Roberto Renzetti
Ho sempre sostenuto che uno dei mali del nostro Paese è la sua mancanza di memoria. Da vari anni si aggiunge a questa grave malattia una ignoranza crassa dei miei concittadini che non leggono più, non studiano più e vivono alla giornata sperando in un colpo di successo. Ciò che è peggio è la completa dedizione alla TV ed alla sua informazione. Così, alla fine noi abbiamo il buono e santo potere della Chiesa che non si mescola con le malvagità del mondo per pensare solo allo spirito, al bene, a cose non di questa terra. Più volte ed in più sedi ho provato a dire che l’origine secolare della gran parte dei mali che affliggono particolarmente l’Italia discendono direttamente dalla Chiesa, da questa organizzazione parassita che divora ogni ricchezza, che non paga ciò che dovrebbe che offre protezioni ad ogni criminale che ha agito contro l’umanità, in cambio di denaro e potere. I nostri padri risorgimentali avevano fatto una grande operazione nel ricacciare la Chiesa dentro le mura leonine. Abbiamo vissuto una sessantina d’anni di laicità sanissima. Ma poi l’altro Cavaliere, Benito Mussolini, nel 1929 faceva con quella Chiesa un Concordato che le ridava tutto il potere ed il denaro (con moltissimi interessi). E questo solo per avere sostegno al suo traballante potere. Il sostegno venne e la Chiesa divenne fascista. Vi sono filmati della CEI (fatti vedere in TV dalla trasmissione di cultura ebraica, che va in onda la notte, insieme ai film porno) in seduta plenaria che riceve Mussolini. Al suo ingresso in sala, tutti i cardinali scattano in piedi e salutano romanamente (agghiacciante!).
In nome di quella memoria, per chi è ancora in grado di leggere e capire, riporto alcuni articoli che documentano i crimini delle gerarchie della Chiesa, crimini in itinere e non chiusi in qualche angolo del passato. Giudicate voi ed approfondite quanto qui leggete andando a cercare notizie in libreria perché non ve le darà la TV (a parte Lucarelli e Minoli ma, anche loro, lavorano all’ora porno). Tanto per iniziare vi è un libro edito da Pironti (1989), In nome di Dio, e scritto da David A. Yallop.
IOR, ISTITUTO PER LE OPERE DI RELIGIONE
Lo IOR è la banca centrale del Vaticano ed è allo stesso tempo riconosciuto come un istituto di credito ordinario. E’ stato creato nel 1941 da PIO XII con la funzione di amministrare i capitali degli ordini religiosi, degli istituti religiosi maschili e femminili, delle diocesi, delle parrocchie e degli organismi vaticani di tutto il mondo. E’ una banca molto particolare, infatti non ha sportelli, in compenso ha molti clienti. Lo IOR è stato e continua ad essere molto ambito per chi possiede capitali che vuol far passare “inosservati”. I suoi bilanci sono noti solo al Papa e a tre cardinali. Lo IOR è il centro di una organizzazione mondiale di banche controllate dal Vaticano. Molto semplice è, attraverso lo IOR, qualsiasi trasferimento di denaro senza limiti ne’ di quantità né di distanza, con la garanzia della assoluta riservatezza. Per molto tempo a capo dell’Istituto e’ stato Paul Marcinkus, cardinale coinvolto in numerosi scandali.
La Banca Vaticana
Estratto dal libro: «Tutto quello che sai è falso», Nuovi Mondi Media
Di Jonathan Levy
Molti credono che la Banca Vaticana sia una leggenda; dopo tutto la Città del Vaticano – luogo di palazzi, musei e cattedrali – cosa se ne fa di una banca? Ma la Banca del Vaticano esiste nel cuore della Città del Vaticano (vicino a Porta Sant’Anna), in una torre chiusa agli estranei. Ufficialmente la Banca Vaticana è nota come l’istituto per le Opere di Religione o IOR. In ogni caso la religione ha ben poco a che fare con la Banca, a meno che ci si riferisca ai cambiavalute che si sono nella chiesa.
«E Gesù entrò nel Tempio di Dio, e scacciò tutti coloro che compravano e vendevano nel tempio, rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie di coloro che vendevano le colombe» [ Matteo 21:12, versione di Re Giacomo ]
Mentre i cambiavalute stavano semplicemente fornendo un servizio, in modo che le tasse del tempio potessero essere pagate, la Banca Vaticana è stata coinvolta in evasione fiscale, imbrogli finanziari e riciclaggio di oro nazista. Il Papa, come unico azionista della Banca Vaticana, è uno degli uomini più ricchi al mondo e, per associazione, uno dei meno etici.
La Banca Vaticana ha la particolarità di essere una delle istituzioni finanziarie più riservate al mondo. In realtà si sa molto poco di essa se non quelle poche informazioni che il Vaticano rilascia. (…)
I possedimenti della Banca Vaticana sono un assunto spinoso e apparentemente un grande mistero, sempre che si creda al Vaticano. Una delle autorità più affidabili era Padre Thomas J. Reese, SJ, autore, di parecchi libri riguardanti la Chiesa Cattolica, inclusi i bestsellers «Inside the Vatican» e «Archbishop».
Basandosi sulle sue interviste ai membri del Vaticano, Reese dedica un intero capitolo di «Inside the Vatican» alle finanze papali. Reese era abbastanza sicuro riguardo al fatto di chi possedesse la Banca Vaticana: «lo IOR è in un certo senso la Banca del Papa, che è il solo e unico azionista. Lo possiede, lo controlla» (…)
Maggiori informazioni riguardo lo IOR possono essere raccolte dalle cause civili e penali. Il Papa fondò il precursore dello IOR nel 1887, che si chiamava Commissione per le Opere Pie. Nel 1941 la Commissione fu trasformata nell’Istituto per le Opere Religione «a scopo di lucro» attraverso l’emissione di statuti promulgati con l’approvazione di Pio XII. Il nucleo centrale su cui lo IOR era fondato consisteva nei capitali della Santa Sede. L’eccedenza dei profitti, se ci fosse stata, sarebbe stata affidata alla Santa Sede; recentemente lo IOR è diventato sia una risorsa per i fondi operativi del Vaticano sia una passività corrente, come nel caso «Alperin contro la Banca Vaticana».
La posizione pubblica della banca è quella di esser sempre stata fedele al suo statuto ed esiste per servire la Chiesa, come previsto dalle norme della banca, chiamate chirografi. La Santa Sede è il governo ufficiale sia della Chiesa Cattolica di Roma sia della Città del Vaticano, un micro-stato completamente indipendente situato a ridosso del fiume Tevere, a Roma. La Città del Vaticano è sede di tre istituzioni finanziarie: l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (APSA), che funziona da Banca Centrale del Vaticano, il Ministero dell’Economia e la suddetta Banca Vaticana (IOR). La Città Stato del Vaticano – con una popolazione di soli 800 abitanti e un territorio di 441.000 mq – è la nazione più piccola del mondo e forse tre istituti finanziari così importanti potrebbero sembrare non sembrare necessari, ma la Santa Sede è anche il governo temporaneo di un miliardo di Cattolici in tutto il mondo e in quanto tale ha esigenze e obiettivi che non possono essere soddisfatti mediante istituti bancari convenzionali.
La Banca Vaticana non è responsabile né verso la Banca Centrale del Vaticano né verso il Ministero dell’Economia; infatti funziona in modo indipendente con tre consigli d’amministrazione: uno costituito da cardinali di alto livello, un altro costituito da banchieri internazionali che collaborano con impiegati della Banca Vaticana e per ultimo un consiglio d’amministrazione che si occupa degli affari giornalieri. Tali strutture organizzative così chiuse sono la norma nella Santa Sede e sono utili per mascherare le operazioni della Banca.
Lo IOR funziona come banchiere privato della Chiesa, dal momento che si adatta perfettamente alle esigenze di una Banca diretta dal Papa. Nonostante sia di proprietà del Papa, la Banca, sin dal proprio inizio, è stata più volte coinvolta nei peggiori scandali, corruzione e intrighi. Sotto felice auspicio, l’apertura della banca nel 1941 per ordine di Pio XII, altresì chiamato il Papa di Hitler, ha fornito convenienti sbocchi bancari ai fascisti italiani, all’aristocrazia e alla mafia. (…)
La Banca Vaticana afferma di non aver nessun documento relativo al periodo della Seconda Guerra Mondiale; infatti secondo il procuratore della Banca Vaticana, Franzo Grande Stevens, lo IOR distrugge tutta la documentazione ogni dieci anni, un’affermazione alla quale nessun banchiere responsabile crederebbe. Ciononostante, altre documentazioni esistono in Germania e presso gli archivi americani, che dimostrano i trasferimenti nazisti di fondi allo IOR dalla Reichsbank, e altri dallo IOR alle banche svizzere controllate dai nazisti. Un famoso procuratore specializzato nelle restituzioni dell’Olocausto ha documentato i trasferimenti di denaro dai conti delle SS a una innominata banca romana nel settembre 1943, proprio quando gli Alleati si stavano avvicinando alla città. (…)
Dalla fine degli anni Settanta, lo IOR era divenuto uno dei maggiori esponenti dei mercati finanziari mondiali. Sotto la tutela del vescovo americano (uno spilungone di 191 cm) Paul Marcinkus, il vescovo Paolo Hnilica, Licio Gelli, Roberto Calvi e Michele Sindona, la Banca Vaticana divenne parte integrante dei numerosi programmi papali e mafiosi per il riciclaggio del denaro, in cui era difficile determinare dove finiva l’opera del Vaticano e dove cominciava quella della mafia. Il Banco Ambrosiano dei Calvi e numerose società fantasma dirette dallo IOR di Panama e del Lussemburgo presero il controllo degli affari bancari italiani e funsero da canale sotterraneo per il flusso di fondi verso l’Europa dell’Est, in appoggio all’Unione nazionale anticomunista. Marcinkus, capo dello IOR, fu Direttore del Banco Ambrosiano (a Nassau e alle Bahamas), ed esisteva una stretta relazione personale e bancaria fra Calvi e Marcinkus. Sfortunatamente, molti di quelli coinvolti non erano solo collegati alla mafia, ma erano anche membri della famigerata loggia massonica P2, con il risultato finale della spartizione del denaro di altre persone, inclusa una singola transazione di 95 milioni di dollari (documentata dalla Corte Suprema irlandese).
Non appena le macchinazioni vennero a galla a causa di un errore di calcolo attribuito a Calvi, le teste cominciarono letteralmente a rotolare. L’impero bancario Ambrosiano fu destabilizzato da uno scontro ai vertici del potere interno, che coinvolgeva la Banca Vaticana, la Mafia e il braccio finanziario dell’oscuro ordine cattolico dell’Opus Dei.
L’Opus Dei, in ogni caso, decise di non garantire per il Banco Ambrosiano e Calvi fu trovato «suicidato», impiccato sotto il ponte di Blackfriars a Londra, con alcuni sassi nascosti nelle tasche, una scena ricca di simbolismo massonico.
IL CASO IOR
di Andrea Cinquegrani – tratto da www.lavocedellacampania.it
La proposta era davvero invitante: nelle austere e vellutate stanze del Vaticano si nascondeva la possibilità di un investimento finanziario a tassi astronomici. Interessi fino al tredici per cento senza alcun rischio per il capitale. Percentuali del diciotto per cento in occasione del Giubileo. Insomma, un vero affare. Del resto, chi non affiderebbe i propri risparmi nientemeno che a San Pietro, allo Ior, il celebre e talvolta famigerato istituto per le opere religiose che agisce sui mercati internazionali come vera e propria struttura di credito?
L’investimento, però, aveva bisogno di qualcuno interno al Vaticano: nello Ior, infatti, possono movimentare capitali solo appartenenti al clero o laici interni al piccolo stato cattolico. Una persona c’era, in effetti, e le credenziali erano di tutto rispetto. Tanto da indurre un agente immobiliare salernitano, benestante, figlio di un prefetto a riposo, a vendere alcuni appartamenti e a investire tutto il patrimonio nell’operazione.
Giovanni Rossi, 50 anni, celibe, di Salerno, non ci ha pensato due volte: ha preso il gruzzolo (circa un miliardo e mezzo di vecchie lire) e lo ha affidato (così dichiara in una denuncia presentata alla magistratura) a un dipendente del Vaticano, tale Domenico Stefano Licciardi, 65 anni, nativo di Ficarazzi (Palermo) e residente a Roma da molti anni. Sposato, tre figli, Licciardi lavora come ragioniere all’autoparco del Vaticano. E’ prossimo alla pensione ma quando è entrato in contatto con Rossi era ben inserito nell’ambiente ecclesiale: parente di alcuni sacerdoti, amico personale di volontari cattolici e persone importanti della gerarchia vaticana.
Secondo Giovanni Rossi, l’incontro con Licciardi ha rappresentato la sua rovina. In un voluminoso e documentato dossier l’agente immobiliare traccia la cronistoria di questo tormentato rapporto: ne è scaturita una denuncia per truffa presentata sia a Nicola Picardi (Promotore di Giustizia del tribunale vaticano) sia alla Procura della Repubblica di Roma. Dalla denuncia (di cui al momento non esistono ancora riscontri d’inchiesta, eccetto i documenti prodotti dallo stesso Rossi) emerge un quadro inquietante, che ricostruiamo attraverso la cronistoria messa nero su bianco dall’immobiliarista salernitano.
ASSEGNI & INTERESSI
“La formula – dice Rossi – era semplice: io fornivo a Licciardi i miei risparmi in decine di assegni circolari di piccolo taglio. Lui diceva di investirli allo Ior: come garanzia mi dava alcuni assegni bancari firmati da lui, senza data, con la cifra del capitale più gli interessi (tredici per cento). Restava inteso che non avrei incassato gli assegni senza prima avvertirlo. Se avessi voluto continuare l’investimento, lui avrebbe ritirato il vecchio assegno e me ne avrebbe dato uno nuovo; altrimenti, a suo dire, mi avrebbe restituito i soldi”.
Continua la minuziosa descrizione. “Licciardi utilizzava questo meccanismo già con mio padre, Pierino Rossi, prefetto in pensione, e con le sue sorelle, Orsola e Carmen, oltre che con mio zio Filippo De Iulianis, questore in pensione. Quando è morto mio padre, io e mia sorella Patrizia abbiamo ereditato circa 700 milioni, che erano in mano a Licciardi. Mia sorella si fece dare la sua parte, io decisi di lasciarla a Licciardi per proseguire l’investimento. La persona mi sembrava molto affidabile: mi riceveva a casa sua con tutti gli onori, era conosciuta nell’ambiente ecclesiale come uomo buono, generoso, disponibile; faceva catechesi: diceva di essere amico di monsignor Crescenzo Sepe, organizzatore del Giubileo, di monsignor Guerino Di Tora, direttore della Caritas di Roma e di altri prelati. Era impossibile non fidarsi di lui”.
“In prossimità del Giubileo – continua Rossi – nel periodo ’96 -’98 Licciardi mi prospettò la possibilità di un nuovo investimento per l’anno Santo, con interessi al diciotto per cento. Mi convinse così a vendere due appartamenti, uno a Napoli (Santa Lucia) e uno a Como. Gli consegnai circa 900 milioni delle vecchie lire, che avrei potuto ritirare con gli interessi solo dopo il Giubileo”.
“Questi soldi – continua Rossi – Licciardi li volle in assegni circolari di piccolo taglio, intestati anche a una lista di amici suoi. Tra questi mi fece intestare alcuni assegni a monsignor Di Tora e a Chiara Amirante, considerata una delle giovani più importanti e attive nel volontariato romano. Lui diceva che questi nomi erano la garanzia per me che si trattava di una cosa seria. Io, del resto, non ho mai avuto dubbi. Mio padre si fidava ciecamente di Licciardi e così le mie zie. Gli ho affidato i miei risparmi a occhi chiusi”.
