Vedremo nel prossimo paragrafo che, pur trattando argomenti completamente  diversi, il metodo seguito è lo stesso. E’ la ricerca di principi generali, che  siano semplici ed unificanti, che muove l’intero lavoro di Einstein. (824)     Ma c’è di più. Rispetto al passato, “non è solo una questione di cambiamento di metodo; si tratta di una revisione e, per certi versi, di una ridefinizione radicale di ciò che e’ lecito fare in fisica, di ciò che sia da considerare soddisfacente e cosa irrilevante, di dove vadano cercati i fondamenti dell’operare scientifico.” (825)  

        Per concludere, e per quanto vedremo nel prossimo paragrafo, è interessante notare che con questo articolo praticamente Einstein afferma la non necessità delle onde luminose e conseguentemente del loro sostegno, l’etere.

NOTE

(779) Einstein non ebbe una buona esperienza scolastica se si eccettua, l’anno in cui studiò alla Scuola di Aarau. Era tormentato dalla scuola nozionistica ed autoritaria. La parentesi nella scuola democratica di Aarau, i cui insegnamenti erano impartiti sulla base delle teorie del pedagogo svizzero J.H. Pestalozzi (1746-1827) sarà sempre ricordata da Einstein come estremamente positiva. Su questi aspetti si può vedere il saggio di G. Holton, Su un tentativo di comprensione del genio scientifico, The Anerican Scolar, Vol. 41, inverno 1971-1972 (si veda bibl. 127, pagg. 294-322). Su cosa pensava Einstein della scuola autoritaria e nozionistica si può vedere un discorso che tenne nel 1936 e riportato in bibl. 161, pagg. 78-84. Notizie biografiche su Einstein si possono trovare, ad esempio, su Hoffmann (bibl.162), su Bergia (bibl.163), su Bertin (bibl.164), su Cuny (bibl.165), su Levinger (bibl.166), su Michelmore (bibl.167), su Koutznetsov (bibl. 262), su Highfield e Carter (bibl. 263), su Pais (bibl. 264 e 265), su Pyenson (bibl. 266).Si possono poi vedere le sue importanti Note Autobiografiche nel lavoro, curato da Schlipp, Albert Einstein scienziato e filosofo (bibl. 168).

(780) Si veda il saggio di G. Holton: Mach, Einstein and the Search for Reality,   Daedalus, 97, 649; 1968 (bibl. 127, pagg. 164-203).

(780 bis) Di Hume, molto schematicamente,si può dire che non accettava il concetto di Sostanza che egli sostituiva con un insieme di idee; allo stesso modo, respingeva il concetto di causalità sostenendo che essa aveva il solo significato che un dato evento si era realizzato in connessione con un altro evento, senza che ciò implicasse una relazione né logica né necessaria. Riguardo allo spazio Hume sosteneva che esso non è altro che l’idea di punti visibili o tangibili distribuiti in un certo ordine ed inoltre che noi non possiamo avere idea di nessuna estensione reale senza riempirla con oggetti sensibili. Riguardo al tempo infine, esso è scoperto da noi mediante una qualche successione percepibile di oggetti che cambiano e quindi non avremmo idea del tempo senza un qualcosa che cambia.

(781) Si veda il saggio di G. Holton: Einstein, Michelson and the crucial experiment , Isis, 60, 155; 1969 (bibl. 127, pagg. 204-293).

(781 bis) La rivista olandese, i Proceedings of the Amsterdam Academy (edizione in lingua inglese), era molto difficile da trovarsi e non solo per Einstein che all’epoca era impiegato all’Ufficio Brevetti di Berna, ma anche per coloro che lavoravano in istituzioni scientifiche molto importanti. In particolare M. von Laue, allora assistente presso l’Istituto di Fisica Teorica della più grande e prestigiosa Università del mondo, quella di Berlino, dovette scrivere a Lorentz alla fine di novembre del 1905 per chiedergli una copia del lavoro in oggetto. Nella stessa lettera M. von Laue sosteneva che a Berlino vi era una sola copia di quel lavoro, nella Biblioteca Reale, che prestava riviste solo per un giorno.

(781 ter) J.W. Gibbs: Elementary Principles in Statistical Mechanics, New York and London, 1902.

(782) Bibl. 168, pag. 10.

(783) Ibidem, pag. 12. L’influenza di Mach su Einstein durò fino a circa il 1930. La prima prova scritta del distacco completo di Einstein da Mach e della sua adesione al realismo razionalista, portato avanti dal suo collega ed amico Planck, si ha in uno scritto (l931) inedito di Einstein, che doveva servire da introduzione all’articolo di Planck Positivismo e mondo esterno reale, 1930 (bibl. 153, pagg. 217-241). Si veda allo scopo il saggio di Holton ci tato in nota 760 e riportato in bibl. 127; si veda in particolare la pag.201.

(784) Questo ed i successivi due brani riportati sono tratti dal saggio di Holton citato in nota 781. Si veda bibl. 127, rispettivamente, alle pagg. 233-234; 234; 236.

 (785) Nel 1948, in un suo saggio dal titolo Tempo, spazio e gravitazione (bibl. 161 pagg. 212-216), Einstein scrisse:    

Vi sono due specie di teorie in fisica. La maggior parte di esse è di tipo costruttivo. Esse tentano di formare un quadro dei fenomeni complessi partendo da principi relativamente semplici. La teoria cinetica dei gas, per esempio, tenta di ricondurre al movimento molecolare le proprietà meccaniche, terrmiche e di diffusione dei gas. Quando affermiamo di comprendere un certo gruppo di fenomeni naturali, intendiamo dire che abbiamo trovato una teoria costruttiva che li abbraccia.

In aggiunta a questo gruppo molto vasto di teorie, ve n’è un altro costituito da quelle che io chiamo teorie dei principi. Esse fanno uso del metodo analitico, invece di quello sintetico. Il loro punto di partenza ed il loro fondamento non consistono di elementi ipotetici, ma di proprietà generali dei fenomeni osservate empiricamente, principi dai quali vengono dedotte formule matematiche di tipo tale da valere in ogni caso particolare che si presenti. La termodinamica, per esempio, partendo dal fatto che il moto perpetuo non si verifica mai nell’esperienza ordinaria, tenta di dedurne, mediante processi analitici, una teoria che sarà valida in ogni caso particolare. Il merito delle teorie costruttive sta nella loro generalità, nella loro adattabilità e nella loro chiarezza, il merito delle teorie dei principi sta nella loro perfezione logica e nella saldezza delle loro basi.”

