Ancora quel pretaccio di Luigi Negri su Galileo

Occorre abituarsi a leggere ciò che scrivono gli altri. Gli altri sono gli stessi di sempre, i bipedi implumi acefali di platonica memoria. Non cambiano mai, mescolano ignoranza crassa con malafede, mascherando il tutto con citazioni. Non devono perdersi queste liriche pagine di beoti ripagati ampiamente dai padroni: da un lato vi è il Socci che accede in TV con un programma in prima serata. Dall’altra vi è il Messori che pubblica libri sui miracoli affermando di avere le prove di uno di essi. Infine vi sono altri ignobili pretacci che straparlano come Negri e Mangiarotti. Leggete la prosa di questi cattolici. Sono in sintonia con il Papa polacco e con la storia della Chiesa. Speriamo che gli altri, tutti i credenti in buona fede, si indignino ed inizino la loro liberazione.

Introduzione di Luigi Negri(*) al volume

Galileo Galilei. Mito e realtà

Ciò che di permanente e di obiettivo rimane oggi della questione galileiana può essere sintetizzato nella domanda: quale rapporto c’è tra scienza e fede o, in modo più esplicito, quale rapporto cè tra la scienza ed il destino dell’uomo? Nella vicenda di Galileo possiamo infatti distinguere un aspetto immediato e un aspetto anticipatore o profetico. L’aspetto immediato è quello sotto gli occhi di tutti: una vicenda che sul piano scientifico si presentava molto complessa, con delle conseguenze di carattere ecclesiale e culturale e, in qualche modo, sociale e che quindi ha dovuto essere considerata e risolta con un procedimento molto più disciplinare ed amministrativo, che dogmatico o teologico in senso stretto. Ma c’è anche l’aspetto anticipatore che a distanza di qualche secolo può ben essere riconosciuto: il problema della scienza, a cui introduce il galileismo e quindi il razionalismo settecentesco, è quello di una scienza che pretende di rappresentare il sapere come tale, la totalità del sapere; che pretende di essere il punto discriminante sulla verità della fede. La sottovalutazione della fede come superstizione, la dichiarazione dell’impossibilità del soprannaturale, l’impossibilità dei miracoli, la riduzione dell’avvenimento cristiano dapprima a religione naturale e poi sostanzialmente a fenomeno in qualche modo “patologico”, per chi legato all’ignoranza del popolo, sono conseguenza di una concezione ed uno sviluppo di carattere scientistico. La Chiesa non poteva non avvertire la preoccupazione che in questa vicenda era contenuta anche la possibilità di uno sbilanciamento totale di un orizzonte, con una scienza che pretendeva di essere, da un lato, una conoscenza dei fenomeni a livello particolare e, dall’altro, una conoscenza assoluta e totalizzante. Questo non chiarisce tutti gli aspetti della questione, ma ne chiarisce una linea di comprensione che va dal 1600 a oggi. E oggi più che mai risulta attuale il problema del rapporto tra l’autonomia della ricerca scientifica e l’autorità della Chiesa. Se per autonomia della scienza si intende infatti la piena responsabilità degli scienziati di impostare la ricerca secondo quello che ritengono più adeguato per lo svolgimento della ricerca stessa, realizzando lo statuto proprio della scienza che professano con un’assoluta libertà di metodo e fissando per la ricerca obiettivi e metodi che non obbediscono ad altro se non alla ricerca stessa, l’autorità della Chiesa non ha niente da dire a questo riguardo; essa non pur però non avere la preoccupazione di rappresentare un ambito di vita e di educazione a cui lo scienziato, in quanto credente, possa continuamente rifarsi, per un realismo nell’impostazione della propria indagine. Lo scienziato che crede in Dio, lo scienziato che crede che Dio si sia definitivamente rivelato nella Vita, nella Passione, nella Morte e nella Resurrezione di Gesù Cristo e quindi crede che esista il luogo che salva la verità di Dio e dell’uomo, uno scienziato che pur pertanto essere rigenerato continuamente nella sua certezza corre meno degli altri la tentazione di ideologizzare la sua scienza, di concepirsi capace di trasformare “le pietre in oro”. Comunque l’autorità della Chiesa educa un popolo che si assume la responsabilità della propria vita, e quindi anche la responsabilità di ogni ricerca scientifica particolare, rifiutando ogni ipotesi di lavoro che gli venga sotto banco imposta da preoccupazioni estranee alla scienza. Se per autonomia della scienza invece si intende pensare un mondo in cui la scienza è tutto, ne consegue pensare un mondo che alla fine è stato contro l’uomo: che la scienza non è tutto è quanto la Chiesa ha sicuramente voluto dire intervenendo su Galileo. Certo non si può dire che Galileo fosse di questo pensiero, ma non si può vedere la scienza del ventesimo secolo senza fare i conti con Galileo. Non si può guardare il problema come se fosse un particolare e basta: era un particolare che portava in “nuce” uno sviluppo secolare, per cui la scienza, svincolata da qualsiasi appartenenza è diventata totalizzante.

Quanto detto della scienza vale anche per la filosofia, nel momento in cui la filosofia non è qualche cosa che si fa a comando, per illustrare i dogmi della Chiesa. La Chiesa per illustrare i suoi dogmi può avere bisogno di formule, che prende con estrema libertà e spregiudicatezza da vari sistemi filosofici, perchi non è legata a nessun sistema filosofico. Consideriamo S. Tommaso d’Aquino: la Chiesa con Leone XIII (quindi non ai tempi di Galileo, ma tre secoli dopo) lo ha indicato come maestro esemplare, che ha vissuto integralmente il suo cammino verso la verità, e l’incontro tra la verità e la ragione con totale responsabilità, ma in un ambito di appartenenza che formava continuamente la sua personalità, anche di ricercatore filosofico. Quindi la Chiesa non si preoccupa del contesto ideologico e nemmeno dei contenuti della ricerca; si preoccupa di rappresentare, per colui che ricerca, un ambito di appartenenza, che rende realistico il lavoro. Quanto più è realistico il lavoro, tanto meno si possono realizzare delle contraddizioni assolute tra il contenuto della Rivelazione e il contenuto della ricerca, per chi il contenuto vero della ricerca è in qualche modo il mistero stesso dell’essere. Qualsiasi ricerca, anche particolare, come ha confidato nei suoi scritti Newton, è come un approssimarsi alle tracce dell’Eterno, ma senza fretta, senza premure, senza concordismi inutili. La Chiesa per difendere la verità non ha bisogno della scienza e la scienza per porsi come scienza non ha bisogno di concordare con la fede. La scienza ha davanti a si intero il campo della ricerca e del rischio, per chi come ogni attività umana la scienza è un rischio. Occorre che il soggetto che compie questo rischio sia credente; se non lo h, lo compie lo stesso ma in modo implicito; dovendo ritrovare i termini del suo realismo all’interno della sua onestà intellettuale; un esempio in tal senso sono i filosofi greci, nessuno dei quali ha preteso che la sua posizione fosse un assoluto (Socrate insegna). Poiché il contenuto della ricerca è sempre mobile e la ricerca è continuamente in evoluzione, lo stesso incremento delle conoscenze e dei mezzi di ricerca, il traguardo stesso della ricerca si spostano continuamente. La verità cristiana non è dunque l’eliminazione delle ricerche particolari, ma la possibilità di fare queste ricerche senza esasperazioni e senza riduzioni. Non sarà la scienza a dirci se Dio esiste o no. E non sarà la scienza a cambiare l’uomo circa il suo Destino. La scienza può essere fatta nella certezza del Destino: se è fatta così, è fatta con totale responsabilità e con totale rischio. Non possiamo infine non riconoscere che la scienza e il progresso tecnologico-scientifico hanno incrementato i mezzi per conoscere e illuminare la realtà, quindi per trasformare in meglio le condizioni di vita dell’uomo, quanto meno quelle materiali. Il presupposto che è sempre valso dall’Illuminismo in poi a questo proposito è che l’incremento della scienza e del progresso tecnologico-scientifico comporta necessariamente l’incremento dell’uomo. Siamo però costretti a chiederci se è vero che l’incremento del progresso tecnologico-scientifico ha incrementato l’uomo come coscienza di si, come rapporto tra si e la realtà, come rapporto tra si e il Destino proprio degli altri uomini. Per spiegarmi mi rifaccio alla terza parte della Redemptor Hominis: L’uomo cresce e crescendo può utilizzare in modo sempre più umano gli strumenti. L’idea che dagli strumenti vengono i fini è stata completamente negata dall’evoluzione stessa della scienza: la scienza non pone i fini, si occupa della ricerca dei significati particolari, che sono significati di fenomeni che interessano regioni del sapere, e non il sapere nella sua univocità. Che l’uomo possa utilizzare bene la scienza, non deriva dalla scienza, deriva dal livello di maturazione della personalità dell’uomo. Questo è un altro aspetto per cui quello che è successo nei primi 50 anni del XVII secolo, in quella che poteva sembrare un’ostinata controversia fra ecclesiastici e scienziati è invece quanto mai attuale. Se la Chiesa avesse detto “non ci interessa, pensate su questo quel che volete” avrebbe gravemente sbagliato nella sua vocazione di realtà educante la coscienza ecclesiale e la coscienza umana, per chi non è possibile dire che la scienza non interessa a chi ha la preoccupazione di tenere viva l’intera esperienza dell’uomo. I fini l’uomo non li riceve dalla scienza, li riceve da autorità che sono morali, tanto è vero che la scienza per secoli ha ricevuto i fini dall’esperienza cristiana. I fini dell’uomo nascono a livello dell’impegno dell’uomo con il senso profondo della sua esistenza e non è l’analisi di un particolare, dei fenomeni che riguardano regioni del sapere, che possa darcene una formulazione chiara. Può confermarci un’idea di fine, ma non può certamente produrla a tavolino. Per questo la scienza non può fare a meno della filosofia, né può sostituire la filosofia, per chi comunque, dal punto di vista naturale, la filosofia nasce come impegno dell’uomo col senso ultimo della sua vita. La scienza può favorire il progresso dell’uomo in quanto non pretende di fissare il fine, ma di dare all’uomo, che cresce nella consapevolezza del suo fine, strumenti per l’ottenimento di obiettivi particolari.

(*) Prete, ndr.

http://www.culturacattolica.it/frontend/exec.php?id_content_element=43

Il “caso Galileo”

di Gabriele Mangiarotti (*)

“Per una storia della scienza attraverso le figure più significative. Testi tratti da “Uomo di scienza. Uomo di fede” di Mario Gargantini”«È importante che i teatri tengano presente che, qualora la rappresentazione di questo dramma venga diretta principalmente contro la Chiesa cattolica, esso è destinato a perdere gran parte della sua efficacia… La Chiesa non ha il diritto di vedere occultate le debolezze umane dei suoi membri; ma il dramma non intende neppure gridare alla Chiesa: “giù le mani dalla scienza!”». Così scriveva niente meno che Berthold Brecht, in occasione della rappresentazione teatrale del suo «Vita di Galileo» nell’estate del 1947 in California. Sono affermazioni sistematicamente dimenticate in tutti i dibattiti che accompagnano ogni rinnovata versione del celebre dramma.
Soprattutto sono dimenticate nelle discussioni che puntualmente si innescano nelle aule scolastiche quando, in Storia, Filosofia, Scienze o Letteratura, ci si imbatte nell’«affare Galileo».
È opportuno perciò puntualizzare alcuni criteri utili per leggere adeguatamente questa vicenda.

