Commemorazione del socio Enrico Fermi (*)

di Edoardo Amaldi  

(*) Commemorazione tenuta nella seduta a Classi riunite del 12 marzo 1955. Testo integrale da Accademia Nazionale dei Lincei, quaderno N. 35, Roma (1955).

Quando in un lontano avvenire, verrà scritta la storia della scienza dei nostri tempi, la prima metà del secolo XX apparirà come un periodo particolarmente notevole non solo per la scoperta di molti nuovi fatti e lo sviluppo di nuove concezioni, ma anche per la loro diretta e indiretta influenza sulla organizzazione della vita umana.

E’ proprio tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX secolo che alcune osservazioni sperimentali pongono in crisi le concezioni classiche del mondo fisico: da un lato il comportamento della luce rispetto a diversi sistemi di riferimento in moto fra loro, dall’altro i primi indizi sulla struttura granulare dell’energia emessa od assorbita dai vari corpi sotto forma di radiazione.

E’ nel secolo XX che questi primi quesiti, e molti altri da essi derivati, trovano la loro risposta, gli uni nella teoria della relatività, gli altri nella teoria quantistica della materia e della radiazione.

Nel secolo XX le teorie dell’atomo e dei suoi aggregati molecolari e cristallini nascono e si evolvono fino a poter rendere conto di quasi tutti i fenomeni noti in questo campo, i quali aumentano rapidamente, in numero e varietà grazie al contemporaneo sviluppo di nuove tecniche sperimentali.

Nel secolo XX viene scoperta l’esistenza del nucleo atomico al cui studio viene dedicato un nuovo vasto capitolo della fisica, la fisica nucleare. In questi ultimi decenni dalla fisica nucleare propriamente detta si stacca una nuova scienza applicata, la ingegneria nucleare, che già ora, e più ancora in avvenire, è destinata ad avere ripercussioni economiche e sociali.

Nell’ultimo ventennio viene dimostrata l’esistenza di molti nuovi corpuscoli instabili, il cui studio è solo all’inizio e costituisce l’ultimo, più recente capitolo aperto alla esplorazione dell’uomo.

Ebbene quegli storici dell’avvenire segneranno nei loro libri che il nostro Paese non è stato assente da questo movimento ma vi ha partecipato e contribuito in maniera essenziale, e questo principalmente ad opera di Enrico Fermi.

In questo mezzo secolo di straordinario sviluppo delle scienze Fisiche si svolge e si chiude la vita di Enrico Fermi, in questo ultimo trentennio egli contribuisce con numerose scoperte, teoriche e sperimentali, alla formazione e creazione stessa dei vari nuovi capitoli della fisica.

Ma se questo è ciò che verrà scritto nella storia della scienza, della cultura del nostro Paese figureranno anche altri aspetti di Enrico Fermi, oltre quello di profondo scienziato e di geniale ricercatore.

La sua opera di maestro che, ovunque, egli ha prodigato durante tutta la sua vita, ha certamente avuto una importanza particolare in Italia. Senza Enrico Fermi, le nuove concezioni fisiche, che si andavano formando in altre parti d’Europa e del Mondo, sarebbero penetrate ancor più a fatica e assai più tardi nel nostro Paese.

Egli iniziò la sua opera si può dire senza maestri, spesso con oppositori e fu grazie al suo ingegno e alla sua tenacia se riuscì ad affermarsi ed alla forza del suo esempio se altri lo seguirono.

Enrico Fermi nacque a Roma il 29 settembre 1901 da Alberto e Ida De Gattis, terzo di tre fratelli, dei quali la prima, Maria, divenne ed è tuttora professoressa di lettere in un ginnasio di Roma, mentre il secondo, Giulio, morì adolescente nel 1915.

Il padre, di origine piacentina, era impiegato del Ministero delle Comunicazioni, il che diede la possibilità ad Enrico Fermi di venire in contatto, in giovanissima età, con vari ingegneri delle ferrovie; e alcuni di questi, colpiti dalla sua eccezionale attitudine per la matematica, cominciarono a prestare a Enrico Fermi quindicenne vari libri scientifici di carattere universitario che egli leggeva con facilità ed apprendeva rapidamente.

In quell’epoca si legò di amicizia con un altro ragazzo quasi coetaneo, Enrico Persico, con il quale aveva in comune la passione per i problemi scientifici. I due ragazzi si incontravano per discutere e scambiarsi idee sui loro studi che alimentavano andando in cerca, per bancarelle e rivenditori di libri usati, di trattati di matematica e fisica.

Compiute le scuole medie a Roma, egli entrò, in seguito a concorso, allievo interno della Scuola Normale di Pisa ove si laureò nel 1922 con una tesi sperimentale sulla riflessione dei raggi X da parte di superfici cristalline incurvate.

Ma nel frattempo aveva già cominciato a pubblicare vari lavori di carattere teorico su questioni di elettrodinamica e relatività. Risale per esempio a quell’epoca il calcolo della massa elettrodinamica di una carica elettrica in moto, che fino ad allora veniva dedotta con un procedimento non corretto.

Subito dopo la laurea si recò a Gottinga con una borsa di studio del Ministero della Pubblica Istruzione, che gli permise di proseguire i suoi studi e di allargare la sua cultura restando, per circa sei mesi, nell’Istituto di Max Born proprio nel periodo in cui in Gottinga andavano maturando alcune delle idee che pochi anni dopo avrebbero sfociato nella meccanica quantistica. In quel periodo a Gottinga Fermi incontrò vari giovani fisici come Heisenberg, Pauli, Jordan, che nel giro di pochi anni dovevano diventare i più diretti artefici delle nuove concezioni.

Già prima di recarsi in Germania, Enrico Fermi era stato presentato ad Orso Mario Corbino, professore di fisica sperimentale e direttore dell’Istituto di Fisica dell’Università di Roma. Questi era stato colpito dalla maturità e capacità di penetrazione che il Fermi mostrava nella discussione di difficili problemi, sia teorici che sperimentali del tipo più vario, e pertanto si adoperò affinché, al ritorno da Gottinga, la Facoltà di Scienze dell’Università di Roma affidasse a Fermi, giovanissimo, l’incarico di insegnamento del corso di Istituzioni di Matematica.

Da quel primo incontro fino alla morte di Corbino, avvenuta prematuramente nel 1937, i rapporti fra questi due uomini furono di grande stima reciproca e di amicizia profonda. Da un lato Corbino ammirava in Fermi le qualità dell’ingegno e si rendeva conto, come pochi altri, delle capacità eccezionali del giovane fisico, dall’altro il Fermi sentiva l’ascendente di Corbino che si imponeva grazie al suo vivacissimo ingegno, al suo passato e cultura di scienziato, alle sua qualit`a di uomo di larghe vedute e al suo fervido spirito di animatore degli studi di fisica in Italia.

Nell’autunno del 1924, con una borsa di studio della Rockefeller Foundation, Fermi si recò a Leida ove rimase tre mesi presso Ehrenfest, i cui lavori di carattere statistico avevano attratto grandemente la sua attenzione. E’ a Leida che Fermi per la prima volta nella sua vita si rende pienamente conto delle sue capacità e riceve lo stimolo ad accingersi ad affrontare problemi di carattere fondamentale.

Nel biennio successivo 1924-25 e 1925-26, il Fermi insegnò, ancora per incarico, Fisica matematica e Meccanica razionale presso l’Università di Firenze ove si ritrovò con Franco Rassetti già suo compagno di studi ed amico dai tempi di Pisa.

L’amicizia con Franco Rassetti contribuì a tener desto in lui l’interesse per i problemi sperimentali. Ma la sua attività di quel periodo culminò in un lavoro teorico sulla quantizzazione del gas perfetto monoatomico, in cui veniva esposta, ed applicata ad un esempio particolare, la statistica antisimmetrica, come egli la chiamava, ossia, secondo la denominazione universalmente accettata, la statistica di Fermi o Fermi-Dirac, essendo il Dirac poco dopo pervenuto per altra via agli stessi risultati.

Alla fine del 1926, avendo vinto l’apposito concorso, Fermi fu chiamato a ricoprire la cattedra di fisica teorica istituita presso la Facoltà di Scienze della Università di Roma ad opera principalmente di Corbino.

In questa città egli sposò, nel 1928, Laura Capon, da cui ebbe due figli, Nella nel 1931 e Giulio nel 1936.

Nell’Istituto di Fisica, diretto da Orso Mario Corbino, Enrico Fermi aggiunge alla sua instancabile attività di ricerca, una intensa opera di maestro.

Ma prima di passare a questo aspetto di Enrico Fermi vorrei dare uno sguardo di insieme alla sua opera scientifica durante il decennio 1922-1932, che può essere considerato come il primo periodo della sua attività di ricercatore.

Non vi è dubbio che il lavoro più saliente è quello della statistica di Fermi, la quale costituisce una legge generale seguita da una vasta categoria di corpuscoli detti, appunto per questo, “fermioni”. Sono fermioni gli elettroni, i protoni, i neutroni, i mesoni µ e certamente alcuni dei nuovi corpuscoli instabili recentemente scoperti e tuttora allo studio.

In natura oltre ai fermioni esistono i “bosoni”, ossia corpuscoli che, come i fotoni e i mesoni ð, seguono la statistica di Bose-Einstein. Tale distinzione fra fermioni e bosoni è fondamentale: essa si ricollega al valore del corrispondente spin o momento intrinseco e si manifesta in diverse proprietà di simmetria delle corrispondenti autofunzioni.

E’ stato messo in rilievo da Ferretti che la scoperta della statistica antisimmetrica non significa semplicemente l’aver introdotto il principio di Pauli nella statistica, ma piuttosto l’aver dato al principio di Pauli un nuovo significato di legge generale e non di semplice proprietà dell’atomo come esso era stato presentato poco tempo prima dal suo scopritore.

Le applicazioni della statistica di Fermi sono moltissime e si riferiscono a problemi che vanno dalla conduzione elettrica e termica dei metalli ad un modello di nucleo atomico che, per quanto schematico, viene correntemente usato grazie alla sua semplicità.

Fra queste applicazioni va ricordato un modello di atomo sviluppato da Fermi stesso, e indipendentemente dal Thomas in Inghilterra, nel 1927. Il modello di atomo di Thomas-Fermi, in cui gli elettroni vengono rappresentati come un gas di Fermi completamente degenere, mantenuto attorno al nucleo dalla sua attrazione coulombiana, è stato impiegato da Fermi stesso, da vari suoi collaboratori ed allievi e da moltissimi altri studiosi, al calcolo di tutte quelle proprietà dell’atomo che variano in maniera regolare al variare del numero atomico. Fra le applicazioni fatte da lui stesso, o da suoi diretti collaboratori, ricordiamo la teoria del sistema periodico, il calcolo del valore dei termini ottici e dei termini röntgen, il calcolo degli intervalli dei multipletti ottici e röntgen, il calcolo del rapporto delle intensità delle prime righe della serie principale degli alcalini, la teoria delle terre rare con il calcolo delle corrispondenti orbite 4f, la teoria della affinità elettronica degli alogeni, il calcolo dello spettro degli ioni, e quello delle autofunzioni delle orbite ‡s degli elementi.

Oltre alla statistica di Fermi, al modello di Thomas-Fermi e a tutte le applicazioni di questo or ora ricordate, risalgono al decennio 1922-1932 molti altri lavori, consistenti, per la maggior parte, nella teoria di un qualche fenomeno che fino allora era sfuggito ad ogni tentativo di interpretazione quantitativa. Questa capacità di cogliere immediatamente la legge generale nascosta dietro una tabella di dati sperimentali bruti, o di riconoscere subito il meccanismo per cui i risultati di certe osservazioni sperimentali, a prima vista strani od insignificanti, erano invece naturali o di profondo significato fisico se comparati con altri fenomeni o teorie generali, ha costituito durante tutta la sua vita una delle caratteristiche che fanno di Enrico Fermi una delle figure più notevoli del nostro secolo nel campo delle scienze fisiche.

Sono di questo tipo i numerosi lavori riguardanti il rapporto delle intensità dei doppietti degli alcalini, l’effetto Raman delle molecole e l’effetto Raman dei cristalli, le bande di oscillazione e rotazione dell’ammoniaca, l’effetto della pressione sulle righe spettrali, la teoria delle strutture iperfini, in ognuno dei quali viene individuato un aspetto essenziale, fino ad allora sfuggito a tutti, del meccanismo fisico del fenomeno.

Risale a questo primo periodo anche una nuova formulazione della teoria della radiazione di Dirac che divenne da allora in poi quella usualmente seguita nella maggior parte delle successive presentazioni di questo soggetto. Questa teoria, corredata di numerose nuove applicazioni a svariati fenomeni, si presta in maniera particolare ad illustrare i vari aspetti di Enrico Fermi di studioso, di ricercatore e di maestro.

Come ho già detto in precedenza, giunto a Roma nel 1926, valendosi dell’appoggio di Corbino e dell’aiuto di Franco Rasetti, che lo aveva seguito da Firenze, Enrico Fermi si era accinto a creare una scuola. Aveva raccolto un piccolo numero di giovani appassionati della fisica e dei nuovi orizzonti che essa stava schiudendo e si dedicava alla loro formazione.

Ciò avveniva in parte attraverso le lezioni di fisica teorica e, per qualche anno, di fisica terrestre, che egli impartiva con assiduità e semplicità esemplari presentando tutti gli argomenti nelle loro linee essenziali, spogli di ogni sovrastruttura non necessaria; ma in parte anche con un metodo caratteristico e personale consistente nel riunire attorno al suo scrittoio, generalmente verso la fine dei lunghi pomeriggi trascorsi nell’istituto, o nei laboratori, alcuni dei suoi collaboratori ed allievi e nel mettersi a discutere cercando di risolvere, per così dire, in pubblico, un problema ancora non risolto suggeritogli da una domanda di uno degli ascoltatori o proposto da lui stesso in connessione con qualche argomento su cui era caduta la sua attenzione. Le trattazioni, che egli sviluppava con questo metodo, venivano scritte direttamente su di un quaderno con ben poche cancellature, già pronte per la pubblicazione purché venissero aggiunti i commenti e le critiche che egli diceva ma che non scriveva per non rallentare il regolare, calmo e continuo procedere del ragionamento.

La nuova formulazione della teoria di Dirac nacque proprio in questo modo. In una di queste riunioni qualcuno degli ascoltatori chiese a Fermi che spiegasse la teoria di Dirac di recentissima pubblicazione. Enrico Fermi, rivolgendosi a noi sperimentatori con un suo tipico sorriso lievemente ironico e al tempo stesso benevolo e bonario, osservò che se egli avesse presentato questa bellissima teoria nella forma adottata da Dirac noi non la avremmo capita; poteva però provare lui a farcela capire. E così cominciò a spiegare e dopo una dozzina di riunioni sul suo tavolo c’era uno spesso quaderno che conteneva tutta la trattazione generale e le applicazioni della teoria. Questo quaderno, completato dei commenti, apparve qualche anno dopo nella “Review of Modern Physics” e fu il soggetto di corsi di lezioni che egli svolse all’Institut Poincaré a Parigi e all’Università di Ann Arbor, Michigan, nel 1930.

Per dare un’idea di quale influenza egli abbia avuto sullo sviluppo della fisica in Italia durante il periodo in cui fu professore di fisica teorica all’Università di Roma, desidero ricordare che furono suoi collaboratori od allievi, nel campo della fisica teorica, oltre Enrico Persico: Ettore Maiorana, Gian Carlo Wick, Giulio Racah, Giovanni Gentile junior, Ugo Fano, Bruno Ferretti e Piero Caldirola. Nel campo sperimentale, oltre Franco Rasetti: Emilio Segré, Oscar D’Agostino, Bruno Pontecorvo, Eugenio Fubini Ghiron, Mario Ageno e io stesso.

Ma la sua influenza non si esercitava solo su coloro che avevano la fortuna di trovarsi a Roma o di potervisi trasferire per qualche tempo. Enrico Persico capitava a Roma di quando in quando da Firenze prima e da Torino poi, Antonio Carrelli da Napoli con i suoi problemi di spettroscopia, Bruno Rossi da Firenze prima e da Padova più tardi con problemi sulla radiazione cosmica E ogni volta si accendevano discussioni che spesso davano spunto per qualche nuovo lavoro o addirittura si concludevano in un lavoro completo.

Così per esempio durante una passeggiata domenicale a cui si era unito Bruno Rossi, in visita a Roma per qualche giorno, fu fatto completamente un assai noto lavoro sull’azione del campo magnetico terrestre sulla radiazione penetrante, pubblicato da Enrico Fermi e Bruno Rossi sui “ Rendiconti dei Lincei” del 1933.

Ricordo un’altra passeggiata domenicale, circa nella stessa epoca, insieme ai fiorentini, come noi dicevamo allora. Erano venuti a Roma Gilberto Bernardini e Giuseppe Occhialini con varî loro collaboratori. Ricordo la discussione approfondita fatta da Fermi di varî problemi che interessavano i due giovani fisici e l’interessamento che egli prendeva ai dettagli tecnici che l’uno esponeva sui contatori e contatori proporzionali, l’altro sulle camere di Wilson.

A quell’epoca Enrico Fermi aveva già acquistato fama internazionale sia come ricercatore che come maestro, in modo ché molti fisici già noti venivano a passare a Roma il loro anno sabbatico o qualche semestre con un assegno della Rockefeller Foundation. Fra i molti venuti a Roma in quell’epoca o negli anni immediatamente successivi desidero ricordare H. A. Bethe, H. J. Bhabha, F. Bloch, E. Feenberg, H. S. Goudsmit, F. London, C. Møller, R. F. Peierls, G. Placzeck, E. Teller e G. E. Uhlenbeck.

Con il 1932 si chiude il primo periodo della attività scientifica di Fermi, attività rivolta, come si è visto, prevalentemente alla trattazione teorica di problemi di fisica atomica e molecolare.

Il secondo periodo, che si estende dal 1933 al 1949, comprende l’attività del Fermi dedicata alla fisica nucleare e si distingue dal precedente per un prevalere della ricerca sperimentale su quella teorica, non per qualità, poiché sia l’una che l’altra sono di primissimo piano, ma per la mole dei risultati ottenuti.

A pochi mesi dalla scoperta del neutrone, questo secondo periodo si apre infatti con una teoria fondamentale che, per importanza e fama, non è certo inferiore alla statistica di Fermi. Il primo lavoro intitolato Tentativo di una teoria della emissione dei raggi beta apparve sulla “Ricerca Scientifica” al principio del 1933 e ad esso fecero seguito trattazioni ampliate, pubblicate, meno di un anno dopo, sotto lo stesso titolo, sul “Nuovo Cimento” e sulla “Zeitschrift für Physik”.

In tale teoria facendo uso dei metodi della teoria dei campi di recente ideazione e fino ad allora impiegata solo nella teoria della radiazione da Dirac, Fermi ed altri, egli riconduce in maniera quantitativa il processo di disintegrazione beta di un nucleo ad un processo elementare descrivibile come una transizione dell’ente nucleone dallo stato “neutrone” allo stato “protone” con emissione di un elettrone ed un neutrino.

Più tardi vari autori introdussero alcune varianti alla teoria di Fermi nella sua forma originaria. Essa tuttavia rimane lo schema basilare non solo per i processi di trasformazione di un nucleo in un altro con emissione di un elettrone, ma anche di altri, scoperti molti anni dopo, come la disintegrazione di un mesone µ o la sua cattura da parte di un nucleone.

La tendenza attuale, venti anni dopo il primo lavoro, è di ritenere che tutti i processi in cui intervengono quattro fermioni ubbidiscano ad una stessa legge con la stessa costante di accoppiamento, la quale viene appunto chiamata “interazione universale di Fermi”.

Il neutrone che si trasforma in protone con emissione di un elettrone e un neutrino, il mesone negativo che viene assorbito da un protone con emissione di un neutrone e un neutrino non sarebbero altro, secondo questa recente concezione, che esempi particolari di questa legge universale.

Il primo lavoro sui processi di disintegrazione beta non era ancora apparso sulla “Ricerca Scientifica”, quando giunse notizia che i coniugi Curie-Joliot a Parigi erano riusciti a produrre la radioattività in alcuni elementi leggeri sottoponendoli all’azione delle particelle a. Immediatamente Fermi decise di provare a provocare la radioattività artificiale usando come proiettili, anziché le particelle i neutroni, i quali, per l’assenza di una carica elettrica, avrebbero dovuto essere più efficaci. A tale scopo si fece preparare dall’amico Giulio Cesare Trabacchi, direttore del Laboratorio Fisico dell’Istituto di Sanità, una sorgente di neutroni ottenuta mescolando polvere di berillio con emanazione di radio.

Dopo pochi tentativi infruttuosi, l’esperienza diede esito positivo e Fermi poté così annunciare, in una Lettera all’editore della “Ricerca Scientifica” del marzo 1934, la scoperta della radioattività provocata da neutroni.

Nell’Istituto di Fisica dell’Università di Roma cominciò subito un lavoro febbrile. La sperimentazione fu organizzata su di una base larga in maniera da tentare molte vie e da lasciar sfuggire il minor numero possibile di fenomeni dalle reti abilmente tese in tutte le direzioni. Fermi non solo dirigeva il lavoro altrui ma prendeva parte egli stesso a tutti i tipi di misurazioni fisiche e manipolazioni chimiche dedicandosi anche alla esecuzione materiale di pezzi di vetreria e di officina.

Nel giro di pochi mesi furono prodotti oltre quaranta nuovi corpi radioattivi; molti di essi furono individuati chimicamente e fu dimostrato quale fosse il corrispondente processo nucleare di produzione. Fu così stabilito in quali casi si trattava di processi (na), in quali di processi (n, p) e fu dimostrato che in molti casi si produceva un processo (na), ossia un processo di cattura radiativa fino ad allora sconosciuto e che era destinato ad avere grande importanza nel seguito.

Fino al 1934 le reazioni nucleari note erano così poche da non permettere di farne una sistematica; ciò diveniva improvvisamente un semplice problema di raccolta di dati, in seguito alla scoperta di Fermi della radioattività provocata da neutroni.

Fu in quell’epoca che bombardando con neutroni l’uranio, ultimo degli elementi del sistema periodico, fu trovato che esso dava luogo a molti nuovi corpi radioattivi, alcuni dei quali furono allora erroneamente interpretati come elementi transuranici. Questa interpretazione, confermata poco dopo da vari ricercatori, fu universalmente ritenuta valida fino al 1939, anno in cui Hahn e Strassmann scoprirono che l’uranio subiva, sotto l’azione dei neutroni, il fenomeno della scissione, i cui numerosissimi prodotti radioattivi mascheravano gli elementi transuranici, che anche venivano prodotti, ma che, come fu dimostrato in seguito, erano corpi diversi da quelli originariamente separati dal Fermi e collaboratori.

Nell’ottobre dello stesso anno 1934 Fermi e collaboratori scoprirono un altro importante fenomeno. In tutti i casi in cui la radioattività provocata da neutroni era dovuta ad un processo di cattura radiativa, l’intensità del fenomeno poteva venire esaltata di un fattore assai grande, in qualche circostanza anche dell’ordine di 50 o addirittura 100, semplicemente circondando la sorgente di neutroni e il corpo irradiato con una sostanza idrogenata come l’acqua o la paraffina.

Poche ore dopo la scoperta del fenomeno, Enrico Fermi ne aveva dato una chiara interpretazione e aveva scritto alcune delle formule fondamentali che lo regolano.

L’effetto delle sostanze idrogenate, come fu allora chiamato, coinvolge la scoperta di due fenomeni: l’uno è il fatto che per urti successivi contro gli atomi di idrogeno i neutroni possono perdere la loro energia fino a ridursi a “neutroni lenti” ossia neutroni il cui spettro di energia si estende fino alle energie corrispondenti alla velocità di agitazione termica; l’altro fenomeno, in un certo senso di più profondo significato per lo sviluppo delle nostre idee sulle strutture nucleari, è che questi neutroni lenti sono estremamente più efficaci di quelli veloci nel produrre certi processi, come per esempio la cattura radiativa.

Questa scoperta apriva la via ad uno studio delle proprietà dei neutroni lenti, studio che veniva svolto dal Fermi e collaboratori nel periodo che va dalla fine del 1934 alla metà del 1936. I risultati più salienti ottenuti in questo periodo e che furono pubblicati, come quelli precedenti, sulla “Ricerca Scientifica” sotto forma di brevi Lettere all’Editore, e in forma definitiva sul “Nuovo Cimento”, sui “Proceeding della Royal Society” di Londra, sulla “Physical Review” e sulla “Ricerca Scientifica” stessa, sono i seguenti. Furono scoperte e completamente chiarite varie nuove reazioni prodotte dai neutroni lenti, fra le quali vanno ricordate la reazione del boro e quella del cadmio. Furono osservati i raggi a emessi in seguito alla cattura dei neutroni e fu scoperto che i neutroni lenti venivano assorbiti da alcuni nuclei con sezioni d’urto anomalamente grandi, dell’ordine di migliaia di volte maggiori delle corrispondenti sezioni d’urto geometriche. Fu dimostrato che questo fatto era in generale collegato all’esistenza di risonanze, ossia intervalli di energia molto ristretti entro i quali, come nel caso delle righe di assorbimento della luce, caratteristiche degli atomi, i neutroni venivano assorbiti in maniera eccezionale.

Inoltre il meccanismo del rallentamento dei neutroni e della loro diffusione attraverso la sostanza rallentante, ossia il moderatore, per usare una espressione invalsa nell’uso più tardi, fu chiarito quantitativamente. Fra i risultati ottenuti su questo argomento ricordiamo la determinazione della distribuzione spaziale dei neutroni nel moderatore e la dipendenza, dalla energia iniziale e finale dei neutroni, della distanza quadratica media a cui essi diffondono durante il processo di rallentamento, la distribuzione dei neutroni in vicinanza di una superficie che limita un moderatore, la scoperta dell’effetto del legame chimico sulla sezione d’urto elastico dei neutroni, la determinazione delle varie grandezze che intervengono nella diffusione dei neutroni termici quali il cammino libero medio, il tratto di diffusione, la vita media.

Non appena una scoperta sperimentale, grande o piccola essa fosse, veniva fatta, Enrico Fermi ne dava dopo poche ore una adeguata interpretazione teorica e suggeriva nuove esperienze per stabilire quale, delle varie possibilità che restavano aperte, dovesse essere considerata quella da accettare definitivamente.

Un lavoro particolarmente importante e che contiene numerosi risultati pubblicati solo in italiano è la poderosa nota apparsa sulla “Ricerca Scientifica” dell’agosto 1936. In essa il Fermi espone la teoria del rallentamento e della diffusione dei neutroni che aveva per base e inquadrava i risultati sperimentali, ottenuti insieme ai suoi collaboratori, durante gli ultimi due anni. Questo lavoro, presentato in forma semplice ed elementare, e al tempo stesso estremamente elegante, costituisce il punto di partenza di tutte le trattazioni assai più complesse fatte nel seguito da molti altri autori e la base dei calcoli per l’impiego dei moderatori nella costruzione delle pile nucleari.

I risultati del lavoro erano tanti e si susseguivano a così breve distanza di tempo l’uno dall’altro da far sembrare, soprattutto ai più giovani fra i collaboratori, che la cosa dovesse proseguire indefinitamente. E Fermi, che era soddisfatto del lavoro e certo anche eccitato dal numero e qualità dei risultati ma non tanto da perdere anche menomamente la sua calma e freddezza di giudizio, diceva di quando in quando: ricordatevi, ragazzi, che questi sono gli anni delle vacche grasse e inevitabilmente verranno quelli delle vacche magre.

L’insieme del lavoro scientifico svolto presso L’Istituto di Fisica dell’Università di Roma in quel periodo costituisce un contributo del tutto eccezionale allo sviluppo della fisica nucleare; e per esso, nel 1938 fu assegnato il premio Nobel ad Enrico Fermi.

Negli anni precedenti al 1938, dopo il suo primo viaggio negli Stati Uniti avvenuto nel 1930, Fermi era stato spesso invitato nel nuovo continente a svolgere corsi di lezioni durante le sessioni estive di varie università e aveva ricevuto in più occasioni offerte per cattedre permanenti particolarmente importanti. Più volte egli si era sentito incerto di fronte a queste offerte, combattuto fra il desiderio di restare in Italia, conservando e rinsaldando così i forti legami di vita e di lavoro, e l’aspirazione di vivere e far vivere la propria famiglia in un clima meno increscioso di quello che si era andato creando in Italia.

La decisione fu provocata nel 1938 dalle Leggi razziali che lo colpivano nella famiglia, essendo la moglie Laura di origine ebraica.

Fu così che nell’autunno del 1938 Enrico Fermi accettò una offerta della Columbia University e, con una regolare aspettativa concessa dal Ministero, si trasferì negli Stati Uniti. Solo due anni dopo l’aspettativa non veniva più rinnovata dal Ministero dell’Educazione Nazionale e pertanto il trasferimento di Enrico Fermi negli Stati Uniti assumeva, anche formalmente, il carattere di una partenza definitiva. Giunto alla Columbia University, Enrico Fermi riprendeva il suo lavoro di maestro e di ricercatore con la stessa calma aggressività di fronte ai problemi scientifici ancora insoluti che aveva avuto durante il periodo romano.

La scoperta della scissione dell’Uranio provocata dai neutroni, fatta da Hahn e Strassmann nel 1939, apriva, pochi mesi dopo il suo arrivo in U.S.A., nuove possibilità.

Se in tale processo, oltre alla elevata energia, si fosse liberato un numero sufficiente di neutroni, questi avrebbero potuto produrre a loro volta altre scissioni e iniziare così ciò che viene usualmente indicato come una reazione a catena. Fermi non fu il solo ma certo uno dei primi a rendersi conto di questo e si mise ad esplorare il campo con l’aiuto di varî collaboratori fra cui ricordiamo L. Szilard, W. H. Zinn and H. L. Anderson, dei quali quest’ultimo era destinato a lavorare con lui da allora fino alla sua morte.

Alcuni importanti lavori su questo argomento furono pubblicati da Fermi e collaboratori sulla “Physical Review”, ma ben presto apparve chiaro che se fosse stato possibile provocare delle reazioni a catena, ciò avrebbe potuto acquistare una importanza pratica molto notevole.

La guerra era già in atto in Europa e si stava estendendo a tutto il resto del mondo e, di conseguenza, la espressione “importanza pratica” acquistava, in quel clima, non solo il significato di una nuova sorgente di energia, ma anche una lontana possibilità di nuovi ordigni esplosivi. I risultati delle ricerche in questo campo venivano pertanto considerati di importanza militare e quindi tenuti segreti. In quell’epoca il gruppo diretto da Fermi cominciò a lavorare per il governo americano nei laboratori della Columbia University, dove rimase fino alla primavera del 1942 epoca in cui fu trasferito a Chicago. Ivi, il 2 dicembre 1942, entrò in funzione la prima pila nucleare progettata e costruita da Enrico Fermi con la collaborazione di H. L. Anderson e W. H. Zinn. Nella fase finale della costruzione avevano partecipato ai lavori anche L. Woods e G. L. Weil.

Questa realizzazione e questa data hanno reso il nome di Enrico Fermi noto in tutto il mondo, in tutti gli ambienti. E ciò è comprensibile e naturale poiché è questa realizzazione che improvvisamente trasforma la fisica dei neutroni dall’essere un complesso e raffinato capitolo della fisica nucleare coltivato da un ristretto numero di specialisti, ad un corpo di dottrine destinato ad avere una influenza sulla vita dell’uomo comune.

Ma se anche Fermi non avesse mai costruito la pila nucleare, il suo nome sarebbe egualmente fra quelli dei primi fisici del nostro secolo poiché la sua fama di scienziato èbasata su tutte le scoperte teoriche e sperimentali che egli ha compiuto in oltre trenta anni di tenace e geniale lavoro.

La costruzione della prima pila nucleare ci porta tuttavia a fare due osservazioni. La prima è che tale risultato spettava ad Enrico Fermi nel senso che nessun’altra persona al mondo era meglio preparata di lui per risolvere tutti i moltissimi problemi, teorici e sperimentali, coinvolti in una simile costruzione. La seconda è che con la costruzione della pila nucleare nasce la ingegneria nucleare di cui Enrico Fermi deve essere considerato il fondatore. Egli infatti fu non solo un teorico profondo e uno sperimentatore geniale, ma anche un esperto ingegnere, capace di progettare macchine complicate con quella cura di tutti i minimi particolari che, pur non essendo essenziali in uno schema di principio e neanche in un esperimento di laboratorio, sono di primaria importanza in una macchina destinata ad un funzionamento durevole e regolare.

Negli anni immediatamente successivi Enrico Fermi si dedicò allo sviluppo e perfezionamento della pila fino all’inverno 1944, epoca in cui si trasferì a Los Alamos ove, a partire dalla fine del 1942, erano stati organizzati i laboratori per lo sviluppo delle applicazioni belliche dell’energia nucleare. In questa sede Enrico Fermi non fu inserito nella grossa e complessa organizzazione già esistente, ma ebbe a.dato un compito di alta consulenza.

La realizzazione delle prime bombe atomiche nei laboratori di Los Alamos, e il loro impiego nell’estate 1945, sono fatti noti a tutti e che segnano un assai grave momento nella storia dell’uomo.

La possibilità di impiegare l’energia nucleare per scopi militari ha fatto sorgere problemi di ordine umano estremamente gravi. Non si tratta però di problemi nuovi, ma di problemi vecchi quanto l’uomo, che si ripresentano oggi con una più drammatica evidenza e su una scala assai maggiore che per il passato.

E’ chiaro che non è possibile, né dal punto di vista pratico né da quello della convenienza umana, pensare di arrestare il naturale sviluppo dello studio delle leggi della natura i cui risultati, in sé, non sono né buoni né cattivi. E’ solo l’uso di queste scoperte che è buono o cattivo ed è tale uso che l’uomo può e deve cercare di orientare verso scopi benefici anziché distruttivi.

Ma questa naturale conclusione, a cui tutti aderiscono in tempo di pace, viene da tutti abbandonata in tempo di guerra, in quanto ognuna delle parti contendenti, temendo che il nemico possa valersi di qualsiasi arma, è spinta ad apprestare essa stessa qualsiasi mezzo di distruzione. Ed è così che la stragrande maggioranza dei fisici che lavoravano a Los Alamos, e fra questi Enrico Fermi, pur sperando che non fosse possibile liberare l’energia nucleare tanto rapidamente da dar luogo ad una esplosione, ritennero che, se una tale possibilità esisteva, essi dovessero giungere ad individuarla prima del nemico.

Queste circostanze storiche hanno acuito un problema che non riguarda più solo lo scienziato ma più in generale l’uomo: entro quali limiti egli debba contribuire alla difesa del proprio gruppo, della propria società e alla offesa dei nemici di questa, se tale contributo debba essere dato anche sapendo che le più gravi decisioni non saranno prese da lui ma da altri, sono problemi a cui ancora non è stata data una risposta definitiva.

Già nel passato l’umanità è riuscita a superare, anche se con sofferenze, crisi non inferiori a questa. Vogliamo quindi sperare che passato un primo periodo di smarrimento, essa si abitui all’idea di disporre di una così eccezionale fonte di energia e che ne rivolga lo sviluppo soltanto a scopi pacifici. Allora il 2 dicembre 1942, ancor più di oggi, verrà considerato una data fondamentale della storia dell’uomo.

Finita la guerra, Enrico Fermi tornò a stabilirsi a Chicago ove nel gennaio 1946 fu nominato professore di fisica dell’Università alla cattedra Charles H. Swift e membro dell’Institute of Nuclear Studies.

Qui, servendosi della pila nucleare come sorgente intensissima di neutroni, si dedicò ad uno studio, più raffinato di quanto non fosse stato fatto fino ad allora, delle proprietà dei neutroni lenti di cui sviluppò l’ottica mettendo in evidenza e studiando quantitativamente i corrispondenti fenomeni di riflessione, rifrazione e diffrazione.

Fra i molti interessanti risultati conseguiti in questo campo, va ricordata la determinazione della differenza di fase con cui l’onda di Schrödinger neutronica viene diffusa dai diversi nuclei di uno stesso cristallo.

I raffinati metodi di indagine dell’ottica neutronica, applicati allo studio dei cristalli, costituisce anche l’inizio di un nuovo capitolo della cristallografia sperimentale.

Con questi lavori fatti in collaborazione con H. L. Anderson, J. Marshall, L. Marshall, A. Wattenberg, G. L. Weil e W. H. Zinn, termina il secondo periodo dell’attività scientifica del Fermi, quello dedicato alla fisica nucleare. Il campo non era ancora esaurito e c’era evidentemente la possibilità di lavorarvi ancora per molti anni, ma il lavoro non aveva più, come nel passato, il carattere di prima esplorazione di nuove conoscenze fondamentali.

E pertanto Enrico Fermi si rivolge ad un altro argomento, la fisica dei mesoni ð, che venivano prodotti con il nuovo grande ciclotrone di Chicago.

Comincia così il terzo e purtroppo ultimo periodo della sua attività di ricerca che svolse con numerosi collaboratori: E. F. Alei, H. L. Anderson, M. Glicksman, E. A. Long, A. Lundby, R. Martin, N. Metropolis, D. E. Nagle, G. B. Yodh.

Anche in questo campo Fermi e collaboratori ottengono numerosi risultati fondamentali, fra i quali ricordiamo la misura, in funzione dell’energia, della sezione d’urto dei mesoni ð, d’ambo i segni, contro protoni e delle corrispondenti distribuzioni angolari dalla cui analisi si può risalire alla determinazione delle fasi delle onde diffuse di determinato momento angolare e spin isotopico.

Ma la sua attività in questo campo era ancora in pieno sviluppo; si dovrebbe anzi dire solo all’inizio, quando una inesorabile malattia stroncava bruscamente la sua eccezionale fibra di ricercatore e di uomo.

Per quanto riguardino argomenti diversi della fisica dei mesoni ð vanno considerati come facenti parte di questa ultima fase della attività del Fermi, dedicata allo studio delle proprietà dei corpuscoli subatomici, due altri importanti lavori del 1947: il primo, teorico, in collaborazione con Teller e Weisskopf, riguarda l’assorbimento da parte dei nuclei dei mesoni µ negativi; il secondo, sperimentale, in collaborazione con L. Marshall, la interazione dei neutroni con gli elettroni.

Questa schematica divisione dell’opera di Fermi in tre periodi, il primo dedicato alla fisica atomica e molecolare, il secondo alla .sica del neutrone e alle sue applicazioni, il terzo alla fisica dei corpuscoli subatomici, non inquadra tutta la sua opera.

In particolare non si possono tacere i lavori riguardanti la radiazione cosmica, ai cui problemi egli rivolse la sua attenzione solo saltuariamente, ma in modo tale da apportarvi contributi sostanziali.

Oltre al lavoro del 1933, già menzionato al principio, nel 1940 egli pone in evidenza la influenza della costante dielettrica del mezzo sulle perdite di energia di un corpuscolo veloce, fenomeno spesso indicato nella letteratura come effetto Fermi; nel 1949 concepisce una teoria dell’origine dei raggi cosmici e nel 1950 una teoria della produzione di corpuscoli nell’urto di due nucleoni di alta energia.

Questa ultima, basata su considerazioni di carattere puramente statistico e termodinamico, rappresenta uno schema molto utile per il confronto con i dati sperimentali e per la conseguente determinazione delle corrispondenti leggi tutt’oggi ancor assai poco chiare.

La teoria dell’origine dei raggi cosmici, come fece notare egli stesso fin dal suo primo lavoro sull’argomento, non può essere l’unico meccanismo attraverso il quale una parte della materia ionizzata presente nell’universo viene accelerata, dando luogo ai corpuscoli dotati di altissima energia che costituiscono i primari della radiazione cosmica. Si tratta però di un meccanismo certamente esistente e la cui importanza relativa rispetto ad altri, suggeriti contemporaneamente o poco dopo da altri autori, non è oggi ancora chiara e verrà decisa solo in avvenire in base a un più approfondito studio sperimentale della radiazione primaria e delle sue variazioni.

Il principio su cui si basa tale teoria, che egli presentò al Congresso internazionale sulla radiazione cosmica tenuto a Como nel 1949, consiste in un meccanismo di urto fra gli atomi di idrogeno ionizzato e le nubi di materia ionizzata che vagano negli spazi interstellari. La eleganza, grandiosità e al tempo stesso semplicità della concezione sono caratteristiche del genio di Enrico Fermi.

Questo problema lo portò ad interessarsi dei campi magnetici esistenti nella galassia e in generale nei bracci delle nebulose spirali, argomenti a cui dedicò negli ultimi anni vari lavori dei quali alcuni in collaborazione con l’astrofisico S. Chandrasekhar.

Tutti questi e molti altri lavori che non ho il tempo di ricordare, furono fatti da Enrico Fermi in poco più di trenta anni di tenace, fervido lavoro. La sua attività era ancora così viva, così giovanile e priva di ogni segno di stanchezza, da far ritenere che egli avrebbe continuato a produrre, con lo stesso ritmo forte e regolare, lavori fondamentali ancora per molti e molti anni.

La sua opera scientifica è così poderosa e geniale, le conseguenze pratiche di alcuni dei suoi lavori sono così importanti e gravi che facilmente, chi non abbia avuto la fortuna di conoscerlo, è portato a farsi di lui un’immagine molto diversa (dal vero solo i parenti e gli amici, solo coloro che l’hanno conosciuto sanno che se da un lato era difficile separare in Enrico Fermi i varî aspetti di scienziato, di ricercatore, di maestro e di uomo, poiché intimamente fusi fra loro, d’altro canto la sua semplicità di gusti e di maniera di vivere, la sua calma serena di fronte ai problemi della vita, la sua mancanza di qualsiasi posa o stranezza di carattere, furono qualità umane ancor più notevoli per il contrasto con le sue eccezionali qualità di scienziato.

Lavoratore instancabile, trascorreva gran parte della sua giornata nella università e nel laboratorio ove procedeva con calma sicura, concentrando il suo sforzo su di un ben determinato problema, che affrontava con decisione eccezionale mirando allo scopo principale senza preoccuparsi dei dettagli inessenziali. Le teorie matematiche o le tecniche sperimentali che egli impiegava con scioltezza, di volta in volta a seconda del bisogno, erano per lui soltanto mezzi per giungere allo scopo, quello di comprendere chiaramente un determinato fenomeno.

Sono sempre stati i fenomeni ad interessarlo e la loro scoperta ha sempre avuto per lui il carattere di una conquista definitiva, mentre le teorie avevano il valore di utili, anzi necessari, schemi di collegamento fra i vari fenomeni, schemi che si creano, si adattano o si sostituiscono a seconda dei dati della esperienza.

Per quanto dotato di una vasta coltura scientifica non studiava nel senso normale della parola. Quando per esempio si imbatteva in un lavoro teorico importante fatto da qualcun altro, invece di leggerlo, cercava di farsi rapidamente un’idea del suo contenuto scorrendone la introduzione e le conclusioni, e poi lo rifaceva seguendo, il più delle volte, una via originale.

Quando lavorava amava avere dei collaboratori i quali, generalmente, anche se già maturi, finivano con l’imparare da lui tante cose da diventare in un certo senso suoi allievi; e gli allievi, anche se molto giovani, venivano posti immediatamente di fronte ai problemi che in quel momento lo interessavano e divenivano così rapidamente suoi collaboratori. Il lavoro veniva svolto in maniera efficientissima ma con calma, in una atmosfera serena quasi quella di un giuoco impegnativo ma piacevole.

E gli stessi collaboratori ed allievi erano i suoi amici, che frequentavano la sua casa e con cui passava le vacanze o i giorni festivi, facendo passeggiate o giocando a tennis o andando a sciare.

Il suo spiccatissimo senso del dovere e di rispetto delle leggi, la sua indole calma e aliena da ogni atto di violenza, il suo riguardo per il prossimo e le sue opinioni, il suo vivissimo spirito critico che lo portava a stabilire spassionatamente la scala dei valori scientifici od umani, il suo senso di amicizia e la sua generosità nel riconoscere i meriti altrui, sono qualità che fanno di lui un uomo indimenticabile.

Solo ai primi di ottobre 1954, in seguito ad una operazione esplorativa, veniva individuato il male che lo consumava da lungo tempo: ma ormai era troppo tardi. Anche in queste circostanze, a lui pienamente note, conservava la sua calma serena fino alla morte, avvenuta nella sua abitazione, nei pressi dell’Università di Chicago, il 28 novembre 1954.

Era stato in Italia durante l’ultima estate e su invito della Società Italiana di Fisica aveva tenuto un corso alla Scuola Internazionale di Varenna sulla fisica dei mesoni ð. Il 6 agosto aveva svolto la sua ultima lezione, ultima del corso e ultima della sua vita, sulla polarizzazione dei nucleoni, alla cui teoria è dedicato il suo ultimo lavoro apparso nel fascicolo dell’aprile 1954 del “Nuovo Cimento”.

Al termine della lezione, svolta di fronte a una quarantina di allievi, metà italiani e metà di tutti i paesi del mondo, con quella semplicità di forma, chiarezza incisiva, con quella logica stringente e con quello spirito critico stimolante che avevano tutte le sue lezioni, c’era stata una breve pausa di attesa commossa seguita da un applauso indimenticabile, pieno di gratitudine e di ammirazione. Tutti coloro che erano presenti lo ricordano, piccolo, magro, un po’ scavato dal male non ancora individuato ma che già distruggeva la sua fibra robustissima, con gli occhi ancora scintillanti per il piacere di insegnare, di comunicare ad altri la semplice profonda ed elegante analisi di recentissimi risultati sperimentali.

Oggi nel rievocarne la figura, l’Accademia Nazionale dei Lincei, che lo ebbe Corrispondente dal 1932 e Socio dal 1935, sente tutto il peso del dolore di una così prematura perdita. A tale dolore si associano tutti i fisici, anzi tutti gli scienziati del mondo. Ma non è solo lo scienziato che noi ricordiamo. La maggior parte di noi l’ha conosciuto, molti gli sono stati amici, alcuni lo ricordano giovane o poco più che adolescente, quando il suo nome era solo una sicura promessa.

E’ un vuoto incolmabile che egli ha lasciato ma è anche una eredità di inestimabile valore culturale ed umano che noi dobbiamo cercare di raccogliere e conservare.

E’ in questo Paese che è nato e si è formato, è nelle nostre scuole che ha studiato; ha insegnato e lavorato nelle nostre università, ha ideato teorie e scoperto nuovi fenomeni nei nostri laboratori. Le vicende della vita lo hanno spinto ad allontanarsi dal nostro Paese e dove è andato ha primeggiato come uomo e come scienziato; ma non si è mai staccato dall’albero della nostra cultura, a cui, in ogni momento, egli ha sempre contribuito in maniera essenziale e nella cui storia rimane, di fronte alla posterità, accanto ai grandi uomini del passato.



Categorie:Grandi Studiosi

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