Ovviamente, anche se Einstein non la cita, la teoria di Lorentz era di tipo costruttivo.

(786) A questo posto Einstein teneva molto ma, essendosi inimicato tutti i professori per le continue critiche (ed in particolare H. Weber), essendo poi ebreo e non di nazionalità svizzera (Einstein prenderà la nazionalità svizzera, che mantenne fino alla morte, nel 1901), gli unici due posti disponibili furono assegnati ad altri due studenti. Si noti, incidentalmente, che a quest’epoca risale l’amicizia di Einstein con Friedrich Mier, figlio di Victor, capo della socialdemocrazia austriaca. Da Friedrich, assistente di fisica, Einstein ebbe le prime lezioni sul socialismo rivoluzionario. Si ricordi che Friedrich sarà arrestato nel 1916 per aver ucciso in un attentato il primo ministro austriaco, che riteneva responsabile della politica militarista austriaca (siamo alla I guerra mondiale). Al processo Einstein interverrà testimoniando in favore di Friedrich e contribuendo a far sì che la sua condanna fosse di un solo anno di prigione (Adler sarà amnistiato alla cacciata della monarchia e diventerà deputato e segretario della II Internazionale).

(767) II dottorato presso l’Università di Zurigo sarà ottenuto da Einstein nel 1905.

(788) Quel posto lo ottenne grazie al suo amico e compagno di studi Marcel Grossman. All’Ufficio Brevetti Einstein rimarrà fino al 1909 quando ottenne la nomina a professore straordinario presso l’Università*’ di Zurigo.

(789) Annalen der Paysik, 4, 1902; pagg. 513-523. Se si pensa che questo era il lavoro inviato come referenza ad Ostwald, ci si può rendere conto del perché Einstein non ebbe neanche risposta.

(790) Annalen der Physik, 8; 1902; pagg.798-814. Nel 1907 Einstein, riferendosi ai suoi primi due lavori, li giudicherà  senza importanza.

(791) Annalen der Physik, 9; 1902; pagg.417-433.

(792) Citato da Mc Cormmach, bibl. 129, pag. 45.

(793) Annalen der Physik, 11; 1903; pagg.170-187.

(794) Annalen der Physic, 14; 1904; pagg. 354-362.

(795) Era un argomento delicato. Sia Boltzmann che Gibbs ritenevano che fosse molto difficile evidenziarle. Secondo Gibbs, infatti, “l’esperienza non sarebbe abbastanza estesa nel tempo da abbracciare le divergenze più considerevoli dei valori medi … e non abbastanza fine da distinguere le divergenze ordinarie … [Quindi] sembra futile sperare anche per un tempo piccolissimo in una deviazione osservabile da quei limiti a cui i fenomeni si adeguerebbero nel caso di un numero infinito di molecole” (citato da D’Agostino; bibl.l30, pag.46).

(796) Citato da Kuhn; bibl.l47, pag.210. Per seguire con dettagli gli sviluppi dei lavori di Einstein e di molti altri sul problema del corpo nero e della fisica dei quanti fino al 1912, questo testo lo consiglio vivamente. Si noti che anche l’articolo sul moto browniano dell’anno seguente, è il proseguimento di questo programma: dal calcolo del numero N di Avogadro si può risalire alla costante k di Botzmann.

(797) Bibl. 169, pag. 66.

(798) A questo proposito, afferma Tarsitani (bibl.l70, pag.302, che Einstein, “partendo da proprietà macroscopiche accertate sperimentalmente, tende a dedurne proprietà strutturali del sistema considerato. Questa inversione caratteristica di Einstein esprime probabilmente la maturazione del convincimento che le basi teoriche della fisica contemporanea hanno un carattere insufficiente e provvisorio“. In effetti i metodi della meccanica statistica, a partire dalla Teoria Cinetica, presuppongono la partenza da stati microscopici per arrivare alla comprensione di quelli macroscopici. Qui sta l’inversione di Einstein che rende ben conto del suo voler produrre una fisica dei principi.

(799) Citato in bibl. 164, pag. 40.

(800) Annalen der Physik, 17; 1905; pagg. 549-560.

(COI) Annalen der Physik, 17; 1905; pagg. 132-148. Una traduzione in italiano di questo articolo si trova in bibl. 171. Una traduzione in inglese si trova invece in bibl. 172.

(802) Bibl. 168, pag. 28. Si osservi incidentalmente che l’adesione di Einstein alle teorie di Mach è del tutto particolare. Come vedremo. Mach, nonostante le ripetute adesioni pubbliche di Einstein alla sua fenomenologia, coglierà il distacco completo di Einstein da essa e darà un duro giudizio sulla relatività (1913).

(803) Citato da Tarsitani; bibl.l70; pag.306. Notiamo incidentalmente, anche in relazione alla nota 785, che la termodinamica cui fa riferimento Einstein è la termodinamica fenomenologica di Clausius che, in qualche modo, assiomatizza i risultati precedenti e, dati i due principi, va a ricavarsi tutte le conseguenze particolari.

(804) Bibl. 130, pag. 48.

(805) Nel 1906, ed indipendentemente, una analoga dimostrazione sarà data anche dal fisico polacco M.. Smoluchowski (1872-1917).

(806) La cosa fu sperimentalmente realizzata dal fisico francese J. Perrin (1870-1942) negli anni 1908 e 1909.

(807) Bibl. 168, pagg.25-26. Anche il fisico tedesco M. Born (1882-1970) riconosce quanto qui è sostenuto (bibl. 168, pag. 112).

(808) Si veda in proposito il mio articolo pubblicato nel sito. Si noti che la motivazione ufficiale del Nobel che Einstein ricevette nel 1922 fa esplicito riferimento a questo lavoro. La relatività non è citata, probabilmente perché a quella data vi erano ancora molti scienziati che ne mettevano in dubbio uno dei postulati (quello della costanza di c per tutti gli osservatori in moto traslatorio uniforme).