L’opera di Galileo
Bisogna anzitutto comprendere il contenuto essenziale dell’opera di Galileo, riassumibile in tre risultati scientifici:
• la prima descrizione cinematica corretta del moto di caduta dei gravi e, conseguentemente, l’iniziale superamento della separazione aristotelica tra fisica terrestre e celeste (che sarà completato nella sintesi newtoniana un secolo dopo);
• il primo impiego «scientifico» del telescopio che, a dispetto di quanto molti libri di testo continuano a ripetere, non è stata una sua invenzione: il merito di Galileo è stato quello di averlo utilizzato per tentare di controllare alcune ipotesi scientifiche sull’universo; il gesto veramente rivoluzionario è stato quello di puntare verso i cieli «l’occhiale» degli olandesi, di cui era venuto a conoscenza grazie ai mercanti veneziani;
• la prima formulazione del principio di relatività dei moti, che resterà il punto di partenza, tre secoli più tardi, della imponente costruzione teorica rappresentata dalla relatività einsteiniana.
Tuttavia l’importanza scientifica del grande pisano sta altrove; prima e più che nei risultati conseguiti, è dal metodo che si dovrà valutare il suo decisivo apporto allo sviluppo della cultura occidentale moderna. Con Galileo si stabilisce una modalità nuova di fare scienza che, nelle sue linee portanti, continuerà fino ai giorni nostri.
Una modalità che è molto di più di una tecnica o di una serie di abilità conoscitive e pratiche: è un modo nuovo di porsi di fronte alla natura, un diverso approccio alla realtà, reso possibile dalle diverse domande di partenza affrontate da Galileo. E ciò non è comprensibile senza un riferimento al contesto storico e culturale: Galileo è un uomo del suo tempo, un tempo travagliato, in cui si andava affermando una nuova immagine di uomo e di cosmo, in cui si ponevano ovunque nuove domande, nuovi interrogativi, in cui nascevano nuove aspettative nei confronti del sapere.

Al di là dei miti
Si può ben capire, quindi, come siano riduttivi e mal impostati i dibattiti che riconducono tutta la questione al solo processo e ai rapporti tra Galileo e la Chiesa; anche perché la cultura contemporanea non è ancora riuscita a liberarsi da una serie di miti e deformazioni storiche che inquinano pesantemente l’opinione corrente e non mancano neppure nelle opere di studiosi e divulgatori.
Elenchiamone alcuni.
1. L’apporto di Galileo è stato decisivo per il sorgere della scienza moderna, ma non è stata una partenza da zero. La concezione aristotelica del moto si stava già sgretolando sotto i colpi di alcuni studiosi medioevali (Giordano Nemorario, Filopono, Buridano, Benedetti…); e anche circa il metodo c’era stato l’importante contributo della scuola di Oxford (Grossatesta e R. Bacone) dove si faceva già fisica sperimentale.
2. Galileo non ha codificato il metodo scientifico, non l’ha ridotto a un elenco di regole, ben consapevole che la conoscenza scientifica è un’avventura a più dimensioni, carica di tutta la drammaticità e l’imponderabilità di ogni altra impresa umana. Come pure l’attenzione galileiana per l’aspetto sperimentale non va confusa con quell’atteggiamento empiristico, diffusosi specie nei paesi anglosassoni nei secoli successivi.
3. Più difficile da rimuovere è il mito della subordinazione della scienza alla tecnica; anche perché in Italia ha ricevuto l’imprimatur di Ludovico Geymonat.
L’esempio del cannocchiale è emblematico. Per Geymonat la scienza moderna non si sarebbe evoluta senza le nuove tecniche osservative; viceversa bisogna dire che il cannocchiale non sarebbe entrato nella storia del sapere se Galileo non avesse «osato» puntarlo verso il cielo: un gesto non necessitato dall’esistenza dello strumento bensì dalla pressione di idee e teorie da verificare.
4. Il metodo sciejitifico non rende immuni da errori. Lo stesso Galileo aveva poggiato la sua difesa di Copernico su un modello teorico delle maree, rivelatosi completamente sbagliato (e il Dialogo dei massimi sistemi era nato proprio come Dialogo sulle maree).
5. In campo astronomico Galileo non ha potuto applicare il suo metodo così bene come in meccanica; diversamente da quanto riportato in non molti affrettati giudizi, nelle sue opere non c’è la dimostra-zione dell’ipotesi copernicana. E non poteva esserci in quanto Galileo:
— non ha saputo cogliere l’aspetto dinamico del problema
— non ha considerato le leggi di Keplero;
— non ha ammesso che il moto circolare non poteva essere inerziale;
— non ha distinto tra massa e peso.
Il suo è stato un ottimo lavoro di osservazione e di raccolta di prove non tanto pro-Copernico quanto contro il modello tolemaico; basterà citare: le macchie solari, le fasi di Venere, i satelliti di Giove, gli
anelli di Saturno. Da notare che, secondo recenti riletture del Dialogo, Galileo non avrebbe mai dichiarato di aver «dimostrato» il modello copernicano: se la dichiarazione non c’è mai stata, cade allora ,la tesi che l’abiura sia stata uno spergiuro…
6. È da rivedere anche l’immagine della situazione di allora come dominata da due schieramenti contrapposti: Galileo e i progressisti da un lato, la Chiesa e i conservatori dall’altro. Le nuove idee scientifiche erano stimate da molti ecclesiastici e dallo stesso Papa Urbano VIII. Le ricerche di W. Wallace hanno rimesso in luce il debito di Galileo verso i gesuiti del Collegio romano, solitamente visti come i suoi più accaniti oppositori. E il verdetto del processo non è stato all’unanimità: mancavano 3 firme su 10, compresa quella del card.Barberini, nipote del Papa.
7. Infine non è affatto vero che la condanna di Galileo abbia frenato la scienza. Le ricerche sono continuate ininterrotte secondo l’impostazione del nuovo metodo sperimentale e, in campo astronomico, il modello eliocentrico si è gradatamente affermato (anche se si dovrà attendere un secolo per inquadrarlo in una coerente teoria, la gravitazione newtoniana, e ancor di più per avere delle «prove» risolutive).
Bisogna inoltre guardarsi dall’interpretare i fatti col filtro dell’attuale società dell’informazione: all’epoca il caso Galileo non fu affatto un «caso». Il processo ebbe scarsa risonanza, anche negli ambienti culturali, e all’interno dell’Inquisizione stessa la sua collocazione era nella terza classe, cioè tra quelli non particolarmente importanti. Il suo innalzamento a caso emblematico è di molto posteriore: è l’ingombrante eredità del secolo dei lumi e del positivismo ottocentesco, abituati a vedere la Chiesa come rivale e ostacolo al progresso della scienza e dell’umana razionalità; un’abitudine «irrazionale» in quanto contraria alle evidenze della storia.

Il processo
Ancora una volta è necessario cercare di esaminare i fatti tenendo debito conto del contesto.
Siamo nei primi decenni del 1600: di fronte alla Chiesa, impegnata nell’opera di Riforma partita col Concilio di Trento, c’era una gravissima situazione dell’Europa, scossa dalla guerra dei 30 anni; nello stesso tempo si assisteva a un prorompente sviluppo delle arti, della filosofia e delle scienze.
Iniziava a diffondersi, forse senza che i protagonisti ne avessero completa consapevolezza, una diversa modalità di rapporto tra i fedeli e l’autorità: l’obbedienza diventava limite e vincolo all’esprimersi dell’autonomia dell’individuo e non più aiuto per una crescita pienamente umana.
Il caso Galileo si colloca nelle pieghe di questo dramma: di un’incapacità, da entrambe le parti, a condurre quel sereno e fecondo dialogo, rispettoso delle reciproche competenze e funzioni, che resta l’unica via per comporre qualunque dissidio.
Più di uno storico concorda nel giudizio che senza le intemperanze nel comportamento dello scienziato, le cose forse avrebbero seguito un altro corso. La procedura seguita per ottenere l’ «imprimatur», l’affrettata stampa a Firenze senza che il censore padre Riccardi potesse rileggere il testo, e l’atteggiamento nei confronti dell’ex-amico Urbano VIII, costituiscono una serie di errori evitabili e che nulla hanno a che vedere con la verità scientifica. I
II più autorevole traduttore inglese di Galileo, lo storico Stillman Drake, giudica il Dialogo «ironico fino al cinismo e cinico fino all’ipocrisia» e si meraviglia di «come il libro potesse aver ottenuto una. licenza di stampa anche da parte del più disattento teologo cattolico del tempo».
Al di là dei problemi di temperamento, tutto il rapporto tra Galileo e le autorità romane può essere letto come manifestazione di quella pretesa autosufficienza e assolutezza del sapere scientifico, presente soltanto in germe nel suo pensiero, ma destinata a imporsi in seguito. Una pretesa riassorbita nel gesto finale di sottomissione, difficile da giudicare, ma probabilmente meno forzato o dettato da semplice paura di quanto spesso lo si presenti. Peraltro, durante il dibattimento e dopo, Galileo fu sempre trattato con la massima cortesia: non fu mai rinchiuso in carcere né subì torture. Se la tortura fu minacciata, era per ottemperare a una formula rituale, tipica di quei processi e, in ogni caso, gli fu rivolta alla fine del procedimento, quando egli aveva già accettato l’abiura.
Dal canto suo anche la Chiesa ha molto da obiettare circa l’operato di molti suoi esponenti di quel tempo, tanto da giustificare le parole di Giovanni Paolo II: «Galileo […] ebbe molto a soffrire — non possiamo nasconderlo — da parte di uomini e organismi di Chiesa», e l’invito affinché «si approfondisca l’esame del caso Galileo, nel leale riconoscimento dei torti, da qualunque parte provengano».

«Ex suppositione…»
In realtà la Chiesa stava iniziando a considerare in modo più aperto ;e conquiste del sapere scientifico. La messa all’indice, nel 1616, del libro di Copernico va strettamente connesso all’«ardore polemico con cui Galileo si segnalò nei cenacoli colti della Roma patrizia ed ecclefsiastica». Il Concilio di Trento invece non aveva condannato l’eliocentrismo, anzi c’era stato un invito a esaminare le teorie copernicane, considerandole come «ipotesi» interessanti.
Molti epistemologi non esitano a definire «moderna» la posizione del card. Bellarmino che avrebbe chiesto a Galileo di trattare il modello copernicano «ex suppositione e non assolutamente»: una posizione che richiama il carattere circoscritto e rivedibile del sapere scientifico, oggi riconosciuto da tutti.
Prevalsero però le faziosità di alcuni e «l’istruttoria processuale fu sintetizzata in alcune pagine tanto piene di errori e di inesattezze da attenuare la colpa di Urbano VIII e dei cardinali del sant’Uffizio se essi si servirono di quell’infelice riassunto per decidere la sorte dell’imputato».
Gli studi riaperti qualche anno fa, dopo lo storico discorso del Papa, in occasione del 350es’mo del processo, hanno contribuito a inquadrare meglio l’intera vicenda nel suo tempo e in riferimento all’oggi, e non si può certo condividere l’opinione di chi consigliava la Chiesa a «mettere una grossa pietra sul passato […] lasciando questi capitoli infausti consegnati alla storia».”

(*) Prete, ndr. Si osservi che il Mangiarotti si definisce  “Di formazione scientifica (frequentò il Liceo Scientifico S. Vittorio Veneto di Milano), si interessa del rapporto scienza e fede. Ha curato con amici l’edizione del libro Galileo: mito e realtà), giunto alla terza edizione e la mostra sempre sullo stesso tema al Meeting di Rimini del 2000.”

Capito ? Uno fa il liceo scientifico e si definisce di formazione scientifica. Da non credere! Caspita, quasi come Ferrara e Rutelli che, avendo fatto il liceo classico, sono di formazione classica ! 

Il lato debole di Giordano e Galileo

di Antonio Socci



In nome della ragione sono diventati due miti della modernità. Eppure Bruno e Galilei alla ragione preferivano la magia. Una storia da rifare?

Occhio alle date: 1492-1992. Sono giusto cinquecento anni che è morto il Medioevo. Da allora l’uomo è stato dotato di ragione (prima niente) e la donna di un’anima. Il 12 ottobre 1492 finisce la barbarie della superstizione e il 13 è l’alba della Ragione. Sono le scemenze del sistema scolastico e le reminiscenze del cittadino medio. Il bianco e il nero. I buoni e i cattivi. La luce della ragione e le tenebre della superstizione. E così passa per rivoluzionario uno storico come Jacques Le Goff quando svela una convinzione ormai assodata per gli specialisti: «Le qualità che tutti attribuiscono al Rinascimento, per me spettano al Medioevo».

Le leggende nere sono dure a morire. Ma dovremo abituarci alla verità: un Medioevo razionale e realista e una modernità torbida, ermetica, occulta e superstiziosa. I libri di Gustav Henningsen e di Giovanni Romeo usciti di recente hanno mostrato – ad esempio – che pure la psicosi delle streghe, con i conseguenti massacri, dall’antichità passa direttamente al Rinascimento. Il Medioevo razionale e realista com’era, non ha conosciuto “caccia alle streghe”. È un fenomeno legato direttamente alla riemersione dell’occulto nel Cinquecento e alla psicosi del demoniaco indotta dalla Riforma protestante nei Paesi del Nord. È ormai accertate che proprio la vituperata Inquisizione – guidata da uomini di grande dottrina e razionalità come lo straordinario Alonso de Salazar Frìas in Spagna- ha preservato i Paesi cattolici da queste sanguinarie fobie di massa. Ed à stata la sola istituzione di legalità e di umanità dove esisteva solo l’arbitrio e l’orrore.
«Il XX secolo» scriveva Romeo in Inquisitori, esorcisti e streghe (nell’Italia della Controriforma) (Sansoni) «si appresta a lasciare in eredità al Terzo millennio che s’apre un’immagine sorprendentemente nuova dei tribunali come quelli inquisitoriali, tradizionalmente relegati dal nostro immaginario collettivo tra gli orrori del fanatismo clericale». I due capitoli più frequentati di questa leggenda nera sono legati ai nomi di Galileo Galilei e Giordano Bruno. Adesso un’esposizione organizzata a Parigi («Cultura italiana del Seicento in Europa e l’Accademia dei Lincei») e un libro uscito in Inghilterra (John Bossy, Giordano Bruno and the embassy affaire, Yale University Press) portano a conclusioni sorprendenti su questi due episodi svoltisi a cavallo del 1600.

LE STELLE DI GALILEO

In una recente conferenza il cardinal Ratzinger ricostruisce questo «mito dell’Illuminismo: Galilei appare come la vittima dell’oscurantismo medievale, ancora persistente nella Chiesa… da una parte troviamo l’Inquisizione come la forza della superstizione, come avversaria della libertà e della conoscenza. Dall’altra parte sta la scienza della natura, rappresentata da Galilei, come forza del progresso e della liberazione dell’uomo dalle catene dell’ignoranza».

Semplice. Troppo semplice. Oggi sappiamo: che fu lo stesso Galilei a immischiarsi in questioni teologiche e a pretendere il pronunciamento del Sant’Uffizio. Che uomini illuminati come il cardinal Bellarmino e papa Urbano VIII non avevano nessun pregiudizio sulle teorie copernicane e anzi sostenevano la ricerca scientifica. Che la Chiesa sollecitò sempre un atteggiamento razionale da Galileo: non trasformare ipotesi scientifiche in dogmi. Che Galileo non solo fu trattato con umanità. ma fu addirittura “mantenuto” dalla Chiesa.

Ratzinger cita due autori moderni. Il marxista Ernst Bloch, per il quale sistema copernicano e tolemaico hanno la stessa plausibilità: «Dipende dalla scelta dei corpi presi come punti fissi di riferimento… non appare affatto improponibile accettare, così coma si faceva nel passato, che la terra sia stabile e che sia il sole a muoversi». E’ un filosofo della scienza laico, Paul Feyerabend: «Al tempo di Galilei la Chiesa si mantenne ben più fedele alla ragione di Galilei stesso, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina di Galilei. Il suo processo contro Galilei era razionale e giusto, mentre la sua attuale revisione si può giustificare solo con motivi di opportunità politica».

In effetti la Chiesa del tempo di san Roberto Bellarmino difendeva innanzitutto l’aristotelismo scolastico, cioè l’approccio alla realtà più razionale e realistico. E, curiosamente, la nascente scienza galileiana non ha come programma esplicito la guerra ai dogmi della fede e alla dottrina cattolica, ma lancia tutti i suoi strali contro l’aristotelismo. Affondando lo sue radici nell’antica mitologia ermetica e occultista, nella magia e nell’alchimia rinascimentali. Giordano Bruno, ad esempio, nel 1584 con La cena delle ceneri aderisce alle teorie copernicane, ma non dà motivazioni razionali o matematiche. Per lui l’eliocentrismo indica l’imminente ritorno delle religione “egizia” o magica, “il solo copernicano annuncia il risorgere vittorioso dell’antica verace filosofia”. La sua, secondo Frances A. Yates, «è una nuova interpretazione ermetica della divinità dell’universo, una gnosi sviluppata». Una mitologia inaccettabile per la Chiesa che accettava Copernico come ipotesi scientifica, ma – proprio a difesa della ragione e dell’esperienza – riteneva deliri quelli di Bruno. Che da allora crearono forti sospetti attorno all’eliocentrismo.

GLI INIZIATI

Le parti si ribaltano: la Chiesa a difesa della ragione e del realismo, la scienza che inalbera il vessillo esoterico delle superstizioni. Alla mostra parigina (allestita dal 12 dicembre all’8 gennaio dall’Institut Français) faceva bella mostra in una teca un documento rivelatore. E’ un verbale. Si tratta della riunione di fondazione dell’Accademia dei Lincei: è il 25 settembre 1603. I primi cinque soci si riuniscono nel palazzo romano di Federico Cesi a via della Maschera d’Oro, alle 9.50 del mattino. Il verbale – in parte scritto con caratteri cifrali – rivela che giorno e ora sono stati scelti per «captare il favorevole influsso degli astri, specialmente Mercurio». Spiega il curatore del catalogo: «Il testo redatto dal Cesi appare chiaramente come la descrizione di un’operazione magica condotta secondo i canoni dell’ermetismo rinascimentale con la quale si cerca, mediante la manipolazione di metalli e vegetali collegati ai pianeti, di attrarne simpateticamente l’influsso, convogliandolo verso di sé dalla sfera superiore del cosmo». Si legge sul documento consunto e ingiallito: «Su fogli di carta di seta predisposti allo scopo venivano trascritti pitagorici misteri».

Così nasce la prima accademia scientifica del mondo moderno. Nel cui seno sbocciò Galileo Galilei, il massimo frutto. Anch’egli largamente interessato all’astrologia. Fa una certa impressione leggere nel Proponimento linceo di “filosofica milizia” e di iniziazione “ai misteri della Sapienza”. Ecco i primi Lincei qualificarsi come “sagacissimi indagatori delle scienze arcane e dediti dell’arte paracelsica” ovvero “amanti delle scienze e indagatori delle arti spagiriche”.

TUTTI “FRATELLI”

L’interesse esoterico per la magia e il disvelamento degli arcani segreti non è una deviazione iniziale: è il substrato delle stesse ricerche empiriche in cui eccellerà Galileo. Il quale infatti convive nell’Accademia con il “mago” Giambattista Della Porta. Non c’è contraddizione. Eugenio Garin lo dimostra nel saggio introduttivo all’esposizione. Questa «fraternitas, che ha tutte le caratteristiche di un ordine rigidissimo, quasi di una setta» prevede diversi tipi di approccio alla conoscenza.

«L’atteggiamento del Cesi (il capo dell’Accademia, ndr) si iscriveva in una tradizione di sapore ermetico e magico, che nei vari piani della realtà vedeva gradi dell’essere espressi in “linguaggi” da interpretare, mentre solo gli iniziati potevano raggiungere il significato più profondo del “mistero” della natura, decifrando l’ultimo geroglifico dell’essere».

Tutti i bei nomi della scienza moderna nuotano in questo magma. Da Copernico che evoca Ermete Trismegisto, a Keplero che dichiarava di studiare l’astronomia «more hermetico». Prendiamo Francis Bacon. D’Alembert nel Discorso preliminare all’Enciclopedia ne fa il profeta della scienza moderna:  «Nato nel cuore della notte più profonda fa conoscere la necessità della fisica sperimentale». Erano secondo Luigi Firpo «tempi per il sapere umano ancora pieni di oscurantismo», ma con Bacone «si può dire che il Medioevo è finito». Ma scrive la Yates: «L’antico giudizio su Bacon, considerato un moderno ricercatore scientifico e sperimentatore, emerso da un passato di superstizione, non è più valido… (Bacon) scaturisce proprio dalla tradizione ermetica, dalla magia o dalla Kabbalah del Rinascimento».

Ecco perché poi mister Bacon, con le menti illuminate dei vari Boyle, Grozio e Cartesio, nonché Lutero e Calvino, fu tra i piromani banditori della “caccia alle streghe” (oltre che dell’assolutismo elisabettiano). I libri di Frances A. Yates, l’autorevole studiosa del Warburg Institute di Londra, sono una miniera. E’ lei che mostra il parallelismo della Nuova Atlantide di Bacon con la Fama Fraternitatis dei Rosacroce.

E le origini rosacrociane della stessa Royal Society, la grande accademia scientifica inglese che nacque sotto la bandiera di Bacon e il volere del re ufficialmente nel 1662 (e sul modello dell’Accademia dei Lincei). Si scopre così che pure «la chimica di Robert Boyle era figlia del movimento alchimistico, e che vi era uno straordinario sfondo alchimistico persino nel pensiero di Isaac Newton».

Tutto l’ambiente scientifico vivo in questo mondo di suggestioni esoterica e qua e là fa continuamente capolino la misteriosa Fraternità dei Rosacroce. Secondo Thomas De Quincey la massoneria è la forma che questa strana setta, di origine tedesca, assume in Inghilterra. E’ c’è un fatto curioso. Due dei promotori della Royal Society sono Elias Ashmole e Robert Moray. Il 16 ottobre 1646 Ashmole annota nel suo diario di essere stato iniziato nella loggia massonica di Warrington, nel Lancashire. E il 20 maggio 1641 è documentata l’iniziazione di Moray in una loggia di Edimburgo. Questi sono i due più antichi documenti storici sull’esistenza di logge massoniche (già fiorenti, dunque, a metà del Seicento). La Yates in L’Illuminismo dei Rosacroce (Einaudi) conclude: «(dai Rosacroce) la massoneria attinse solo un filone, mentre gli altri confluirono nella Royal Society, nel movimento alchimistico e in varie altre direzioni».