Ma ecco che iniziano a sorgere i primi sospetti. Così continua la denuncia: “Ho cominciato a capire che c’era qualcosa di strano quando nel 1999 gli chiesi di chiudere l’investimento dei soldi di mio padre e di restituirmi i circa 300 milioni di lire. Ero convinto che non avrei trovato problemi a incassare gli assegni che avevo in mano, ma lui cominciò a chiedere rinvii, a trovare scuse. Mi convinse addirittura a fare un viaggio in Svizzera per prelevare i soldi da una banca, ma nulla. Erano viaggi a vuoto. Alle mie sollecitazioni, Licciardi prendeva tempo: firmava delle impegnative, riconoscendo il debito e dichiarandosi pronto a pagarlo a scadenze precise. Ma ad ogni scadenza, nulla. Quando ho cominciato a muovere seriamente delle rimostranze e a prospettare azioni legali ha cambiato atteggiamento nei miei confronti, ha cominciato addirittura a minacciarmi di morte, vantando amicizie nella malavita siciliana e romana. Queste minacce mi sono state mosse davanti a un testimone (di cui si fa il nome nel dossier-denuncia, ndr) e mi hanno ridotto a uno stato di grave prostrazione psico-fisica”.
Prosegue l’inquietante racconto di Rossi: “Quando, nel dicembre del 2001, stufo dei rinvii, ho deciso di rientrare in possesso di tutto il mio capitale, ho portato in banca gli assegni che mi erano stati dati in garanzia da Licciardi. Erano quattro assegni bancari: tre della Banca Nazionale dell’Agricoltura (agenzia 1, via Appia Nuova, Roma) e uno della Banca di Roma. L’importo complessivo era di più di due miliardi di vecchie lire, il capitale più gli interessi. Ho depositato gli assegni il 27 dicembre. Il 4 gennaio i notai Giuseppe Tarquini e Fabrizio Polidori di Roma hanno comunicato alla mia banca che gli assegni non erano incassabili: il conto della Banca Nazionale dell’Agricoltura (numero 954 t) era stato estinto alcuni anni prima, mentre sul conto del Banco di Roma non c’era sufficiente disponibilità rispetto agli importi”.
In pratica, “Licciardi risultava così protestato. E per me – denuncia ancora Rossi – svaniva la possibilità di rientrare in possesso dei miei soldi. Quell’investimento si è rivelato un raggiro che mi ha ridotto sul lastrico. Così mi sono deciso a sporgere denuncia”. Prima ha inviato una lettera a carabinieri, polizia e magistratura; poi un dossier al tribunale vaticano e alla procura di Roma. “Lo stesso hanno fatto le mie zie – aggiunge – vittime anche loro del tranello. Io in tutto ci ho rimesso un miliardo e mezzo, che sarebbero dovuti diventare, con gli interessi promessi, due miliardi e mezzo: speriamo di avere giustizia e di tornare in possesso dei nostri capitali”.
PROTAGONISTI IN CAMPO
Originario di Palermo, Domenico Stefano Licciardi è emigrato a Roma circa trenta anni fa: pare che un suo parente fosse dentro la gerarchia ecclesiale. Entrò in Vaticano, nell’autoparco, come ragioniere e divenne un attivista cattolico. E’ stato per molti anni uno dei fedeli più attivi della parrocchia di San Policarpo a Roma, nel quartiere di Cinecittà. “Noi lo conosciamo – racconta un sacerdote che sostituisce monsignor Antonio Antonelli, attuale parroco – ma è un po’ che manca dalle attività parrocchiali. So che nel passato ha fatto catechesi e che lavora in Vaticano”. “Mi sembra che un suo parente – aggiunge Giuseppe, un altro parrocchiano – sia stato parroco a Monreale, mentre un lontano cugino, che porta il nome di uno dei figli, era poliziotto, ma avrebbe avuto problemi con la giustizia”.
Licciardi è sposato con Ivana Ceccarelli, casalinga e ha tre figli: Settimio, macchinista delle ferrovie, Antonino, impiegato anch’egli in Vaticano, Franca, vigile urbano. La casa in cui i Licciardi abitano, a Cinecittà, è intestata a quest’ultima. La moglie di Licciardi, contattata telefonicamente dalla Voce, ha rifiutato ogni commento, ha negato ripetutamente la presenza del marito in casa. Modi decisamente più bruschi da parte dei figli Franca e Antonino, che alla richiesta di un colloquio per sentire la loro versione, hanno reagito duramente, interrompendo la comunicazione e rifiutando ogni contatto successivo.
Tra le amicizie vantate da Licciardi c’è quella con monsignor Guerino Di Tora. In effetti, Di Tora è stato per anni parroco di San Policarpo, prima di passare a reggere la Basilica di Santa Cecilia a Trastevere, una delle più importanti di Roma. Di Tora è personaggio di primo piano della chiesa capitolina. Attualmente è direttore della Caritas romana, subentrato a don Luigi Di Liegro.
E Di Tora è anche presidente di un fondo antiusura: si chiama “Salus Populi Romani”, ha sede nella capitale, a piazza San Giovanni in Laterano, ed è nato nel 1996. Dichiara di aver esaminato quasi 1400 casi e di aver concesso crediti personali per un importo di quattro miliardi e mezzo, con l’aiuto e le garanzie di due istituti di credito convenzionati. “La fondazione è un istituto a carattere regionale per prevenire il fenomeno dell’usura – spiega un operatore – concediamo prestiti alle persone che non potendo accedere al sistema bancario finirebbero facilmente nelle mani degli strozzini. Per coloro che già si trovano sotto usura aiutiamo a trovare il percorso per uscirne”. A Roma sono in funzione tre centri d’ascolto: uno di questi è proprio nella parrocchia di San Policarpo, quella dove svolgeva catechesi Licciardi.
A Di Tora risulta intestato uno degli assegni circolari con cui Rossi trasferiva il capitale a Licciardi. Sarebbe stato proprio quest’ultimo a fare il nome del monsignore e a chiedere all’agente immobiliare salernitano di intestargli un assegno. Il titolo è stato rilasciato il 22 ottobre 1996 dal Monte dei Paschi di Siena, agenzia 1 di Salerno, ed è stato girato per l’incasso dallo stesso Di Tora il 24 ottobre del ’96 presso il Credito Italiano, agenzia 2008 (nel dossier inviato alla Procura ci sono copie dell’assegno con la girata autografa di Di Tora).
Altri assegni risultano intestati e girati per incasso alla Elemosineria apostolica, a Mario Giamboni, a Chiara Amirante (fondatrice di alcune associazioni di volontariato e molto nota a Roma per la sua attività di recupero a favore di barboni e tossicodipendenti), Francesco Vigliarolo, Mario Napoleoni.
A dare il via all’investimento è stato il padre di Giovanni, Pierino Rossi, deceduto nel ’91, una carriera nella burocrazia, una lunga attività anche alle prefetture di Napoli e Como (da qui l’acquisto di case in queste città). La moglie, un’anziana signora, è in vita e risiede a Roma con la figlia Patrizia, che ha sposato un imprenditore romano, Lucio Tambescia. Il prefetto Rossi avrebbe cominciato nel 1986 a dare soldi a Licciardi, sperando in un buon rendimento. Licciardi gli era stato presentato dalle sorelle, che risiedevano a Roma e dal cognato, Filippo De Iulianis, questore in pensione, altro vicino di casa di Licciardi. Anche le sorelle Rossi avrebbero tentato l’investimento, senza fortuna.
Attualmente il dossier è nella mani del Tribunale vaticano, dove la pubblica accusa è retta dal cosiddetto Promotore di Giustizia, incarico ricoperto dall’avvocato marchigiano Nicola Picardi, docente universitario a Roma. Rossi si è appellato anche al cardinale Cerri, tesoriere dello Ior e alla commissione cardinalizia che ha accesso ai conti dell’Istituto. Il dossier denuncia è stato presentato anche alla Procura della repubblica di Roma, che è competente per territorio visto che Licciardi è cittadino italiano e risiede nella capitale. Spetterà a questi organismi fare luce nelle prossime settimane sull’ ennesimo intrigo targato Ior, che potrebbe anche estendersi e configurare un giro d’affari più ampio, gettando nuove ombre sul rapporto tra finanza e Vaticano.
MAI DIRE IOR
Dici Ior e pensi alle trame torbide della finanza degli anni Settanta e Ottanta. Monsignor Paul Marcinkus, Michele Sindona, Roberto Calvi: questi sono solo alcuni dei nomi che nella storia finanziaria italiana hanno incrociato destini e scandali con l’istituto per le opere religiose del Vaticano. Ma lo Ior emerge anche in altre inchieste giudiziarie, come quella, più recente, della Procura di Torre Annunziata su un traffico internazionale d’armi che vide coinvolti il leader nazionalista russo Vladimir Zhirinovski e l’arcivescovo di Barcellona Ricard Maria Charles.
Creato nel 1941 da papa Pio XII, lo Ior è una banca senza sportelli ma con mille ramificazioni. L’unica sede è nel Vaticano: vi si accede dalla Porta di sant’Anna, una delle quattro del colonnato di Bernini. Al Cortile di san Damaso si aprono quattro ingressi, uno di questi (il cortile del Maresciallo) conduce allo Ior. I locali interni sono sobri e silenziosi, animati da giovani seminaristi che raccolgono i sussidi per studiare o da suore che depositano i risparmi per i conventi. Come in tutte le banche che si rispettino i clienti di peso vengono ricevuti all’interno, nelle stanze della direzione.
L’Istituto è un organismo finanziario vaticano – secondo una definizione data dal cardinale Agostino Casaroli – ma non è una banca nel senso comune del termine. Lo Ior utilizza i servizi bancari, però l’utile non va, come nelle banche normali, agli azionisti (che nel caso dello Ior non ci sono) ma risulta a favore delle “opere di religione”.
A ogni cliente viene fornita una tessera di credito con un numero codificato: né nome né foto. Con questa si viene identificati: alle operazioni non si rilasciano ricevute, nessun documento contabile. Non ci sono libretti di assegni intestati allo Ior: chi li vuole dovrà appoggiarsi alla Banca di Roma, convenzionata con l’istituto vaticano. I clienti dello Ior possono essere solo esponenti del mondo ecclesiastico: ordini religiosi, diocesi, parrocchie, istituzioni e organismi cattolici, cardinali, vescovi e monsignori, laici con cittadinanza vaticana, diplomatici accreditati alla Santa Sede. A questi si aggiungono i dipendenti del Vaticano e pochissime eccezioni, selezionate con criteri non conosciuti.
Il conto può essere aperto in euro o in valuta straniera: circostanza, questa, inedita rispetto alle altre banche. Aperto il conto, il cliente può ricevere o trasferire i soldi in qualsiasi momento da e verso qualsiasi banca estera. Senza alcun controllo. Per questo, negli ambienti finanziari, si dice che lo Ior è l’ideale per chi ha capitali che vuole far passare inosservati. I suoi bilanci sono noti a una cerchia ristrettissima di cardinali, qualsiasi passaggio di denaro avviene nella massima riservatezza, senza vincoli né limiti. Si racconta, tra leggenda e realtà, che quando Giovanni Paolo II, dopo lo scandalo Calvi, chiese l’elenco di tutti i correntisti dello Ior, si sentì rispondere: “spiacenti, santità, ma la riservatezza dei clienti è sacra”.
Lo Ior, che ha una personalità giuridica propria, è retto da un “Consiglio di soprintendenza” controllato da una Commissione di cinque cardinali: si tratta del nucleo di vigilanza. I porporati, però, non hanno generalmente alcuna competenza finanziaria. Il loro dovrebbe essere un controllo morale. Un ruolo più tecnico è svolto dal “Consiglio di amministrazione” composto di cinque laici ed un direttore generale. L’Istituto intrattiene rapporti valutari e creditizi con clienti e banche italiane, opera attivamente sul mercato finanziario internazionale, gioca in borsa, investe, raccoglie capitali; tuttavia, come istituto estero, non è sottoposto ad alcun controllo da parte delle autorità di vigilanza italiane.
DA CARBONI A PISANU
Nella storia dello Ior entrano tutte le facce dell’Italia degli intrighi: oltre ai banchieri, anche faccendieri del calibro di Francesco Pazienza e Flavio Carboni. Quest’ultimo, piccolo imprenditore sardo all’epoca legato ad ambienti politici della sinistra Dc, amico di Armando Corona, repubblicano e Gran Maestro della Massoneria, socio del Gruppo editoriale l’Espresso, era bene introdotto in alcuni uffici vaticani e rappresentò il ponte tra Roberto Calvi, Vaticano e politica.
Carboni conobbe Calvi in Sardegna nel 1981 e riuscì presto a conquistare la fiducia del banchiere, mettendogli a disposizione le sue preziose conoscenze al governo, con in testa un sottosegretario, democristiano e anche lui sardo, Giuseppe Pisanu, che oggi ritroviamo, con abito nuovo, sotto le insegne di Forza Italia, a reggere il ministero dell’Interno.
In quel periodo, Calvi finì in carcere, tentò il suicidio, fu condannato a quattro anni ma tornò in sella al Banco Ambrosiano fino alla misteriosa morte: fu trovato impiccato sotto il ponte dei frati neri a Londra. Caso archiviato come suicidio, ma sempre avvolto nel mistero. Fino alle clamorose dichiarazioni rilasciate un paio di mesi dai familiari del banchiere, che escludono categoricamente il suicidio e con ogni probabilità porteranno a una riapertura del caso.
Così come misteriosa è la morte dell’altro “banchiere di Dio”, Michele Sindona, ucciso da una tazzina di caffè avvelenato nella sua cella del carcere di Palermo. Anche Sindona, negli anni Settanta e Ottanta, ha avuto strettissimi rapporti con lo Ior e il Vaticano. Il banchiere avrebbe conosciuto Paolo VI fin da quando questi era arcivescovo di Milano e sarebbe entrato nelle sue grazie fino a ricoprire un ruolo (ovviamente occulto) di primo piano allo Ior: il suo compito sarebbe stato quello di mettere a frutto tutte le sue conoscenze del mondo della finanza internazionale per trasformare lo Ior in un istituto capace di muoversi agevolmente nelle speculazioni borsistiche. Pare che Sindona abbia adempiuto a tale compito senza andare troppo per il sottile: e così sarebbero entrati nelle casse vaticane soldi senza colore e senza odore, provenienti da tutte le parti del mondo.
GLI AFFARI DI TOTO’
“Licio Gelli investiva il denaro dei Corleonesi di Totò Riina nella banca del Vaticano”. A dirlo non è una persona qualsiasi. È Francesco Marino Mannoia, pentito di mafia in tempi non sospetti. Ruppe gli indugi nel 1984, uno tra i primi con Masino Buscetta. Mannoia era uomo di fiducia di Stefano Bontate, ucciso per mano di sicari di Riina. Dopo l’omicidio di Bontate, Mannoia cercò il giudice Giovanni Falcone e cominciò a raccontare Cosa Nostra. La sua testimonianza fu preziosa nel primo maxi processo. Grazie a Mannoia alcuni boss vennero condannati all’ergastolo.
Quando Mannoia è stato chiamato, alcuni mesi fa, a deporre in video-conferenza dagli Stati Uniti, nell’ambito del processo a Marcello Dell’Utri, ha rivelato che “i soldi della mafia sono finiti per anni nelle casse dello Ior, che garantiva investimenti e discrezione”. Ovviamente era necessario un tramite, che per Mannoia era diverso a seconda dei rami della mafia siciliana. Secondo il pentito, i Madonìa erano in affari con Sindona, Riina con Gelli: uguale la destinazione dei capitali.
Mannoia, nella sua ricostruzione va oltre e dice: “Quando il Papa venne in Sicilia e pronunciò un discorso duro contro la mafia, scomunicando i mafiosi, i boss si risentirono soprattutto perché portavano i loro soldi in Vaticano. Da qui nacque la decisione di far esplodere due autobombe davanti a due chiese a Roma”. Vera o fantasiosa che sia l’ultima parte della dichiarazione (non esistono riscontri giudiziari), resta il fatto che ancora una volta lo Ior fa la sua comparsa sulla cronaca accoppiato a una trama oscura.
Monsignor mistero. La vera storia delle morti in Vaticano
Di Andrea Cinquegrani – “La Voce della Campania” – pubblicato su Nuovi Mondi Media
Vaticano in fibrillazione. Santa Sede sotto i riflettori. Torna alla ribalta la misteriosa – e mai chiarita – morte di papa Luciani dopo appena 33 giorni di pontificato. Ne parla Giovanni Minoli nella nuova serie di Mixer. Riaffiorano dubbi, incongruenze, versioni contrastanti, una verità ufficiale poco, pochissimo credibile. Un’autopsia mai fatta, rapide perizie nel segreto delle stanze vaticane, un cuore normale che improvvisamente cede; l’incredibile storia delle gocce di cardiotonico ingurgitate in eccesso dal papa, l’altra – invece – a base di una digitalina che non lascia traccia. Morto in piedi, oppure a letto? Mentre leggeva sacre scritture o abbozzava il nuovo organigramma dei vertici pontifici? Oppure cominciava a mettere nero su bianco le nuove regole da impartire a uno Ior recalcitrante davanti a ogni ipotesi di trasparenza, col ‘nemico’ Marcinkus sempre alacremente all’opera? E poi il sogno di una suora, ricordato in uno scritto da monsignor Balthazar: due ombre si introducono furtive nella camera da letto di Luciani e nel suo bicchiere fanno scorrere il liquido di una misteriosa pozione. Dall’Inghilterra, intanto, lo scrittore-giornalista David Yallop – autore per Tullio Pironti di una celebre ricostruzione di quella ‘morte’ – continua con pervicacia a sostenere la sua tesi: il papa venne ‘suicidato’.
Così come venne ‘suicidato’, sotto il ponte dei frati neri lungo il Tamigi a Londra, il patròn del Banco Ambrosiano, Roberto Calvi. L’inchiesta è riaperta, la famiglia dopo tanti anni vuole finalmente giustizia.
“Il rituale dell’esecuzione – scrive l’avvocato investigativo californiano Jonathan Levy nel volume Tutto quello che sai è falso edito in Italia da Nuovi Mondi Media – è tipicamente massonico, con delle grosse pietre nelle tasche”. E la matrice? Levy punta dritto in una direzione: quella dei poteri forti della Chiesa, rappresentati secondo lui dall’Opus Dei, che – scrive – “ha desiderato ardentemente la Banca Vaticana e i cui quartieri generali si trovano casualmente a Londra”.
La spiegazione, ricavata dalle conversazioni con un grosso banchiere internazionale, viene così sintetizzata: “Mi spiegò che la banca di Calvi era sull’orlo del collasso a causa della sparizione di centinaia di milioni di dollari passati attraverso i flussi finanziari dello Ior che erano collegati al riciclaggio di danaro della mafia. Preso dalla disperazione Calvi si trasferì a Londra per ottenere un pacchetto finanziario di salvataggio proveniente da un rappresentante anziano dell’Opus Dei”. L’operazione però, secondo la ricostruzione di Levy, non andò in porto e il corpo di Calvi fu trovato ‘appeso’ sotto il ponte dei Blackfriars.
L’altra pista porta direttamente alla mafia, che si sarebbe vendicata dell’affronto subito da Calvi, il quale non avrebbe restituito un’ingente somma di danaro da ‘ripulire’ (utilizzato invece per riossigenare le casse dell’Ambrosiano). Sul fronte dell’esecuzione, comunque, fa ancora capolino la pista di camorra: “nei giorni in cui Roberto Calvi era a Londra – ricordano a Scotland Yard – vennero segnalate diverse presenze interessanti: quella di Flavio Carboni e di alcuni camorristi, fra cui Vincenzo Casillo”. Luogotenente di Raffaele Cutolo, soprannominato ‘o nirone, in contatto con i servizi deviati e in particolare col faccendiere Francesco Pazienza, Casillo due anni dopo saltò per aria a Roma in un’auto imbottita di tritolo.
A fine settembre scorso, poi, due botti. A Londra la polizia decide di riaprire le indagini su quella morte, a Roma l’inchiesta portata avanti dai pm Luca Tescaroli (che ha già indagato sulla strage di Capaci) e Maria Monteleone (casi Mitrokin e “spectre” all’italiana) si arricchisce di una verbalizzazione esplosiva: un pentito di mafia, Vincenzo Calcara, per l’omicidio Calvi tira in ballo Giulio Andreotti, elementi deviati dello Stato e dei Servizi, massoneria e ambienti vaticani.
E sotto il Cupolone ci porta anche un’altra esistenza – e un’altra fine – avvolta nel mistero: quella di Giorgio Rubolino, morto in piena calura ferragostana, immediata la diagnosi d’infarto che non perdona, niente autopsia, funerali in pompa magna in Vaticano, poi il silenzio. Fino alla decisione dei magistrati romani, dopo neanche un mese, di vederci più chiaro, chiedendo la riesumazione del cadavere per poter effettuare una normale autopsia. Ma chi era Rubolino?
UNA VITA VORTICOSA
Il suo nome balza alle cronache nazionali per l’omicidio di Giancarlo Siani, il giornalista ucciso il 23 settembre 1985. Due anni dopo il procuratore generale del tribunale di Napoli, Aldo Vessia, avoca a sé l’inchiesta bollente, fino a quel momento capace solo di racimolare una serie di flop.
Vessia vola negli Usa, e interroga Josephine Castelli, un’avvenente bionda al centro di strani giri. Dopo un paio di mesi scattano le manette per il capoclan di Forcella Ciro Giuliano, per un ‘gregario’, Giuseppe Calcavecchia, e per un insospettabile, il ventiseienne Giorgio Rubolino, intimo di Josephine, una stirpe di magistrati nel pedigree (il padre è stato pretore a Torre Annunziata), già inserito negli ambienti che contano (fra le alte prelature soprattutto) e nella Napoli bene.
Per lui inizia il calvario, quattordici mesi nel carcere di Carinola, fino a quando una delle tante toghe che si sono alternate al capezzale di un’inchiesta che non riesce a decifrare colpevoli (esecutori e, soprattutto, mandanti), Guglielmo Palmeri – sorrentino d’origine e in ottimi rapporti con la famiglia Rubolino – lo rimette in libertà (due mesi prima erano stati rilasciati anche Giuliano e Calcavecchia). Cade il teorema Vessia, non regge l’ipotesi di un omicidio eseguito dai Giuliano su ordine dei Gionta di Torre Annunziata. E, soprattutto, sparisce la pista di via Palizzi. La pista che portava alla casa d’appuntamenti, frequentata da giovanissime squillo (tra cui Josephine e la sorella Pandora), e da vip della Napoli che conta: in primis, magistrati e politici.
Fra le toghe, spicca il nome di Arcibaldo Miller, per anni pm di punta alla procura di Napoli (sua la maxi istruttoria per il dopo terremoto finita in prescrizione per tutti) e oggi 007 di punta del guardasigilli Castelli. Lo stesso Miller – viene precisato in un documento al vetriolo elaborato dalla camera degli avvocati penali di Napoli nel 1998 – ha subìto un procedimento per “trasferimento d’ufficio” a causa di una serie di fatti, fra cui “l’aver frequentato una casa di appuntamenti gestita da pregiudicati affiliati alla camorra negli anni 1984-1985 in via Palizzi”. Lo stesso Miller seguirà il caso Siani: collaborerà proprio con Palmeri per cercare di sbrogliare quel pasticciaccio brutto. Sempre più brutto. E, soprattutto, sempre senza colpevoli.
DA ROMA A LONDRA
Torniamo a Rubolino. Riacquistata la libertà, non riesce però a ritrovare ancora la serenità. Vessia, infatti, ricorre contro la scarcerazione dei tre. Trascorre un anno e, a dicembre 1989, la Cassazione respinge il ricorso, confermando l’impostazione assolutoria di Palmeri. Il quale, però, non riesce ancora a dare un volto, e tanto meno un nome, ai colpevoli. Né agli esecutori, figurarsi ai mandanti.
Ma come era saltato fuori il nome di Rubolino per il caso Siani? Non solo dal filone di via Palazzi, ma anche in seguito alle primissime indagini sulle cooperative di ex detenuti che, proprio a partire dal 1985, a Napoli stavano aggregandosi e iniziando a bussare con forza ai portoni di palazzo San Giacomo.
Il Comune – allora retto dal socialista Carlo D’Amato – nell’autunno ’85 diede disco verde per l’ingresso fra i ranghi di ben 700 detenuti raggruppati in sei liste (“La carica dei settecento”, titolò la Voce in una cover story del dicembre 1985): nei mesi seguenti un putiferio, una fortissima polemica a sinistra, con una Lega delle cooperative alla deriva. “E’ in quel contesto che veniva fuori anche il nome di Rubolino – ricordano a palazzo di giustizia – una storia intricata, tra minacce, camorra, affari e promesse. Insomma, una vera giungla”. Rubolino, riuscì a cavarsela. “Ma non la smetteva di ficcarsi sempre in storie pericolose, sbagliate, comunque tra soldi, salotti e personaggi poco raccomandabili”.
Esce con la ossa rotte e il morale a terra, Rubolino, da queste vicende. Si trasferisce a Roma. “Ha cercato di buttarsi tutto alle spalle e ricominciare da capo. Ce l’ha messa tutta. Ha fatto anche un sacco di opere di bene, volontariato, assistenza”, racconta un amico. “Non c’è riuscito a rompere col passato – aggiunge un operatore finanziario capitolino – aveva perso il pelo ma non il vizio, continuava a frequentare ambienti dai miliardi facili e spesso inesistenti”. Due versioni contrastanti.
Un perverso destino, comunque, sembra perseguitarlo. Nel 1999 ri-finisce nelle galere, questa volta londinesi, per una presunta truffa da 100 milioni di sterline ai danni di una vera e propria istituzione britannica, la Cattedrale di San Paolo. Il classico ‘pacco’ organizzato secondo il miglior copione di Totò formato fontana di Trevi: siamo venuti qui (i Magi sono cinque, due italiani, un finlandese, un canadese e un americano) per donarvi la bellezza di 50 milioni di sterline. Unica piccola, microscopica condizione, quella che voi depositiate per dieci giorni, appena dieci giorni, il doppio, ovvero 100 milioni, su un conto svizzero. Nessuno li toccherà quei soldi, assicurano.
La truffa non riesce, i cinque finiscono in gattabuia, lui, Rubolino, viene messo in libertà e prosciolto da ogni accusa. Anche la procura di Napoli, che si era accodata con un suo filone investigativo, lo scagiona. E lui avvia un procedimento per ottenere un indennizzo per quella ingiusta detenzione. “Ne aveva raccolti, comunque, di soldi per le denunce fatte contro alcuni giornalisti che lo avevano accusato per Siani – ricorda un amico – soldi che donò in beneficenza”.
STANLEY & PROMAN
Un anno fa la svolta sembra dietro l’angolo. Decide di cominciare a far sul serio l’avvocato e, quindi, di iscriversi al consiglio dell’ordine di Roma. Raccoglie la documentazione, presenta la domanda, altra delusione: c’è ancora una pendenza con la giustizia, per via di un procedimento non ancora chiuso, millantato credito. “Non è cosa – raccontano ancora nel suo entourage – non è cosa, ha pensato. Ed è ripiombato nei suoi problemi, nella sua tristezza di prima, quando subiva accuse e attacchi”. La voglia di business, comunque, non lo abbandona: per lui è una seconda pelle, una droga, non può farne a meno.
Ed eccolo entrare nei santuari della finanza, acquisire partecipazioni azionarie, frequentare il mercato ristretto e la City.
Un bel giorno, diventa il padrone di una misteriosa sigla, Proman. A quel punto, le voci cominciano a rimbalzare. Perché lui risulta “intestatario fiduciario”. Di chi, di cosa?
Ma vediamo cosa è Proman. A quanto pare si tratta di una società a responsabilità limitata. Nel suo portafoglio spicca una partecipazione di lusso, il 25 per cento delle azioni Stayer, una grossa sigla nel settore elettrico, avamposti a Ferrara e Rovigo, interessi in mezzo mondo. Un’altra consistente fetta di Stayer – pari al 29 per cento del pacchetto azionario – fa capo a Efi, ovvero European Financial Investments, a sua volta controllata da un’altra sigla, Danter.
Efi, dal canto suo, naviga in acque agitate, trovandosi in amministrazione controllata, per i problemi finanziari che stanno passando i fratelli Bergamaschi, suoi soci di riferimento, e un pignoramento azionario effettuato da un creditore, la Euroforex. E’ per questo motivo che l’assemblea straordinaria di Stayer convocata lo scorso 27 agosto per deliberare l’aumento di capitale a 10 milioni di euro, è saltata. Ma non solo per questo. Ecco cosa scrive, proprio quel giorno, un dispaccio dell’agenzia Reuter: “Il 26 agosto scorso Stayer ha ricevuto una comunicazione dall’intermediario presso cui sono depositati i titoli che informava del decesso di Rubolino e affermava che i diritti sulla partecipazione spettano ai suoi eredi.
Stayer – viene aggiunto nel comunicato – non sa se e come Proman intende resistere contro questa posizione dell’intermediario”.
Resta il mistero Proman. Nei cervelloni Cerved, collegati con tutte le camere di commercio italiane, non v’è traccia di Proman spa. Né si segnala alcuna Proman nel cui carniere figuri una qualsiasi partecipazione azionaria di Stayer. Un bel rebus. Val la pena, comunque, di scorrere la lista dei soci targati Stayer. A parte due medi azionisti (Gianfranco Fagnani e Roberto Scabbia), fanno capolino quattro sigle. A parte un’italiana (BSPEG SGR spa, una società di gestione del risparmio privato, con 140 mila azioni), le altre tre sono estere. Le quote minori fanno capo a Electra Investiment Trust Plc (26 mila azioni) e a Power Tools International (30 mila azioni). A far la parte del leone c’è Ipef Parters Limited (664 mila azioni), sigla londinese.
Osserva un operatore finanziario milanese: “Potrebbe esserci la presenza di Ipef nell’azionariato di Proman. Il mistero comunque è fitto”. E resta un mistero, per ora, la destinazione finale delle azioni Proman: rimarranno nelle mani delle due sorelle di Rubolino, o che fine faranno? E cosa c’è dietro il reticolo di sigle, incroci azionari, spesso e volentieri giocati oltremanica? Un gioco forse pericoloso?
Il 28 luglio scorso, poi, l’infarto. Una vita stroncata a 42 anni, dopo un’inutile corsa all’Aurelia Hospital, “dove però è giunto privo di vita”, commenta in un dettagliato reportage il Mattino. L’autopsia – scrive il solerte cronista, Dario Del Porto – “ha chiarito immediatamente la natura del malore”. E a scanso di equivoci aggiunge: “Del caso pertanto non è stata neppure interessata la procura di Roma”. E ancora, ad abundantiam: “sulle ultime ore dell’uomo non sembrano esserci misteri. Rubolino è stato colpito da un arresto cardiocircolatorio manifestatosi durante la notte nell’abitazione della capitale dove si era trasferito ormai da anni”.
Altri commenti nel racconto della cerimonia funebre – che si è svolta nella chiesa di Sant’Anna dei Palafrenieri, l’unica parrocchia dello Stato Vaticano – per la penna di un vaticanista doc, Alceste Santini. “Si può, quindi, dire che Giorgio Rubolino ha avuto il privilegio di avere avuto la celebrazione delle esequie, non solo in una chiesa ambita da molti nei momenti di gioia o di dolore come nel suo caso, ma in un luogo, qual è lo Stato Città del Vaticano, in cui la penitenza si intreccia con il perdono come sofferente superamento dei peccati e degli atti illeciti commessi nella vita”.
Equilibrismi logici e sintattici a parte, Santini riesce comunque a porsi qualche interrogativo. Per celebrare in Sant’Anna ci vuole la chiave giusta: “occorre una particolare autorizzazione – scrive Santini – ciò rivela che chi ne ha fatto richiesta aveva ed ha entrature nel mondo vaticano. I parenti? Gli amici? Non è dato saperlo”. Avvolti nel dubbio amletico, riusciamo però a sapere che fra le personalità presenti alla cerimonia c’erano “i parenti e gli amici di Giorgio, fra cui il senatore a vita Emilio Colombo e altri esponenti della borghesia napoletana”.
A officiare la messa funebre il cappellano delle guardie svizzere, Alois Jehle.
CASO SIANI A SENSO UNICO
Caso Siani. Chiuso per sentenza. La Cassazione ha ormai inchiodato i colpevoli dei clan torresi che – secondo la ricostruzione del pm Armando D’Alterio – decisero ed eseguirono quell’omicidio. Una volta tanto, la parola fine. Tutto chiaro, allora? Molti dubbi restano in piedi. Vediamo quali.
Il movente. Debole. Debolissimo. Un articolo scritto mesi prima. “Per punire lo sgarro”, hanno spiegato gli inquirenti. “In quell’articolo Siani faceva capire che i Nuvoletta avrebbero tradito i Gionta. Per mettere le cose a posto e recuperare l’onore, la cosa andava lavata col sangue”. Credibile? Possibile che una camorra allora più che mai rampante avesse deciso di tirarsi addosso riflettori, inquirenti, forze dell’ordine?
Un articolo non (ancora) scritto è molto più pericoloso di uno già scritto. Non ci vuole la maga per intuirlo, solo un minino di fiuto e buon senso. Quello che non sembra aver smarrito Amato Lamberti, presidente della Provincia di Napoli e a quel tempo (siamo nel 1985) responsabile dell’Osservatorio sulla camorra, avamposto, in quegli anni, per scrutare, capire e radiografare i movimenti, le mutazioni e le infiltrazioni della Camorra spa. Lamberti fu l’ultima persona a sentire Giancarlo, avevano appuntamento per la mattina dopo, ma “lontani dal Mattino”, come raccomandava Giancarlo. Un appuntamento andato a vuoto, perché la sera prima l’abusivo e ormai prossimo praticante giornalista veniva freddato a bordo della sua Mehari in piazza San Leonardo al Vomero, a un passo da casa. “Non era particolarmente preoccupato – ricorda Lamberti – però doveva dirmi una cosa che gli premeva. Ed era urgente. Stava lavorando ad un’inchiesta per la rivista dell’Osservatorio sugli intrecci politica-affari-camorra nell’area torrese. Uno dei grossi affari, allora, era rappresentato da un’area, il quadrilatero delle carceri. E lui stava mettendo il naso in quei rapporti, sia sui referenti locali, che su quelli più in su, di imprese e camorristi”.
A corroborare la tesi di Lamberti, un docente universitario, Alfonso Di Maio, padre di uno dei pm più in vista, oggi, alla procura di Salerno. La Voce lo intervistò dieci anni fa. “Avevo incontrato diverse volte Giancarlo in quegli ultimi mesi – affermava Di Maio – stava lavorando, mi raccontava, a una grossa inchiesta sugli appalti nell’area stabiese. In particolare, voleva capire se dietro al paravento di un’impresa ci fosse lo zampino di qualche politico eccellente e operazioni di riciclaggio della camorra”. Il nome dell’impresa era Imec (del gruppo Apreda, poi acquirente addirittura della Buontempo Costruzioni Generali), quello del politico Francesco Patriarca, ras gavianeo della zona, ex sottosegretario alla marina mercantile. Di Maio cercò di raccontare quei fatti alla magistratura. Senza riuscirci. “Mi presentai in procura. Parlai col dottor Arcibaldo Miller. Mi disse che ne avrebbe riferito al dottor Guglielmo Palmeri che seguiva di persona l’indagine. Sono andato due volte in procura, dietro appuntamento, ma non sono stato mai ricevuto. Allora non mi fu data la possibilità di verbalizzare quel che sapevo sulle ultime settimane di Siani”. Parole dure come pietre. Mentre decine e decine di testi hanno fatto passerella davanti alla mezza dozzina e passa di toghe che si sono alternate al capezzale di un processo quasi impossibile.
Del resto, é lo stesso fratello del cronista, Paolo, pediatra, a rivelare qualche ombra nell’inchiesta, un ‘buco nero’ rimane ancora oggi lì a lasciare spazio ai dubbi. “Giancarlo lascia la redazione di Castellammare – ricorda – va in cronaca di Napoli, scrive sempre meno di Torre ma si interessa sempre più della ricostruzione post terremoto e dei rapporti camorra-appalti. Stava preparando un libro e i materiali, dopo la sua morte, sono spariti”. Una ricostruzione che lega perfettamente con quelle di Lamberti e Di Maio.
Altri, però, ancora oggi in procura storcono il naso. “C’era un’altra pista, battuta soltanto in fase iniziale. E solo parzialmente. E’ la pista di via Palizzi, la casa di appuntamenti, i suoi segreti forse inconfessabili. Tanti anni fa ne parlò esplicitamente Corrado Augias nel suo Telefono GialloŠ poi il silenzio più totale”.
Chissà se il regista Marco Risi, arrivato un paio di volte a settembre a Napoli per completare il copione del film su Giancarlo (ispirato in parte a “L’abusivo”, il libro di Antonio Franchini, sceneggiatura dell’esperto di misteri Andrea Purgatori, ex Corsera), riuscirà a vedere oltre i muri di gomma che ancora circondano quella tragica morte. “Emerge – dice Risi alla Voce – un delitto tuttora carico di misteri e interrogativi rimasti senza risposta, nonostante i processi e le sentenze. Questa sarà la chiave del mio film su Giancarlo”.
GUARDIE E KILLER
Primavera vaticana ’98. Tre morti avvolte nel mistero. Sono le nove di sera e una suora – sulla cui identità verrà sempre mantenuto il più stretto riserbo – entra nell’alloggio di servizio del neo comandante delle Guardie Svizzere, Alois Estermann. Davanti ai suoi occhi una scena raccapricciante: tre corpi, in un mare di sangue, massacrati da revolverate. Quello di Estermann, di sua moglie Gladys Meza Romero e del vice caporale Cedric Tornay.
Ecco come ricostruisce i primi momenti dopo la scoperta Sandro Provvisionato, scrittore e giornalista, nel suo sito Misteri d’Italia. “Tra i primi ad arrivare sul luogo sono il portavoce del papa, Joaquin Navarro Valls, laico di origine spagnola, membro numerario dell’Opus Dei; monsignor Giovanni Battista Re, sostituto delle segreteria vaticana; e monsignor Pedro Lopez Quintana, assessore per gli Affari generali della Segreteria di Stato vaticana. La scena del delitto non viene sigillata, anzi già alla 21 e 30 sono decine le persone che si aggirano tra i cadaveri. Elementi di prova importanti vengono rimossi o spostati.
A differenza di altri episodi avvenuti all’interno del perimetro vaticano, come l’attentato al Papa, nessuna richiesta di collaborazione viene inoltrata alle autorità italiane. Delle indagini si occupa il Corpo di Vigilanza Vaticana. Prima ancora dell’arrivo del magistrato, il Giudice Unico Gianluigi Marrone che arriva sul posto un’ora dopo, mani ignote hanno già provveduto a perquisire non solo l’ufficio, ma anche l’appartamento di Estermann e l’alloggio di Tornay. Quando i corpi verranno rimossi, non sarà adottata alcuna precauzione utile alle indagini. Anche l’autopsia sui tre cadaveri si svolgerà all’interno delle mura vaticane”.
Detto fatto, non passano nemmeno tre ore – siamo a mezzanotte – e l’infaticabile Navarro Valls può sentenziare: “I dati finora emersi permettono di ipotizzare un raptus di follia del vice-caporale Tornay. E’ tutto molto chiaro, non c’è spazio per altre ipotesi”. Caso dunque chiuso in 180 minuti, per Valls. Uno 007 perfetto, capace anche di estrarre dal magico cilindro la prova delle prove: una lettera, nientemeno che una lettera d’addio, affidata qualche ora prima (le 19 e 30, precisa Navarro) a un commilitone dal folle vice-caporale con una lacrima e queste parole: “Se mi succede qualcosa, consegnala ai miei genitori”.
Spiega il portavoce-detective nella rapidissima conferenza stampa, che risolve a tempi di Guinness una matassa altrimenti destinata a intrecciarsi negli anni: la missiva – precisa – è stata consegnata al Giudice Marrone, il quale la darà ai parenti di Tornay in arrivo a Roma. “Spetterà ai familiari del vice caporale – aggiunge Valls – decidere se rendere noto il contenuto della lettera oppure no”. Commenta Provvisionato: “Nella fretta l’astuto portavoce della Santa Sede non si rende conto di aver commesso un errore macroscopico. Come si può conciliare un raptus di follia con una lettera scritta almeno un’ora e mezza prima dello stesso raptus? Spesso la fretta è cattiva consigliera”.
Intanto circola già qualche indiscrezione sull’imminente uscita del nuovo libro-choc di Ferdinando Imposimato (autore, con Provvisionato, del volume d’inchiesta sullo scandalo Tav). Al centro, rivelazioni sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, figlia di una guardia vaticana. Che secondo l’ex magistrato, sarebbe ancora viva.
Fonte: “La Voce della Campania”, ottobre 2003
«I soldi di Riina riciclati in Vaticano»
http://old.lapadania.com/1998/luglio/09/090898p02a4.htm
Lo Ior – dichiara Marino Mannoia – incassò i miliardi di Cosa Nostra
Francesco Marino Mannoia non è un pentito qualsiasi e non fu nemmeno un mafioso qualsiasi. La sua collaborazione con la giustizia avvenne in epoche non sospette. Era il 1984 quando questo boss intimo di Stefano Bontate, morto da tre anni per mano di sicari di Riina, decise di rompere il muro dell’omertà per confessare a Giovanni Falcone ciò che sapeva di Cosa Nostra. La sua testimonianza fu preziosa nel primo maxi processo. Grazie a Mannoia – le cui dichiarazioni furono oggetto di dettagliatissimi riscontri del pool di Caponnetto – alcuni padrini vennero condannati all’ergastolo, moltissimi mafiosi a pesanti pene detentive. Ebbene, due giorni fa a Palermo proprio Mannoia, interrogato in video-conferenza dagli Stati Uniti ove di trova sotto protezione federale, nell’ambito del processo a Marcello Dell’Utri, ha dichiarato: «Licio Gelli investiva il denaro dei Corleonesi di Totò Riina nella banca del Vaticano (lo Ior -ndr)». Poi ha aggiunto che questa notizia la apprese dal suo capo di allora, Bontate, che gli raccontò come Pippo Calò e i Madonia fossero in affari con Gelli che riciclava i loro capitali usando lo Ior. Mannoia, infine, ha concluso la deposizione dicendo: «Come Bontate e Inzerillo avevano Sindona, gli altri avevano Gelli». Questa tremenda ricostruzione fatta dall’ex braccio destro del capo dei capi della mafia siciliana offre una spiegazione – fra l’altro – alle auto-bomba fatte esplodere dalla mafia a Roma davanti a due chiese nell’estate del 1993. Papa Wojtyla, ricorderete, aveva da poco pronunciato in Sicilia un vibrante atto d’accusa contro Cosa Nostra scagliando la scomunica sui mafiosi. Ma come, si saranno detti i boss. Prima incassate i nostri soldi, poi ci bollate in eterno? No! Vendetta! Quando si osserva, in ultimo, che una delle esplosioni devastò la basilica del cardinale Ugo Poletti, tutti i tasselli vanno al loro posto.
Ambrosiano
Tratto da “Soldi: il libro nero della finanza internazionale”
Nella mattina del 18 giugno 1982 viene scoperto il corpo dei banchiere milanese Roberto Calvi, a capo dei Banco Ambrosiano, impiccato a una impalcatura sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra. Le tasche del suo elegante vestito sono riempite di pietre e di denaro d’ogni sorta di valuta. Durante gli anni, la tesi dei suicidio sarà difesa con ostinazione, malgrado il parere contrario della maggioranza degli investigatori della prima ora.
Nato nel 1920, Roberto Calvi era entrato in servizio all’Ambrosiano nel 1946. Alla fine degli anni ’60 aveva conosciuto il “banchiere della mafia” Michele Sindona, e le relazioni d’affari tra i due erano divenute fiorenti. Nel 1975 Calvi viene eletto presidente del consiglio d’amministrazione dell’Ambrosiano. Lo stesso anno diventa membro della loggia P2, che era stata creata da Licio Gelli e di cui faceva parte pure Michele Sindona.
Nel Lussemburgo ritroviamo Calvi non solamente nelle holding dei gruppo Ambrosiano, ma anche come membro dei consiglio d’amministrazione della Kreclietbank Luxembourg (che occupa, in Cedel, un posto di primo piano). D’altra parte, la principale loggia massonica lussemburghese lo accetta tra le sue fila, mentre rifiuta l’ammissione a Michele Sindona sapendo che questi era stato condannato in Italia nel 1976 e che era stato arrestato negli Stati Uniti.
Il Banco Ambrosiano, la cui creazione risale al 27 agosto 1896, era tra le numerose banche private italiane legate al Vaticano. Raccomandata alla protezione di Sant’Ambrogio, la banca non si era mai particolarmente distinta per i suoi affari. Quando la Santa Sede aveva cercato di eludere la legislazione bancaria italiana – e in particolare le restrizioni che riguardavano le operazioni di cambio sul mercato delle valute – i molto venerabili finanzieri del Vaticano avevano utilizzato le filiere mafiose di Sindona per istradare grosse somme fuori dal Paese, sotto il naso di tutti gli organismi di controllo.
All’interno dei Vaticano, è l’Istituto per le Opere di Religione (IOR) spesso chiamato la “Banca del Vaticano”, che organizza questo traffico. Alla testa dello IOR, l’arcivescovo Marcinkus aveva, in un primo tempo, utilizzato le filiere offerte da Sindona. Poi, quando quest’ultimo era diventato meno frequentabile, a seguito dei suoi debiti con la giustizia, si era servito di Roberto Calvi e della sua banca. All’inizio degli anni ’70, Marcinkus prese una decisione le cui ripercussioni e successive conseguenze avrebbero potuto, da sole, suffragare la tesi che voleva che Papa Giovanni Paolo I, il “Papa del sorriso”, fosse stato assassinato. Marcinkus aveva in effetti ordinato l’arresto delle attività della Banca Cattolica del Veneto e la sua integrazione all’interno dell’Ambrosiano, senza né consultare né informare il consiglio d’amministrazione della banca così assorbita. Ora, la Banca Cattolica del Veneto era la banca privata al servizio del patriarca di Venezia e il suo presidente non era nientemeno che Albino Luciani, futuro Papa Giovanni Paolo I.
Il Vaticano si è evoluto: da gestore di anime ed elemosine, essendo stato espropriato e avendo visto il proprio patrimonio ridotto alla più semplice espressione dopo le confische di cui fu vittima nel corso del Risorgimento, a partire dal 1870 la Santa Sede è diventata una potenza finanziaria che gestisce fortune tanto colossali quanto discrete nell’economia mondiale. “Immaginare il Papa come una specie di presidente del consiglio di sorveglianza può scioccare qualcuno, ma non dobbiamo dimenticare che il Vaticano è un’istituzione vecchia di tanti secoli che, per quanto riguarda il denaro, ha sempre saputo essere all’altezza dei tempi”.
Non si tratta che di giustizia se, durante la grande crisi economica e finanziaria degli anni ’20, il Vaticano rischiò il fallimento. Dopotutto, quelli erano i tempi! Già nel 1880, l’aristocrazia e l’alta borghesia romane, che avevano tradizionalmente degli stretti legami con la Chiesa, avevano creato il Banco di Roma a unico vantaggio dei Vaticano. Il suo scopo: riacquistare, con un plusvalore sostanziale, i terreni e gli immobili da cui il Vaticano doveva separarsi per mantenere liquidità. Inoltre questa banca doveva acquisire delle partecipazioni maggioritarie, in vista della successiva cessione al Vaticano, nelle società di servizi urbani (acqua, gas, elettricità, trasporti pubblici … ). Inutile dire che, dopo diciotto anni di favoritismo nei confronti dei Vaticano, la banca si trovò rovinata nel 1898.
Il deus ex machina delle finanze vaticane, Bernardino Nogara, salvò la Banca di Roma dal fallimento. La manna celeste che permise ai finanzieri del Vaticano di risorgere a miglior fortuna arriverà tra le righe dei Patti Lateranensi, conclusi nel 1929 con Mussolini. Nel quadro di questi accordi, la Chiesa ricevette un’indennità di 90 milioni di dollari a riparazione per i beni immobiliari confiscati dallo Stato dal 1870 e per la perdita dei suo potere secolare.
Questo denaro venne affidato a un genio della finanza, Bernardino Nogara, ex vicepresidente della Banca Commerciale Italiana. Nel 1968, dieci anni dopo la morte di Nogara e quaranta anni dopo i Patti Lateranensi, le varie partecipazioni del Vaticano nell’industria, nella finanza e nei servizi venivano stimate in otto miliardi di dollari. La massima di Nogara era semplice ed efficace: “Il programma d’investimenti del Vaticano non dovrà essere ostacolato da considerazioni religiose”. I suoi “eredi” l’hanno, dalla sua morte, applicata alla lettera – ma con più o meno scrupoli.
Dopo Nogara, il Vaticano ricorse ai servizi di Sindona e poi, quando questo divenne non più frequentabile, a quelli di Roberto Calvi. Bisognerà attendere il fallimento dell’Ambrosiano, che seguirà la morte di Calvi, per scoprire l’implicazione colossale del Vaticano negli affari illeciti operati da Sindona e Calvi. Sindona morirà assassinato nella sua cella nella prigione di Voghera il 22 marzo 1986, dopo aver bevuto una tazza di caffè avvelenato con il cianuro. Sindona e Calvi non sono che due dei cadaveri eccellenti di questa vicenda.
Lo strano caso della morte di Albino Luciani
A cura di Giuseppe Ardagna
Il 26 Agosto del 1978 Albino Luciani divenne ufficialmente Vescovo di Roma (cioè fu eletto Papa) e successore di Paolo VI. In Vaticano, parecchie persone non erano contente dell’elezione di Luciani al soglio pontificio ma, forse, il più scontento di tutti era monsignor Marcinkus che fino all’ultimo istante aveva sperato nell’elezione del candidato Giuseppe Siri.
Ma chi era questo Marcinkus? Era una delle pedine fondamentali di quella partita a scacchi che da anni si giocava fra Vaticano e grandi banche e che metteva in palio la possibilità di vedere il proprio capitale aumentare sempre di più[1]. Marcinkus era il più alto in grado all’interno dello I.O.R., l’Istituto per le Opere Religiose. Egli intuì immediatamente i pericoli dell’elezione di questo pontefice che, sin dai suoi primi discorsi, aveva lasciato chiaramente intendere di voler far tornare la chiesa cattolica a quegli ideali di carità cristiana propri del primo cattolicesimo, rinunciando alle ricchezze superflue che troppo avevano distolto gli uomini di chiesa dai propri sacri compiti. Figuratevi il capo della banca vaticana come avrebbe mai potuto vedere un tipo del genere sul più alto gradino del proprio stato…
Marcinkus diceva ai suoi colleghi: «Questo Papa non è come quello di prima, vedrete che le cose cambieranno»[2].
Su due punti Luciani sembrava irremovibile: l’iscrizione degli ecclesiastici alla massoneria, e l’uso del denaro della chiesa alla stregua di una banca qualunque[3]. E l’irritazione del Papa peggiorava al solo sentire nominare personaggi come Calvi e Sindona dei quali aveva saputo qualcosa facendo discrete indagini[4].
In coincidenza con l’elezione di Luciani venne pubblicato un elenco di 131 ecclesiastici iscritti alla massoneria, buona parte dei quali, erano del Vaticano. La lista era stata diffusa da un piccolo periodico «O.P. Osservatore Politico» di quel Mino Pecorelli destinato a scomparire un anno dopo l’elezione di Albino Luciani in circostanze mai chiarite.[5] Secondo molti, O.P. era una sorta di «strumento di comunicazione» adoperato dai servizi segreti italiani per far arrivare messaggi all’ambiente politico. Pecorelli, tra l’altro, era legato a filo doppio con Gelli come lo erano Sindona e Calvi[6].
Ma, tornando alla lista ecclesiastico-massonica, questa comprendeva, fra gli altri, i nomi di: Jean Villot (Segretario di Stato, matr. 041/3, iniziato a Zurigo il 6/8/66, nome in codice Jeanni), Agostino Casaroli (capo del ministero degli Affari Esteri del Vaticano, matr. 41/076, 28/9/57, Casa), Paul Marcinkus (43/649, 21/8/67, Marpa), il vicedirettore de «L’osservatore Romano» don Virgilio Levi (241/3, 4/7/58, Vile), Roberto Tucci (direttore di Radio Vaticana, 42/58, 21/6/57, Turo).[7]
Di Albino Luciani cominciò a circolare per la curia l’immagine di uomo poco adatto all’incarico, troppo «puro di cuore», troppo semplice per la complessità dell’apparato che doveva governare.
La morte subitanea, dopo trentatre giorni di pontificato, suscitò incredulità e stupore, sentimenti accresciuti dalle titubanze del Vaticano nello spiegare il come, il quando ed il perché dell’evento. In questo modo, l’incredulità diventò prima dubbio e poi sospetto. Era morto o l’avevano ucciso?[8]
Fu detto all’inizio che Luciani era stato trovato morto con in mano il libro «l’imitazione di Cristo», successivamente il libro si trasformò in fogli di appunti, quindi in un discorso da tenere ai gesuiti ed infine, qualche versione ufficiosa volle che tra le sue mani ci fosse l’elenco delle nomine che il Papa intendeva rendere pubbliche il giorno dopo.[9]
Dapprima, l’ora della morte fu fissata verso le 23 e, quindi, posticipata alle 4 del mattino. Secondo le prime informazioni, il corpo senza vita era stato trovato da uno dei segretari personali del Papa, dopo circolò la voce che a scoprirlo fosse stata una delle suore che lo assistevano. C’erano veramente motivi per credere che qualcosa non andasse per il verso giusto.
Qualcuno insinuò che forse sarebbe stato il caso di eseguire un’autopsia e questa voce, dapprima sussurrata, arrivò ad essere gridata dalla stampa italiana e da una parte del clero. Naturalmente l’autopsia non venne mai eseguita ed i dubbi permangono ancora oggi.
Di questo argomento si occuperà approfonditamente l’inglese David Yallop, convinto della morte violenta di Giovanni Paolo I.
Il libro dello scrittore inglese passa in rassegna tutti gli elementi di quel fatidico 1978 fino a sospettare sei persone dell’omicidio di Albino Luciani: il Segretario di Stato Jean Villot, il cardinale di Chicago John Cody, il presidente dello I.O.R. Marcinkus, il banchiere Michele Sindona, il banchiere Roberto Calvi e Licio Gelli maestro venerabile della Loggia P2.[10]
Secondo Yallop, Gelli decise l’assassinio, Sindona e Calvi avevano buone ragioni per desiderare la morte del Papa ed avevano le capacità ed i mezzi per organizzarlo, Marcinkus sarebbe stato il catalizzatore dell’operazione mentre Cody (strettamente legato a Marcinkus) era assenziente in quanto Luciani era intenzionato ad esonerarlo dalla sede di Chicago perché per motivi finanziari si era attirato le attenzioni non solo della sua chiesa ma addirittura della giustizia cittadina e della corte federale. Villot, infine, avrebbe facilitato materialmente l’operazione[11].
La ricostruzione fatta da Yallop degli affari di Sindona, di Calvi, di Gelli e dello I.O.R., conduce inevitabilmente all’eliminazione del Papa.
Tuttavia la ricostruzione dello scrittore inglese pone alcuni problemi, primo fra tutti la netta sensazione che, in alcuni passi della ricostruzione, gli episodi, le date e le circostanze, tendano ad «esser fatte coincidere» troppo forzatamente.
Tuttavia il lavoro investigativo di Yallop è comunque buono e non si può non tener conto del lavoro dell’inglese soprattutto considerando il fatto che troppi sono i dubbi inerenti le ultime ore di vita del Papa.
Perché e soprattutto chi ha fatto sparire dalla camera del Papa i suoi oggetti personali? Dalla stanza di Luciani scompariranno gli occhiali, le pantofole, degli appunti ed il flacone del medicinale Efortil. La prima autorità di rango ad entrare nella stanza del defunto fu proprio Villot, accompagnato da suor Vincenza (la stessa che ogni mattina portava una tazzina di caffè al Papa) che verosimilmente fu l’autrice materiale di quella sottrazione.
Perché la donna si sarebbe adoperata con tanta solerzia per far sparire gli oggetti personali di Luciani? Perché quegli oggetti dovevano sparire?
Domande destinate a restare senza risposta anche in considerazione del fatto che la diretta interessata è passata a miglior vita.
Una curiosità per chiudere l’argomento: sulla scrivania di Luciani fu trovata una copia del settimanale «Il mondo» aperta su di un’inchiesta che il periodico stava conducendo dal titolo: «Santità…è giusto?» che trattava, sotto forma di lettera aperta al pontefice, il tema delle esportazioni e delle operazioni finanziarie della banca Vaticana. «E’ giusto…» recita l’articolo «…che il Vaticano operi sui mercati di tutto il mondo come un normale speculatore? E’ giusto che abbia una banca con la quale favorisce di fatto l’esportazione di capitali e l’evasione fiscale di italiani?»[12].
[1] Matillò R.D., L’avventura delle finanze Vaticane,Ed.Pironti, Napoli, 1988 ;
[2] Ibidem
[3] Ibidem
[4] Ibidem
[5] Ardagna G., La scoperta della lista P2 nella stampa italiana,Napoli, 2004;
[6] Ibidem
[7] Matillò R.D., L’avventura delle finanze Vaticane, Ed.Pironti, Napoli, 1988;
[8] Ibidem
[9] Ibidem
[10] Yallop D., In God’s name, Ed.Pironti, Napoli, 1992;
[11] Ibidem
[12] Ibidem
Da “Il manifesto” del 18 Febbraio 2000:
VATICANO
A SAN PIETRO L’ORO DI PAVELIC
Duemila sopravvissuti al genocidio del regime ustascia fanno causa allo
Ior: rivendicano il tesoro depositato, o donato per grazia ricevuta, da
Pavelic al Vaticano
– MARCO AURELIO RIVELLI –
Una bomba che esplode scuotendo il Vaticano: George Zivkovich, classe 1937, serbo di religione ortodossa, residente in California, si è recentemente rivolto ai tribunali americani citando in giudizio la Santa Sede, e più precisamente l’Istituto per le opere di religione, lo Ior, cioè la banca vaticana già protagonista di numerosi scandali negli ultimi
decenni. Zivkovich, che, ragazzo, era scampato al genocidio serbo perpetrato dagli ustascia croati negli anni 1941-1945, rivendica il tesoro che l’ex dittatore Ante Pavelic aveva lasciato in custodia, o donato per grazia ricevuta, al Vaticano nel ’45. Lo affiancano nell’azione giudiziaria circa 2.000 compatrioti.
Il regime ustascia, portato al governo in Croazia in quegli anni, grazie all’invasione delle forze dell’Asse, fu il più feroce espresso dai nazifascisti. Più feroce ancora di quello hitleriano, ed è tutto dire: in quello stato che contava poco più di sei milioni di abitanti, un terzo dei quali serbi di religione ortodossa, gli ustascia massacrarono un milione di
questi unitamente a 50 mila ebrei e 30 mila zingari, cioè il 20 per cento della popolazione. All’eccidio parteciparono numerosi sacerdoti e frati cattolici con la complicità di vescovi, con la connivenza del Primate, arcivescovo Stepinac, recentemente beatificato, il tutto con l’implicito beneplacito di Pio XII.
Crollato il suo regno, Pavelic scappò insieme ai suoi gerarchi e a 500 religiosi cattolici fra i più compromessi nell’eccidio, trovando rifugio a Roma dove visse per tre anni nascosto nel Collegio di San Girolamo degli Illirici, in Via Tomacelli, edificio protetto dalla extraterritorialità vaticana. Non giunse a mani vuote, ma, come tutti gli ospiti che si
rispettino, portò un dono: l’oro, i gioielli e i titoli rapinati alle vittime. Anche a Stepinac aveva lasciato un presente, trentasei casse d’oro, che l’arcivescovo si fece incautamente scoprire un anno dopo dal governo di Tito. Il Vaticano ricambiò il munifico omaggio facendo fuggire questo criminale in Argentina nel 1949, vestito in abiti talari e munito di
adeguato passaporto. Con le stesse modalità la Santa Sede aiutò a fuggire duecento ustascia e cinquemila delinquenti nazisti, l’aristocrazia del crimine, fra i quali il Dottor Mengele, Walter Rauff, Adolf Eichmann, Erick Priebke, Franz Stangl. A capo dell’Organizzazione di soccorso vaticana, che attivò quella che gli alleati denominarono rat line, la via dei topi, vi erano Draganovic, monsignore ed ex colonnello ustascia, e il vescovo Alois Hudal, titolare in Roma della chiesa di Santa Maria dell’Anima, uomo di
fiducia di Papa Pacelli. Le memorie di Hudal pubblicate in tedesco dopo la sua morte, rappresentano la più dettagliata documentazione della via dei topi: “compito svolto per incarico del Vaticano”, come egli afferma.
Dell’oro croato nascosto in Vaticano correvano voci fin dall’immediato dopoguerra nell’ambiente dei servizi segreti. Gli ustascia emigrati in Argentina si confidarono con le autorità di quel paese, attivando la stessa Evita Peron, subito partita per l’Italia allo scopo di convincere Pio XII a rispettare gli impegni presi con Pavelic di restituirgli una parte del
bottino. Evita tornò a Buenos Aires a mani vuote perché l’oro non era stato restituito, ma affidato in gestione al vescovo Alberto di Jorio, presidente dello Ior, e al suo alter ego Bernardino Nogara.
La regia vaticana nella via dei topi viene documentata per la prima volta da un rapporto – top secret – inviato il 15 maggio 1947 dall’addetto militare Usa a Roma Vincent LaVista, al Segretario di Stato americano George Marshall, che dettaglia le responsabilità vaticane e la partecipazione di numerosi sacerdoti all’attività illegale e clandestina.
LaVista informa che grossi quantitativi di oro, trafugato alle vittime, sarebbero stati occultati nei Palazzi Apostolici. Questo documento segue di poco quello dell’agente speciale del Tesoro Usa Emerson Bigelow, che documenta come nelle casse vaticane sia finito un quantitativo d’oro per un valore di 200 milioni di franchi svizzeri, depredato dagli ustascia. Analoga affermazione viene dalle memorie di James V. Milano, comandante del
430 distaccamento del controspionaggio dell’Us Army’s Counter Intelligence Corps, il quale aggiunge altri particolari a quelli già noti.
Il 22 luglio 1997 il quotidiano francese Nice Matin, pubblica un articolo intitolato “Oro croato al Vaticano?” L’amministrazione americana indaga su un trasferimento di ottocento milioni di franchi francesi”, nel quale è scritto: “Bill Clinton ha annunciato ieri che il Dipartimento del Tesoro sta studiando il documento d’archivio che rivela che la Santa Sede ha conservato dell’oro dell’antico regime fascista di Croazia. Secondo il
documento, diffuso da una rete televisiva americana, una parte rilevante delle riserve d’oro del regime fascista croato, del valore di circa ottocento milioni di franchi, sotto forma di lingotti d’oro, sarebbe stato immagazzinato presso il Vaticano, verso la fine della Seconda guerra mondiale, per evitare che venisse sequestrato dagli alleati… Secondo voci
insistenti queste riserve, essenzialmente costituite da lingotti d’oro, in seguito sarebbero state dirottate, a cura del Vaticano, verso la Spagna e l’Argentina. L’estensore del documento afferma comunque di ritenere che queste voci siano state diffuse dal Vaticano per nascondere la verità: secondo lui queste riserve non hanno mai lasciato la città pontificia”. La Santa Sede, attraverso il portavoce del Papa, Joaquin Navarro Valls,
smentisce tutto, definendo le notizie riportate dal quotidiano francese “informazioni senza alcun fondamento”.
La certezza che il tesoro ustascia si trovi ancora in Vaticano riceve il crisma dell’ufficialità il 2 giugno 1998 dal Rapporto Usa stilato dal sottosegretario di Stato Usa Stuart Eizenstat, che afferma, fra l’altro, che gli archivi ustascia furono portati in Vaticano, così come oro e gioielli. Aggiunge che “anche se non ci sono prove dell’implicazione diretta del Papa e dei suoi consiglieri, sembra inverosimile che essi abbiano del tutto ignorato ciò che stava accadendo. Le autorità vaticane hanno affermato di non avere trovato alcun documento suscettibile di fare luce sulla questione dell’oro ustascia”. La reazione ufficiale di parte vaticana, espressa dal portavoce pontificio Joaquin Navarro Valls è: “il segretario dell’Istituto San Girolamo, che era all’epoca Krunoslav Draganovic, ha forse utilizzato quest’oro unicamente a proprio titolo, senza l’autorizzazione dell’Istituto e senza che il Vaticano lo sapesse”.
L’avvocata americana Keelyn Friesen, che coordina l’azione giudiziaria contro lo Ior e gli altri accusati di complicità nell’imboscamento del tesoro ustascia promossa da Zivkovic e dai suoi compagni, promette battaglia dura ed esige giustizia. Una giustizia, che se deve suonare condanna per l’indegno agire di uomini della Chiesa, chiama anche in causa
tutti i successori di Pio XII.
2004 © ANTIMAFIA Duemila
http://www.antimafiaduemila.com/
E’ l’era della nuova M@fia
Il coinvolgimento dello IOR nella tentata rapina telematica
di Jessica Pezzetta
E parliamo ancora di mafia telematica, questa volta basandoci sull’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Tribunale di Palermo lo scorso 6 ottobre.
Il Giudice per le indagini preliminari, dott.ssa Vincenzina Massa, ha esaminato la richiesta del Pubblico Ministero per l’applicazione della misura di custodia cautelare in carcere emessa in data 4 ottobre 2000 nei confronti di: Gaspare Affatigato, Giovanni Costantino, Salvatore Costantino, Salvatore Costantino (omonimo del succitato Salvatore Costantino), Ferdinando Cusimano, Pietro Gemellaro, Alfredo Leonardi, Matteo Lucchese, Vincenzo Marino, Mario Muratore, Antonio Orlando detto Gianni, Mario Orlando, Massimo Pandolfo, Gianfranco Puccio, Rosario Zappulla e Aldo Zarcone. Quando si crea un’associazione per delinquere con partecipanti in numero superiore a tre, essa viene considerata un’associazione di stampo mafioso. Bisogna evidenziare come l’indiziario esaminato dal pm si sia ulteriormente arricchito nei confronti dell’indagato Orlando in esito alle chiamate dei complici e, rispettivamente, alle dichiarazioni accusatorie rilasciate durante gli interrogatori dai coindagati Alfredo Leonardi, Pietro Gemellaro, Mario Lucchese e Aldo Zarcone; nei confronti degli indagati Leonardi e Gemellaro in relazione alle chiamate effettuate reciprocamente da costoro e delle dichiarazioni accusatorie fatte dal Lucchese nei loro confronti. Anche la posizione di Affatigato si è arricchita di nuovi elementi indiziari emersi dalle dichiarazioni accusatorie del Lucchese, del Leonardi e del Gemellaro: Alfredo Leonardi inoltre si è messo in contatto con Giovanni Costantino e Matteo Lucchese. L’iniziale quadro indiziario è stato ulteriormente confermato dagli elementi emersi nel corso degli interrogatori degli indagati Massimo Pandolfo, Aldo Zarcone, Mario Orlando, Pietro Gemellaro, Alfredo Leonardi e Matteo Lucchese: in particolare, Gemellaro e Leonardi, tecnici della Telecom impegnati nel trasferimento illecito della linea TD del Banco di Sicilia, hanno reso una confessione parziale includendone un tardivo quanto poco credibile pentimento. Non sussistono invece gravi indizi di colpevolezza nei confronti di Mario Orlando, poiché egli è da ritenersi ignaro compartecipe in un solo episodio, coinvolto a tradimento da suo fratello Antonio: quest’ultimo infatti, con la scusa di voler provare un sistema informatico, aveva chiesto a Mario l’accesso nel suo esercizio commerciale.
Si è ritenuto che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte soltanto con la custodia in carcere ed è stata ordinata agli ufficiali ed agli agenti di polizia giudiziaria di procedere alla cattura di Gaspare Affatigato, Giovanni Costantino, Salvatore Costantino, Salvatore Costantino, Ferdinando Cusimano, Pietro Gemellaro, Alfredo Leonardi, Matteo Lucchese, Vincenzo Marino, Mario Muratore, Antonio Orlando, Massimo Pandolfo, Gianfranco Puccio, Rosario Zappulla e Aldo Zarcone.
Gli indagati si avvalevano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivava per commettere delitti destinati a sottrarre ingentissimi fondi al Banco di Sicilia di Palermo e di altre sedi siciliane, attraverso operazioni illecite sui fondi bancari. Tali operazioni erano possibili grazie a funzionari della banca stessa che fornivano le conoscenze e gli strumenti bancari ed informatici necessari ad annientare le protezioni predisposte dall’istituto bancario sottraendo i fondi alla banca senza che la stessa se ne avvedesse. Tali operazioni erano mirate a trasferire le somme di denaro all’estero e su conti di soggetti non identificabili come concorrenti alla sottrazione, in modo da impedire l’identificazione della provenienza delittuosa dei fondi sottratti ed il loro recupero da parte del legittimo proprietario. Gli associati sono inoltre risultati armati di materiale esplosivo finalizzato al raggiungimento degli obiettivi.
Ma vediamo di capire come il denaro sarebbe dovuto arrivare nelle casse dello IOR, l’Istituto di Opere Religiose della Città del Vaticano. Costantino, Affatigato, Cusimano e Zappulla, insieme con altre persone non ancora identificate, compivano atti idonei diretti in modo non equivoco ad impossessarsi di 1.700 miliardi di lire in contanti, appartenenti a fondi
pubblici provenienti dalla Comunità Europea e depositati su conti aperti presso il Banco di Sicilia di Palermo, Cassa Regionale esercente la tesoreria della Regione Sicilia. Inizialmente è stata trasferita abusivamente la somma di 264 miliardi su un conto corrente del Banco di Sicilia aperto presso la sede centrale della Banca di Roma e da questo ad un altro conto corrente intestato a Vincenzo Polizzi, aperto presso l’agenzia della Banca di Roma di Cadriano di Granarolo Emilia. Hanno poi trasferito altri 400 miliardi su un conto corrente da aprirsi presso la Banca Popolare di San Felice sul Panaro e da questa a un conto corrente della stessa banca aperto presso un istituto di credito estero. Un altro trasferimento di denaro per la considerevole somma di 1.000 miliardi è avvenuto su un conto corrente del Banco di Sicilia aperto presso un Istituto di Credito Italiano; da quest’ultimo il denaro sarebbe dovuto giungere alle casse dello IOR, grazie alla disponibilità di un monsignore compiacente. Questo fatto sarebbe risultato ancora più grave degli altri reati, poiché avrebbe tolto per sempre ai proprietari del denaro la possibilità di recuperarlo: infatti, essendo la Città del Vaticano uno stato a sé, la Costituzione italiana non vi può imporre le proprie leggi. Nel tentato trasferimento del denaro nelle casse dello IOR sono implicati Antonio Orlando, Vincenzo Marino e Domenico Nelvi i quali avevano preso contatti con alcuni funzionari non ancora identificati. Ma, in particolare, grazie all’intercettazione della telefonata del 29 settembre 2000, si è scoperto che Vincenzo Marino e Domenico Nelvi parlavano dei primi accordi che il secondo avrebbe preso con il sopracitato monsignore, tale Boldini, definito il “numero due” dello IOR; questi si sarebbe dimostrato disponibile a compiere l’operazione del trasferimento del denaro, consegnando immediatamente dal 20 al 30% della somma in contanti, ma pretendendo che tutto avvenisse martedì 3 ottobre 2000 con un incontro per concordare i termini finali dell’operazione a mezzogiorno, ed alle 18,30 dello stesso giorno con il trasferimento del denaro vero e proprio.
http://www.abanet.it/papini/peccato/p6pierino.html
CHIESA E TANGENTOPOLI.
L’arresto del fratello del Cardinal Sodano e del presidente della fondazione pontificia “Centesimus Annus” coinvolge direttamente il Vaticano.
La chiesa cattolica è, storicamente, sempre stata coinvolta in fatti di ‘tangente’. Basti pensare alla simonia, cioè alla compravendita di cariche ecclesiastiche e perfino della stessa carica pontificale, pratica diffusissima fin dai primi secoli dopo Cristo per cessare solo con la controriforma: per ogni parrocchia, abbazia, canonicato, vescovato, cappello cardinalizio c’era una tangente da versare.
Anche la salvezza eterna era soggetta a tangenti, infatti, approfittando dell’ingenuità popolare, la chiesa vendeva le indulgenze: la tariffa variava a seconda della gravità del peccato e della ricchezza del fedele.
L’ultima colossale “tangente” fu quella carpita dalla Chiesa allo Stato italiano nel 1929 con il Concordato: l’equivalente di 700 miliardi di oggi fu il prezzo (più mille altri privilegi) da pagare affinché la chiesa rinunciasse per sempre a rivendicare i territori del defunto stato pontificio. Nel dopoguerra la chiesa si invischia nel corrotto governo democristiano ma di questo coinvolgimento non emerge quasi nulla per colpa della commissione inquirente della Camera (che insabbia centinaia di procedimenti) e di settori della magistratura collusi con mafia e con poteri più o meno occulti.
Prima di tangentopoli solo in due casi emerge un coinvolgimento della chiesa: -la raccomandazione del cardinal Poletti ad Andreotti affinché nominasse il generale Lo Giudice, quello che poi sarà regista dello scandalo dei petroli, alla carica di comandante della Guardia di Finanza, – il caso IOR/Banco Ambrosiano, il cui processo è ancora in corso, ma sul quale sono già stati pubblicati vari libri (es: D.Yallop – In nome di Dio, Pironti 1992) che documentano l’attività criminosa del Vaticano.
Non dimentichiamo che comunque una sentenza del ’93 ha condannato a tre anni di carcere monsignor Pavel Hnilica, funzionario del Vaticano e confessore di Madre Teresa di Calcutta, per ricettazione della borsa di Calvi.
Ma veniamo allo scandalo di tangentopoli. Innanzitutto il 7/2/94 è stato arrestato Alessandro Sodano, fratello del cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato del Vaticano, con l’accusa di corruzione, abuso e falso per la lottizzazione di un’area industriale vicino ad Asti. Si tenga presente che la famiglia Sodano è a tal punto intima del Vaticano che perfino lo stesso papa ha visitato la loro fattoria nel corso di una visita ad Asti effettuata lo scorso settembre ’93.
Ancora più clamoroso è l’arresto del presidente della CARIPLO Roberto Mazzotta, ex altissimo esponente democristiano, presidente della fondazione “Centesimus Annus” incaricata di raccogliere i fondi per la beneficenza pontificia.
Di minore importanza, ma sempre molto significativo, è l’arresto dell’ex segretario nazionale dell’UNITALSI (Unione Nazionale Trasporto Ammalati a Lourdes e Altri Santuari Italiani) e di suo fratello, consultore della Prefettura degli affari ecclesiastici della santa sede, coinvolti in tangentopoli e sospettati di aver riciclato denaro sporco in Vaticano.
La verità è che negli anni di tangentopoli mai le gerarchie ecclesiastiche levarono la voce contro i farabutti che ci governavano ma, al contrario, parteciparono con buona lena alla divisione della torta (caso IOR-Enimont). Il bello è che la chiesa, lungi dal fare autocritica, continua ad ergersi a giudice morale dei corrotti, ma prima di assumere posizioni sulla moralità altrui farebbe bene a verificare la propria.
Pierino Marazzani
http://xoomer.virgilio.it/adamogambone/luciani.html
LO IOR, PAPA LUCIANI E MONS. NARCOTRAFFICO
(Di Gambone Adamo)
Il 26 Agosto del 1978 Albino Luciani divenne ufficialmente Papa e successore di Paolo VI. In Vaticano, parecchie persone non erano contente dell’elezione di Luciani al soglio pontificio ma, forse, il più scontento di tutti era monsignor Marcinkus (Monsignor narcotraffico) che fino all’ultimo istante aveva sperato nell’elezione del candidato Giuseppe Siri. Ma chi era questo Marcinkus? Era una delle pedine fondamentali di quella partita a scacchi che da anni si giocava fra Vaticano e grandi banche e che metteva in palio la possibilità di vedere il proprio capitale aumentare sempre di più. Marcinkus era il più alto in grado all’interno dello I.O.R., l’Istituto per le Opere Religiose. Egli intuì immediatamente i pericoli dell’elezione di questo pontefice che, sin dai suoi primi discorsi, aveva lasciato chiaramente intendere di voler far tornare la chiesa cattolica a quegli ideali di carità cristiana propri del primo cattolicesimo, rinunciando alle ricchezze superflue che troppo avevano distolto gli uomini di chiesa dai propri sacri compiti. Figuratevi il capo della banca vaticana come avrebbe mai potuto vedere un tipo del genere sul più alto gradino del proprio stato…
La Banca Vaticana non è responsabile né verso la Banca Centrale del Vaticano né verso il Ministero dell’Economia; infatti funziona in modo indipendente con tre consigli d’amministrazione: uno costituito da cardinali di alto livello, un altro costituito da banchieri internazionali che collaborano con impiegati della Banca Vaticana e per ultimo un consiglio d’amministrazione che si occupa degli affari giornalieri. Tali strutture organizzative così chiuse sono la norma nella Santa Sede e sono utili per mascherare le operazioni della Banca: figuriamoci se Marcinkus avesse mai voluto un papa che lo “disturbasse”
Lo IOR funziona come banchiere privato della Chiesa, dal momento che si adatta perfettamente alle esigenze di una Banca diretta dal Papa. Nonostante sia di proprietà del Papa, la Banca, sin dal proprio inizio, è stata più volte coinvolta nei peggiori scandali, corruzione e intrighi. Sotto felice auspicio, l’apertura della banca nel 1941 per ordine di Pio XII, altresì chiamato il Papa di Hitler, ha fornito convenienti sbocchi bancari ai fascisti italiani, all’aristocrazia e alla mafia. (…)
La Banca Vaticana afferma di non aver nessun documento relativo al periodo della Seconda Guerra Mondiale; infatti secondo il procuratore della Banca Vaticana, Franzo Grande Stevens, lo IOR distrugge tutta la documentazione ogni dieci anni, un’affermazione alla quale nessun banchiere responsabile crederebbe. Ciononostante, altre documentazioni esistono in Germania e presso gli archivi americani, che dimostrano i trasferimenti nazisti di fondi allo IOR dalla Reichsbank, e altri dallo IOR alle banche svizzere controllate dai nazisti. Un famoso procuratore specializzato nelle restituzioni dell’Olocausto ha documentato i trasferimenti di denaro dai conti delle SS a una innominata banca romana nel settembre 1943, proprio quando gli Alleati si stavano avvicinando alla città. (…)
Dalla fine degli anni Settanta, lo IOR era divenuto uno dei maggiori esponenti dei mercati finanziari mondiali.
Quando Albino Luciani decise di posare i suoi occhi indiscreti sulle vicende e l’attendibilità di Paul Marcinkus, responsabile della banca vaticana, alias IOR, Istituto Opere di Religione, il neo-eletto papa aprì una controversia che – secondo la documentata e mai smentita inchiesta di David Yallop [In Italia il libro di Yallop fu coraggiosamente pubblicato dalla Tullio Pironti di Napoli (Yallop D., In God’s name, Ed.Pironti, Napoli, 1992)] – gli sarebbe costata la vita. In coincidenza con l’elezione di Lucani infatti venne pubblicato un elenco di 131 ecclesiastici iscritti alla massoneria, buona parte dei quali, erano del Vaticano; fra questi vi era Paul Marcinkus (43/649, 21/8/67, nome in codice: Marpa).La lista era stata diffusa da un piccolo periodico «O.P. Osservatore Politico» di quel Mino Pecorelli destinato a scomparire un anno dopo l’elezione di Albino Luciani in circostanze mai chiarite. Secondo molti, O.P. era una sorta di «strumento di comunicazione» adoperato dai servizi segreti italiani per far arrivare messaggi all’ambiente politico. Pecorelli, tra l’altro, era legato a filo doppio con Gelli come lo erano Sindona e Calvi.
L’intreccio che lega Marcinkus, la banca vaticana, il banchiere Sindona, il banchiere Calvi, il segretario di Stato del Vaticano Villot, Gelli, il cardinale Cody di Chicago e la Continental Illinois Bank di Chicago, con la quale venivano e vengono controllati gli investimenti vaticani negli Stati Uniti, è strettissimo.
Luciani era convinto che un’indagine approfondita su connessioni e collusioni avrebbe potuto stabilire i provvedimenti da prendere, e le contromisure da mettere in atto per arginare l’invadente e potentissimo cardinale.
Luciani conosceva molto bene il direttore della Banca Vaticana; nel 1972 Marcinkus aveva venduto a Roberto Calvi la partecipazione di controllo nella banca cattolica del Veneto senza minimamente metterne a conoscenza l’allora patriarca di Venezia.
La morte subitanea, dopo trentatre giorni di pontificato, suscitò incredulità e stupore, sentimenti accresciuti dalle titubanze del Vaticano nello spiegare il come, il quando ed il perché dell’evento. In questo modo, l’incredulità diventò prima dubbio e poi sospetto. Era morto o l’avevano ucciso?
Fu detto all’inizio che Luciani era stato trovato morto con in mano il libro «l’imitazione di Cristo», successivamente il libro si trasformò in fogli di appunti, quindi in un discorso da tenere ai gesuiti ed infine, qualche versione ufficiosa volle che tra le sue mani ci fosse l’elenco delle nomine che il Papa intendeva rendere pubbliche il giorno dopo.
Dapprima, l’ora della morte fu fissata verso le 23 e, quindi, posticipata alle 4 del mattino. Secondo le prime informazioni, il corpo senza vita era stato trovato da uno dei segretari personali del Papa, dopo circolò la voce che a scoprirlo fosse stata una delle suore che lo assistevano. C’erano veramente motivi per credere che qualcosa non andasse per il verso giusto.
Qualcuno insinuò che forse sarebbe stato il caso di eseguire un’autopsia e questa voce, dapprima sussurrata, arrivò ad essere gridata dalla stampa italiana e da una parte del clero. Naturalmente l’autopsia non venne mai eseguita ed i dubbi permangono ancora oggi.
Di questo argomento si occuperà approfonditamente l’inglese David Yallop, convinto della morte violenta di Giovanni Paolo I.
Il libro dello scrittore inglese passa in rassegna tutti gli elementi di quel fatidico 1978 fino a sospettare sei persone dell’omicidio di Albino Luciani: il Segretario di Stato Jean Villot, il cardinale di Chicago John Cody, il presidente dello I.O.R. Marcinkus, il banchiere Michele Sindona, il banchiere Roberto Calvi e Licio Gelli maestro venerabile della Loggia P2.
Secondo Yallop, Gelli decise l’assassinio, Sindona e Calvi avevano buone ragioni per desiderare la morte del Papa ed avevano le capacità ed i mezzi per organizzarlo, Marcinkus sarebbe stato il catalizzatore dell’operazione mentre Cody (strettamente legato a Marcinkus) era assenziente in quanto Luciani era intenzionato ad esonerarlo dalla sede di Chicago perché per motivi finanziari si era attirato le attenzioni non solo della sua chiesa ma addirittura della giustizia cittadina e della corte federale. Villot, infine, avrebbe facilitato materialmente l’operazione.
La ricostruzione fatta da Yallop degli affari di Sindona, di Calvi, di Gelli e dello I.O.R., conduce inevitabilmente all’eliminazione del Papa.
Perché e soprattutto chi ha fatto sparire dalla camera del Papa i suoi oggetti personali? Dalla stanza di Luciani scompariranno gli occhiali, le pantofole, degli appunti ed il flacone del medicinale Efortil. La prima autorità di rango ad entrare nella stanza del defunto fu proprio Villot, accompagnato da suor Vincenza (la stessa che ogni mattina portava una tazzina di caffè al Papa) che verosimilmente fu l’autrice materiale di quella sottrazione.
Perché la donna si sarebbe adoperata con tanta solerzia per far sparire gli oggetti personali di Luciani? Perché quegli oggetti dovevano sparire?
Domande destinate a restare senza risposta anche in considerazione del fatto che la diretta interessata è passata a miglior vita.
Una curiosità per chiudere l’argomento: sulla scrivania di Luciani fu trovata una copia del settimanale «Il mondo» aperta su di un’inchiesta che il periodico stava conducendo dal titolo: «Santità…è giusto?» che trattava, sotto forma di lettera aperta al pontefice, il tema delle esportazioni e delle operazioni finanziarie della banca Vaticana. «E’ giusto…» recita l’articolo «…che il Vaticano operi sui mercati di tutto il mondo come un normale speculatore? E’ giusto che abbia una banca con la quale favorisce di fatto l’esportazione di capitali e l’evasione fiscale di italiani?».
Gli spostamenti sull’asse internazionale di denaro, favori, compiacenze, e destini di intere legislature non potevano essere resi incerti nemmeno da un Papa perché proprio in quel biennio ‘78-‘79 si sarebbe proceduto ad accordi destinati a riscrivere il contesto del capitale finanziario europeo ed extra-europeo.
L’Italia, una volta di più, dimostrava la sua particolare e delicata funzione di volano per iniziative che avrebbero segnato le fortune, o i tracolli, di numerosi gruppi di potere.
La tensione che si innervava nella politica nazionale e di cui la drammatica restaurazione in Fiat del 1980 rappresentò uno dei principali strumenti di riassorbimento dell’urto determinato dal malcontento della classe operaia, databile in origine al 1969, restituisce i contorni di un paese nel quale il ceto dirigente doveva storicamente risposte senza ambiguità ai dominatori d’oltre Atlantico, incarnati dalla torbida figura di Sindona, palesemente sostenuto con ogni riguardo da Andreotti e dalla Dc, i cui programmi a lunga scadenza sembravano interrotti dalla crisi di governabilità culminata nel ‘77 con gli scontri in piazza e pochi mesi più tardi col rapimento Moro.
Luciani voleva riformare le finanze vaticane e, sicuramente, voleva anche cambiare alcuni amministratori.
Due articoli apripista che cercavano di elencare “I beni del Vaticano” (e questo era anche il titolo di copertina) apparvero nel gennaio del 1977 sul settimanale “L’Europeo”, allora di proprietà della Rizzoli. Il giornalista Paolo Ojetti scrisse un primo lungo articolo (da pagina 32 a pagina 37 e con un appendice documentaria di sette pagine) in cui sosteneva che “un quarto di Roma, forse il migliore, è nelle mani del Vaticano”. Forse per la prima volta Paolo Ojetti (per caso, come specifica) ha pubblicato la ragione sociale di cinque società immobiliari che avevano sede a Roma, ma che erano di proprietà della “Santa” Sede. Gli articoli di Ojetti provocarono un gran rumore (soprattutto perché il Parlamento si apprestava ad affrontare il dibattito riguardante la bozza di un nuovo Concordato), ed alla fine Gianluigi Melega, neo-direttore del settimanale, venne licenziato (in proposito vedi: http://www.fisicamente.net/index-120.htm n.d.r.).
Le principali società immobiliari e/o finanziarie di proprietà del Vaticano che a Roma gestiscono il “potere temporale” – punta di un iceberg ben più grande – sono immobiliari costituite nell’immediato dopo guerra.
Di alcune il socio di riferimento è la banca vaticana, o Ior, che per anni è stata amministrata dal chiacchieratissimo monsignore Paul Casmir Marcinkus, dai chiacchierati Luigi Mennini (uomo d’affari del Vaticano) e Pellegrino de Strobel. Un’altra buona parte di società immobiliari fanno capo alla “Fondazione Apostolicam Actuositatem” che controlla due finanziarie (Aufin e Società di Coordinamento), le quali a loro volta controllano una decina di società.
Il terzo gruppo di società è generalmente riconducibile alla Chiesa di Roma soprattutto perché all’interno dei consigli d’amministrazione siedono personaggi del Vaticano.
Il cambio Lucani- Wojtyla giovò non poco a Marcinkus… Che Papa Wojtyla volesse far cadere il regime comunista nella sua cattolicissima Polonia lo sapevano in molti, soprattutto i servizi segreti sovietici.Con il denaro dello ior il Vaticano finanziò “Solidarnosc” di Walesa che alla lunga riuscì a porre fine al regime comunista in Polonia. Dopo la democratizzazione di questo Paese seguì a catena la caduta dei regimi degli altri Paesi satelliti dell’Urss.
Naturalmente tutto questo era avvenuto senza che Cosa Nostra ne sapesse niente: aveva affidato i suoi “risparmi” a Calvi perché li facesse fruttare, non perché li desse a Marcinkus e da lì a “Solidarnosc”. E fu così che anche Calvi fece la fine di Sindona e venne trovato penzolante da una corda sotto il ponte dei “Frati neri” sul Tamigi. A distanza di venti anni s’è capito che quello non era suicidio, bensì un delitto di mafia, forse affidato da Cosa Nostra siciliana alla camorra, e in particolare a quel Vincenzo Casillo che poi saltò in aria con la sua auto a Roma. Meglio togliere di mezzo testimoni pericolosi.
Al di sopra di questo sordido traffico sotterraneo di miliardi della mafia c’era però il più alto contesto politico, la Storia che cambiava. E fu allora che il Kgb decise di uccidere Wojtyla . Per non agire direttamente chiese l’intervento dei servizi segreti bulgari, i quali fecero pressione sui colleghi turchi affinché si trovasse un killer disposto a sparare al Papa. Era Alì Agca, condannato a morte, un mistico fanatico dalla mira infallibile. Agca venne fatto evadere da un carcere di massima sicurezza, venne aiutato dai “lupi grigi” di Oral Celik, nelle sue peregrinazioni passò anche da una locanda di Palermo e il 13 maggio 1981, festa della Madonna di Fatima, si presentò con la pistola in pugno davanti al Papa. Il killer turco stavolta sbagliò mira (la Madonna di Fatima volle salvare Wojtyla?Il terzo segreto di Fatima?No… semplicemente l’ennesimo “miracolo” di Marcinkus!).
In questo grandioso scenario politico, accorgersi che la mafia fu gabbata e che i soldi del diavolo finirono non in crusca, ma forse servirono per operazioni contro i nemici della Cristianità fa un certo effetto a volerci pensare. In fondo i mafiosi senza saperlo sono stati anche in questo caso anticomunisti come volevano essere.
In definitiva: morti Lucani, Calvi, Sindona, Pecorelli…e il nostro buon Marcinkus?Beh, con sentenza della corte suprema dell’87 non fu processato…per l’extraterritorrialità del Vaticano…
http://web.tiscali.it/almanacco/p2gennaio2003.htm
IL DENARO DELLA MAFIA
CONTRO L’ URSS ?
“La Sicilia” – 7 gennaio 2003 –
L’oro della mafia contro Mosca?
Sindona e Calvi, due banchieri (poi uccisi dai boss), diedero soldi allo Ior che finanziava la rivolta in Polonia
Tony Zermo
Ecco come la mafia siciliana contribuì, inconsapevolmente, alla caduta del regime comunista. Sembra il titolo di un “giallo” di fantasia, ma approfondendo si vedrà che ci sono molti punti di contatto con la realtà. Il fatto è che tutti noi abbiamo sotto gli occhi gli eventi, ma li vediamo in maniera spezzettata, contingente, senza avere la capacità di legarli insieme in un contesto, anche perché si tratta di episodi apparentemente senza relazione tra loro. La mafia sembra troppo distante dalla grande finanza, dal Vaticano e dai conflitti internazionali: e invece non è così.
Diciamo che la storia comincia all’incirca negli anni ’70 quando Cosa Nostra prende a trafficare droga, a mettere su le raffinerie (molte in via Messina Marine a Palermo) e a far soldi a palate. Questa montagna di denaro dev’essere investita, una parte va nelle banche svizzere, un’altra ancora in Borsa e agli insediamenti turistici fuori dalla Sicilia, un’altra parte viene affidata al banchiere di Patti Michele Sindona. Quando fa bancarotta nonostante il tentativo di salvataggio di Andreotti, Sindona viene arrestato e poi ucciso nel supercarcere di Voghera con un caffè all’arsenico: come anni addietro all’Ucciardone era capitato a Gaspare Pisciotta, l’uccisore di Salvatore Giuliano.
Sparito dalla scena Sindona, Cosa Nostra era alla ricerca di un banchiere importante e più affidabile di Sindona che potesse investire bene il suo denaro, ed ecco spuntare Roberto Calvi che da semplice “ragiunatt” era diventato presidente del potente Banco Ambrosiano.
Calvi, il “banchiere dagli occhi di ghiaccio”, sembrava l’uomo giusto e i fiumi di denaro della droga finirono all’Ambrosiano. Del resto “pecunia non olet” e nessuno potrà mai provare con certezza che quel denaro affluito al vecchio Ambrosiano era di Cosa Nostra.
Ma Calvi era un ambizioso irrefrenabile, pensava che legandosi al Vaticano, ed esattamente allo Ior, l’istituto bancario della Santa Sede gestito da mons. Marcinkus, avrebbe avuto porte aperte in tutto il mondo e ottenere protezione dai partiti politici italiani. Fu così che centinaia e centinaia di miliardi passarono dall’Ambrosiano allo Ior: e in mezzo a questo denaro c’era anche quello sporco. Con questo denaro il Vaticano finanziò “Solidarnosc” di Walesa che alla lunga riuscì a porre fine al regime comunista in Polonia. Dopo la democratizzazione di questo Paese seguì a catena la caduta dei regimi degli altri Paesi satelliti dell’Urss.
Naturalmente tutto questo era avvenuto senza che Cosa Nostra ne sapesse niente: aveva affidato i suoi “risparmi” a Calvi perché li facesse fruttare, non perché li desse a Marcinkus e da lì a “Solidarnosc”. E fu così che anche Calvi fece la fine di Sindona e venne trovato penzolante da una corda sotto il ponte dei “Frati neri” sul Tamigi. A distanza di venti anni s’è capito che quello non era suicidio, bensì un delitto di mafia, forse affidato da Cosa Nostra siciliana alla camorra, e in particolare a quel Vincenzo Casillo che poi saltò in aria con la sua auto a Roma. Meglio togliere di mezzo testimoni pericolosi.
Al di sopra di questo sordido traffico sotterraneo di miliardi della mafia c’era però il più alto contesto politico, la Storia che cambiava. Che Papa Wojtyla volesse far cadere il regime comunista nella sua cattolicissima Polonia lo sapevano in molti, soprattutto i servizi segreti sovietici. E fu allora che il Kgb decise di ucciderlo. Per non agire direttamente chiese l’intervento dei servizi segreti bulgari, i quali fecero pressione sui colleghi turchi affinché si trovasse un killer disposto a sparare al Papa. Era Alì Agca, condannato a morte, un mistico fanatico dalla mira infallibile. Agca venne fatto evadere da un carcere di massima sicurezza, venne aiutato dai “lupi grigi” di Oral Celik, nelle sue peregrinazioni passò anche da una locanda di Palermo e il 13 maggio 1981, festa della Madonna di Fatima, si presentò con la pistola in pugno davanti al Papa. Il killer turco stavolta sbagliò mira, forse veramente la Madonna volle salvare Wojtyla per consentirgli di completare la sua missione in Terra.
In questo grandioso scenario politico, accorgersi che la mafia fu gabbata e che i soldi del diavolo finirono non in crusca, ma forse servirono per operazioni contro i nemici della Cristianità fa un certo effetto a volerci pensare. In fondo i mafiosi senza saperlo sono stati anche in questo caso anticomunisti come volevano essere. Curiosa la vita.
L’opinione della domenica on-line
http://www.amicigiornaleopinione.191.it/opinione/archivio/194/marzo.html
NOTE E APPUNTI RISERVATI DI ANTONIO TATÓ ED ENRICO BERLINGUER
Il primato della morale sulla politica
L’inizio della fine della Prima Repubblica
di Biagio Marzo
La questione socialista entrò in modo preponderante all’interno del dibattito del Pci. I diversi punti di vista dei dirigenti comunisti su Bettino Craxi acuiva lo scontro interno. Antonio Tatò chiedeva con insistenza a Berlinguer la resa dei conti con la destra amendoliana per rafforzare la di lui segreteria e linea politica. Il compito del leader comunista non era per nulla facile, dato che la presenza “socialdemocratica” nel partito, nel sindacato e negli organismi unitari di massa era molto radicata. Da dove doveva partire Berlinguer per iniziare, secondo il suo collaboratore, a smantellare l’amendolismo sinonimo di socialdemocrazia?
In primo luogo, dalla politica economica tutta incentrata sull’inflazione le cui cause ed effetti sociali e politici venivano trascurati dagli eredi di Giorgio Amendola. In questa ottica bisognava muovere l’attacco, perché analizzando la struttura dell’inflazione si capiva dove stava il marcio. E il marcio stava nella spesa sociale alle stelle, rea di aver creato quel che veniva chiamato comunemente Stato assistenziale. E la lotta contro lo Stato assistenziale non era altro che la lotta contro la Dc. In forza di questa ferma convinzione Tatò spingeva Berlinguer a dare una spallata per far cadere il governo Forlani, “un governo di pasticcioni, di imbecilli, di avventurieri, di dissipatori, di ladri e corrotti”. Basta e avanza.
Le colpe maggiori della stretta economica, Antonio Tatò le faceva cadere sul ministro Beniamino Andreatta la cui politica monetarista si faceva sentire pesantemente sulle masse lavoratrici. Mentre il ministro Dc portava avanti la sua politica antipopolare, i ministri socialisti mantenevano “aperta la valvola per spendere i soldi allo stesso modo improvvido di prima”. Costi quel che costi, bisognava invertire questa rotta sciagurata, portatrice di processi di disgregazione della società e delle istituzioni statali. La sua preoccupazione era tale per cui scriveva: “Non possiamo lasciargli fare quello che vogliono, non possiamo aspettare che si logorino ancora di più: si logora tutto, si sfascia il paese, e l’elettorato non credo che possa premiarci per la nostra cautela, per i nostri calcoli a breve, per la nostra pigrizia politica. Il paragone con gli altri partiti, per interrompere l’opera sciagurata…”.
Tuttavia, il governo Forlani non cadde per la sua politica economica, sebbene i contrasti tra la Malfa e Andreatta fossero all’ordine del giorno, ma per la scoperta degli elenchi della Loggia P2 di Licio Gelli. (Alla fine degli anni Settanta, si scoprì che in Italia vi era una potente e seguita Loggia massonica che aveva un “burattinaio”, Licio Gelli, il quale aveva organizzato una rete di potere composta dai massimi vertici delle Forze Armate, dei Servizi Segreti, dell’alta finanza, dell’impresa pubblica e privata, dell’informazione, della magistratura e della politica. Vediamo come definiva la “lobby” di Gelli, Eugenio Scalfari nel libro “L’Italia della P2”: “I campi di attività erano essenzialmente quattro: tangenti, prelevate su affari conclusi da Enti e industrie pubbliche, controllo del credito bancario, illecite esportazioni di valuta, collocamento degli adepti al vertice delle rispettive carriere. L’intervento della P2 era possibile e fruttuoso in ciascuno di questi settori, in quanto ad essi corrispondevano, e corrispondono, altrettante storture della struttura statuale.(…). Il sistema delle tangenti sugli appalti, sui contratti di commesse, sulle licenze e sulle autorizzazioni, sui mutui accordati da istituti di credito pubblici, sulle deliberazioni del governo in materia di prezzi, tariffe e crediti agevolati. (…). I prelievi avvengono di fatto alla luce del sole, sulla base di percentuali prestabilite. E gli esattori li motivano con finalità di finanziare partiti e correnti di partito”. Al di là dei nomi degli affiliati alla Loggia P2 che, certamente, sono importanti per il loro peso nella vita pubblica italiana, a noi interessa conoscere, invece, l’altra faccia della medaglia: perché esplode l’affaire P2 e perché va a finire nelle mani dei magistrati Colombo e Turone della Procura di Milano? Tutto partì, come sempre, dagli Stati Uniti: indagando su Sindona, si arrivò al “materassaio” di Arezzo. L’affaire scoppiò per volontà dell’establishment americano che non vedeva di buon occhio una serie di attività della P2, in special modo il traffico delle armi e gli affari nel campo petrolifero. La P2 svolgeva una politica filoaraba non gradita agli Usa. Quando la Cia venne in possesso della notizia che alcuni personaggi chiave piduisti avevano fornito ad alcuni Paesi arabi informazioni e documenti riservati della Nato, fu la volta buona che gli americani scaricarono Gelli e la P2. Il Pci, sulla vicenda P2, era dentro come un topo nel formaggio, anche se su questo terreno pur di fronte all’evidenza ha sempre negato e fatto la voce grossa per confondere le acque e per zittire gli avversari. Il Partito comunista rientrava nella politica “spartitoria” nazionale attraverso il consociativismo, i suoi interessi erano molteplici in diverse attività: da quelle petrolifere e metanifere di provenienza sovietica a quelle dell’informazione, da quelle dell’import-export con i Paesi dell’est a quelle dei Servizi Segreti).
Craxi, rifiutando di partecipare a un vertice indetto dal Presidente Forlani, l’ennesima verifica delle forze della coalizione, segnò la fine del governo. Il reincarico a Forlani non ebbe molto fortuna. Infatti, il Presidente incaricato seguì il consiglio di Berlinguer, che lo rimproverava di perdere tempo, e dopo pochi giorni egli desistette dal formare l’esecutivo.
A questo punto, il Capo dello Stato, Sandro Pertini, pensò alla soluzione laica.
Dopo Leo Valiani e Bruno Visentini, emerse il nome di Giovanni Spadolini, a cui andavano non solo l’appoggio dei cinque partiti, Dc, Psi, Pli, Pri e Psdi, ma anche quello dei cosiddetti “poteri forti”, i settori molto ampi dell’economia, dell’informazione e della cultura.
Il tentativo del leader repubblicano riusciva in pieno e la Dc perdeva la presidenza del consiglio.
Il pentapartito di Spadolini contava su una forte e larga maggioranza a prova di bomba.
L’esperienza governativa servì a Spadolini per aumentare la sua popolarità.
In pieno agosto del 1981 i franchi tiratori democristiani contribuivano alla bocciatura di un decreto di Rino Formica, ministro delle Finanze, in continua polemica con Nino Andreatta, sulle questioni riguardanti la riduzione degli agi fiscali e delle agevolazioni ai petrolieri. Il Psi, che puntava alle elezioni anticipate in ottobre, ritirava la delegazione socialista, ma davanti alle molteplici difficoltà che non permettevano di portare a caso lo scioglimento delle Camere, si piegava di fronte alla realtà e permetteva a Spadolini una riedizione del governo identico al precedente. Era un successo della Dc, che voleva tempo per organizzarsi. Ma la lite tra “comari”, Formica e Andreatta, faceva precipitare la crisi di governo nel mese di novembre del 1982.
Lo scorrere degli avvenimenti era convulso nel luglio del 1981 in Italia e in particolar modo nella casa comunista di Via delle Botteghe Oscure.
Alla luce dello scandalo del Banco Ambrosiano, il presidente Guido Calvi venne arrestato e, dopo un mese e mezzo di carcere nel penitenziario di Lodi, il 22 luglio del 1981 fu scarcerato. (Il banchiere Calvi finanziò tutti i partiti compreso il Pci di Berlinguer la cui somma ricevuta si aggirava a circa 20 miliardi di lire. Questa somma, che passava come prestito per pagare i debiti del quotidiano “Paese Sera”, non è mai risultata restituita come il Pci aveva assicurato, perché era un finanziamento di Calvi per essere sostenuto politicamente. Il Banco Ambrosiano, noto come “Banca dei preti”, era impersonato, più nel male che nel bene, da Guido Calvi, piduista, legato anche ad ambienti della malavita, spregiudicato finanziere senza scrupoli nella gestione del banco, al quale aveva procurato un crac attraverso delle operazioni illegali. Calvi, come Sindona, era in rapporti stretti con la finanza cattolica, precisamente con monsignor Marcinkus, capo dello Ior. A questo punto, è d’obbligo una precisazione che riguarda il passato della finanza cattolica. In tutti gli scandali finanziari è stato sempre presente il Vaticano e, guarda caso, sempre con lo Ior: l’altro ieri con Sindona e Calvi e ieri in quello Enimont. E in ogni affaire, il Vaticano, però, se la passa franca e i suoi vertici finanziari non sono mai stati tirati in ballo più di tanto nei processi giudiziari).
Mentre in Italia stavano accadendo una serie di scandali (di cui sopra), Berlinguer, intervistato da Scalfari per “la Repubblica”, attaccava, senza mai menzionarlo, il Psi di Craxi la cui posizione in quel momento non era di certo tra le più felici, visto che era al centro di uno stillicidio di scandali; inoltre, sul caso P2, invece di tenere una posizione accusatoria, aveva assunto quella assolutoria e, nello stesso tempo, si era levato in difesa del banchiere Roberto Calvi. Più o meno, cominciarono da quel periodo gli attacchi socialisti alla magistratura.
In piena bufera giudiziaria, il direttore de “la Repubblica”, Eugenio Scalfari, andò a intervistare Berlinguer appunto in quei giorni e alle domande incalzanti del giornalista il leader comunista rispondeva in modo, diciamo così, giacobino. Ne usciva una requisitoria aspra contro i partiti della pregiudiziale anticomunista, “tutti parimenti crocefissi”: “I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società, della gente: idee, ideali, programmi pochi o vaghi; sentimenti e passioni civile, zero. Gestiscono interessi i più disparati, i più contradditori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli senza perseguire il bene comune (…). I partiti hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai-Tv, alcuni grandi giornali (…). E il risultato è drammatico. Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito e della corrente o del clan cui si deve la carica”.
Eugenio Scalfari gli pose una domanda precisa: “Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?”.
E Berlinguer di rimando rispose: “La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia di oggi, secondo noi comunisti, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati”.
Apriti cielo! La reazione fu assai risentita, in special modo i partiti di governo lo contestarono. In verità, pure all’interno del Pci molti storsero il naso perché Berlinguer fece d’ogni erba un fascio. Inutile dire che fu criticata la radicalità del pensiero berlingueriano, l’immagine che lui dava del Pci incentrata sulla diversità e la mancata distinzione tra la Dc e il Psi, a scapito della stessa linea politica di alternativa democratica. Come si sarebbe potuta costruire se, parimenti, i partiti di destra e di sinistra venivano messi sul banco degli accusati?
Nello stesso tempo, se Berlinguer puntava l’indice accusatorio nei confronti del Psi non poteva pretendere da questo di essere al centro dell’alleanza per il rinnovamento del paese. Una cosa era il Psi, un’altra la Dc reale macchina di potere e di clientele, senza alcun ideale e passione civile, promotore e gestore di interessi affaristici non sempre chiari.
Enrico Berlinguer fotografava esattamente quel marcio che c’era nella vita politica italiana. Non a caso, circa un decennio dopo la Prima Repubblica crollò per via giudiziaria. Seppure l’analisi berlingueriana non facesse una piega, il Pci aveva le carte in regola per tirarsi fuori e far cadere le responsabilità soltanto sui partiti di governo? Neanche per sogno. Anche durante la gestione di Berlinguer, il Pci veniva finanziato a mansalva dal Pcus e, per dipiù, era lo snodo di tutti gli affari tra l’Italia e l’Europa dell’Est e l’Unione Sovietica inclusa, come a tempi dei segretari precedenti, Togliatti e Longo. Fino a prova contraria, l’Urss era uno stato straniero e, per giunta, nemico. Vero è che nel periodo dello strappo tra Pci e Pcus, il finanziamento sovietico non arrivò a fiumi, ma è pur vero che in quel preciso periodo, che coincide più o meno con il governo di solidarietà nazionale, il Pci iniziò con la Lega delle Cooperative prima e poi direttamente in prima persona a entrare nel sistema “spartitorio” dei finanziamenti illegali. Per dirla tutta, c’era sempre stato in quel sistema.
In vista del discorso di chiusura della Festa nazionale dell’“Unità”, domenica 20 settembre 1981, a Torino, Enrico Berlinguer convocò la Direzione del partito per prendere le misure nei confronti degli amendoliani. Insomma, le pressioni di Tonino Tatò sortiscono finalmente l’effetto sperato. Era combattivo come non mai e se la prese, come visto a suo tempo, direttamente con Giorgio Napolitano, colpevole di aver scritto, prendendo spunto dai 17 anni dalla morte di Palmiro Togliatti, un articolo critico nei confronti della sua politica, senza mai nominarlo. Eppure, è la prima e vera contestazione che veniva fuori nei confronti del segretario nazionale del Pci. In quel partito, c’era stata, fino allora, una tradizione di rispetto quasi sacrale nei confronti del capo del partito. Dunque, la lunga tradizione veniva infranta proprio, guarda caso, sull’“Unità”, l’organo ufficiale del partito. Non si ha memoria di prese di posizioni pubbliche da parte di Gramsci, Bordiga, Togliatti, Pajetta, Amendola, Ingrao, Longo e Terracini: i leader più carismatici della storia del comunismo italiano. L’articolo di Napolitano è, viceversa, un evento controcorrente, come dire, inedito che lascia molti a bocca aperta, ossia meravigliati.
A ben vedere, era intento di Enrico Berlinguer aprire in Direzione un dibattito franco, schietto e definitivo. Perciò si presentò agguerrito all’appuntamento e attrezzato per vincere la sfida lanciata dagli amendoliani e, sorprendentemente, da Giorgio Napolitano, così cauto e non di certo un cuor di leone.
La cronaca della riunione della Direzione fu riassunta dal settimanale “L’Espresso”: “Per cominciare, il segretario ha tracciato della situazione del paese un quadro fosco. “L’Italia va a pezzi – ha detto – e mi meraviglia la sorpresa mostrata per la mia intervista a “Repubblica”. Occorre una grossa scossa: altrimenti il distacco tra paese reale e paese legale diventa definitivo. E chi si muove, se non ci muoviamo noi? (…). