Roberto Renzetti
CAPITOLO II
CARATTERI SALIENTI DEL PERIODO CHE VA DAL RINASCIMENTO AL BAROCCO(1)
Tutti gli autori concordano nel ritenere che, a partire da un certo momento storico (tra il Quattrocento ed il Cinquecento), i portati della tecnica nei campi della meccanica e dell’architettura civile e militare fecero riconoscere nella matematica uno strumento indispensabile. Particolarmente in Italia, dove meccanica, architettura ed arte avevano uno sviluppo clamoroso, si ponevano i problemi di misurazioni sempre più accurate di lunghezze, angoli, aree. Occorreva calcolare i volumi, fare degli studi prospettici, di simmetria. Si passò così dalle cose realizzate per mera intuizione alle cose progettate razionalmente con l’uso di proporzioni, simmetrie ed armonie. Fu nel Quattrocento, in Italia, che si iniziò la pubblicazione di svariate opere che facevano largo uso della matematica: opere di Brunelleschi, di Leon Battista Alberti, di Piero della Francesca (che ci fornì la “divina proporzione”, la sezione aurea, e ci fornì importanti studi di prospettiva, ora nel senso moderno), di Giorgio Martini, di Luca Pacioli. Come si vede si tratta (a parte Pacioli) di architetti ed artisti di varia natura che per la prima volta ci offrono opere che nascono ampiamente studiate e progettate con l’ausilio della matematica. È chiaro che la ricerca era delle migliori proporzioni, dell’armonia; è quindi evidente che sullo sfondo campeggia l’immagine del platonismo, sia nella sua veste pitagorica che in quella eudossiana. Elemento di grande importanza è che svariati autori iniziano a pubblicare trattati di matematica scritti in modo divulgativo, molto chiaro, accessibile a molti. La matematica inizia anche ad entrare come insegnamento impartito nelle Università, anche se non allo stesso rango di logica e dialettica (si pensi che come “matematico” Galileo guadagnava dalle cinque alle dieci volte meno dei suoi colleghi filosofi che insegnavano nella stessa Università). Gli studenti cominciano a diventare curiosi ed esigenti. Prima ci si accontentava dell’esposizione degli “Elementi” di Euclide, ora si volevano conoscere tutte le applicazioni pratiche della matematica, si volevano apprendere cose che poi, appena terminati gli studi, sarebbero state di immediata utilità. La domanda era così grande che addirittura sorse la professione di matematico pratico (il primo manuale di matematica pratica è l’Aritmetica di Treviso del 1478 in cui compare la prima chiara spiegazione della moltiplicazione e della divisione!). E nel frattempo venivano pubblicate, in traduzione latina, opere di classici greci fino ad allora sconosciute. La prima edizione latina a stampa di Euclide vide la luce a Venezia nel 1482. Nella prima metà del Cinquecento vennero pubblicate da F. Maurolico, monaco siciliano, traduzioni latine di Archimede, Apollonio e Diofanto e da F. Commandino (intorno al 1560) traduzioni di Euclide, Apollonio, Pappo, Erone, Archimede ed Aristarco. Pian piano i seguaci di Archimede crebbero. Ed ecco Niccolò Tartaglia, Guidobaldo dal Monte, Giambattista Benedetti, Giambattista Della Porta, Gerolamo Cardano. Sono tutti grandi matematici che porteranno l’algebra, la geometria e l’aritmetica a risultati del tutto insospettabili solo qualche decennio prima ed anche nel periodo più fulgido dei matematici greci. Si realizzò anche una svolta decisiva che vide l’algebra assumere il primato sulla geometria, a seguito proprio dei suoi più recenti successi (Tartaglia ci terrà a sottolineare che le sue elaborazioni non sono tratte né da Platone né da Plotino). Ed ecco ancora Bombelli, insieme all’intera scuola dei matematici bolognesi, che riesce ad affrancare la matematica dal suo uso pratico ed a farla marciare per sue linee di sviluppo totalmente indifferenti ad ogni applicazione pratica.
Come osserva Federico Enriques, l’abito scientifico sorge nel comune italiano come era sorto nella città greca, dalla contemplazione della natura, concepita come una grande opera d’arte. E questo è il motivo per cui è inscindibile il momento della crescita della scienza da quello della produzione artistica nell’Italia del Rinascimento e del Barocco. La natura: con numeri, proporzioni ed armonia. È ciò che ritroviamo in tutti i grandi artisti dell’epoca che, insieme, furono matematici e scienziati. Quindi progresso tecnico, nascita della borghesia, disponibilità economiche, riconquista della natura e studio di essa. Da tutto ciò anche la città riceve grossi impulsi e cresce non solo in bellezza ma anche come motore di progresso. Come ormai concordano quasi tutti gli autori, il Rinascimento è possibile più per la miriade di artigiani, medici, architetti, costruttori, inventori che si sono succeduti negli ultimi tre o quattro secoli che non dalla pur importante riscoperta dei classici.
Due aspetti peculiari caratterizzavano la rivoluzione del Cinquecento e del Seicento: da una parte il riconoscimento della necessità di sporcarsi le mani, di toccare la natura, magari attraverso la tecnica, di misurare, di ripetere i procedimenti che non fanno più parte di un gioco ma servono per sopravvivere, dall’altra parte, proprio questo approccio più metodico richiedeva metodi quantitativi più precisi ed affidabili, insomma serviva una matematica a lato di una strumentazione più affidabile e precisa. Tutto questo rappresenta, visto con i nostri occhi, il bisogno di saldare le due principali tradizioni, l’aristotelica e la platonica. La difficoltà nasceva però non già dai procedimenti eventualmente scelti come approccio ai fatti naturali, ma nel fatto che dietro l’aristotelismo od il platonismo, le due principali scuole di pensiero ereditate dall’antichità classica, non vi erano né Aristotele né Platone ma la metafisica, il dogma, le guerre di religione, il mantenimento di privilegi e, in definitiva, il potere. Si capisce quindi che i rami della scienza che ebbero gli sviluppi più clamorosi furono proprio quelli in cui i processi di misura entrarono più massicciamente. Insomma i dati osservativi di Aristotele, di Platone o di Galileo sono gli stessi. Cambia il modo di interpretare le stesse cose. Occorre ora andare oltre la spiegazione ingenua, nasce l’uomo teorico. Da questo momento non è più il dato osservativo in sé che gioca un ruolo importante ma è l’interpretazione non ingenua della realtà che fa nascere e crescere il nuovo mondo. Mondo che è in marcia, che inizia ad affrancarsi dalla statica per costruire una dinamica, che inizia a comprendere che è possibile studiare la natura e descriverla con leggi sempre più affidabili. E sarà proprio del Seicento lo svincolare le leggi naturali dalle leggi divine, il rendere naturale il soprannaturale, il sostituire la fisica alla metafisica o alla magia per la descrizione del mondo naturale(2).
KEPLER
La ripresa dei temi ottici che, come abbiamo visto nel Capitolo 1, erano molto oscuri, non poteva che essere fatta da parte di astronomi. E questi avevano ben poco da riprendere dal passato se non quella parte d’interesse che oggi chiamiamo ottica geometrica (la luce che viaggia in modo rettilineo, il raggio di luce, la legge della riflessione, un poco di rifrazione).
Keplero, probabilmente per risolvere alcune questioni legate ai problemi osservativi derivanti dalla rifrazione, scrisse un trattatello di ottica che fece il punto su quanto si sapeva con notevoli perfezionamenti. La sua opera Ad Vitellionem(3) paralipomena (Aggiunte a Witelo, un titolo che vorrebbe minimizzare il suo contributo) del 1604 fu molto importante, perché con essa Keplero gettò le fondamenta della moderna ottica geometrica. Tra le altre cose, egli analizzò la struttura dell’occhio umano e fornì la prima esposizione corretta del suo funzionamento integrando il tutto con le correzioni dei difetti della vista mediante l’uso appropriato di lenti. Kepler riprese la tradizione prospettivistica che era stata di Alhazen ed alla quale Bacone aveva dato un qualche contributo. Egli analizza la natura e il comportamento della luce (da ogni punto dell’oggetto osservato partono raggi di luce in ogni direzione) e i processi di formazione e di localizzazione delle immagini. Secondo Keplero
“i corpi esterni [sono] costituiti da un complesso di punti ciascuno dei quali emette raggi in tutte le direzioni, raggi infiniti ed infinitamente estesi finché non incontrano un ostacolo. Quindi un punto isolato è come una stella che emette raggi in tutte le direzioni; se di fronte ad essa si trova un occhio, in esso penetreranno tutti i raggi che costituiscono un cono col vertice nella stella e con la base nella pupilla. Essi si rifrangono sia attraverso la cornea, sia attraverso le parti interne dell’occhio andando a formare un nuovo cono che ha per base la pupilla e per vertice un punto della retina”.
Keplero arriva a questa conclusione studiando la rifrazione per mezzo di una sfera di acqua. E continuerà questo studio fino a dare una corretta descrizione del funzionamento dell’occhio superando in particolare il problema del capovolgimento delle immagini (che era sorto in connessione ai primi studi di Leonardo e Maurolico sulla camera oscura): la retina (o la psiche) ha la facoltà di interpretarle correttamente.
Altri contributi di Keplero riguardano l’individuazione della regola secondo la quale viene determinata la posizione dell’oggetto osservato nello spazio, attraverso la direzione lungo la quale si trova l’oggetto e la sua distanza dall’occhio. Tale regola detta del triangolo distanziometrico, triangolo che ha per vertice il punto-oggetto e per base la pupilla, consisteva nella capacità dell’occhio di eseguire la misura dell’angolo acuto del suddetto triangolo e la determinazione dell’orientamento del suo asse (in pratica, l’occhio «sente» la divergenza dei raggi in arrivo emessi da un singolo punto e può quindi ricostruire la distanza del punto emettente).
Dopo aver risposto affermativamente a chi gli chiedeva della bontà del cannocchiale di Galileo, Keplero scrisse la Dioptrice (1611), nella quale espone una teoria delle lenti che entrano finalmente nel mondo accademico come oggetti di studio. La cosa è importante soprattutto per il fatto che si fornisce una base scientifica a quanti avevano sollevato dubbi sull’attendibilità delle cose che aveva visto Galileo (erano illusioni ? erano fenomeni che stavano dentro il cannocchiale ? …). Ora l’intero strumento di Galileo ha una teoria che, tra l’altro, ne permette la riproducibilità. E viene messa sul tappeto quella cosa che sempre più si verificherà in futuro: la dialettica tra lo strumento e l’esperimento, la comprensione dell’interazione tra i due soggetti per validarne l’attendibilità reciproca. In questo modo anche lo strumento esce fuori da un’operazione meramente tecnica per diventare esso stesso oggetto di elaborazione teorica.
Per Keplero la luce viaggia dalla sorgente a distanze infinite, viaggia in linea retta (si muove secondo un infinito numero di linee rette che si chiamano raggi) con velocità infinita (essa non si muove nel tempo ma all’istante) e viene immaginata come una superficie di inviluppo delle estremità dei singoli raggi (una sorta di prefigurazione del fronte d’onda) che in se stessi non hanno consistenza fisica e quindi sono analoghi a traiettorie di corpi in movimento. La luce si muove lungo i singoli raggi ma questi non si muovono e neppure sono luce ma solo linee rette nello spazio comode per la nostra descrizione del fenomeno. Ciò che si muove sono delle superfici perpendicolari ai raggi come mostrato in figura. E la figura mostra anche la legge dell’inverso del quadrato, il fatto cioè che, al raddoppiare la distanza da una fonte di luce, la sua intensità diventa un quarto di quella che si aveva a distanza uno (proprio perché tutta la

Tratta da Park
luce di cui disponevamo si deve ora distribuire su una superficie 4 volte più grande). Luce e colore hanno la stessa natura, non è la luce che ha colore. Esso viene acquisito, liberato, nella riflessione della luce su corpi colorati. Keplero inoltre unifica e risolve il problema della visione con quello della riflessione e rifrazione. L’immagine di un oggetto si crea nella mente che la colloca nel punto di convergenza dei raggi che partono dai due occhi e ciò vale anche per raggi riflessi, nel qual caso l’oggetto lo vediamo dietro la superficie riflettente, come mostrato in figura. Per quel che riguarda i fenomeni ottici Keplero, mentre riesce

Tratta da Park
a dare una spiegazione completa della riflessione su specchi piani, non riesce a formulare la legge della rifrazione che pure era la cosa che a lui interessava di più.
A questo punto, dopo questo lavoro di Keplero, in accordo con Ronchi, il problema non è più quello di definire la luce in relazione alla nostra capacità di «vedere» gli oggetti «esterni». Il problema diventa piuttosto quello di definire più specificamente la luce in sé, in particolare se sia materia o movimento, luce di cui si dà per certo che sia un qualcosa esterno all’osservatore, che si propaga in linea retta, si riflette, «estrae colore» dai corpi, si rifrange, trasporta calore, forma immagini attraverso le lenti e stimola la retina. In definitiva gli aspetti fisiologici e psicologici del processo della visione cedono il posto ad una raffinata analisi degli aspetti fisici. In questo scenario si inserisce un altro contributo galileiano di rilievo: il tentativo di misurare la velocità della luce.
GALILEO
Galileo, nella Giornata Prima dei Discorsi e dimostrazioni matematiche (1638), ci racconta di un suo esperimento per misurare la velocità della luce(4). Il problema era evidentemente nell’aria e già si era compreso che, contrariamente a Keplero e vari altri, la luce è una entità che parte da una sorgente, si propaga ed arriva sugli oggetti non in tempo zero ma occupando tempo. L’esperimento proposto da Galileo è il seguente. Due persone si dispongono ad una data distanza (due colline contrapposte più o meno alla distanza di un paio di chilometri) l’una di fronte all’altra munite di due lanterne. La prima persona scopre la propria lanterna, la seconda esegue la medesima operazione non appena scorge il segnale proveniente dalla prima. In tal modo la prima persona avrebbe dovuto avere la possibilità di misurare il tempo necessario alla luce per compiere il percorso di andata e ritorno. L’esperimento è semplice ma non poteva che dare risultato nullo, infatti la velocità della luce è veramente troppo grande per essere misurata su tragitti così brevi e, per di più, con il battito del polso come misuratore del tempo.
Si può osservare che la cosa è di rilievo come è di rilievo il fatto che l’esperienza sia stata nulla. A questo proposito vi sono due osservazioni da fare. La prima è relativa al fatto che Galileo non trae una conclusione definitiva, non dice cioè che poiché non è riuscito a trovare una velocità finita per la luce essa deve essere infinita. Si rende invece conto che la sua è una strumentazione insufficiente per lo scopo che si è prefisso. La seconda osservazione riguarda il risultato nullo di una esperienza. Credo sia indispensabile sottolineare che esperienza di questo tipo, per tutte le implicazioni che hanno e le strade che aprono, siano altrettanto significative di quelle che forniscono dei risultati.
In ogni caso, questa misura di Galileo insieme ai suoi contributi nell’ottica pratica (telescopio e microscopio) sono gli unici passi che Galileo fa in questo campo che invece, all’epoca, inizia ad essere dissodato a dovere.
SNELL
La legge della riflessione, l’uguaglianza dell’angolo di incidenza di un raggio luminoso con quello di riflessione era nota fin dai tempi di Euclide. Già da

allora si conosceva il fenomeno della rifrazione, il cambiamento di direzione che subiscono dei raggi luminosi nel passaggio attraverso la superficie che separa due mezzi di diversa densità. Ma non si era stati in grado di trovare una legge che descrivesse il fenomeno. Si sapeva che nel passaggio da un mezzo meno denso ad uno più denso il raggio rifratto si avvicina alla perpendicolare n tracciata alla superficie di separazione dei due mezzi e che nel passaggio inverso il raggio rifratto si allontanava da tale perpendicolare. Il fenomeno era stato


Nel passaggio da un mezzo più denso ad uno meno denso il raggio rifratto si allontana dalla perpendicolare (r<i). Occorre comunque osservare che vi è sempre un raggio riflesso che si accompagna a quello rifratto. Per un dato angolo di incidenza (angolo limite) il raggio non passa più nell’altro mezzo ma resta intrappolato nel primo: è il fenomeno della riflessione totale.
studiato da Tolomeo che aveva trovato una certa regolarità nel rapporto tra angolo di incidenza ed angolo di rifrazione, che risultava quasi costante per una data coppia di mezzi. Vari studiosi avevano tentato una qualche relazione che descrivesse il fenomeno. Niente. Fu l’olandese Willebrord Snell nel 1621 che risolse il problema pur senza pubblicarlo ma solo comunicandolo ai suoi corrispondenti(5).

Riferendoci alla figura, Snell si accorse che la relazione cercata dipendeva certamente dagli angoli i ed r ma attraverso delle loro funzioni. Data una coppia di sostanze attraverso le quali si realizza la rifrazione, per qualsiasi angolo i di incidenza, si ha un angolo r di rifrazione che soddisfa alla seguente relazione

dove di e dr sono i due segmenti di figura che hanno una precisa relazione con, rispettivamente, il seno dell’angolo di incidenza e quello dell’angolo di rifrazione, mentre n è una costante che conosciamo oggi come indice di rifrazione relativo ai due mezzi (rappresentati dai subindici 1 e 2). Poiché, con linguaggio di oggi, di = cosec r e dr = cosec i, la relazione vista diventa:

CARTESIO
Il primo studioso che fece conoscere, pubblicandola, la legge di Snell fu Cartesio nella sua Dioptrique del 1637. Egli la scrisse come oggi la conosciamo, introducendo il rapporto tra i seni degli angoli di incidenza e rifrazione. Ancora riferendoci all’ultima figura, si ha:

ed ora l’indice di rifrazione n acquista un significato più pregnante. E’ sempre l’indice di rifrazione ma risulta legato alla velocità della luce nei differenti mezzi in cui si propaga. Più precisamente è il rapporto tra la velocità della luce nel mezzo più denso e la stessa velocità nell’aria (come vedremo tra un poco, rapporto tra una velocità maggiore ed una velocità minore).
Ma il contributo di Cartesio fu più articolato, anche se confuso e molto poco innovativo, per cui vale la pena discuterlo, a partire dalle sue concezioni relative alla luce, ormai divenuta un oggetto fisico.
Per Cartesio la luce ha una velocità infinita (siamo nel 1637), la sua propagazione doveva essere istantanea (questa è la parola usata da Cartesio. Dioptrique pag. 101) e ciò vuol dire che non si ha propagazione. La cosa veniva ricavata da Cartesio dall’ombra della Terra, immaginata nella situazione astronomica aristotelica, proiettata sulla Luna in una eclisse. Se la luce del Sole che ci viene riflessa dalla Luna durante la durata di una eclisse marciasse con una velocità infinita noi vedremmo, come vediamo, l’eclisse quando Sole, Terra e Luna sono allineati. Se invece la luce avesse una velocità finita (e qui Cartesio ha il pregiudizio di una velocità relativamente piccola), essa, quando dal Sole ha superato la Terra per raggiungere la Luna, impiegherà del tempo per percorrere il tragitto fino alla Luna e del tempo per tornare sulla Terra di modo che noi possiamo vedere il fenomeno. Cartesio fa l’ipotesi che il tempo necessario alla luce per fare il tragitto Terra-Luna-Terra sia di una ora. Ciò vuol dire che noi vedremmo l’eclissi un’ora dopo che la luce ha lasciato la Terra per andare sulla Luna ed allora Cartesio si chiede cosa accade nel frattempo del Sole. L’astro avrebbe percorso un’ora della sua traiettoria, tempo che farebbe si che non vi sarebbe più allineamento tra i tre corpi celesti. Poiché da sempre quei tre corpi risultano allineati, Cartesio conclude che la la luce ha velocità infinita.
Vi è qui da osservare che il pregiudizio è sempre stato di grave ostacolo alla ricerca(6). E Cartesio si chiude una strada che poteva essere fertile, a seguito del suo metodo che prevedeva delle regole per fare filosofia che non andavano d’accordo con il metodo sperimentale. Vi era anche il fatto che Cartesio aveva in odio il solo nome di Galileo. Egli probabilmente seppe da Marsenne che Galileo sperimentava sulla velocità della luce e questo fatto gli fece affermare qualcosa che contrastava con le ipotesi del pisano(7). In ogni caso il ragionamento di Cartesio che ho riportato verrà confutato da Huygens nel suo Trattato sulla luce (scritto nel 1678 e pubblicato nel 1690) proprio sul terreno che Cartesio amava poco, quello sperimentale con misure di distanze e di velocità.
La luce è conseguenza della teoria del mondo considerato come un tutto pieno eternamente in moto a vortici (una specie di maionese). La materia è estensione e l’estensione deve essere materia. Conseguenza di queste assunzioni a priori è che la luce diventa un oggetto materiale, fisico e quindi studiabile. La trasmissione istantanea della luce, di cui ho detto, è pensata come una pressione esercitata dalle particelle di una materia sottile che riempie l’universo, l’etere (ecco che questa entità metafisica entra nella fisica e la tormenterà per oltre 250 anni). E l’etere è inteso come un corpo rigido ideale. La prima particella preme sulla seconda che preme sulla successiva e così via (resta aperto il problema dell’origine del moto). L’intero discorso di Cartesio sembra voler non considerare la luce come entità a sé ma solo in quanto gli permetterà poi di studiare gli strumenti ottici. Così egli ci dice le cose sulla luce servendosi di analogie. Inizia con una analogia che era già stata fatta 2000 anni prima, quella della luce come un bastone nelle mani di un cieco: l’azione vivace che passa attraverso l’aria ed arriva ai nostri occhi agisce nello stesso modo che la resistenza fatta da un bastone di un cieco quando incontra dei corpi. In questa visione i colori non sono propri dei corpi ma del diverso modo in cui i corpi riflettono il movimento della luce per rinviarcelo agli occhi. E questa cosa, ancora con l’analogia del bastone, corrisponde al fatto che il bastone si accorge di toccare un albero, una pietra, dell’acqua, …(8) La luce è per Cartesio un qualcosa che ha anche una qualche analogia (un’altra) con una palla da tennis (in ogni figura della Dioptrique vi è un omino con una racchetta che scaglia una palla in modo che la sua traiettoria sostituisca quella della luce) e, contemporaneamente, non è corpuscolare (senza

essere ondulatoria). Da una parte, cioè, la sua vorrebbe essere una teoria emissionistica, dall’altra il modello esplicativo della luce di Cartesio implicava che la luce si propagasse tramite il mezzo. Data la sua teoria dell’universo tutto pieno, sarebbe stata impensabile una eventuale propagazione di corpuscoli nel vuoto. Vedremo subito a quale contraddizione porterà la sua teoria a proposito di velocità di propagazione della luce in differenti mezzi, Cartesio afferma che la luce viaggia più velocemente nell’acqua e nel vetro che non nell’aria, viaggia cioè più velocemente nei mezzi più densi. Ma prima di discutere questa vicenda, descrivo meglio le teorie di Cartesio sulla luce. Ogni qualcosa che si trova sulla Terra è permeata da questo etere che entra nei meandri più reconditi, nei suoi pori, come dice Cartesio. All’interno di questi pori le particelle di etere non stanno ferme ma ruotano e deviano, con alcune regole. Quando si muovono di moto rettilineo, la loro velocità propria di rotazione è all’incirca uguale a quella di rotazione. Ma quando ci si trova sulla superficie di separazione tra i corpi in considerazione ed il loro esterno allora le particelle di etere, che si trovano nella condizione di non avere loro simili nelle vicinanze, a seconda del verso di rotazione che si trovano ad avere, avranno una velocità di traslazione che diventerà più o meno grande di quella di traslazione. Da queste variazioni di velocità vengono fuori i differenti colori (e questo è il modo con cui vengono spiegati i colori con la seconda analogia). Il colore è quindi una conseguenza della condizione del moto. Con un disegno di D’Agostino è possibile avvicinarsi a comprendere l’argomento: le situazioni del primo e del secondo disegno sono

identiche, cambia solo il verso di rotazione della particella ma, a questo cambiamento di verso, corrisponde un cambiamento sostanziale nel moto finale della particella medesima.
Il discorso della Dioptrique prosegue ma le cose si fanno confuse. In un primo tempo Cartesio sembra aderire alle concezioni dei pitagorici: qualcosa fuoriesce dai nostri occhi, colpisce gli oggetti e, tornando indietro, ci annuncia gli oggetti medesimi. Più oltre però egli sembra virare verso le concezioni platoniche, quando dice:
«gli oggetti della vista possono essere sentiti non soltanto per mezzo dell’azione che, essendo in essi, tende verso gli occhi, ma anche per mezzo di quella che, essendo negli occhi, tende verso essi. Tuttavia, poiché quest’azione non è altro che la luce, bisogna notare che si trova soltanto negli occhi di coloro che possono vedere nelle tenebre della notte, come i gatti; e che gli uomini ordinarii non vedono che per l’azione che viene dagli oggetti, ….. ».
Prima di passare all’occhio ed alle lenti, cose delle quali non mi occuperò, Cartesio discute la riflessione, la rifrazione e la riflessione totale(10) (ma, come osserva Ronchi, non della luce ma delle palle da tennis che, alla fine del discorso, ritornano luce senza tener conto di quella sciocchezza che è la gravità). Per la prima la cosa era semplice ed era stata trovata e confermata più volte in passato. Per la rifrazione egli fa tutta una serie di costruzioni geometriche fino ad arrivare ad una che può essere riassunta con la seguente(11) (Cartesio disegna due circonferenze affiancate e con raggi diversi):

Tale figura è la stessa di quella precedente con la semicirconferenza in basso a raggio maggiorato rispetto a quella in alto. E la cosa risponde ad un preciso ragionamento, al solito, tutto a priori. Consideriamo un tempo molto breve, tempo nel quale avviene il fenomeno (e qui sarebbe d’interesse capire l’istantaneo come si coniuga con un tempo piccolo ma finito anche perché non abbiamo ancora a disposizione gli infinitesimi e comunque Cartesio non ne fa cenno). Dividiamo questo tempo in due parti uguali. Nella prima parte di tempo la luce si propaga da A a B. Nella seconda parte di tempo, da B a C. E perché accade questo ? Perché cioè il tragitto BC è maggiore di quello AB ? Perché c’è l’ammissione a priori che la luce cammini a velocità maggiore nei mezzi più densi (più veloce nel vetro o acqua che non nell’aria)(12). E quanto più veloce ? Proprio la quantità necessaria per fare sì che il segmento AP sia uguale a PQ ! E perché ? Ma perché la componente orizzontale di tale velocità (vocabolario di oggi), cioè AP e QC , si è conservata (infatti AP = QC). Girando il discorso per far si che AP sia uguale a PC è necessario che risulti BC > AB. E quella costante n1,2 che c’era nella legge di Snell, che cosa vuol dire ora ? Essa misura la maggiore velocità della luce nei mezzi più densi. La cosa non è da poco perché permette di avere la possibilità di sottoporre ad esperienza l’intera legge ed i presupposti teorici che erano dietro di essa. Si tratterà di capire la correttezza dell’ipotesi di luce più veloce nei mezzi più densi.
Per quel che riguarda la legge della rifrazione essa si ricava riportando la figura ad un’unica circonferenza. Dice Cartesio (quasi letteralmente) che, poiché la palla va da A a B ed arrivata in B prende la direzione I, vuol dire che la forza

con cui entra nel mezzo più denso (quello che si trova al di sotto della linea CBE), sta a quella con cui la palla esce dal corpo meno denso (quello che è al di sopra della suddetta linea), come la distanza che c’è tra AC ed HB sta a quella che c’è tra HB ed FI, cioè come la linea CB sta a BE. Ora, poiché AH = CB ed EB = IG, il rapporto CB/BE equivale, in linguaggio moderno, al rapporto tra i seni rispettivamente degli angoli di incidenza ABH e di rifrazione GBI. E la legge della rifrazione esprime proprio, come già detto, la costanza di questo rapporto per una data coppia di mezzi.
In una opera finita di scrivere posteriormente alla Dioptrique, e cioè Il mondo o Trattato sulla luce (composta tra il 1629 ed una data non precisata ma posteriore al 1637 in quanto si fa qui riferimento alla Dioptrique che è del 1637, e non pubblicata in vita), Cartesio non aggiunge praticamente nulla a ciò che aveva scritto nella Dioptrique(13).
FERMAT
La Dioptrique, quando fu pubblicata, conteneva una specie di invito ai lettori a scrivere all’autore per chiedere spiegazioni sui punti ritenuti oscuri. Per capire ancora di più di che pasta era fatto Cartesio, ricordiamo che egli ricevette almeno due lettere, una di Hobbes e l’altra di Fermat. Come considerò tali lettere. Lo sappiamo da una lettera che Cartesio scrisse a Marsenne nella quale dice che Hobbes era un individuo disprezzabile e che gli argomenti di Fermat erano sterco.
Tralasciando Hobbes(13 bis), elenco in breve le obiezioni del grandissimo matematico Fermat. Egli osserva che non si può trattare la luce come una palla e che non riesce a capire come sia possibile che la luce aumenti la sua velocità in un mezzo più denso. Dopodiché pone la questione: visto che la legge della rifrazione è ormai nota, non la si può ricavare matematicamente in qualche modo? Con Cartesio vi fu un qualche scambio di lettere che Fermat interruppe quando capì che aveva a che fare con una persona intrattabile. Ma Fermat continuò a tentare di capire come fare fino a che, nel 1662, non trovò la soluzione per via completamente geometrica, introducendo segmenti che dovevano rappresentare la resistenza del mezzo. Dette le cose come faremmo oggi, il ragionamento di Fermat era il seguente. La luce viaggia con una data velocità ed in linea retta in un mezzo omogeneo e la sua velocità diminuisce all’aumentare la densità del mezzo. Per fare un determinato percorso, tra un punto A ed un punto B, la luce sceglie il cammino che richiede minor tempo (che non è necessariamente la linea retta ma, come nel caso della rifrazione, è una spezzata). In questo modo si ritrova senza difficoltà la legge di Snell con una differenza sostanziale: ora l’indice di rifrazione n è il rapporto tra la velocità della luce nell’aria e quella nel mezzo più denso, esattamente l’inverso che era stato fornito da Cartesio (il rapporto era sempre tra una velocità maggiore ed una minore, solo che erano invertiti i ruoli della velocità maggiore e minore). In quanto dico si deve tener conto del fatto che n è un numero e che era stato misurato. Esso era sempre un numero maggiore di 1. Conseguentemente, rendendo n un rapporto tra velocità, la velocità maggiore doveva stare al numeratore e la minore al denominatore della frazione. Si può intuire che si inizia a prospettare la possibilità di un experimentum crucis: se si riesce a misurare la velocità della luce in differenti mezzi si può stabilire chi ha ragione tra Cartesio e Fermat. Disgraziatamente occorreranno circa 200 anni perché tale misura sia possibile.
PADRE GRIMALDI
Nel 1665 a Bologna vide la luce un libro di Padre Francesco Maria Grimaldi, Physico-mathesis de Lumine, coloribus et iride (Una teoria fisico matematica sulla luce, i colori e l’arcobaleno). L’autore conosce le vicende di Galileo e sa che la Chiesa è attenta a ciò che accade in campo scientifico. Non dà quaindi una teoria della luce ma oscilla tra due perché non può dispiacere ad Aristotele e San Tommaso e quindi deve tener conto di quella oscura teoria di Aristotele che vuole la luce come accidente e non come sostanza. L’opera di Grimaldi sembra un dialogo in cui le due teorie sulla luce (sostanza o accidente?) si debbono confrontare, senza nessun Simplicio. Le novità che introduce sono diverse e si nota che lo deve fare in modo circospetto:
«non intendiamo confutare l’opinione aristotelica riguardo alla natura della luce partendo dai suoi principi primi, ma solo liberarla dalle obiezioni che molti nuovi esperimenti sembrano in un primo momento sollevare contro di essa. Che il nostro libro contribuisca o meno a tale fine, lasciamo che sia il giudizio prudente e benevolo del lettore a stabilirlo».
Nella prima parte del suo lavoro Padre Grimaldi ci informa subito di una importante scoperta da lui fatta, quella della diffrazione della luce. Quando della luce entra in una stanza buia attraverso un piccolo foro ed incontra dei piccoli ostacoli, sulla parete bianca in cui va a finire, non vi è solo l’immagine del foro, più o meno grande a seconda della distanza della parete dal foro, ma anche delle frange luminose che invadono la zona che dovrebbe essere in ombra e delle frange oscure che invadono la zona illuminata. Riferendoci alla figura di seguente, vediamo meglio in cosa consiste il fenomeno scoperto da Grimaldi:

I punti A e B rappresentano due punti sul bordo di un piccolo forellino fatto su una parete, foro dal quale entra della luce in una stanza buia. Invece FE rappresenta un piccolo oggetto che si trova nella traiettoria dei raggi luminosi provenienti dal forellino. CD è invece il pavimento bianco della stanza oscura. Se non vi fosse FE, su CD vedremmo l’immagine del foro deformata in una circonferenza più o meno schiacciata. Intorno a questa immagine illuminata vi sarebbe una zona di penombra. Ora Grimaldi fa una interessante discussione nella quale sostiene (non è una cosa da poco, come vedremo in Huygens) che ogni punto del bordo del foro deve essere considerato come emettente luce. In particolare la luce viene emessa sia da A che da B. Quindi, se non vi fosse FE, la luce proveniente da A costruirebbe un cono di luce ACL e la luce proveniente da B un cono BID. Quando inseriamo il piccolo oggetto FE, poiché i raggi di luce viaggiano in linea retta, la luce proveniente da A deve provocare l’ombra GL e quella proveniente da B un’ombra IH. In definitiva si dovrebbe avere una zona in ombra GL con una zona più scura GH al centro della prima. L’esperienza non dà questo risultato:
«L’intervallo IL è significativamente più ampio di come dovrebbe essere se tutta la luce si muovesse per linee rette dentro a un cono, interrotta dall’oggetto opaco EF. Inoltre, nelle zone intensamente illuminate CM e ND ci sono bande di luce colorata tali che il centro di ognuna è bianco puro, mentre ai bordi c’è il colore, sempre blu sul bordo più vicino all’ombra MN e rosso sul lato più lontano. Queste bande dipendono dalle dimensioni del foro AB, e non appaiono se esso è troppo grande».
Ciò che si vede sul pavimento è illustrato da Grimaldi nel modo seguente:

a lato dell’oggetto opaco X (il bordo di un ostacolo) vi sono una serie di bande luminose (frange) che vanno stringendosi e perdendo luminosità man mano che ci si sposta verso l’esterno. La cosa più interessante e che Grimaldi nota è che i bordi di tali frange sono colorati! sono di un colore tendente all’azzurro verso l’interno dell’ombra e di un colore rossastro verso l’esterno dell’ombra. Nella figura seguente è mostrata una figura di diffrazione alla Grimaldi: un filo metallico illuminato (la striscia bianca centrale) da un tenue raggio di luce origina le frange di diffrazione a destra e (maggiormente visibili) a sinistra del filo.

Tratta da Parker

Uno spillo di 0,05 mm di diametro fotografato a 35 cm di distanza. Lo spillo è chiaramente visibile al centro mentre alla sua destra e sinistra vi sono simmetricamente delle frange di diffrazione.
E Grimaldi esegue una gran quantità di esperienze in condizioni diverse ed in particolare trova che la luce subisce una sorta di deviazione quando incontra un ostacolo, tale che essa riesce a penetrare anche in zone dove non dovrebbe andare se vi fosse una mera propagazione rettilinea. Nella figura seguente è

mostrato che la luce che arriva ad un forellino, dal lato opposto fuoriesce “aprendosi”, fatto non comprensibile con la sola propagazione rettilinea a meno di ammettere ipotesi aggiuntive (in pratica l’immagine raccolta su uno schermo di un fascetto di luce che passa attraverso un forellino non è un’ombra netta meramente geometrica: si ha una immagine più chiara al centro con gli orli costituiti da cerchi concentrici che acquistano colorazioni rossastre).
Questa importante scoperta si accompagna alla netta ammissione di Grimaldi dei colori che fanno parte della luce ed in nessun modo possono essere pensati al di fuori di essa. La cosa gli proveniva proprio dalle colorazione delle frange alla quale abbiamo accennato. Inoltre, nella trattazione dei vari fenomeni luminosi, ad un certo punto vi è l’ammissione di luce intesa come una vibrazione (ondulatio) dell’elemento luminoso sottile che per di più deve essere trasversale. Questa cosa solleverà, più avanti e non a seguito del lavoro di

Le vibrazioni trasversali della luce come disegnate da Grimaldi
Grimaldi, vari e scandalizzati commenti. Studiò anche la diffrazione dovuta alla sovrapposizione delle immagini di due forellini su uno schermo, anticipando di oltre cento anni la scoperta dell’interferenza di Young.
Il lavoro di Grimaldi è molto ampio ed articolato ma il suo studio completo esula dalle intenzioni di questo lavoro(14).
HOOKE
Nel frattempo, a seguito delle vicende di Galileo, la ricerca scientifica si spostava sempre più a Nord. Dalla Francia di Cartesio passiamo all’Inghilterra che presto sarà di Newton. E per iniziare a parlare delle concezioni di Newton sulla luce è utile dare un cenno ad un lavoro di Hooke, la Micrographia del 1665.
Il libro di Hooke riporta in modo sistematico tutte le sue osservazioni con un microscopio del tipo di Galileo, che si era costruito, attraverso disegni fatti da un artista. Nel descrivere le sue scoperte microscopiche, Hooke espone in poche pagine le sue teorie sulla luce con particolare attenzione ai colori, ricavandone molte interessanti conclusioni. Egli era stato richiamato a questo dall’aver osservato, nel corso delle sue ricerche, delle colorazioni particolari di lamine sottili di mica, di bolle di sapone, di vetri in foglie sottilissime, di cui però non era riuscito a stabilirne lo spessore. Hooke riuscì comunque a stabilire molte condizioni in corrispondenza delle quali tali colorazioni divenivano evidenti Dalla presenza di queste colorazioni, delle quali Hooke fornisce una descrizione dettagliata, egli si convince dell’erroneità delle teorie di Cartesio ed in particolare del fatto che le colorazioni non possono essere originate da quelle rotazioni di particolari particelle delle quali ho discusso. Infatti Cartesio sosteneva che il colore nasceva in corrispondenza di una rifrazione ed invece spariva quando la luce subiva una doppia rifrazione (la prima in un senso e la seconda in senso contrario) ed Hooke mostra che le sue colorazioni nascono proprio in corrispondenza di questa doppia rifrazione.
Demolita la teoria di Cartesio (escluso il fatto di maggiore velocità di propagazione della luce in mezzi più densi, sul quale vi è accordo) Hooke propone la sua teoria che prevede la luce come un moto vibratorio della materia (anche se non parla di etere). Essa si propagherebbe in linea retta come raggi di sfere (si pensi al moto di onde generate da un sasso che entra in acqua) con velocità elevatissima ma non infinita. La luce è costituita da impulsi che viaggiano lungo questi raggi, tali impulsi saranno trasversali per la luce bianca e diversamente obliqui per la luce colorata ( dopo la eventuale dispersione dovuta a rifrazione la vibrazione diventerebbe obliqua rispetto al raggio):
«Il blu è un’impressione sulla rètina di un impulso di luce obliquo e complesso, in cui la parte più debole precede e la più forte segue. Il rosso è un’impressione sulla rètina di un impulso di luce obliquo e complesso, in cui la parte più forte precede e la più debole segue ».
Quindi per Hooke i colori sono della luce e non proprietà esterne ad essa. La teoria è di grande interesse anche se un poco oscura. Varie cose saranno chiarite in una corrispondenza polemica che dopo il 1672 ebbe con Newton. In queste lettere affinò la sua teoria della vibrazione ondulatoria della “perturbazione luminosa ” tanto da poter essere considerato un precursore della teoria ondulatoria della luce. Ma, nonostante le lodi di Huygens, non ebbe un gran seguito.
Quattro anni dopo la comparsa della Micrographia una nuova scoperta venne a complicare grandemente il problema della propagazione delle radiazioni luminose. Nel 1669 il medico e matematico danese Erasmus Bartholin pubblicò un lavoro (Erasmi Bartholinis experimenta crystalli islandici disdiaclastici, quibus mira et insolita refractio detegitur) .in cui è riportata una scoperta che avrà notevole importanza nell’interpretazione dei fenomeni luminosi: la birifrazione presentata dallo spato d’Islanda. Bartholin si rende ben conto dell’importanza dell’effetto da lui scoperto che cerca di spiegare, senza successo, con ipotesi corpuscolari.
RÖEMER
Sempre in quegli anni, nel 1676, si ebbe un’altra svolta fondamentale: l’astronomo danese Olaf Röemer provò sperimentalmente che la luce si propaga a velocità finita e ne fornì un primo valore. La determinazione di Röemer si basò sullo studio delle eclissi del satellite Io di Giove che si verifica ad intervalli regolari (in media ogni 42h 30′), però più lunghi nella metà dell’anno in cui la Terra si allontana da Giove. I ritardi erano stati osservati da Giovan Domenico Cassini direttore dell’Osservatorio astronomico di Parigi(15). Seguiamo la misura fatta da Röemer.
La situazione astronomica alla base della sua esperienza è illustrata, in figura (dove T1 , T2, …, sono successive posizioni della Terra nella sua orbita intorno al Sole cui competono, rispettivamente, le velocità v1,v2, …; analogamente G1,G2, …sono successive posizioni di Giove nella sua orbita intorno al Sole cui competono le velocità vg, infine I rappresenta il satellite di Giove, Io). La prima cosa da dire è che il piano dell’orbita di Io intorno a Giove coincide con quello dell’orbita di Giove e della Terra intorno al Sole. Stando

così le cose, Io si eclissa ad ogni sua rivoluzione intorno a Giove, cioè ad ogni tempo T che teoricamente dovrebbe essere costante (e certamente lo è se le osservazioni le eseguiamo da Giove).
Dallo studio delle innumerevoli precedenti osservazioni eseguite insieme a Cassini e da una idea che era stata dello stesso Cassini (1675), Röemer avanzò l’ipotesi che la luce avesse una velocità finita. Questa sembrava essere l’unica spiegazione che egli riusciva a trovare per le strane irregolarità nelle eclissi di Io. Cerchiamo di capire di cosa si tratta.
Ci sono dei periodi dell’anno in cui la Terra si trova più vicina a Giove, mentre in altri periodi la Terra si trova più lontana da questo pianeta. Tra queste due posizioni estreme della Terra rispetto a Giove vi sono, evidentemente, tutte le altre che la Terra occupa o in allontanamento o in avvicinamento a Giove. Ebbene, le osservazioni di Röemer e Cassini mostravano che, tra le due posizioni estreme della Terra rispetto a Giove (T1e T3 di figura), quando la Terra risultava in allontanamento da Giove (ad esempio: posizione T2 di figura) le eclissi di Io diventavano via via più lunghe; quando invece la Terra risultava in avvicinamento a Giove (ad esempio: posizione T4 di figura) le eclissi di Io diventavano via via più brevi. Questo fenomeno fu interpretato da Röemer come originato dal fatto che, durante l’allontanamento della Terra da Giove, ogni sparizione di Io nell’ombra di Giove ha luogo quando la Terra è più distante da Giove di quanto non lo fosse alla sparizione precedente e ciò significa che la luce per giungere sulla Terra deve percorrere una distanza maggiore.
Seguiamo il ragionamento di Röemer dalle sue stesse parole servendoci della figura seguente. Dice Röemer:
“Supponiamo che A rappresenti il Sole , B Giove, C il primo satellite quando entra nell’orbita di Giove, per uscire

nuovamente in D, e che EFGHLK rappresentino la Terra a differenti distanze da Giove.
Supponiamo ora che quando la Terra sta in L … il primo satellite si veda emergere in D; e che circa 42 ore e mezza più tardi, cioè dopo una rivoluzione di questo satellite, stando la Terra in K, si veda di nuovo il satellite tornare in D. E’ chiaro allora che se la luce richiede tempo per percorrere la distanza LK, il satellite sembrerà tornare in D più tardi di quanto non avrebbe fatto se la Terra fosse rimasta in K; in questo modo la rivoluzione del satellite, determinata dalle sue emersioni, sarà più lunga di tanto tempo quanto quello impiegato dalla luce per andare da L a K, e, al contrario, nelle altre posizioni FG, nelle quali la Terra va incontro alla luce, le rivoluzioni determinate mediante le immersioni [nelle zone d’ombra] sembreranno diminuite di tanto quanto le altre, determinate mediante le emersioni, sembravano aumentate…..
Questa differenza [del periodo di rivoluzione del satellite] che non è apprezzabile in due rivoluzioni, risulta molto considerevole quando se ne considerano varie insieme e, per esempio, quaranta rivoluzioni osservate dalla parte di F, sono sensibilmente più brevi di quaranta osservate dall’altro lato, qualunque sia la posizione in cui Giove si trovi; questa differenza vale 22 minuti per tutta la distanza HE, che è due volte la distanza della Terra dal Sole”.
I dati che Röemer aveva a disposizione erano quindi:
– il tempo (t = 22 minuti) che la luce impiega a percorrere il diametro dell’orbita della Terra intorno al Sole;
– il diametro (d = 28.1010 m) di questa orbita.
Il primo dato era stato ricavato dalle sue misure (il dato oggi più attendibile è t = 16 minuti e 36 secondi) mentre il secondo dato proveniva da osservazioni d’altro tipo che all’epoca si erano fatte (ad opera di Cassini e Richer si era trovato – 1673 – per d il valore d ≈ 280.000.000 Km; mentre il valore oggi comunemente accettato è d ≈ 299.000.000 Km).
La velocità della luce era quindi data da:
c = d/t = 28.1010 m/22.60 sec = 2,1.108 m/sec = 210.000 Km/sec
valore molto distante da quello che oggi si ritiene più vicino corretto (c = 2,997925.108 m/sec) ma molto vicino come ordine di grandezza.
A questo punto abbiamo tutta una serie di informazioni importanti provenienti da esperienze nei più vari campi. Gli studi sulla luce divengono sempre più articolati e siamo pronti per teorie complessive.
Vedremo nel prossimo capitolo i fondamentali lavori e di Newton e di Huygens.
NOTE
(1) Un discorso molto più completo sui caratteri del Cinquecento e del Seicento si può trovare qui.
(2) E’ d’interesse notare come un grande studioso di storia della tecnica come Friedrich Klemm dedichi molta attenzione al problema delle Chiese come fattore frenante o trainante. Scrive Klemm (pagg. 168-169):
Un fattore essenziale agli effetti dello studio della natura, della tendenza a padroneggiare la natura attraverso lo strumento tecnico, e del forte impulso economico determinatosi a partire dalla seconda metà del XVII secolo, va ricercato anche nell’etica essenzialmente pratica del calvinismo, nella sua esplicita applicazione alle cose del mondo. Nei paesi con popolazione totalmente o parzialmente calvinista (come i Paesi Bassi, l’Inghilterra, dove le chiese libere puritane attiravano particolarmente i ceti medi, e la Francia sino al 1685, dove gli Ugonotti erano molto attivi nel campo dell’economia), risultava particolarmente significativo. L’elemento calvinistico ha grande importanza anche nelle società scientifiche e nei giornali culturali dell’ultimo periodo del XVII secolo a cui abbiamo già accennato: si trattava insomma di forze religiose che svolgevano una forte azione nel campo della vita adiva. Ritorneremo ancora su questo punto. Nel XVIII secolo, in un periodo di piena laicizzazione, il momento religioso passò in secondo piano, e anche l’inclinazione metafisica propria dell’età barocca (che però si sposava sempre a un forte senso della realtà, dell’economia, della razionalità) lasciò il campo all’utilitarismo ed al razionalismo empiristico.
Ed aggiunge (pagg. 190-191):
Non tanto le tesi della più dotta teologia, quanto i precetti dell’etica pratica del tardo calvinismo, anche nel XVII secolo, ebbero un influsso stimolante sull’applicazione alle questioni scientifiche, tecniche ed economiche. Fu Max Weber che per primo additò nel 1904-1905 questa dipendenza fra l’etica calvinistica e lo sviluppo dell’economia. Troeltsch, Cunningham, Tawney, Muller-Armack ed altri dedicarono successivamente ulteriori ricerche a questo campo. Lecerf, e ancor pili acutamente Merton, hanno dimostrato in quale ampia misura l’etica calvinistica abbia dato impulso alla ricerca scientifica ed alla creazione tecnica.
Nella sua dottrina Calvino svolse fino alle più estreme conseguenze la teoria della predestinazione. Fra Dio ed il mondo esiste un abisso, che può essere valicato soltanto da Dio stesso. L’uomo è predestinato da Dio alla salvezza o alla dannazione. Né le buone opere, né la fede, né l’intercessione della Chiesa possono influire sulla decisione di Dio. All’uomo, la cui angosciosa domanda sulla salvezza della sua anima non può trovare risposta, restava soltanto la più rigorosa obbedienza ai comandamenti di Dio e l’incessante, faticoso lavoro in questo mondo. Il tardo calvinismo vide addirittura nel successo del lavoro su questa terra un segno esteriore di intimo stato di grazia. Si intendeva coronato dal successo quel lavoro che consisteva in un’incessante creazione di opere utili per il benessere degli uomini e per la gloria di Dio. In ciò consisteva l'”ascesi terrena” (Weber) del puritanesimo calvinistico. Questa concezione doveva portare anche ad una inclinazione favorevole per la ricerca scientifica e l’operosità tecnica. Il calvinismo rifiutava anche le idee platoniche: per le scienze naturali ciò significava via libera all’esperimento. Nel 1663, fra i sessantotto membri della Royal Society, che dava particolare importanza alla ricerca sperimentale, ben quarantadue erano puritani, come ha indicato il Merton;7 fra questi, S. Hartlib, Sir William Petty, Robert Boyle, D. Papin e T. Sydenham. Particolarmente nell’industria mineraria e siderurgica inglese, e pia tardi in quella tessile, gli imprenditori ed i tecnici puritani ebbero una parte preponderante.
(3) Vitellione è il polacco Witelo al quale ho accennato alla fine del Cap. 1.
(4) Poiché tutti parlano di questo esperimento di Galileo ma non gli danno che valore aneddotico, ritengo utile riportare le pagine (E.N. Vol. 8, pagg. 87-89) dei Discorsi in cui è trattato l’argomento.
SALV. Gli altri incendii e dissoluzioni veggiamo noi farsi con moto, e con moto velocissimo: veggansi le operazioni de i fulmini, della polvere nelle mine e ne i petardi, ed in somma quanto il velocitar co’ i mantici la fiamma de i carboni, mista con vapori grossi e non puri, accresca di forza nel liquefare i metalli: onde io non saprei intendere che l’ azzione della luce, benché purissima, potesse esser senza moto, ed anco velocissimo.
SAGR. Ma quale e quanta doviamo noi stimare che sia questa velocità del lume ? forse instantanea, momentanea, o pur, come gli altri movimenti, temporanea ? né potremo con esperienza assicurarci qual ella sia ?
SIMP. Mostra l’ esperienza quotidiana, l’ espansion del lume esser instantanea; mentre che vedendo in gran lontananza sparar un’ artiglieria, lo splender della fiamma senza interposizion di tempo si conduce a gli occhi nostri, ma non già il suono all’ orecchie, se non dopo notabile intervallo di tempo.
SAGR. Eh, Sig. Simplicio, da cotesta notissima esperienza non si raccoglie altro se non che il suono si conduce al nostro udito in tempo men breve di quello che si conduca il lume; ma non mi assicura, se la venuta del lume sia per ciò instantanea, più che temporanea ma velocissima. Né simile osservazione conclude più che l’ altra di chi dice : « Subito giunto il Sole all’orizonte, arriva il suo splendore a gli occhi nostri »; imperò che chi mi assicura che prima non giugnessero i suoi raggi al detto termine, che alla nostra vista ?
SALV. La poca concludenza di queste e di altre simili osservazioni mi fece una volta pensare a qualche modo di poterci senza errore accertar, se l’illuminazione, cioè se l’ espansion del lume, fusse veramente instantanea ; poiché il moto assai veloce del suono ci assicura, quella della luce non poter esser se non velocissima : e l’ esperienza che mi sovvenne, fu tale. Voglio che due piglino un lume per uno, il quale, tenendolo dentro lanterna o altro ricetto, possino andar coprendo e scoprendo, con l’interposizion della mano, alla vista del compagno, e che, ponendosi l’ uno incontro all’ altro in distanza di poche braccia, vadano addestrandosi nello scoprire ed occultare il lor lume alla vista del compagno, sì che quando l’ uno vede il lume dell’altro, immediatamente scuopra il suo; la qual corrispondenza, dopo alcune risposte fattesi scambievolmente, verrà loro talmente aggiustata, che, senza sensibile svario, alla scoperta dell’ uno risponderà immediatamente la scoperta dell’altro, sì che quando uno scuopre il suo lume, vedrà nell’ istesso tempo comparire alla sua vista il lume dell’ altro. Aggiustata cotal pratica in questa piccolissima distanza, pongansi i due medesimi compagni con due simili lumi in lontananza di due o tre miglia, e tornando di notte a far l’istessa esperienza, yadano osservando attentamente se le risposte delle loro scoperte ed occultazioni seguono secondo l’istesso tenore che facevano da vicino; che seguendo, si potrà assai sicuramente concludere, l’espansion del lume essere instantanea: che quando ella ricercasse tempo, in una lontananza di tre miglia, che importano sei per l’andata d’ un lume e venuta dell’ altro, la dimora dovrebbe esser assai osservabile. E quando si volesse far tal osservazione in distanze maggiori, cioè di otto o dieci miglia, potremmo servirci del telescopio, aggiustandone un per uno gli osservatori al luogo dove la notte si hanno a mettere in pratica i lumi; li quali, ancor che non molto grandi, e per ciò invisibili in tanta lontananza all’ occhio libero, ma ben facili a coprirsi e scoprirsi, con l’aiuto de i telescopii già aggiustati e fermati potranno esser commodamente veduti.
SAGR. L’ esperienza mi pare d’invenzione non men sicura che ingegnosa. Ma diteci quello che nel praticarla avete concluso.
SALV. Veramente non l’ho sperimentata, salvo che in lontananza piccola, cioè manco d’ un miglio, dal che non ho potuto assicurarmi se veramente la comparsa del lume opposto sia instantanea; ma ben, se non instantanea, velocissima, e direi momentanea, è ella, e per ora l’assimiglierei a quel moto che veggiamo farsi dallo splendore del baleno veduto tra le nugole lontane otto o dieci miglia: del qual lume distinguiamo il principio, e dirò il capo e fonte, in un luogo particolare tra esse nugole, ma bene immediatamente segue la sua espansione amplissima per le altre circostanti; che mi pare argomento, quella farsi con qualche poco di tempo; perché quando l’illuminazione fusse fatta tutta insieme, e non per parti, non par che si potesse distinguer la sua origine, e dirò il suo centro, dalle sue falde e dilatazioni estreme. Ma in quai pelaghi ci andiamo noi inavvertentemente pian piano ingolfando ? tra i vacui, tra gl’ infiniti, tra gl’ indivisibili, tra i movimenti instantanei, per non poter mai, dopo mille discorsi, giugnere a riva ?
(5) Sembra che agli stessi risultati di Snell sia giunto prima (1601) l’inglese Thomas Harriot. Anch’egli non pubblicò nulla ma fece conoscere i suoi lavori a Keplero che non ne fece nulla. Sembra anche che Harriot fu il primo a scoprire che l’indice di rifrazione di una sostanza dipende dal colore della luce. Il primo che ufficialmente scoprì la cosa fu Newton, sessant’anni dopo.
(6) Altro esempio in tal senso è quello di Tycho Brahe. Egli partiva da un pregiudizio che gli impedì di fare importanti passi in avanti. Le sue osservazioni, unite alla sua concezione di universo finito e relativamente limitato lo convinsero a non accettare il sistema copernicano. Se infatti l’universo è relativamente piccolo, le stelle sono “vicine” alla Terra che, secondo Copernico, si muove di moto circolare intorno al Sole. Se il sistema copernicano corrispondesse al vero, osservando le stelle dalla Terra in posizioni diametralmente opposte della sua supposta orbita, si dovrebbe avere quel fenomeno che va sotto il nome di parallasse stellare: osservando cioè le stelle dalla Terra in posizioni diametralmente opposte della supposta orbita , si dovrebbero vedere proiettate sulla volta celeste in posizioni, anche se di poco, diverse (unendo la stella osservata con quelle due posizioni della Terra si verrebbe a formare un angolo, chiamato di parallasse; poiché l’universo è piccolo, tale angolo deve essere tanto grande da poter essere misurato. Tycho non riuscì a misurarlo e ne concluse che la Terra è ferma. Il problema stava nella enorme distanza di una stella che rendeva quell’angolo così piccolo da non poter essere apprezzato dagli strumenti di cui Tycho disponeva. Occorreranno altri 300 anni perché una tale parallasse possa essere misurata). Per ammettere la non osservazione della parallasse bisognava ammettere che la distanza delle stelle dalla Terra fosse stata 700 volte la distanza tra Saturno ed il Sole, cosa che a Tycho sembrò impossibile. Questo fatto fece elaborare a Tycho un nuovo sistema astronomico, ibrido tra quello tolomaico e quello copernicano. La Terra risulta immobile al centro dell’universo mentre la Luna ed il Sole gli girano intorno. I pianeti, invece, ruotano tutti intorno al Sole.
(7) In Italia, in genere, vi è molto savoir faire che spesso è addirittura controproducente. Gli storici della scienza francesi (da Duhem a Koyré, ad esempio) hanno un tale intollerabile sciovinismo che avrebbero bisogno di essere riportati alla ragione con documenti. Una esemplificazione delle sciocchezze che sono in grado di mettere su l’ho data in Alcuni elementi di giudizio su Galileo e in Torricelli, il peso dell’aria ed il vuoto. Voglio ora aggiungere due considerazioni. La prima è relativa alla infinita gelosia che Cartesio aveva nei riguardi di Galileo e la cosa è documentata da una lettera di Cartesio a Marsenne del 1638 (E.N. Vol. 16, pagg. 124-125), nella quale, ad un anno della condanna di Galileo, Cartesio dice: che non ha preso nulla da lui, che non trova nulla nei suoi libri che gli faccia invidia, che non c’è nessuna cosa fatta da lui che vorrebbe confessare come sua, che le maree sono tirate per i capelli, molte cose che egli dice egli l’aveva già detto nel mio Il mondo, anche quella dimostrazione sulla caduta dei gravi … e la ripete dicendo delle clamorose sciocchezze e cioè che se in tre tempi un grave percorre un certo spazio, nel quarto percorre uno spazio uguale al già percorso.
Ma a parte questi pettegolezzi vi sono aspetti molto più importanti da sottolineare. Cartesio che resta un grandissimo matematico, nelle spiegazioni della filosofia naturale fa rientrare dalla finestra ciò che Galileo con estrema fatica aveva cacciato dalla porta: la metafisica. L’universo diventa una deduzione dalle sue elaborazioni teoriche. E le leggi particolari sono quelle perché Dio lo vuole. Una sorta di Aristotele aggiornato a duemila anni dopo che, naturalmente, trova inutile l’esperienza. In proposito Pitoni scrive (pagg. 147-150):
“107. Le conseguenze del sistema cartesiano non potevano essere che quelle stesse del metodo aristotelico ; per quanto il Descartes si voglia vantare come il « grande liberatore dell’intelligenza europea » (Buckle), come « colui che vide, per il primo, nell’intero universo, anche nei fenomeni vitali, soltanto materia e movimento » (Huxley). E valga il vero: nella 35a lettera al Mersenne, il Descartes sa che l’alcole e l’essenza di trementina sono più rifrangenti dell’acqua, per quanto più leggieri; ma non per questo volle modificare la sua teoria, secondo la quale la rifrazione cresce colla densità. Il Mersenne vuol pubblicare la notizia del telescopio a specchio, immaginato dallo Zucchi ; ma la cosa, secondo il Descartes, non è pratica, dunque non se ne farà di nulla. Una vescica chiusa si gonfiava quando veniva portata a grande altezza, perché, secondo i seguaci della scuola sperimentale, l’aria esterna era rarefatta; ma il Descartes aveva abbandonata la rarefazione, dunque, diceva il P. Mersenne, la spiegazione è falsa. Il Torricelli aveva dato la spiegazione esatta dei venti; questa par troppo semplice al Descartes, ed allora immagina che essi siano generati dalla dilatazione, agitazione, rotazione delle particelle di vapor acqueo. L’Alberti assegna la vera origine delle fonti ? Sono invece le acque del mare che s’infiltrano sotterra, evaporano fin sotto le cupole dei monti, si condensano e zampillano. Mersenne e Petit lanciano una palla con un cannone verticale, e non la vedono ricadere ? Il Descartes afferma che la palla è divenuta più leggiera ed ha fatto « come le cicogne, che volano più facilmente nelle alte regioni, che nelle basse ». Egli attraversa le Alpi ; ode lo strepito delle valanghe e lo assomiglia al fragore del tuono ? Il tuono è dunque prodotto dal cadere, rotolare, rimbalzare delle nubi, le une sulle altre. E si porrebbe continuare la raccolta, a dimostrare quale concetto avesse il Descartes delle prove di fatto, e come si giurasse in lui mentre prima si giurava in Aristotile. Cosa c’è dunque di comune fra il Galilei, per il quale il fatto è tutto e la teoria lo segue, sia pure che la ragione talvolta, cogli elementi sicuri già posseduti, intuisca e prevenga, e il Descartes? Se il Galilei avesse metodicamente raccolto tutte quelle sue preziose osservazioni, indicazioni, regole del modo di giungere alla verità, che sono sparse nei suoi molti scritti, pochi parlerebbero di Francesco Bacone. Se il Galilei avesse costituito un sistema, sia pur fantasioso, destinato a render ragione di tutto, a spiegare ogni cosa, in modo che gli sfaccendati avessero potuto con quattro premesse azzardarsi a trinciar sentenze sopra qualunque argomento, Renato Descartes avrebbe perduto molto della sua importanza.
Galileo precede il Locke ed afferma che ogni idea ci viene dai sensi. Il Descartes (Méditation), scrive invece, che le idee di molte cose (numeri, figura, movimento, ecc.) non si sono affatto sviluppate in noi per l’intermediario dei sensi e sono perciò necessariamente vere. Galileo in una lettera rimasta famosa, separa la ricerca del mondo sensibile dalla fede nell’ultra sensibile. Il Descartes non si sente mai perfettamente libero nei suoi pensieri, e se parla di cose scientifiche si premunisce contro le obiezioni di eresia ; e se parla di ricerche metafisiche, si colloca sotto la protezione dei decani della Sacra Facoltà di Teologia della Sorbona, quella stessa che per ordine del cardinale Richelieu aveva dichiarato falsa la dottrina del moto della Terra. Il Galilei ha un primo processo coll’Inquisizione, e poi viene colpito dal secondo e terribile ; e pure non si piega ma riesce di mandare alle stampe, con fatiche incredibili, l’ultima e più gloriosa opera sua. Il Descartes voleva trattare del sistema copernicano nel suo trattato De Mundi; ma dopo la condanna del Galilei stimò bene di non farne di niente. I teologi protestanti lo attaccarono e poco mancò che non facessero bruciare a Leida le opere sue per mano del boia; il fatto in Italia non era raro, ma i nostri non temevano, né cedevano : il Descartes invece, si rifugia a Stockolm. Né come indagatore, né come uomo si può il Descartes neppur lontanamente paragonare al Galilei.
E qual’è il suo valore nella meccanica? Basti, a giudicarne, ciò che il Descartes scrive in una sua lettera del 1640: se a sostenere un corpo posato su di un piano inclinato ci vogliono 40 libbre ed il corpo ne pesa 100, la pressione da esso esercitata sul piano sarà di 60 lb. Nei Principia phiosophica (1644), mentre ormai le idee esatte avevano pacifico dominio in Italia, sostiene, che se un piccolo corpo ne urta un altro grande ed in riposo torna poi indietro colla stessa velocità, mentre il corpo urtato rimane in equilibrio. L’esperienza, nei limiti stessi posti dal Descartes, era contraria ; nia il Descartes partiva dai suoi principii filosofici per arrivare a tanto, dunque non volle ricredersi. Il Duhem vuol fargli onore d’avere indicato chiaramente, che il principio delle velocità virtuali vale soltanto per tratti infinitesimi: ma questo concetto si trova affermato in molti punti dell’opere del Galilei.
Ma l’Italia, oramai divisa ed asservita, declinava politicamente e il suo popolo decadeva; la Francia invece sorgeva a dettare il gusto all’Europa, a imporle la sua lingua e i suoi autori; perciò il Descartes sarà il filosofo futuro e il Galilei, se non sarà dimenticato, passerà in seconda linea”.
(8) Leggiamo ciò che scrive Cartesio:
«Per poter fare un paragone vi invito a riflettere come la luce, nei corpi così detti luminosi, è soltanto un certo movimento o una azione molto rapida o mol-to viva che passa davanti ai nostri occhi per mezzo dell’aria o di altri corpi trasparenti, come il movimento o la resistenza dei corpi incontrati dal cieco passano verso la sua mano grazie al bastone. E ciò vi impedirà di considerare strano che la luce possa estendere i suoi raggi, in un solo attimo, dal sole fine a noi: sapete infatti che l’azione con cui si muove una delle estremità del bastone passa instantaneamente all’altra estremità, e la stessa cosa dovrebbe accadere anche se tra la terra e il cielo esistesse maggiore distanza di quanta ne esiste. E neppure vi stupirete vedendo, per mezzo suo, ogni specie di colore; potreste anche credere che nei corpi, così detti colorati, questi colori non sono che il diverso modo in cui i corpi ricevono e rinviano la luce verso gli occhi, pensando che per il cieco le differenze notate, mediante il bastone, tra alberi, pietre, acqua e altre simili cose, non sono molto rilevanti dalle differenze esistenti tra il rosso, il giallo, il verde e tutti gli altri colori. Ma le differenze in tutti questi corpi sono soltanto i diversi modi di muoversi o di resistere ai movimenti di quel bastone. E da ciò potrete dedurre che non è necessario supporre il passaggio di qualche cosa di materiale dagli oggetti agli occhi, per permetterci di vedere i colori e la luce: non è neppure necessario che in tali oggetti si dia qualche cosa di simile all’idea o ai sentimenti che ce ne facciamo, o per lo meno che nulla dei corpi sentiti dal cieco debba passare lungo il bastone fino alla mano, e che la resistenza o il movimento di quei corpi, unica causa dei sentimenti che prova, non abbiano alcuna somiglianza con le idee che se ne fa. Così il vostro spirito sarà liberato da tutte quelle immagini svolazzanti nell’aria, chiamate specie intenzionali, che tanto tormentano la immaginazione dei filosofi. E potrete anzi facilmente decidere, relativamente al luogo da dove l’azione proviene, quale sia la causa del sentimento della vista. Come il cieco può sentire i corpi che lo circondano, non soltanto per l’azione di quei corpi che si muovono contro il bastone, ma anche per l’azione della mano, quando questi corpi gli resistono, cosi anche gli oggetti della vista si possono sentire non soltanto per l’azione che, esistente negli occhi, tende verso essi. Tuttavia poiché questa azione non è altro che la luce, dobbiamo rilevare che può trovarsi soltanto negli occhi di quelli che vedono nelle tenebre della notte, come i gatti; quanto agli uomini, vedono generalmente soltanto per l’azione che viene dagli oggetti: infatti l’esperienza ci mostra che sono gli oggetti che devono essere luminosi o illuminati per essere visti, e non gli occhi per vederli…»
(Discorso primo)
Anche se questa posizione può sembrare ingenua, rappresenta una qualche novità. Infatti fino ad allora la luce era stata pensata bianca o incolore ed i colori erano caratteristiche dei corpi che non riguardavano la luce stessa. Si era all’epoca verificata una frattura nell’ambito della filosofia in senso lato: la luce era stata lasciata da studiare ai filosofi naturali (ai fisici) mentre i colori erano restati prerogativa dei filosofi in senso stretto. Uno degli ultimi filosofi che riprenderà la luce in modo estraneo alla fisica sarà Goethe.
(9) Di analogia ve ne anche un’altra che gli serve per spiegare la trasparenza dei corpi e la propagazione della luce nella materia. Si serve di un tino con due fori nel fondo pieno di grappoli ed acini d’uva. Quando si pigia il tutto dai fori esce del liquido. Ma non insisto troppo su queste cose perché poco chiare soprattutto in quanto manca ogni raccordo tra una analogia ed un’altra, cosicché non sappiamo bene, alla fine, come considerare la teoria della luce di Cartesio. Provo a spiegarmi. La pressione di una pallina sulla successiva (ad esempio nel tino) è una concezione che potremmo definire a contatto e comunque si tratta di trasferimenti di energia e non di materia. Il bastone e le palline scagliate sono azioni materiali. La seconda è corpuscolare. Tra l’altro come si raccorda una propagazione istantanea con una pallina di luce scagliata dal Sole ? Parker dice le cose seguenti (pag. 186):
«Si capisce il motivo per cui Cartesio si serve di analogie per spiegare i due modi così diversi che abbiamo di sperimentare la luce. Il primo è come un’illuminazione, originata da qualche sorgente, che riempie la stanza di luce. È possibile immaginare questo tipo di luce come una pressione o tendenza a muoversi. Il secondo è come un raggio attraverso il foro di un infisso, oppure il tipo di raggio che avevano usato i filosofi per spiegare la visione sin dai tempi di Alkindi. È difficile pensare in termini di pressione per un elemento così direzionato, è molto più semplice immaginarlo come un lancio di palline da tennis. Cartesio afferma nella sua comparazione che i modelli non sono inconciliabili e inventa una fisica della tendenza: si presume che le tendenze (qualsiasi cosa possano essere) si espandono nello spazio secondo percorsi simili a quelli che seguirebbero le palline da tennis. La discussione è in termini aristotelici: la tendenza a muoversi è la potenzialità, il moto è la realtà, ma la realtà è contenuta nella potenzialità e non vi è differenza nelle leggi che governano entrambe. E la nozione di luce come tendenza che si propaga nello spazio senza alcun moto ricorda la moltiplicazione delle species di Ruggero Bacone. Se ricordate, secondo Bacone si muovono come l’ombra si muove dietro all’uomo mentre cammina. Dentro l’armatura di un tale ragionamento c’era poco che Cartesio non potesse spiegare. Difatti l’analogia della pallina da tennis gli offre subito un felice appiglio. Colpite la pallina in modo da imprimerle un moto rotatorio. Nella luce, dichiara, la combinazione di moto lineare e rotatorio determina i colori, un concetto mai sostenuto da alcuna dimostrazione.
Nello spiegare la luce con tre paragoni che non hanno tra loro niente in comune e lasciano il lettore all’oscuro, Cartesio fa trapelare la sua educazione giovanile. … Il mondo medioevale concepiva l’intero creato come un sistema di analogie intese a insegnare all’umanità come vivere e conoscere Dio. Un argomento basato sull’analogia era considerato più che un semplice modo di esprimersi per immagini vivide, ma si correlava piuttosto in modo tacito o esplicito a un cosmo che era fondato sull’analogia. Non intendo affermare che Cartesio volesse giustificare in tal modo le sue teorie sulla luce, ma l’analogia permea tutto il suo pensiero. Eppure avrebbe potuto approfittare di un’osservazione semplice e saggia fatta da Aristotele: “Nell’inventare un modello possiamo presumere quello che vogliamo, ma dovremmo evitare l’impossibile”».
Sono spiacente ma queste cose vanno dette tutte. Provate a leggere i Koyré ed i Duhem o qualunque altro storico, fisico o epistemologo francese, non le troverete mai. In compenso troverete che il fondatore della meccanica è Cartesio e che Galileo non ha fatto praticamente nulla. Ora, provate a leggere Galileo e cercate di trovare un qualche discorso di questo tipo. Lo troverete certamente ma solo sulla bocca di Simplicio.
(10) La riflessione totale è discussa sperimentalmente nel modo seguente:
«Cosa che è stata sperimentata con disappunto, quando facendo sparare dei pezzi d’artiglieria, per giuoco, verso il fondo di un fiume, sono stati feriti coloro che erano dall’altra parte sulla riva».
(11) Shea afferma che questi ragionamenti di Cartesio furono copiati ad un tal Claude Mydorge che li aveva fatti tra il 1626 ed il 1631. Cartesio ne era venuto a conoscenza tramite il solito Padre Marsenne come risulta dalla corrispondenza di quest’ultimo.
(12) Cartesio non ne parla, perché aveva l’abitudine di utilizzare tutto ciò che gli serviva preso da chiunque senza mai citarlo, ma questa ammissione di velocità della luce maggiore in mezzi più densi nasceva da un’analogia che all’epoca era quasi generale: quella di suono e luce. Era ben noto che più il mezzo è denso più il suono si propaga velocemente. Questa analogia fu molto travagliata perché ad un certo punto, quando si iniziò a lavorare con le macchine da vuoto, ci si accorse che il suono non si propaga più in assenza di aria contrariamente alla luce. Ricordo in proposito l’invenzione del 1654 della prima macchina pneumatica, o pompa da vuoto, ad opera di Otto von Guericke (a seguito dell’esperienza di Torricelli del 1644). Perfezionata nel giro di poco tempo da personaggi come Boyle, Hooke, e Huyghens, la pompa permise di svolgere importanti esperimenti sulle proprietà dell’aria e del vuoto. Il primo che dimostrò che il suono non si propaga nel vuoto fu un discepolo ed amico di Galileo, Gianfrancesco Sagredo (l571-1620). Egli si serviva di una specie di campanello che era situato all’interno di una campana di vetro dalla quale l’aria veniva quasi completamente tirata via per mezzo di un forte riscaldamento. Fu proprio Torricelli a far notare che un raggio di luce, contrariamente al suono passa attraverso il vuoto.
Le parole usate da Cartesio per giustificare la cosa sono:
«Come una palla perde più del suo moto urtando contro un corpo molle che contro uno duro, e che essa ruzzola meno facilmente sopra un tappeto che sopra una tavola tutta nuda, così l’azione di questa materia sottile può essere impedita più dalle parti dell’aria, che, essendo come molli e sconnesse, non le oppongono molta resistenza, che non da quelle dell’acqua che gliene oppongono di più; e ancor più da quelle dell’acqua che da quelle del vetro o del cristallo…».
(13) Quelle che seguono sono le cose che Cartesio aggiunge:
«Quanto alla riflessione e alla rifrazione ne ho già trattato a sufficienza altrove [nella Dioptrique]. Tuttavia, dato che per rendere il mio discorso più comprensibile, invece di parlare dei raggi luminosi, mi sono servito allora come esempio del movimento di una palla, mi resta ora da richiamare la vostra attenzione sul fatto che l’azione o inclinazione a muoversi, trasmessa da un luogo a un altro mediante diversi corpi in contatto fra loro, che si trovano senza interruzione in tutto lo spazio posto fra i due luoghi, segue esattamente la stessa via attraverso la quale la medesima azione potrebbe far muovere il primo di questi corpi se gli altri non fossero sulla sua strada; con la sola differenza che al corpo, per muoversi, occorrerebbe del tempo, mentre l’azione che ha in sé può, per mezzo dei corpi che lo toccano, diffondersi istantaneamente a qualunque distanza. Ne segue che, come una palla, giocando a pallacorda, rimbalza se batte contro il muro, e subisce rifrazione se obliquamente entra nell’acqua o ne esce, così, anche i raggi della luce incontrando un corpo che non li lascia passare oltre devono subir riflessione, e quando entrano obliquamente in un luogo dove trovano maggiori o minori possibilità di diffusione rispetto a quello da cui escono, devono, nel punto dove il mutamento si verifica, deviare e subire rifrazione».
(13 bis) Una breve trattazione delle concezioni di Hobbes in relazione alla luce si trova in Hesse, Forze e campi, citato in bibliografia.
(14) Sul testo di Ronchi vi è la trattazione più diffusa che io conosca del lavoro di Grimaldi.
(15) Cassini era emigrato bel 1669 da Bologna a Parigi. Le osservazioni le faceva con strumentazione proveniente dall’Italia, le costruiva per lui un amico di Spoleto.
BIBLIOGRAFIA
(1) – Friedrich Klemm – Storia della tecnica – Feltrinelli 1966.
(2) – Vasco Ronchi – Storia della luce – Zanichelli 1928.
(3) – Max Caspar – Kepler – Dover 1993.
(4) – Federigo Enriques, Giorgio de Santillana – Compendio di storia del pensiero scientifico – Zanichelli 1979 (ristampa anastatica dell’edizione 1936).
(5) – David Park – Natura e significato della luce – McGraw-Hill 1998.
(6) – Ludovico Geymonat (a cura di) – Storia del pensiero filosofico e scientifico – Garzanti 1970.
(7) – Nicola Abbagnano (a cura di) – Storia delle scienze – Utet 1965.
(8) – René Taton (a cura di) – Storia generale delle scienze – Casini 1964.
(9) – Umberto Forti – Storia della scienza – dall’Oglio 1969.
(10) – Paolo Rossi (a cura di) – Storia della scienza – Utet 1988.
(11) – Galileo Galilei – Opere – Edizione Nazionale, G. Barbèra 1968.
(12) – Felipe Cid – Historia de la ciencia – Planeta 1979.
(13) – Richard S. Westfall – La rivoluzione scientifica del XVII secolo – il Mulino 1984.
(14) – Descartes – Discours de la méthode. Dioptrique. Météores – Flammarion 1966.
(15) – Gaukroger – Descartes: an intellectual biography – Clarendon Press 1995.
(16) – Geneviève Rodis-Lewis – Cartesio: una biografia – Editori Riuniti 1997.
(17) – Descartes – Il mondo. L’uomo – Laterza 1969.
(18) – Descartes – I principi della filosofia – Bollati Boringhieri 1992.
(19) – William R. Shea – The Magic of Numbers & Motion – Watson Publishing International 1991.
(20) – AA. VV. – Cartesio – ISEDI 1977.
(21) – Pierre Mesnard – Cartesio – Sansoni – 1972.
(22) – Descartes – Méditations métaphysiques – Flammarion 1979.
(23) – Descartes – Discourse on the Method – Enciclopaedya Britannica 1952.
(24) – S. Sambursky – The Physical World of Late Antiquity – Routledge & Kegan 1962.
(25) – S. I. Vavilov – L’occhio e il Sole – Feltrinelli 1959.
(26) – Salvo D’Agostino – Dispense di Storia della Fisica (a.a. 1972/73) – IFUR 1972.
(27) – Roberto Pitoni – Storia della fisica – S.T.E.N. 1913.
(28) – Mary B. Hesse – Forze e campi – Feltrinelli 1974.
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