E’ curioso osservare che una di queste direzioni – se è vera la scoperta di Bossy su Giordano Bruno – è lo spionaggio: i servizi segreti sembrano proprio una delle vocazioni più antiche dell’esoterismo. Ci sarebbe proprio Bruno, infatti, dietro il misterioso pseudonimo Henry Fagot, la spia annidata nell’ambasciata francese a Londra che, nel 1583, svela un complotto dei cattolici (perseguitati) per rovesciare la sanguinaria Elisabetta.
Il cerchio si chiude attorno alla Corona inglese che si avvia a sbaragliare la Spagna cattolica e scatenare la sua potenza imperialistica. Davanti al dispiegarsi di questa enorme potenza (anche politica e militare) se ci fu un errore tragico da parte della Chiesa fu semmai quello di non essersi opposta abbastanza. Non solo sullo scacchiere politico. Il bel catalogo della mostra sui Lincei, a proposito della magia propiziatoria eseguita dai Lincei all’atto di fondazione, ricorda: «Anche gli Astrologica di Tommaso Campanella contengono il resoconto di un’analoga cerimonia propiziatoria celebrata dall’autore a Roma, nel 1628, assieme a papa Urbano VIII». (Quell’Urbano VIII la cui elezione fu salutata con entusiasmo dai Lincei e da Galileo per la sua apertura intellettuale e il suo interesse verso i fermenti culturali del momento).

Il potere moderno cominciava a vincere. E la battaglia più sottile, quella fatale, la Chiesa in questi anni la perde appunto con se stessa. John Bossy così conclude il suo libro su L’Occidente cristiano (Einaudi): «Il “cristianesimo” una parola che fino al Seicento indicava un gruppo di persone… da allora, come attesa la maggioranza delle lingue europee, si rifiorisce a un “ismo”, ovvero a un insieme di credenze».

© Il Sabato – 18 Gennaio 1992, n. 3, p. 52s.

Vittorio MESSORI

Galileo Galilei
tratto da Pensare la storia, Ed. Paoline 1992, cap. 178-180, pp. 383-397.



Stando a un’inchiesta dei Consiglio d’Europa tra gli studenti di scienze in tutti i Paesi della Comunità, quasi il 30 per cento è convinto che Galileo Galilei sia stato arso vivo dalla Chiesa sul rogo. La quasi totalità (il 97 per cento) è comunque convinta che sia stato sottoposto a tortura. Coloro – non molti, in verità – che sono in grado di dire qualcosa di più sullo scienziato pisano, ricordano, come frase “sicuramente storica”, un suo “Eppur si muove!”, fieramente lanciato in faccia, dopo la lettura della sentenza, agli inquisitori convinti di fermare il moto della Terra con gli anatemi teologici.

Quegli studenti sarebbero sorpresi se qualcuno dicesse loro che siamo, qui, nella fortunata situazione di poter datare esattamente almeno quest’ultimo falso: la “frase storica” fu inventata a Londra, nel 1757, da quel brillante quanto spesso inattendibile giornalista che fu Giuseppe Baretti.

Il 22 giugno del 1633, nel convento romano di Santa Maria sopra Minerva tenuto dai domenicani, udita la sentenza, il Galileo “vero” (non quello del mito) sembra mormorasse un ringraziamento per i dieci cardinali – tre dei quali avevano votato perché fosse prosciolto – per la mitezza della pena. Anche perché era consapevole di aver fatto di tutto per indisporre il tribunale, cercando per di più di prendere in giro quei giudici – tra i quali c’erano uomini di scienza non inferiore alla sua – assicurando che, nel libro contestatogli (e che era uscito con una approvazione ecclesiastica estorta con ambigui sotterfugi), aveva in realtà sostenuto il contrario di quanto si poteva credere.

Di più: nei quattro giorni di discussione, ad appoggio della sua certezza che la Terra girasse attorno al Sole aveva portato un solo argomento. Ed era sbagliato. Sosteneva, infatti, che le maree erano dovute allo “scuotimento” delle acque provocato dal moto terrestre. Tesi risibile, alla quale i suoi giudici-colleghi ne opponevano un’altra che Galileo giudicava “da imbecilli”: era, invece, quella giusta. L’alzarsi e l’abbassarsi dell’acqua dei mari, cioè, è dovuta all’attrazione della Luna. Come dicevano, appunto, quegli inquisitori insultati sprezzantemente dal Pisano.

Altri argomenti sperimentali, verificabili, sulla centralità del Sole e sul moto terrestre, oltre a questa ragione fasulla, Galileo non seppe portare. Né c’è da stupirsi: il Sant’Uffizio non si opponeva affatto all’evidenza scientifica in nome di un oscurantismo teologico. La prima prova sperimentale, indubitabile, della rotazione della Terra è del 1748, oltre un secolo dopo. E per vederla quella rotazione, bisognerà aspettare il 1851, con quel pendolo di Foucault caro a Umberto Eco.

In quel 1633 del processo a Galileo, sistema tolemaico (Sole e pianeti ruotano attorno alla Terra) e sistema copernicano difeso dal Galilei (Terra e pianeti ruotano attorno al Sole) non erano che due ipotesi quasi in parità, su cui scommettere senza prove decisive. E molti religiosi cattolici stessi stavano pacificamente per il “novatore” Copernico, condannato invece da Lutero.

Del resto, Galileo non solo sbagliava tirando in campo le maree, ma già era incorso in un altro grave infortunio scientifico quando, nel 1618, erano apparse in cielo delle comete. Per certi apriorismi legati appunto alla sua “scommessa” copernicana, si era ostinato a dire che si trattava solo di illusioni ottiche e aveva duramente attaccato gli astronomi gesuiti della Specola romana che invece – e giustamente – sostenevano che quelle comete erano oggetti celesti reali. Si sarebbe visto poi che sbagliava ancora, sostenendo il moto della Terra e la fissità assoluta del Sole, mentre in realtà anche questo è in movimento e ruota attorno al centro della Galassia.

Niente frasi “titaniche” (il troppo celebre “Eppur si muove!”) comunque, se non nelle menzogne degli illuministi e poi dei marxisti – vedasi Bertolt Brecht – che crearono a tavolino un “caso” che faceva (e fa ancora) molto comodo per una propaganda volta a dimostrare l’incompatibilità tra scienza e fede.

Torture? carceri dell’Inquisizione? addirittura rogo? Anche qui, gli studenti europei del sondaggio avrebbero qualche sorpresa. Galileo non fece un solo giorno di carcere, né fu sottoposto ad alcuna violenza fisica. Anzi, convocato a Roma per il processo, si sistemò (a spese e cura della Santa Sede), in un alloggio di cinque stanze con vista sui giardini vaticani e cameriere personale. Dopo la sentenza, fu alloggiato nella splendida villa dei Medici al Pincio. Da lì, il “condannato” si trasferì come ospite nel palazzo dell’arcivescovo di Siena, uno dei tanti ecclesiastici insigni che gli volevano bene, che lo avevano aiutato e incoraggiato e ai quali aveva dedicato le sue opere. Infine, si sistemò nella sua confortevole villa di Arcetri, dal nome significativo “Il gioiello”.

Non perdette né la stima né l’amicizia di vescovi e scienziati, spesso religiosi. Non gli era mai stato impedito di continuare il suo lavoro e ne approfittò difatti, continuando gli studi e pubblicando un libro – Discorsi e dimostrazioni sopra due nuove scienze che è il suo capolavoro scientifico. Né gli era stato vietato di ricevere visite, così che i migliori colleghi d’Europa passarono a discutere con lui. Presto gli era stato tolto anche il divieto di muoversi come voleva dalla sua villa. Gli rimase un solo obbligo: quello di recitare una volta la settimana i sette salmi penitenziali. Questa “pena”, in realtà, era anch’essa scaduta dopo tre anni, ma fu continuata liberamente da un credente come lui, da un uomo che per gran parte della sua vita era stato il beniamino dei Papi stessi; e che, ben lungi dall’ergersi come difensore della ragione contro l’oscurantismo clericale, come vuole la leggenda posteriore, poté scrivere con verità alla fine della vita: “In tutte le opere mie, non sarà chi trovar possa pur minima ombra di cosa che declini dalla pietà e dalla riverenza di Santa Chiesa“.

Morì a 78 anni, nel suo letto, munito dell’indulgenza plenaria e della benedizione del papa. Era l’8 gennaio 1642, nove anni dopo la “condanna” e dopo 78 di vita. Una delle due figlie suore raccolse la sua ultima parola. Fu: “Gesù!“.

I suoi guai, del resto, più che da parte “clericale” gli erano sempre venuti dai “laici”: dai suoi colleghi universitari, cioè, che per invidia o per conservatorismo, brandendo Aristotele più che la Bibbia, fecero di tutto per toglierlo di mezzo e ridurlo al silenzio. La difesa gli venne dalla Chiesa, l’offesa dall’Università.

In occasione della recente visita del papa a Pisa, un illustre scienziato, su un cosiddetto “grande” quotidiano, ha deplorato che Giovanni Paolo II “non abbia fatto ulteriore, doverosa ammenda dell’inumano trattamento usato dalla Chiesa contro Galileo“. Se, per gli studenti del sondaggio da cui siamo partiti, si deve parlare di ignoranza, per studiosi di questa levatura il sospetto è la malafede. Quella stessa malafede, del resto, che continua dai tempi di Voltaire e che tanti complessi di colpa ha creato in cattolici disinformati. Eppure, non solo le cose non andarono per niente come vuole la secolare propaganda; ma proprio oggi ci sono nuovi motivi per riflettere sulle non ignobili ragioni della Chiesa. Il “caso” è troppo importante, per non parlarne ancora.


Il Galilei – alla pari, del resto, di un altro cattolico fervente come Cristoforo Colombo – convisse apertamente more uxorio con una donna che non volle sposare, ma dalla quale ebbe un figlio maschio e due femmine. Lasciata Padova per ritornare in Toscana, dove gli era stata promessa maggior possibilità di far carriera, abbandonò in modo spiccio (da qualcuno, anzi, sospettato di brutalità) la fedele compagna, la veneziana Marina Gamba, togliendole anche tutti i figli. “Provvisoriamente, mise le figliuole in casa del cognato, ma doveva pensare a una loro sistemazione definitiva: cosa non facile perché, data la nascita illegittima, non era probabile un futuro matrimonio. Galileo pensò allora di monacarle. Senonché le leggi ecclesiastiche non permettevano che fanciulle così giovani facessero i voti, e allora Galileo si raccomandò ad alti prelati per poterle fare entrare egualmente in convento: così, nel 1613, le due fanciulle – una di 13 e l’altra di 12 anni – entravano nel monastero di San Matteo d’Arcetri e dopo poco vestirono l’abito. Virginia, che prese il nome di suor Maria Celeste, riuscì a portare cristianamente la sua croce, visse con profonda pietà e in attiva carità verso le sue consorelle. Livia, divenuta suor Arcangela, soccombette invece al peso della violenza subita e visse nevrastenica e malaticcia” (Sofia Vanni Rovighi).