(809) Si veda la nota 801. Noi ci riferiremo a bibl. 171. Si veda ibidem, pag. 45. Si noti che le questioni euristiche relative alle asimmetrie vengono dopo  che Einstein ha provato a rendere conto di vari fenomeni con tutta la fisica allora nota. Egli stesso, nelle sue Note autobiografiche, dice: “Ma tutti i miei tentativi di adattare le basi teoriche della fisica a queste nuove acquisizioni [effetto fotoelettrico, corpo nero, …] fallirono completamente” (bibl. 168, pag. 25).                          

(810) A meno che, e qui Holton non c’entra, non si parta dalla considerazione che qui si sta proprio cambiando punto di vista: si vanno a ricercare dei principi generali, per trovare i quali non bisogna entrare nel gioco delle ela borazioni fino all’ultima equazione, ma partire da presupposti differenti (anche se discutibili quanto si vuole).

(811) Ibidem, pagg. 45-46.

(812) Fluorescenza (proprietà di alcune sostanze di emettere luce di un colore diverso da quella incidente) o fosforescenza (quando la luce di fluorescenza dura qualche tempo).

(813) E’ l’effetto fotoelettrico.

(814) Ibidem, pag.46. Si noti che in questo modo, microscopicamente, svanisce il campo e conseguentemente il dualismo materia-campo.

(815) Ibidem.

(816) Dice Einstein,”Da qui in avanti considereremo la radiazione di corpo nero in base all’esperienza, senza stabilire nessuna ipotesi teorica nei confronti dell’emissione e della propagazione della radiazione.” (Ibidem, pag.52 )

(817) Ibidem, pag.57. Si veda quanto detto in proposito nella sezione Spettroscopia del paragrafo 2 del precedente capitolo, alla data 1905.

(818) Si noti che questo è un passaggio molto ardito. Si stanno confrontando caratteristiche corpuscolari con caratteristiche ondulatorie ! Si noti ancora che, come dice Einstein, per trovare questi risultati “non si è dovuta formulare alcuna ipotesi sulla legge che regola, il moto delle molecole“, ci si è solo serviti dei “metodi della termodinamica” [statistici]; (ibidem, pag. 61 ]

(819) Si noti che Einstein, dopo il valore numerico non pone unità di misura; queste ultime devono essere quelle date per ragioni dimensionali.

(820) L’identità di kb  con la costante h di Planck sarà riconosciuta da Einstein in un successivo lavoro del 1906.

(821) Ibidem, pag. 63. Si noti che là dove io ho scritto k Einstein continua a porre R/N.

(622)  Ibidem.

(823) Si noti che all’effetto fotoelettrico è dedicata una sola paginetta (su 16), l’ultima. Come osserva Hermann (introduzione a bibl.l71, pag.2l),”la validità della relazione di Einstein trovò assoluta conferma in epoca così tardiva che il fatto influì poco sulle discussioni riguardanti la fisica quantistica.” Le verifiche sperimentali si ebbero ad opera di: O.W. Richardson e C. T. Compton (1912); A.L. Hughes (1913); e soprattutto a R.A. Millikan (l9l6). Per chi volesse seguire lo studio dei lavori quantistici di Einstein ed in particolare i suoi lavori sui calori specifici, può leggere, oltre alla bibliografia già indicata (171, 172 e soprattutto 147), anche il testo 173 dove sono riportati gli articoli originali di Einstein, Debye, Born e Karman.

(824) Fatto degno di nota è che una delle poche citazioni che Einstein fa nel suo articolo è per il fisico tedesco P. Drude (1863-1906), il primo che applicò (1900) i concetti della meccanica statistica alla teoria degli elettroni di Lorentz per rendere conto dei fenomeni di conduzione nei metalli.

(825) Bibl. 169, pag. 66.   

   2 – SULL’ELETTRODINAMICA DEI CORPI IN MOVIMENTO (1905)

        I due lavori di Einstein, sul moto browniano e sui quanti di luce, che abbiamo appena finito di discutere, furono presentati alla rivista Annalen der Physik tra il marzo ed il maggio 1905. Il 30 giugno dello stesso anno un nuovo lavoro doveva aggiungersi ai precedenti: Sull’elettrodinamica dei corpi inmovimento (826) E’ questo l’articolo nel quale Einstein introduce la  relatività. Ad esso se ne aggiungerà ancora un altro, “interessante conseguenza [dei] risultati della precedente ricerca“, nel settembre dello stesso anno: L’inerzia di un corpo è dipendente dal suo contenuto di energia? (827)   In questo lavoro, come elaborazione di quanto ottenuto nel precedente articolo, viene data una prima formulazione del principio di equivalenza tra massa ed energia. (828)

        Cominciamo con il discutere Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento.  

        La prima cosa che va ricordata è che Einstein non conosceva il lavoro di Lorentz del 1904 (si veda la nota 781 bis); occorre però aggiungere che se anche Einstein fosse stato a conoscenza di questo lavoro, nulla sarebbe cambiato nel giudizio di svolta radicale che il suo articolo ha rappresentato.

        Certamente poi non conosceva gli articoli di Poincaré sull’argomento , del 1905-1906 (essi erano stati inviati alle riviste contemporaneamente al suo).

         Infine egli non aveva che una conoscenza indiretta dell’esperienza di Michelson e Morley (attraverso i lavori di Lorentz del 1892 e 1895); ma anche qui vale il giudizio dato precedentemente per Lorentz: anche se avesse conosciuto questa esperienza nei dettagli non sarebbe cambiato nulla rispetto al suo approccio assolutamente originale e per la verità molto ardito.   (829)   

        Occorre poi sottolineare che l’articolo di cui si parla, e che comunemente va sotto il nome di articolo sulla relatività, è in realtà un articolo “sull’elettrodinamica dei corpi in movimento” nel quale si tenta un approccio radicalmente divergo ai problemi dell’elettrodinamica così come si ponevano nell’ultimo articolo di Lorentz sull’argomento (1895) conosciuto da Einstein. Come si ricorderà in quel lavoro ancora ci si muoveva al primo ordine di v/c e si cercava una soluzione del secondo ordine. La diversità radi cale della trattazione einsteniana sta nel tentativo (riuscito) di risolvere le questioni che si ponevano mediante la fisica dei principi. Egli infatti non entra in estenuanti e successive elaborazioni elettrodinamiche; non fa una fisica costruttiva tentando di “formare un quadro dei fenomeni complessi partendo da certi principi relativamente semplici“, da elementi ipotetici, in definitiva, di tipo riduzionista. Einstein cerca invece delle”proprietà generali dei fenomeni osservate empiricamente, principi dai quali vengono dedotte formule matematiche di tipo tale da valere in ogni caso particolare si presenti“. Come più volte ricordato, è lo stesso tipo di approccio che egli ha seguito nei suoi due lavori precedenti del 1905.

        Il problema principale per Einstein è la sua profonda insoddisfazione per le equazioni di Maxwell-Lorentz. (830)    Egli aveva provato più volte a correggerne gli errori mediante un approccio costruttivo, ma, come già detto, tutti i tentativi “fallirono completamente“. Nel caso particolare dell’elettrodinamica, quelle equazioni fornivano, come vedremo, risultati diversi se applicate a sistemi di riferimento diversi. (831) Inoltre, anche qui come nel caso dei quanti di luce, l’asimmetria esistente tra campi continui e cariche discrete è un prodotto della teoria degli elettroni che Einstein non si sente di accettare. Dice Einstein nelle Note autobiografiche:  (832)

Se si considera … la teoria, si resta colpiti dal dualismo insito nel fatto che il punto materiale in senso newtoniano ed il campo come continuo fisico stiano l’uno accanto all’altro come concetti elementari. L’energia cinetica e l’energia di campo appaiono sostanzialmente diverse. La cosa risulta tanto più insoddisfacente in quanto, secondo la teoria di Maxwell, il campo magnetico di una carica elettrica in movimento rappresenta l’inerzia. Ma allora, perché non tutta l’inerzia ? In questo caso rimarrebbe solo l’energia di campo, e la particella sarebbe semplicemente una zona di densità particolarmente elevata dell’energia di campo … ed il fastidioso dualismo sarebbe eliminato.”

          Infine non va dimenticato che le elaborazioni di Lorentz introducevano qua e là delle profonde modificazioni ai concetti fondamentali della meccanica. Ed allora, dato che si  procedeva  in silenzio ad una revisione della meccanica, perché non pagare questo prezzo ma al fine di ottenere dei principi più generali, magari andando ad una revisione più profonda della meccanica stessa ?    (833)

         Ma, a detta dello stesso Einstein, ciò che lo colpiva di più era proprio l’asimmetria che si presentava quando si applicavano le equazioni di Maxwell a differenti sistemi di riferimento. Abbiamo già detto che più volte  Einstein provò a modificare le equazioni di Maxwell-Lorentz. Egli tentava cioè di far rientrare la suddetta asimmetria cercando un apparato teorico, sia per i fenomeni ottici che per quelli elettromagnetici, nel quale solo avesse significato il moto relativo, un apparato teorico cioè che mantenesse immutate le equazioni nel passaggio da un riferimento ad un altro che fosse in moto traslatorio uniforme rispetto al primo. Nel portare avanti queste elaborazioni egli sempre più si era convinto che “né la meccanica, né la termodinamica potevano pretendere ad una validità assoluta“. Lo stesso Einstein ci dice che a poco a poco cominciò a “disperare della possibilità di scoprire le vere leggi attraverso tentativi basati su fatti noti“. Gli servivano dei principi -universali sull’esempio di quelli che governavano la termodinamica. Dove e come trovarli ? Dice Einstein nelle Note autobiografiche:  (834)

Dopo dieci anni di riflessione, un siffatto principio risultò da un paradosso nel quale mi ero imbattuto all’età di 16 anni; se io potessi seguire un raggio di luce a velocità c (la velocità della luce nel vuoto), il raggio di luce mi apparirebbe come un campo elettromagnetico oscillante nello spazio, in stato di quiete. Ma nulla del genere sembra sussistere sulla base dell’esperienza o delle equazioni di Maxwell. Fin dal principio mi sembrò intuitivamente chiaro che, dal punto di vista di un tale ipotetico osservatore, tutto debba accadere secondo le stesse leggi che valgono per un osservatore fermo rispetto alla Terra. Altrimenti, come farebbe il primo osservatore a sapere, cioè come potrebbe stabilire, di essere in uno stato di rapidissimo moto uniforme ?

Che significa il paradosso di Einstein ?

Se uno si muovesse alla velocità della luce, con un’ onda elettromagnetica, dovrebbe descrivere il mondo in un modo differente da chi è in riposo rispetto alla Terra, egli, vedendo solo l’oscillazione di un campo che non si propaga nel tempo, sarebbe in grado di decidere qual è il suo stato di moto rispetto all’etere (si sta muovendo con velocità c) violando in questo modo il principio classico di relatività; inoltre questo fatto non è previsto all’interno delle stesse equazioni di Maxwell. (835) E’ come se si avesse a che fare con la luce immobile e ciò è inammissibile poiché la stessa luce è definita proprio dalla sua frequenza di movimento. Insomma, come molto bene dicono Schwartz e Mc Guinnes, (836) se uno camminasse alla velocità della luce, non  vedendo la propria immagine riflessa in uno specchio (che la sua mano sostiene davanti al viso), sarebbe in grado di capire che cammina alla velocità della luce senza bisogno di guardar fuori; e ciò è negato dal principio classico di relatività di Galileo.

         A questo punto però conviene andare con ordine, prendendo l’articolo di Einstein e seguendolo passo passo.

         L’introduzione del lavoro contiene già tutti gli elementi che abbiamo discusso.

 – INTRODUZIONE

         L’articolo inizia così:   (837)

E’ noto che l’elettrodinamica di Maxwell – come essa attualmente viene d’ordinario concepita – conduce nelle sue applicazioni a corpi in movimento ad asimmetrie che paiono non essere aderenti ai fenomeni.

Ecco dunque che il primo motivo è l’insoddisfazione per la teoria di Maxwell, negli ultimi sviluppi di Lorentz, ed in particolare perché questa teoria origina delle asimmetrie. Di quali asimmetrie si tratta ?  

          Einstein non ricorre ad esemplificazioni sofisticate ma al più semplice dei fenomeni elettrodinamici, che risale a Faraday; il movimento relativo di un magnete e di un conduttore e le azioni elettrodinamiche che si producono tra questi due oggetti. Lo stesso Einstein dice:

Si pensi ad esempio alle interazioni elettrodinamiche tra un magnete ed un conduttore. Il fenomeno osservabile dipende qui solo dal moto relativo fra magnete e conduttore, mentre secondo il consueto modo di vedere sono da tener rigorosamente distinti i due casi che l’uno o l’altro di questi corpi sia quello mosso. Infatti, se si muove il magnete e rimane fisso il conduttore, si produce nell’intorno del magnete un campo elettrico di certi valori di energia il quale provoca una corrente nei luoghi ove si trovano parti del conduttore. Rimane invece fisso il magnete e si muove il conduttore, non si produce nell’intorno del magnete alcun campo elettrico, ma al contrario [si produce] nel conduttore una forza elettromotrice, alla quale non corrisponde per sé alcuna energia, ma che – supposta l’uguaglianza del moto relativo nei due casi considerati – dà occasione al prodursi di correnti elettriche della stessa grandezza e dello stesso percorso, come nel primo caso [avevano dato] le forze elettriche.”

Dicevamo che questa esemplificazione è semplice ma non altrettanto la sua interpretazione teorica, soprattutto in relazione all’asimmetria che essa comporta e di cui parla Einstein. Per cogliere il nocciolo del ragionamento, serviamoci della figura 41.   (838) Innanzitutto osserviamo che da sfondo alle due situazioni, nella teoria cui fa riferimento Einstein

     Figura 41

ed in particolare nella teoria di Lorentz, c’è un etere immobile che funge da sistema a cui riferire i singoli moti. Per cui nel primo caso preso in considerazione (figura 41a)  il conduttore risulta fermo rispetto all’etere mentre il magnete si muove con velocità v, sempre rispetto all’etere. Nel secondo caso (figura 41b) le situazioni, ancora rispetto all’etere, sono invertite. Facendo riferimento alle equazioni di Maxwell, nel primo caso, quando il magnete si sposta, origina una variazione dell’induzione magnetica B in tutto l’etere che circonda il magnete e  nel conduttore. Poiché varia B nell’etere, varia il flusso di B concatenato con il conduttore. Ricordando la terza delle equazioni di Maxwell (la 7 del  paragrafo 5 del capitolo 3) ad una variazione del flusso di B si accompagna un campo elettrico nell’etere che circonda il magnete. Le cariche (gli elettroni), in quiete nel conduttore, sono soggette alla forza originata dal campo elettrico (mentre non sentono alcuna forza magnetica poiché quest’ultima non si esercita su cariche in quiete) ed in definitiva tra i capi A e B del conduttore si  genera una differenza di potenziale. Sempre facendo riferimento alle equazioni di Maxwell, nel secondo caso, poiché il magnete è fisso ed è il conduttore che si sposta, la variazione dell’induzione magnetica B si avrà solo nel filo e non nell’etere circostante il magnete (caso del flusso tagliato). Quindi nell’etere non c’è una variazione del flusso di B e conseguentemente (per la stessa equazione di Maxwell precedentemente citata) non si originerà un campo elettrico nell’etere che circonda il magnete. Anche in questo caso però ai capi AB del conduttore si originerà una differenza di potenziale, ma questa volta di origine magnetica (forza di Lorentz). Questa differenza di potenziale, a parità di altri fattori, ha esattamente lo stesso valore che nel primo caso.  (839)

        Dall’esame di questa situazione,  risultano dei fatti che sono certamente previsti dalla teoria di Maxwell-Lorentz, ma che, altrettanto certamente, sono tali da creare, per Einstein, una inaccettabile asimmetria; anche se gli effetti sono gli stessi (si producono nei due casi differenze di potenziale uguali, a parità di altre condizioni) i fenomeni hanno una spiegazione fisica differente: in un caso la differenza di potenziale è dovuta ad una forza elettrica, nell’altro ad una forza magnetica.

        Poiché ciò che stiamo discutendo rivestiva grande importanza nel pensiero di Einstein  (840) è utile fare un’altra esemplificazione, del tutto simile a quella ora discussa ma più facilmente comprensibile.

        Supponiamo di avere due cariche elettriche q uguali poste ad una distanza r l’una dall’altra (per semplicità supponiamo che una di esse sia vincolata in modo tale che non possa muoversi). Un osservatore T, immobile rispetto al sistema costituito dalle due cariche, calcolerà, secondo le usuali leggi dell’elettrostatica, una forza F che agirà sulla carica mobile e diretta come in figura 42a (cariche dello stesso segno si respingono). Supponiamo ora che l’osservatore

T si sposti, con velocità u, nella direzione mostrata in figura 42b. Secondo il principio galileiano di relatività, tutto va come se T fosse immobile e fossero invece le cariche che si muovono alla stessa velocità di T ma in verso opposto (figura 42c). In questo caso, quindi, T osserverà due correnti parallele (una carica in moto costituisce una corrente elementare). Ora, secondo la legge di Ampère sulle azioni elettrodinamiche tra correnti, alla forza repulsiva F, che si aveva nel caso di azione elettrostatica (figura 42a), si deve sottrarre una forza attrattiva f (dovuta al fatto che correnti concordi si attraggono). In definitiva, un osservatore in moto dovrebbe calcolare (e calcola) una forza repulsiva F – f, minore della forza repulsiva F che lo stesso osservatore calcolerebbe (e calcola) quando è in riposo. E ciò vuol dire che le leggi dell’elettrodinamica danno risultati diversi per osservatori in moto relativo a velocità costante. Questo fatto può essere detto anche così: le leggi dell’elettrodinamica non sono invarianti per una trasformazione di Galileo. (841)

        Come rendere conto di tutto ciò ?

        Oltre a questo tipo di asimmetrie Einstein fa anche un vago riferimento ad altri fenomeni che probabilmente sono: l’aberrazione stellare, l’esperienza di Fizeau relativa alla misura della velocità della luce in due colonne di acqua fluente in versi opposti, (842) l’esperienza di Michelson-Morley, quella di Trouton-Noble. Bice Einstein:

Esempi analoghi, come pure i falliti tentativi di constatare un moto della Terra relativamente al mezzo luminoso, conducono alla presunzione che al concetto di quiete assoluta, non solo nella meccanica, ma anche nell’elettrodinamica, non corrisponda alcuna delle proprietà di ciò che si manifesta, ma che piuttosto, per tutti i sistemi di coordinate per i quali valgono le equazioni della meccanica, (843) debbano anche valere le stesse leggi elettrodinamiche ed ottiche, come appunto è stato dimostrato per le grandezze del primo ordine.

         Einstein inizia a costruire la sua fisica dei principi con l’affermazione che il concetto di riferimento assoluto non ha alcun significato né nella meccanica  né nell’elettrodinamica né nell’ottica. Piuttosto bisogna ammettere che tutte le leggi fisiche abbiano la stessa forma in tutti i sistemi inerziali. Non vi è quindi nessun sistema privilegiato in cui le cose debbano andare in un dato modo; al contrario tutti i sistemi inerziali, tutti quelli in moto relativo uniforme gli uni rispetto agli altri, sono equivalenti; in essi tutte le leggi fisiche devono essere le stesse. A questo punto Einstein dice:

noi vogliamo elevare questa presunzione … a presupposto fondamentale

ed in questo modo introduce il primo dei due principi che sono il fondamento della relatività, quello che va sotto il nome di Principio della relatività di Einstein. (844)   Come si vede, si tratta di una generalizzazione del Principio di relatività di Galileo a tutte le leggi della fisica.

        Subito dopo, a questo principio, Einstein ne aggiunge un altro:

[noi vogliamo] inoltre introdurre il presupposto, solo apparentemente inconciliabile con il precedente, che la luce nello spazio vuoto si propaghi sempre con una velocità determinata e indipendente dalla velocità del corpo emittente.” (845)

Si tratta del principio che va sotto il nome di Principio della costanza della velocità della luce, quello che più ha fatto discutere (si veda, ad esempio, quanto sostiene M. La Rosa – 1923 – in bibl. 186, pagg. 293-306).

        Da dove tira fuori questo principio Einstein ?

        Esso era comunemente accettato in tutte le teorie ondulatorie della luce (Fresnel, Stokes, Maxwell, Lorentz) ma, sempre, come principio applicabile ad un sistema che si trovasse in riposo rispetto all’etere. Probabilmente il fatto che un valore costante di c venisse fuori dalle più disparate misure fatte sulla Terra, non importa in quale direzione rispetto al presunto etere, unitamente al fatto che questo valore si ricavasse da elaborazioni teoriche sulle equazioni che regolano i campi elettromagnetici (si ricordi il lavoro di Weber e Kohlraush), convinsero Einstein ad assumere la costanza di c come principio generale. Inoltre, forse, influì su Einstein proprio la formulazione del primo dei due principi, quello di relatività; se, infatti, la Terra si considera come un sistema inerziale e su di essa le misure di c danno sempre lo stesso valore, e deve avere lo stesso valore per tutti gli altri sistemi inerziali (indipendentemente dallo stato di moto della sorgente per il fatto che anche dalle misure fatte sulla Terra risulta questa indipendenza, infatti c ha lo stesso valore sia quando è misurata da fenomeni astronomici, sia quando è misurata su sorgenti poste sulla Terra, e lo stato di moto di una sorgente sulla Terra è certamente differente dallo stato di moto, ad esempio, di un satellite di Giove).  (846)   Infine, e questo è il fatto più importante, Einstein, nei suoi tentativi di modificare le equazioni di Maxwell-Lorentz perché risultassero invarianti per sistemi di riferimento in moto traslatorio uniforme gli uni rispetto agli altri, deve essersi convinto che la condizione che si richiedeva era la costanza di c.

          Certo che questo principio, così formulato, doveva suonare male e, con Straneo, “forse sarebbe stato meglio porre in rilievo che la teoria dei gruppi imponeva l’adozione di una costante fondamentale e che questa per ragioni fisiche non poteva che essere la velocità della luce.” (847)

        Comunque stiano le cose, Einstein dice che questo secondo Principio appare inconciliabile con il primo. Perché ?  

        Perché, ammesso il Principio di relatività, sembrerebbe che debbano valere le trasformazioni di Galileo e, in particolare, la composizione delle velocità. Supponiamo allora ai accettare contemporaneamente il Principio dell”indipendenza di c dal moto della sorgente e la composizione classica delle velocità: se una sorgente si muove verso un osservatore con velocità v, il tutto equivale a sorgente immobile ed osservatore che si sposta verso di essa con velocità – v; l’osservatore misurerebbe allora una, velocità u = c + v e dalla conoscenza di c egli sarebbe in grado di ricavare v e cioè una velocità assoluta; questo fatto entrerebbe in contraddizione con il supposto Principio di relatività. E l’apparente inconciliabilità sta proprio qui: il Principio di relatività di Einstein non prevede le trasformazioni di Galileo e quindi non prevede quella composizione delle velocità. Assumendo nuove trasformazioni l’inconciliabilità sparisce e la c, oltre ad assumere un valore costante in tutti i sistemi inerziali, diventa una velocità limite, una velocità che non può essere superata in alcun modo. (848) Ciò che si vuol dire è che l’apparente inconciliabilità nasce dalle ordinarie definizioni di spazio e di tempo. Ammessi i due Principi di Einstein, occorre cambiare queste definizioni e conseguentemente le loro equazioni di trasformazione (quelle di Galileo) nel passaggio da un sistema inerziale ad un altro.

               Riassumendo, i due principi che Einstein pone a fondamento della sua elettrodinamica sono:

       1) Principio di Relatività: Le leggi della fisica sono le stesse in tutti i sistemi inerziali animati di un moto rettilineo uniforme gli uni rispetto agli altri. Nessuno di questi sistemi inerziali è privilegiato.

       2) Principio di costanza della velocità della luce: La velocità della luce nel vuoto ha sempre lo stesso valore c in tutti i sistemi inerziali. Essa è indipendente dalla velocità della sorgente o dell’osservatore.

Egli dice?

Questi due presupposti bastano per giungere ad una elettrodinamica dei corpi in movimento semplice e libera da contraddizioni …

      E dell’etere, cosa ne è di questa misteriosa sostanza ?

L’introduzione di un etere luminoso si manifesterà superflua …

      Così, con un solo colpo di penna, Einstein si sbarazza di ciò che da più parti veniva indicato come il tormento della fisica. L’etere se ne va, sparisce il riferimento assoluto e lo spazio assoluto (cosa che d’altra parte era implicita nel primo principio assunto da Einstein).

              A questo punto sono dati i principi generali. Come intende proseguire Einstein ?

              Proprio come indicavamo qualche riga più su a proposito dell’inconciliabilità: a partire da una revisione dei concetti fondamentali della meccanica e, in particolare, della cinematica (si noti: revisione della meccanica e non dell’elettrodinamica). Egli dice:

La teoria da sviluppare si appoggia – come ogni altra elettrodinamica – sulla cinematica del corpo rigido, poiché le affermazioni di ogni teoria del genere riguardano rapporti tra corpi rigidi (sistemi di coordinate), orologi e processi elettromagnetici. Le non sufficienti considerazioni di questa circostanza sono la radice delle difficoltà con le quali l’elettrodinamica dei corpi in moto ha presentemente da lottare.”  

Per costruire una elettrodinamica consistente con i suoi due principi, Einstein parte quindi da una ridefinizione di lunghezze e tempi che sono alla base di qualunque processo di misura, anche di fenomeni elettromagnetici, e che nel passato sono stati dati troppo facilmente per scontati.

           Con ciò termina l’introduzione al suo articolo e passa a discutere, appunto, questioni di cinematica.                                                                        

NOTE

(826) Annalen der Physik, 17; 1905; pagg. 891-921. Una traduzione in italiano di questo lavoro si trova in bibl.174, pagg.479-504. A questa mi riferirò.

(827) Annalen der Physik,18; 1905; pagg. 639-641. Una traduzione in italiano di questo lavoro si trova in bibl. l74 pagg. 505-50 7. A questa mi riferirò.

(828) La famosa relazione E = mc2  sarà ricavata da Einstein in un lavoro del 1907 pubblicato nel Jahrbuch der Radioaktivität.

(829) Una breve considerazione la merita questo aggettivo. Einste in era quel che si dice un. outsider. Egli correva al di fuori degli ippodromi universitari e non doveva rendere conto al suo cattedratico. La parte predominante della sua formazione si era costruita al di fuori dell’Università. Era un autodidatta. Spesso non andava a lezione e si presentava a far esami con i preziosi appunti che gli passava il suo amico Grossmann. Il suo professore H. Weber una volta ebbe a dirgli “Lei è un giovane intelligente, ma ha un difetto. Non consente a nessuno di insegnarle qualcosa“.

      Per altri versi lo stesso Einstein riconobbe l’importanza di non stare dentro l’ambiente accademico; più volte egli sosterrà che la fisica, teorica la può far meglio un fontaniere o un ciabattino che possono dedicarsi a pensare ai problemi importanti senza l’ossessione di dover rendere conto della propria vita attraverso il susseguirsi di tante inutili pubblicazioni (e l’impiego all’Ufficio Brevetti era considerato da Einstein il suo essere ciabattino).

      Allo stesso modo dell’altro outsider, Faraday, Einstein può permettersi di rimettere in discussione i concetti più consolidati nel campo della fisica, e soprattutto gli stessi metodi che presiedono la ricerca. Così come sui quanti di luce, Planck non aveva avuto il coraggio di fare il passo decisivo, allo stesso modo né Lorentz né soprattutto Poincaré l’avevano fatto sul problema relatività. Questi due passi li fece Einstein.

      Si noti a parte che Planck per molto tempo avverserà la soluzione dei quanti di luce di Einstein. Al contrario Planck fu il primo fisico di fama che accettò e lavorò sulla relatività con importanti contributi (già nel 1906 e 1907 usciranno suoi articoli in proposito); tra l’altro, molto probabilmente, si deve a Planck, che stava nella redazione degli Annalen, se il lavoro di Einstein sulla relatività fu pubblicato.

(830) Dice Einstein nelle Note autobiografiche (bibl. l68, pag. 33): “ La teoria della relatività particolare deve la sua origine alle equazioni di Maxwell del campo elettromagnetico.” Ricordiamo che Einstein aveva trovato difettose le equazioni di Maxwell nella spiegazione del problema del corpo nero e dell’effetto fotoelettrico. Inoltre queste equazioni fornivano previsioni non corrette sulla pressione di radiazione.

(83l) Lo psicologo M. Wertheimer, amico di Einstein, scrive (citato da Hirosige; bibl. 124, pag.54): “ Se le equazioni di Maxwell sono valide rispetto ad un sistema, esse non sono valide in un altro. Esse dovrebbero essere cambiate … Per anni Einstein tentò di chiarire il problema studiando e cercando di modificare le equazioni di Maxwell. Non ebbe successo …

(832) Bibl. 168, pag. 20.

(833) Dice Tarsitani (bibl. 170, pag.304) che la situazione nella quale si trovava ad operare Einstein era la seguente: “Elettrodinamica e termodinamica entrano in contraddizione quando si tratta di affrontare il problema della radiazione termica, meccanica e termodinamica, entrano in contraddizione nell’interpretazione statistica della seconda legge …, meccanica ed elettrodinamica si scontrano sul piano del principio di relatività e della dinamica dell’elettrone.

(834) Bibl.168, pag. 28. Nella stessa pagina si trovano anche le citazioni precedenti senza indicazione bibliografica.

(835) Per due obiezioni a questo paradosso si veda bibl. 111,  pag. 350 (nota 8) e bibl.128, pagg. 300-301. Questo paradosso, a ben guardarlo, è un gatto che si morde la coda poiché dà già per scontata una delle affermazioni fondamentali della relatività, la costanza della velocità della luce per tutti gli osservatori.

(836) Si tratta di un bel lavoro a fumetti. Bibl. 175, pag. 191.

(837) Bibl. 174, pag. 479. Tutte le citazioni che seguiranno senza riferimento bibliografico sono tratte, salvo avviso contrario, da questo testo di bibliografia, da pag. 479 a pag. 504.

(838) Una discussione dettagliata dei due casi d’induzione si può trovare su La Fisica di Berkeley (bibl. 176, Vol II, pagg. 265-280).  Si noti però che questa trattazione dà già per scontata le non esistenza dell’etere.

(839) In questo caso la differenza di potenziale tra A e B nasce a seguito della forza di Lorentz (che abbiamo incontrato all’inizio del paragrafo 5 del capitolo 4). Si hanno infatti delle cariche (quelle che sono all’interno del conduttore) che si muovono all’interno di un campo magnetico. Queste cariche saranno soggette alla forza di Lorentz che risulta perpendicolare al piano formato dalla direziono del campo e da quella del suo spostamento. In particolare gli elettroni tenderanno ad accumularsi ad un estremo del circuito (finché non si raggiunga l’equilibrio con il campo elettrostatico che così si genera) dando così origine alla differenza di potenziale in oggetto.  

(840) Sul fatto che l’asimmetria in oggetto rivestisse per lui grande importanza è dimostrato anche da uno scritto inedito di Einstein (datato circa 1919) nel quale, tra l’altro, egli afferma che un’asimmetria dello stesso genere lo condusse alla Relatività Generale. Allo scopo si può vedere G. Holton, The American Scholar, Vol. 41, inverno1971-1972, pagg.  95-100 (bibl. 127, pagg. 306-307) .

(841) Se si osserva che tutto ciò che ci circonda è costituito da particelle cariche ci si rende conto che è impossibile distinguere la dinamica, dall’elettrodinamica. Ed allora, o si mette a posto l’elettrodinaniica, o si rinuncia al principio classico di relatività, o si costruisce una nuova meccanica. La strada che seguirà Einstein sarà, come vedremo, l’ultima.

(642) Nell’intervista scritta di Shankland ad Einstein, già citata, Einstein, oltre all’esperienza di Michelson-Morley di cui aveva una conoscenza indiretta, fa riferimento proprio all’aberrazione ed all’esperienza di Fizeau (bibl.120, pag.35). Si noti che, nella stessa intervista, Einstein sostiene: “Ciò che mi ha condotto più o meno indirettamente alla teoria della relatività era la convinzione che la forza elettromotrice che agisce su un corpo in moto in un campo magnetico non è altro che un campo elettrico.”  In questo modo, l’asimmetria, di cui abbiamo parlato prima, sparisce. Ma per ottenere questo occorreva, appunto, la teoria della relatività.

(843) Si sta parlando di sistema inerziali. E’ interessante osservare che questo concetto, oggi così diffuso e quasi indispensabile, fu introdotto solo nel 1885 dal fisico tedesco L. Lange (l863- ? ) nel suo lavoro Sulla formulazione scientifica della legge d’inerzia di Galileo. Egli propose di riferire la legge d’inerzia non più ad uno spirituale spazio assoluto ma, appunto, ad un sistema inerziale, ad un sistema di riferimento cioè rispetto al quale quella legge rimane valida (bibl .10, pag. 123).

(844) Si noti che il riferimento che Einstein fa (“… come è stato dimostrato per le grandezze del primo ordine“) mostra la sua conoscenza del lavoro di Lorentz del 1895 senza la parte – l’Appendice – in cui, con l’introduzione dell’ipotesi della contrazione, il fisico olandese mostrava di poter rendere conto dei fenomeni anche al secondo ordine. Si noti ancora che il cosmologo H. Bondi osserva: ” Sarebbe intollerabile che tutti i sistemi inerziali fossero equivalenti da un punto di vista dinamico, ma distinguibili mediante misure ottiche.” Si noti infine che un altro modo di enunciare il principio di relatività di Einstein è il seguente: ” Un osservatore che sia dotato di un moto traslatorio uniforme, non può decidere né con esperienze meccaniche, né con esperienze elettrodinamiche, né con esperienze ottiche, se egli si trovi in stato di quiete o di moto.

(855) Einstein, per la velocità della luce usa il simbolo V. Ho creduto opportuno sostituire questa notazione con quella, c, a noi più famigliare. Allo stesso modo ho operato per altre notazioni da noi oggi poco usate. In particolare, alla traduzione di Straneo di contemporaneità ho sostituito simultaneità. Si noti che, nelle ipotesi di Einstein, la velocità della luce deve essere indipendente sia dalla velocità del corpo emittente sia dalla velocità dell’osservatore, e ciò risulta chiaramente da un altro enunciato che Einstein fornisce per questo Principio nella stessa memoria (bibl  174, pag.482 ; è il punto 2 del secondo paragrafo della memoria in oggetto).

(846) Berkson fa rilevare che forse Einstein si costruì un’immagine dell’etere “come un lago e del sistema in moto come una barca a vela che si sposta in esso. Se ci sporgiamo e colpiamo l’acqua con un remo (sorgente luminosa), si emetteranno delle onde (luce) dal luogo dove abbiamo agitato l’acqua. La velocità delle onde cosi prodotte dipenderà dalla natura e dalla profondità dell’acqua (etere), ma non dalla velocità della barca attraverso l’acqua (velocità della sorgente).

 (847) Bibl. 174, pag.99. Su questo argomento torneremo più oltre, per ora si osservi che nel 1908 il fisico svizzero W. Ritz (1876-1909) elaborò una elettrodinamica fondata sul solo principio einsteniano di relatività, respingendo quindi la costanza di c in tutti i sistemi inerziali. Nella sua teoria (Annalen de Chimie et de Physique, 8; 1908) la luce era costituita da minuscole particelle (i quanti di luce introdotti da Einstein nel 1905) scagliate dalla sorgente in tutte le direzioni (l’analogo della teoria corpuscolare di Newton). Ebbene queste particelle hanno una velocità costante solo rispetto al corpo che emette la luce (e non, come in Einstein, in tutti i riferimenti inerziali). La teoria di Ritz, senza introdurre né tempo locale, né contrazioni, rendeva conto di tutti i fenomeni noti (compresa l’esperienza di Michelson). Solo nel 1939 fu scoperto da H.E. Ives, l’effetto relativistico Doppler trasversale che non si concilia con questa teoria mentre è in accordo con quella di Einstein. Ritz comunque non poté portare a termine il suo programma perché morì prematuramente nel 1909. Una discussione ad alto livello della teoria di Ritz è fatta da Pauli ( bibl, 179, pagg. 10-15 ).

(848) Avremo modo di soffermarci più oltre delle verifiche sperimentali della Relatività; per ora basti dire che la costanza di c e la sua indipendenza dalla velocità della sorgente o dell’osservatore, risulta con chiarezza da due fenomeni esemplari: la sua misura utilizzando come sorgente le stelle doppie e la sua misura dal decadimento della particella p° (pai zero).



Categorie:Fisica e Storia della Fisica

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