Sul piano personale, dunque, sarebbe stato vulnerabile.

“Sarebbe”, diciamo, perché, grazie a Dio, quella Chiesa che pure lo convocò davanti al Sant’Uffizio, quella Chiesa accusata di un moralismo spietato, si guardò bene dal cadere nella facile meschineria di mescolare il piano privato, le scelte personali del grande scienziato, con il piano delle sue idee, le sole che fossero in discussione. “Nessun ecclesiastico gli rinfaccerà mai la sua situazione familiare. Ben diversa sarebbe stata la sua sorte nella Ginevra di Calvino, dove i “concubini” come lui venivano decapitati” (Rino Canimilleri).

E’ un’osservazione che apre uno spiraglio su una situazione poco conosciuta. Ha scritto Georges Bené, uno dei maggiori conoscitori di questa vicenda: “Da due secoli, Galileo e il suo caso interessano, più che come fine, come mezzo polemico contro la Chiesa cattolica e contro il suo “oscurantismo” che avrebbe bloccato la ricerca scientifica”. Lo stesso Joseph Lortz, cattolico rigoroso e certo ancora lontano da quello spirito di autoflagellazione di tanta attuale storiografia clericale, autore di uno dei più diffusi manuali di storia della Chiesa, cita, condividendola, l’affermazione di un altro studioso, il Dessauer: “Il nuovo mondo sorge essenzialmente al di fuori della Chiesa cattolica perché questa, con Galileo, ha cacciato gli scienziati“.

Questo non risponde affatto alla verità. Il temporaneo divieto (che giunge peraltro, lo vedremo meglio, dopo una lunga simpatia) di insegnare pubblicamente la teoria eliocentrica copernicana, è un fatto del tutto isolato: né prima né dopo la Chiesa scenderà mai (ripetiamo: mai) in campo per intralciare in qualche modo la ricerca scientifica, portata avanti tra l’altro quasi sempre da membri di ordini religiosi. Lo stesso Galileo è convocato solo per non avere rispettato i patti: l’approvazione ecclesiastica per il libro “incriminato”, i Dialoghi sopra i massimi sistemi, gli era stata concessa purché trasformasse in ipotesi (come del resto esigevano le stesse ancora incerte conoscenze scientifiche del tempo) la teoria copernicana che egli invece dava ormai come sicura. Il che non era ancora. Promise di adeguarsi: non solo non lo fece, dando alle stampe il manoscritto così com’era, ma addirittura mise in bocca allo sciocco dei Dialoghi, dal nome esemplare di Simplicio, i consigli di moderazione datigli dal papa che pur gli era amico e lo ammirava.

Galileo, quando è convocato per scolparsi, si sta occupando di molti altri progetti di ricerca, non solo di quello sul movimento della Terra o del Sole. Era giunto quasi ai settant’anni avendo avuto onori e aiuti da parte di tutti gli ambienti religiosi, a parte un platonico ammonimento del 1616, ma non diretto a lui personalmente; subito dopo la condanna potrà riprendere in pieno le ricerche, attorniato da giovani discepoli che formeranno una scuola. E potrà condensare il meglio della sua vita di studio negli anni che gli restano, in quei Discorsi sopra due nuove scienze che è il vertice del suo pensiero scientifico.

Dei resto, proprio nell’astronomia e proprio a partire da quegli anni la Specola Vaticana – ancor oggi in attività, fondata e sempre diretta da gesuiti – consolida la sua fama di istituto scientifico tra i più prestigiosi e rigorosi nel mondo. Tanto che, quando gli italiani giungono a Roma, nel 1870, si affrettano a fare un’eccezione al loro programma di cacciare i religiosi, quelli della Compagnia di Gesù innanzitutto.

Il governo dell’Italia anticlericale e massonica fa votare così dal Parlamento una legge speciale per mantenere come direttore a vita dell’Osservatorio già papale il padre Angelo Secchi, uno dei maggiori studiosi del secolo, tra i fondatori dell’astrofisica, uomo la cui fama è talmente universale che petizioni giungono da tutto il mondo civile per ammonire i responsabili della “nuova Italia” che non intralcino un lavoro giudicato prezioso per tutti.

Se la scienza sembra emigrare, a partire dal Seicento, prima nel Nord Europa e poi oltre Atlantico – fuori, cioè, dall’orbita di regioni cattoliche – le cause sono legate al diverso corso assunto dalla scienza stessa. Innanzitutto, i nuovi, costosi strumenti (dei quali proprio Galileo è tra i pionieri) esigono fondi e laboratori che solo i Paesi economicamente sulla cresta dell’onda possono permettersi, non certo l’Italia occupata dagli stranieri o la Spagna in declino, rovinata dal suo stesso trionfo.

La scienza moderna, poi, a differenza di quella antica, si lega direttamente alla tecnologia, cioè alla sua utilizzazione diretta e concreta. Gli antichi coltivavano gli studi scientifici per se stessi, per gusto della conoscenza gratuita, pura. 1 greci, ad esempio, conoscevano le possibilità del vapore di trasformarsi in energia ma, se non adattarono a macchina da lavoro quella conoscenza, è perché non avrebbero considerato degno di un uomo libero, di un “filosofo” come era anche lo scienziato, darsi a simili attività “utilitarie”. (Un atteggiamento che contrassegna del resto tutte le società tradizionali: i cinesi, che da tempi antichissimi fabbricavano la polvere nera, non la trasformarono mai in polvere da sparo per cannoni e fucili, come fecero poi gli europei del Rinascimento, ma l’impiegarono solo per fini estetici, per fare festa con i fuochi artificiali. E gli antichi egizi riservavano le loro straordinarie tecniche edilizie solo a templi e tombe, non per edifici “profani”).

E’ chiaro che, da quando la scienza si mette al servizio della tecnologia, essa può svilupparsi soprattutto tra popoli, come quelli nordici, che conoscono una primissima rivoluzione industriale; che hanno – come gli olandesi o gli inglesi – grandi flotte da costruire e da utilizzare; che abbisognano di equipaggiamento moderno per gli eserciti, di infrastrutture territoriali, e così via. Mentre, cioè, prima, la scienza era legata solo all’intelligenza, alla cultura, alla filosofia, all’arte stessa, a partire dall’epoca moderna è legata al commercio, all’industria, alla guerra. Al denaro, insomma.

Che questa – e non la pretesa “persecuzione cattolica” di cui, l’abbiamo visto, parlano anche storici cattolici – sia la causa della relativa inferiorità scientifica dei popoli restati legati a Roma, lo dimostra anche l’intolleranza protestante di cui quasi mai si parla e che è invece massiccia e precoce. Copernico, da cui tutto inizia (e nel cui nome Galileo sarebbe stato “perseguitato”) è un cattolicissimo polacco. Anzi, è addirittura un canonico che installa il suo rudimentale osservatorio su un torrione della cattedrale di Frauenburg. L’opera fondamentale che pubblica nel 1543 – La rotazione dei corpi celesti – è dedicata al papa Paolo III, anch’egli, tra l’altro, appassionato astronomo. L’imprimatur è concesso da un cardinale proveniente da quei domenicani nel cui monastero romano Galileo ascolterà la condanna.

Il libro del canonico polacco ha però una singolarità: la prefazione è di un protestante che prende le distanze da Copernico, precisando che si tratta solo di ipotesi, preoccupato com’è di possibili conseguenze per la Scrittura. Il primo allarme non è dunque di parte cattolica: anzi, sino al dramma finale di Galileo, si succedono ben undici papi che non solo non disapprovano la teoria “eliocentrica” copernicana, ma spesso l’incoraggiano. Lo scienziato pisano stesso è trionfalmente accolto a Roma e fatto membro dell’Accademia pontificia anche dopo le sue prime opere favorevoli al sistema eliocentrico.

Ecco, invece, la reazione testuale di Lutero alle prime notizie sulle tesi di Copernico: “La gente presta orecchio a un astrologo improvvisato che cerca in tutti i modi di dimostrare che è la Terra a girare e non il Cielo. Chi vuol far sfoggio di intelligenza deve inventare qualcosa e spacciarlo come giusto. Questo Copernico, nella sua follia, vuol buttare all’aria tutti i princìpi dell’astronomia“. E Melantone, il maggior collaboratore teologico di fra Martino, uomo in genere piuttosto equilibrato, qui si mostra inflessibile: “Simili fantasie da noi non saranno tollerate“.

Non si trattava di minacce a vuoto: il protestante Keplero, fautore del sistema copernicano, per sfuggire ai suoi correligionari che lo giudicano blasfemo perché parteggia per una teoria creduta contraria alla Bibbia, deve scappare dalla Germania e rifugiarsi a Praga, dopo essere stato espulso dal collegio teologico di Tubinga. Ed è significativo quanto ignorato (come, del resto, sono ignorate troppe cose in questa vicenda) che giunga al “copernicano” e riformato Keplero un invito per insegnare proprio nei territori pontifici, nella prestigiosissima università di Bologna.

Sempre Lutero ripeté più volte: “Si porrebbe fuori del cristianesimo chi affermasse che la Terra ha più di seimila anni“. Questo “letteralismo”, questo “fondamentalismo” che tratta la Bibbia come una sorta di Corano (non soggetta, dunque a interpretazione) contrassegna tutta la storia del protestantesimo ed è del resto ancora in pieno vigore, difeso com’è dall’ala in grande espansione – negli Usa e altrove – di Chiese e nuove religioni che si rifanno alla Riforma.

A proposito di università (e di “oscurantismo”): ci sarà pure una ragione se, all’inizio del Seicento, proprio quando Galileo è sulla quarantina, nel pieno del vigore della ricerca, di università – questa tipica creazione del Medio Evo cattolico – ce ne sono 108 in Europa, alcune altre nelle Americhe spagnole e portoghesi e nessuna nei territori non cristiani. E ci sarà pure una ragione se le opere matematiche e geometriche degli antichi (prima fra tutte quelle di Euclide) che costituirono la base fondamentale per lo sviluppo della scienza moderna, giunsero a noi soltanto perché ricopiate dai monaci benedettini e, appena inventata la tipografia, stampate sempre a cura di religiosi. Qualcuno ha addirittura rilevato che, proprio in quell’inizio del Seicento, è un Grande Inquisitore di Spagna che fonda a Salamanca la facoltà di scienze naturali dove si insegna con favore la teoria copernicana…

Storia complessa, come si vede. Ben più complessa di come abitualmente ce la raccontino. Bisognerà parlarne ancora.


Qualcuno ha fatto notare un paradosso: è infatti più volte successo che la Chiesa sia stata giudicata attardata, non al passo con i tempi. Ma il prosieguo della storia ha finito col dimostrare che, se sembrava anacronistica, è perché aveva avuto ragione troppo presto.

E’ successo, ad esempio, con la diffidenza per il mito entusiastico della “modernità”, e del conseguente “progresso”, per tutto il XIX secolo e per buona parte del XX. Adesso, uno storico come Émile Poulat può dire: “Pio IX e gli altri papi “reazionari” erano in ritardo sul loro tempo ma sono divenuti dei profeti per il nostro. Avevano forse torto per il loro oggi e il loro domani: ma avevano visto giusto per il loro dopodomani, che è poi questo nostro tempo postmoderno che scopre l’altro volto, quello oscuro, della modernità e del progresso“.

E’ successo, per fare un altro esempio, con Pio XI e Pio XII, le cui condanne del comunismo ateo erano sino a ieri sprezzate come “conservatrici”, “superate”, mentre ora quelle cose le dicono gli stessi comunisti pentiti (quando hanno sufficiente onestà per riconoscerlo) e rivelano che quegli “attardati” di papi avevano una vista che nessun altro ebbe così acuta. Sta succedendo, per fare un altro esempio, con Paolo VI, il cui documento che appare e apparirà sempre più profetico è anche quello che fu considerato il più “reazionario”: l’Humanae Vitae.

Oggi siamo forse in grado di scorgere che il paradosso si è verificato anche per quel “caso Galileo” che ci ha tenuti impegnati per i due frammenti precedenti.

Certo, ci si sbagliò nel mescolare Bibbia e nascente scienza sperimentale. Ma facile è giudicare con il senno di poi: come si è visto, i protestanti furono qui assai meno lucidi; anzi, assai più intolleranti dei cattolici. E certo che in terra luterana o calvinista Galileo sarebbe finito non in villa, ospite di gerarchi ecclesiastici, ma sul patibolo.

Dai tempi dell’antichità classica sino ad allora, in tutto l’Occidente, la filosofia comprendeva tutto lo scibile umano, scienze naturali comprese: oggi ci è agevole distinguere, ma a quei tempi non era affatto così; la distinzione cominciava a farsi strada tra lacerazioni ed errori.

D’altro canto, Galileo suscitava qualche sospetto perché aveva già mostrato di sbagliare (sulle comete, ad esempio) e proprio su quel suo prediletto piano sperimentale; non aveva prove a favore di Copernico, la sola che portava era del tutto erronea. Un santo e un dotto della levatura di Roberto Bellarmino si diceva pronto – e con lui un’altra figura di altissima statura come il cardinale Baronio – a dare alla Scrittura (la cui lettera sembrava più in sintonia col tradizionale sistema tolemaico) un senso metaforico, almeno nelle espressioni che apparivano messe in crisi dalle nuove ipotesi astronomiche; ma soltanto se i copernicani fossero stati in grado di dare prove scientifiche irrefutabili. E quelle prove non vennero se non un secolo dopo.

Uno studioso come Georges Bené pensa addirittura che il ritiro deciso dal Sant’Uffizio del libro di Galileo fosse non solo legittimo ma doveroso, e proprio sul piano scientifico: “Un po’ come il rifiuto di un articolo inesatto e senza prove da parte della direzione di una moderna rivista scientifica“. D’altro canto, lo stesso Galileo mostrò come, malgrado alcuni giusti princìpi da lui intuiti, il rapporto scienza-fede non fosse chiaro neppure per lui. Non era sua, ma del cardinal Baronio (e questo riconferma l’apertura degli ambienti ecclesiastici) la formula celebre: “L’intento dello Spirito Santo, nell’ispirare la Bibbia, era insegnarci come si va al Cielo, non come va il cielo“.

Ma tra le cose che abitualmente si tacciono è la sua contraddizione, l’essersi anch’egli impelagato nel “concordismo biblico”: davanti al celebre versetto di Giosuè che ferma il Sole non ipotizzava per niente un linguaggio metaforico, restava anch’egli sul vecchio piano della lettura letterale, sostenendo che Copernico poteva dare a quella “fermata” una migliore spiegazione che Tolomeo. Mettendosi sullo stesso piano dei suoi giudici, Galileo conferma quanto fosse ancora incerta la distinzione tra il piano teologico e filosofico e quello della scienza sperimentale.

Ma è forse altrove che la Chiesa apparve per secoli arretrata, perché era talmente in anticipo sui tempi che soltanto ora cominciamo a intuirlo. In effetti – al di là degli errori in cui possono essere caduti quei dieci giudici, tutti prestigiosi scienziati e teologi, nel convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, e forse al di là di quanto essi stessi coscientemente avvertivano – giudicando una certa baldanza (se non arroganza) di Galileo, stabilirono una volta per sempre che la scienza non era né poteva divenire una nuova religione; che non si lavorava per il bene dell’uomo e neppure per la Verità, creando nuovi dogmi basati sulla “Ragione- al posto di quelli basati sulla Rivelazione. “La condanna temporanea (donec corrigatur, fino a quando non sia corretta, diceva la formula) della dottrina eliocentrica, che dai suoi paladini era presentata come verità assoluta, salvaguardava il principio fondamentale che le teorie scientifiche esprimono verità ipotetiche, vere ex suppositione, per ipotesi e non in modo assoluto“. Così uno storico d’oggi. Dopo oltre tre secoli di quella infatuazione scientifica, di quel terrorismo razionalista che ben conosciamo, c’è voluto un pensatore come Karl Popper per ricordarci che inquisitori e Galileo erano, malgrado le apparenze, sullo stesso piano. Entrambi, infatti, accettavano per fede dei presupposti fondamentali sulla cui base costruivano i loro sistemi. Gli inquisitori accettavano come autorità indiscutibili (anche sul piano delle scienze naturali) la Bibbia e la Tradizione nel loro senso più letterale. Ma anche Galileo e, dopo di lui, tutta la serie infinita degli scientisti, dei razionalisti, degli illuministi, dei positivisti – accettava in modo indiscusso, come nuova Rivelazione, l’autorità del ragionare umano e dell’esperienza dei nostri sensi.

Ma chi ha detto (e la domanda è di un laico agnostico come Popper) – se non un’altra specie di fideismo – che ragione ed esperienza, che testa e sensi ci comunichino il “vero”? Come provare che non si tratta di illusioni, così come molti considerano illusioni le convinzioni su cui si basa la fede religiosa? Soltanto adesso, dopo tanta venerazione e soggezione, diveniamo consapevoli che anche le cosiddette “verità scientifiche” non sono affatto “verità” indiscutibili a priori, ma sempre e solo ipotesi provvisorie, anche se ben fondate (e la storia in effetti è lì a mostrare come ragione ed esperienza non abbiano preservato gli scienziati da infinite, clamorose cantonate, malgrado la conclamata “oggettività e infallibilità della Scienza”).

Questi non sono arzigogoli apologetici, sono dati ben fondati sui documenti: sino a quando Copernico e tutti i copernicani (numerosi, lo abbiamo visto, anche tra i cardinali, magari tra i papi stessi) restarono sul piano delle ipotesi, nessuno ebbe da ridire, il Sant’Uffizio si guardò bene dal bloccare una libera discussione sui dati sperimentali che via via venivano messi in campo.

L’irrigidimento avviene soltanto quando dall’ipotesi si vuol passare al dogma, quando si sospetta che il nuovo metodo sperimentale in realtà tenda a diventare religione, quello “scientismo” in cui in effetti degenererà. “In fondo, la Chiesa non gli chiedeva altro che questo: tempo, tempo per maturare, per riflettere quando, per bocca dei suoi teologi più illuminati, come il santo cardinale Bellarmino, domandava al Galilei di difendere la dottrina copernicana ma solo come ipotesi e quando, nel 1616, metteva all’Indice il De revolutionibus di Copernico solo donec corrigatur, e cioè finché non si fosse data forma ipotetica ai passi che affermavano il moto della Terra in forma assoluta. Questo consigliava Bellarmino: raccogliete i materiali per la vostra scienza sperimentale senza preoccuparvi, voi, se e come possa organizzarsi nel corpus aristotelico. Siate scienziati, non vogliate fare i teologi!” (Agostino Gemelli).

Galileo non fu condannato per le cose che diceva; fu condannato per come le diceva. Le diceva, cioè, con un’intolleranza fideistica, da missionario del nuovo Verbo che spesso superava quella dei suoi antagonisti, pur considerati “intolleranti” per definizione. La stima per lo scienziato e l’affetto per l’uomo non impediscono di rilevare quei due aspetti della sua personalità che il cardinale Paul Poupard ha definito come “arroganza e vanità spesso assai vive“. Nel contraddittorio, il Pisano aveva di fronte a sé astronomi come quei gesuiti del Collegio Romano dai quali tanto aveva imparato, dai quali tanti onori aveva ricevuto e che la ricerca recente ha mostrato nel loro valore di grandi, moderni scienziati anch’essi “sperimentali”.

Poiché non aveva prove oggettive, è solo in base a una specie di nuovo dogmatismo, di una nuova religione della Scienza che poteva scagliare contro quei colleghi espressioni come quelle che usò nelle lettere private: chi non accettava subito e tutto il sistema copernicano era (testualmente) “un imbecille con la testa tra le nuvole“, uno “appena degno di essere chiamato uomo“, “una macchia sull’onore del genere umano“, uno “rimasto alla fanciullaggine“; e via insultando. In fondo, la presunzione di essere infallibile sembra più dalla sua parte che da quella dell’autorità ecclesiastica.

Non si dimentichi, poi, che, precorrendo anche in questo la tentazione tipica dell’intellettuale moderno, fu quella sua “vanità”, quel gusto di popolarità che lo portò a mettere in piazza, davanti a tutti (con sprezzo, tra l’altro della fede dei semplici), dibattiti che proprio perché non chiariti dovevano ancora svolgersi, e a lungo, tra dotti. Da qui, tra l’altro, il suo rifiuto del latino: “Galileo scriveva in volgare per scavalcare volutamente i teologi e gli altri scienziati e indirizzarsi all’uomo comune. Ma portare questioni così delicate e ancora dubbie immediatamente a livello popolare era scorretto o, almeno, era una grave leggerezza” (Rino Cammilleri).

Di recente, 1`erede” degli inquisitori, il Prefetto dell’ex Sant’Uffizio, cardinale Ratzinger, ha raccontato di una giornalista tedesca – una firma famosa di un periodico laicissimo, espressione di una cultura “progressista” – che gli chiese un colloquio proprio sul riesame del caso-Galileo. Naturalmente, il cardinale si aspettava le solite geremiadi sull’oscurantismo e dogmatismo cattolici. Invece, era il contrario: quella giornalista voleva sapere “perché la Chiesa non avesse fermato Galileo, non gli avesse impedito di continuare un lavoro che è all’origine del terrorismo degli scienziati, dell’autoritarismo dei nuovi inquisitori: i tecnologi, gli esperti…“. Ratzinger aggiungeva di non essersi troppo stupito: semplicemente quella redattrice era una persona aggiornata, era passata dal culto tutto “moderno” della Scienza alla consapevolezza “postmoderna” che scienziato non può essere sinonimo di sacerdote di una nuova fede totalitaria.

Sulla strumentalizzazione propagandistica che è stata fatta di Galileo, trasformato – da uomo con umanissimi limiti, come tutti, quale era – in un titano del libero pensiero, in un profeta senza macchia e senza paura, ha scritto cose non trascurabili la filosofa cattolica (uno dei pochi nomi femminili di questa disciplina) Sofia Vanni Rovighi. Sentiamo:

Non è storicamente esatto vedere in Galileo un martire della verità, che alla verità sacrifica tutto, che non si contamina con nessun altro interesse, che non adopera nessun mezzo extra-teorico per farla trionfare, e dall’altra parte uomini che per la verità non hanno alcun interesse, che mirano al potere, che adoperano solo il potere per trionfare su Galileo. In realtà ci sono invece due parti, Galileo e i suoi avversari, l’una e l’altra convinte della verità della loro opinione, l’una e l’altra in buona fede ma che adoperano l’una e l’altra anche mezzi extra-teorici per far trionfare la tesi che ritengono vera. Né bisogna dimenticare che, nel 1616, l’autorità ecclesiastica fu particolarmente benevola con Galileo e non lo nominò neppure nel decreto di condanna e nel 1633, sebbene sembrasse procedere con severità, gli concesse ogni possibile agevolazione materiale. Secondo il diritto di allora, prima, durante e, se condannato, dopo la procedura, Galileo avrebbe dovuto essere in carcerato; e invece non solo in carcere non fu neanche per un’ora, non solo non subì alcun maltrattamento, ma fu alloggiato e trattato con ogni conforto“.

Ma continua la Vanni Rovighi, quasi con particolare sensibilità femminile verso le povere figlie del grande scienziato: “Non è poi equo operare con due pesi e due misure e parlare di delitto contro lo spirito quando si allude alla condanna di Galileo, ma non battere ciglio quando si narra della monacazione forzata che egli impose alle sue due figliuole giovinette, facendo di tutto per eludere le savie leggi ecclesiastiche che tutelavano la dignità e libertà personale delle giovani avviate alla vita religiosa, col fissare un limite minimo di età per i voti. Si osserverà che quell’azione di Galileo va giudicata tenendo presente l’epoca storica, che Galileo cercò di rimediare, di farsi perdonare quella violenza, usando gran e bontà soprattutto verso Virginia, divenuta suor Maria Celeste; e noi troviamo giustissime queste considerazioni, ma domandiamo che egual metro di comprensione storica e psicologica venga usato anche quando si giudicano gli avversari di Galileo“.

Prosegue la studiosa: “Occorrerà anche tenere presente questo: quando si condanna severamente l’autorità che giudicò Galileo ci si mette da un punto di vista morale (da un punto di vista intellettuale, infatti, è pacifico che ci fu errore nei giudici; ma l’errore non è delitto e non si dimentichi mai che ciò non riguarda affatto la fede: sia il giudizio del 1616 che quello del 1633 sono decreti di una Congregazione romana approvati dal papa in forma communi e come tali non cadono sotto la categoria delle affermazioni nelle quali la Chiesa è infallibile; si tratta di decreti di uomini di Chiesa, non certo di dogmi della Chiesa). Se ci si pone, dunque, a un punto di vista morale, non bisogna confondere questo valore con il successo. Tanto vale il tormento dello spirito del grande Galileo quanto il tormento dello spirito sconvolto della povera suor Arcangela, monacata a forza dal padre a 12 anni. E se poi si osserva che – diamine! – Galileo è Galileo, mentre suor Arcangela non è che un’oscura donnetta, per concludere almeno implicitamente che tormentare l’uno è colpa ben più grave che tormentare l’altra, ci si lascia affascinare dal potere e dal successo. Ma da questo punto di vista non ha più senso parlare di spirito: né per stigmatizzare i delitti compiuti contro di esso né per esaltarne le vittorie“.

Nella “Lettera alla Granduchessa Cristina”, Galileo si fece giudice ed esegeta “scientifico” della Bibbia, dicendo – in merito all’arresto del sole e della luna al comando di Giosue’ – che “coll’aiuto del sistema Copernicano noi abbiamo il senso facile, letterale e chiaro del comando”.

Inoltre,

“[…] Galileo aveva scritto che alcune volte le Scritture “oscurano” il loro proprio significato. Nella copia mandata a Roma la parola “oscurano” era cambiata in “pervertono”. Questa e l’altra parola contraffatta, “falso”, furono le uniche due criticate dal consultore del Santo Uffizio al quale la lettera era stata sottoposta. La lettera nell’insieme fu trovata in accordo con l’insegnamento cattolico”.

(cit. in James Brodrick s.j., “S. Roberto Bellarmino”, Ancora, Milano 1965, p. 431-432 e 436)

Antonio SOCCI

Una spia a corte. Giordano Bruno a Londra
tratto da Il Sabato, 18.1.1992, n. 3, p. 52s.
Parla lo storico che ha scoperto il mestiere di Giordano Bruno a Londra.
Con Tommaso Moro e l’arcivescovo di Canterbury, nel Cinquecento, comincia il martirio dei cattolici inglesi. Il re Enrico VIII e sua figlia Elisabetta staccano la Chiesa inglese da Roma. Comincia l’anglicanesimo la Chiesa asservita alla Corona. Elisabetta odia i cattolici anche perché cattolica resta Maria Stuarda, legittima pretendente al trono e sua prigioniera (alla fine sua vittima). Adesso lo storico inglese John Bossy, dell’università di York, svela in un libro (Giordano Bruno and the Embassy affair, Yale university press) l’identità dalla spia che permise ad Elisabetta di schiacciare uno dei tentativi di rivolta dei cattolici. Si tratterebbe di Giordano Bruno, che visse, alcuni anni a Londra, ospite dell’ambasciatore francese, Castelnau.

Perché Bruno avrebbe dovuto servirsi dello pseudonimo di Henry Fagot?
Se scriveva lettera in quanto spia, è chiaro che gli serviva uno pseudonimo. Del resto è risaputo che gli piaceva attribuirsi strani soprannomi «uomo dagli infiniti nomignoli», l’hanno chiamato.

Molti studiosi sostengono che Bruno non sapeva il francese…
E’ vero che non ne abbiamo una prova diretta e irrefutabile (escluse naturalmente le lettere firmate Fagot). Ma non dimentichiamo che ha trascorso quattro anni, in Inghilterra, in un ambiente in cui il francese era la lingua ufficiale, anche se vi si parlavano certamente molte lingue, compreso l’italiano. Nei suoi scritti si incontrano numerosi gallicismi. Il suo miglior amico londinese, John Florio, parlava allo stesso modo l’inglese, il francese, l’italiano.

Nel 1583 Bruno entra in urto con l’ambiente puritano di Oxford. Inoltre conosciamo, di quello stesso periodo, lettere e documenti di suo pugno, in cui egli descrive i suoi obiettivi. Ben diversi quelli che dichiara Fagot…
«Puritanesimo» è una parola imprecisa, dal significate incerto. Bruno entra in conflitto con Oxford, ma Oxford non si può considerare in alcun modo un’università puritana. A quell’epoca stringe amicizia con sir Philip Sidney, un vero campione di “puritanesimo”, se con ciò intendiamo la volontà di condurre una crociata protestante contro Roma. E Sidney era genero di sir Francis Walsingham, il destinatario delle lettere di “Fagot”. Non credo che l’opposizione al “puritanesimo” fosse il motivo principale del comportamento di Bruno. Con questo non intendo certo negare la sua ostilità nei confronti della teologia protestante. Quanto ai documenti da lei citati, non trovo che siano incompatibili con l’obiettivo dichiarato di Fagot la distruzione del papato e dei suoi progetti, in Inghilterra e ovunque.

Frances A. Yates ipotizza una sua collaborazione con i francesi…
Non credo affatto che Bruno sia stato inviato in Inghilterra dal re di Francia Enrico III, allo scopo di favorire una riconciliazione politica e religiosa tra i due Stati. Non esistano prove a conforto di questa teoria che oltretutto è alquanto improbabile. Sono ben pochi se ce ne sono gli storici seri che oggi l’accetterebbero. Si tratta, con buona pace di Michele Ciliberto che ne ha scritto su Repubblica, di un’ipotesi ben diversa da quella avanzata da me.

Le si obietta anche che Bruno in Inghilterra era screditato prima ancora di sbarcarvi.
In realtà penso che nessuno, in Inghilterra, l’avesse mai sentito nominare prima dei suo arrivo. La prima notizia che lo riguardi è, quasi certamente, la lettera dell’ambasciatore inglese a Parigi, dove si parla dell’arrivo di questo italiano, cattolico, professore di filosofia. Non vedo perché avrebbe dovuto essere screditato.

Come ha sventato Elisabetta il complotto denunciato da Fagot?
Walsingham ha avuto accesso alla corrispondenza tra Castelnau e Maria Stuarda grazie al segretario di Castelnau stesso, che prendeva ordini da Fagot. Questo ha condotto all’arresto del principale agente della cospirazione in Inghilterra, Francis Throckmorton, il quale poi, interrogato sotto tortura, rivelò tutti i dettagli della congiura. Fagot-Bruno denunciò Throckmorton sei mesi prima, e ha insistito nella sua denuncia fino a quando questi venne arrestato.

http://www.culturanuova.net/filosofia/galileo_giudizio.php

GIUDIZIO SU GALILEO DA PARTE DI CULTURANUOVA, SOTTOSPECIE DI CULTURACRISTIANA

Capita spesso di leggere o di sentire che il torto, per così dire, del “caso Galileo” sarebbe da ascriversi interamente all’autorità ecclesiastica. Questa, si dice, abusò del suo potere per impedire la libera ricerca scientifica, incorrendo peraltro in un errore madornale (la condanna del copernicanesimo, che già sarebbe stato adeguatamente dimostrato come vero).

In realtà bisogna chiedersi se quello che l’Inquisizione tentò di impedire fosse una ricerca libera, realmente rispettosa di un metodo rigoroso e dialogico, o piuttosto una modalità piuttosto dogmatica di imporre come assolute tesi non ancora provate.

Non per nulla Giovanni Paolo II ha detto, in un suo celebre discorso sul “caso Galileo” (10/11/1979): “io auspico che teologi, scienziati e storici, animati da uno spirito di sincera collaborazione, approfondiscano l’esame del caso Galileo e, nel leale riconoscimento dei torti, da qualunque parte provengano, rimuovano le diffidenze che quel caso tuttora frappone, nella mente di molti, alla fruttuosa concordia tra scienza e fede, tra Chiesa e mondo.” Come dire che, se da parte dell’autorità ecclesiastica ci fu una insufficiente “percezione” della “legittima autonomia della scienza” (e si noti che insufficiente non vuol dire assente), qualche torto ci fu anche da parte di Galileo.

Potrà stupire alcuni questa tesi, ma va ricordato quanto segue:

  • è comunemente ammesso dai suoi biografi come il temperamento di Galileo fosse tutt’altro che facile, poco disposto com’era a concedere una parte di ragione ai suoi interlocutori, propenso all’arma dell’ironia sferzante, irruente e scarsamente diplomatico.
  • al di là di tali limiti temperamentali, Galileo tendeva costantemente a incorrere nell’errore di dare per assolutamente certo quello che era semplicemente probabile, o anche molto probabile (nel caso del sistema copernicano); tuttavia alla sua epoca non esisteva alcuna prova inconfutabile e definitiva della verità dell’eliocentrismo (che si sarebbe avuto solo nel secolo XVIII, e precisamente nel 1748); addirittura nel caso della natura delle comete si sbilanciò ad attaccare il p. Grassi, che invece sosteneva la teoria più vicina al vero.

Vi sono in Galileo insomma dei tratti, dei germi di quello che potremmo chiamare un neoimperialismo scientista, cattiva risposta al precedente imperialismo filosofico-teologico: la scienza, che fino allora non era stata (pressoché) nulla, ora pretendeva di essere tutto. Giustizia e saggezza avrebbero voluto che si riconoscesse al sapere scientifico una sua funzione, ma dentro una totalità più ampia. Galileo rimane prigioniero dello stesso schema che aveva a lungo impedito un autonomo sviluppo della scienza: non distingue cioè tra filosofia (della natura) e scienza (della natura). E questo, come dicevamo, nel contesto di un atteggiamento decisamente sicuro di sé e acremente sferzante per chi aveva diversa posizione. Una dialogicità meno arrogante gli avrebbe invece consentito di a) attenersi all’effettivamente constatabile titolo di attendibilità che le sue tesi scientifiche avevano (senza confondere probabilità con certezza), b) confrontarsi seriamente con la comunità scientifica nella sua totalità, ivi compreso quel mondo cattolico che non era compattamente restio ad ogni seria novità, ma presentava, ad esempio nella persona del Papa Urbano VIII e del card. Bellarmino, una disponibilità al confronto maggiore di quanto venga spesso presentato (come non manca di riconoscere un intellettuale tutt’altro che tenero con la Chiesa come Brecht, nella sua Vita di Galileo). Possiamo in proposito ricordare il pensiero del Bellarmino, che fu il più illustre “oppositore” ecclesiastico del Galilei:

“… Dico che quando ci fusse vera demostratione che il sole stia nel centro del mondo e la terra nel cielo, e che il sole non circonda la terra, ma la terra circonda il sole, allhora bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non l’ intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra” (lettera del 1615 al copernicano Foscarini)

Un simile modo di esprimersi rivela come l’animo della massimo autorità ecclesiastica non fosse poi così ottuso e chiuso al dialogo:
a) non afferma in modo categorico che l’eliocentrismo sia incompatibile con la Bibbia;

b) rileva soltanto che né Galileo né altri avevano, per il momento, portato alcuna prova inconfutabile della verità dell’eliocentrismo. Il che è storicamente e scientificamente inoppugnabile. Aveva perciò ragione Galileo a rivendicare il diritto di osservare e basarsi su fatti sperimentali, come appunto gli riconosceva il cardinal Bellarmino. Torto suo però fu di affermare dei nuovi a-priori scientisti.

E, cosa più grave, discutibile scelta fu il vestire i panni di un divulgatore “rivoluzionario”, che non solo criticava ma metteva in ridicolo, con la sua acida ironia, la Chiesa. La discussione avrebbe dovuto, con più saggezza, svolgersi tra i dotti, almeno finché non ci fosse stata la prova della verità inconfutabile del copernicanesimo: in tal modo Galileo avrebbe trovato probabilmente non solo e non tanto plumbei e coriacei oppositori, ma attenti e interessati interlocutori in una parte consistente dello stesso mondo ecclesiastico, in cui non mancavano, ad esempio tra i Gesuiti, veri e propri scienziati, desiderosi di vivere la nuova stagione di scoperte scientifiche in armonia con la fede degli Apostoli. Invece la scelta della lingua italiana, al posto del latino, e di un taglio divulgativo, unita allo stile arrogante e ironico, faceva assumere al suo pensiero i tratti di un pressante appello al popolo affinché si scrollasse di dosso il giogo di un dominio ecclesiastico sulla cultura, presentato come insopportabilmente oppressivo. Il che, per la autorità ecclesiastica, non doveva essere tanto facile da digerire, tanto più in tempi in cui la Riforma protestante e il neopaganesimo, dilagante tra le élites, erano occasione di quotidiana, allarmata preoccupazione.

Un modo erroneo di intendere il rapporto fede/ragione

Inoltre Galileo si sforzò sì di mostrare come la scienza non fosse incompatibile con la fede, ma lo fece in un modo che non doveva convincere la autorità ecclesiastica, e non a torto. Infatti la celebre distinzione dei due libri, quello della Scrittura e quello della natura, aventi due diverse finalità (la Scrittura dirci come si vadia al cielo, la natura come vadia il cielo) incorreva nei seguenti inconvenienti:

a) negava alla Rivelazione una valenza ontologica, restringendone la portata al solo ambito etico; come dire che la fede nulla dice di come sia la realtà (terrena), ma si preoccupa solo di indicarci la strada per il Paradiso, fornendoci dei precetti etici: il che è francamente poco. Se infatti Dio, creatore del cielo e della terra, si è fatto Uomo, questo ha delle implicazioni precise non solo sull’al-di-là, ma anche sull’al-di-qua. La fede insomma non ci dice, è vero, dettagliatamente, come sia fatto il mondo, ma nemmeno è indifferente a qualsiasi visione-del-mondo. Se non giudica la scienza in quanto tale, può giudicare, o meglio orientare, la sua interpretazione sintetica, la filosofia della natura, e il significato ultimo del suo utilizzo.

b) attribuiva implicitamente alla scienza il monopolio interpretativo della natura, confermando quell’imperialismo scientista di cui abbiamo sopra parlato; in altri passi infatti Galileo ritiene che la natura sia scritta in caratteri matematici e dunque leggibile solo da un sapere fisico-matematico, con esclusione quindi di quella filosofia, che più stretti legami di parentela avrebbe con la fede e potrebbe tentare l’impresa di ricomprendere sinteticamente la conoscenza del mondo materiale alla luce di una unitaria visione della realtà.

Non per nulla Galileo non risulta abbia fatto alcuno sforzo per mostrare come, specificamente, l’eliocentrismo non sarebbe stato un corpo estraneo nella visione cristiana della realtà. Una riflessione più appassionatamente sintetica avrebbe potuto portarlo a evidenziare come in realtà non solo esso non contraddiceva realmente la fede, ma si attagliava ad essa meglio del geocentrismo. Per fare questo però Galileo avrebbe dovuto ricorrere a quella mentalità simbolica, che appare invece del tutto estranea al suo monolitico matematismo meccanicista. Abbandonando il quale avrebbe potuto vedere ad esempio nel Sole il simbolo di Cristo, che grazie al totale sacrificio di Sè, irradia sulla Terra-umanità, la propria luce e il proprio calore, ossia tutta la luce (la verità) e tutto il calore (la grazia) di cui l’umanità può godere. Avrebbe potuto pensare che l’Umanità non è più al centro dell’Universo non perché abbandonata dalla Provvidenza in uno spazio infinito di totale casualità, ma perché orbitante intorno al Sole-Cristo, da cui dipende totalmente per il vero e il bene che la Provvidenza le concede. E similmente di tutte le altre scoperte si sarebbe potuto e dovuto dare una interpretazione simbolica (certo, non solo da parte di Galileo).

La saccente affermazione del meccanicismo

Non si trattava comunque solo e soprattutto dell’eliocentrismo (che pur non essendo provato, era, oggi sappiamo, vero, o almeno relativamente tale), sostanzialmente compatibile alla fede. A nostro avviso il torto più grave di Galileo, l’errore più gravido di effetti negativi fu soprattutto la sua esclusione dell’ilemorfismo, la disinvolta sicurezza con cui ridusse il mondo a quantità: non riusciva a vedere come il fatto che solo delle quantità si potesse dare sapere scientifico non equivalesse al fatto che solo le quantità esistessero. Il presupposto a tale conclusione, cioè che solo il conoscibile scientificamente sia esistente non fu mai da lui tematizzato e giustificato argomentativamente. Ed egli affermava la riduzione del mondo a quantità misurabile, il meccanicismo, senza che tale tesi fosse rigorosamente dimostrata, e senza rendersi conto di quanto tale visione meccanicistica fosse, questa sì, radicalmente incompatibile con la fede. In proposito osserviamo:

a) Galileo intende la scienza, sempre in nome del già ricordato imperialismo scientistico, come unica conoscenza valida della natura, escludendo la filosofia della natura (o cosmologia filosofica); ma ciò facendo sbaglia, perchè del medesimo oggetto (materiale) si possono avere diverse conoscenza, non alternative, ma integrative (diversi “oggetti formali”).
b) Egli di conseguenza estende quello che è vero sul piano scientifico, cioè il meccanicismo, al piano ontologico puro e semplice. Dimenticando che il meccanicismo scientifico è l’ovvia conseguenza dell’aver concepito la scienza come fisico-matematica: filtrando tutto matematicamente tutto appare come matematizzato, considerando solo gli aspetti quantitativi, matematizzabili, si vedono solo gli aspetti quantitativi, matematizzabili: analogamente al fatto che, mettendo delle lenti gialle, uno vede il mondo come giallo. Ma il mondo diventa giallo per il fatto che io lo guardo con lenti gialle? Il mondo si riduce a pura quantità per il fatto che io lo osservo con un filtro matematico? Galileo lo da per scontato. Sbagliando. Ma sbagliando con gran sicumera:

Signor Sarsi, la cosa non istà così. la filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto dinanzi agli occhi (…). Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto

c) Una più equilibrata considerazione avrebbe dovuto portare a dire che, accanto al sapere scientifico, fisico-matematico e dunque programmaticamente fermo al livello quantitativo, esiste un sapere filosofico, che può ammettere l’esperienza nella sua originaria integralità, comprensiva di aspetti quantitativi e qualitativi e giungere a una spiegazione sintetica della realtà fisica, in termini universalizzanti ma non perciò invalidi, di tipo ilemorfico.

d) Il meccanicismo filosofico in effetti non è compatibile con la fede (nonostante quanto ne pensasse Cartesio e Malebrache, ad esempio) in quanto legato al materialismo e alla insignificanza del mondo: si può vedere quanto diciamo in altre pagine di questo sito.

Metodologicamente

La Chiesa cattolica si comportò in un modo che a noi appare insopportabilmente lesivo della libertà di pensiero. E non v’è dubbio che Giovanni Paolo II abbia fatto cosa giusta a promuovere un profondo esame di coscienza. Ma dobbiamo tener presente la mentalità di allora:
1) non sembri irrilevante, per contestualizzare adeguatamente il “caso Galileo”, notare che se ad esempio fosse caduto nelle mani dei protestanti (o, probabilmente, ben peggio dei mussulmani) la sua sorte sarebbe stata molto peggiore
2) Galileo venne dapprima, nel 1616, ammonito privatamente, non tanto a non ricercare più, ma a farlo a condizione di non creare sconcerto e turbamento nella gente “semplice”. Perciò gli venne ad esempio intimato di non pubblicare in volgare, ma solo in latino, la lingua dei dotti. Il processo pubblico, del 1633, segue a una infrazione pubblica delle ammonizioni precedenti: Galileo aveva pubblicato in volgare un’opera corrosivamente critica. Questo non giustifica fino in fondo l’Inquisizione, ma costituisce un contesto di cui tener conto, testimoniando di una attenzione alla persona di Galileo, amico personale del Papa, e di una non totale chiusura alla novità scientifica, ma alla sua prematura e arrogante (abbiamo detto sopra in che senso) divulgazione.
3) il suo trattamento effettivo fu tutto sommato mite: nel procedimento nessuna tortura, nessuna violenza, non un solo giorno di carcere; anzi quando venne convocato a Roma per il processo del 1633 venne alloggiato in un “alloggio di cinque stanze con vista sui giardini vaticani e cameriere personale” (Messori) come condanna un esilio dorato in una villa toscana, la sua villa di Arcetri, che non per nulla si chiamava “Il Gioiello”, per non essere precisamente quello che si direbbe un tugurio.

Per ulteriori spunti di giudizio si può vedere anche l’ottima, ampia trattazione nel sito di don Mangiarotti (tra l’altro con estratti del più recente magistero ecclesiastico in proposito).



Categorie:Varia umanità

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: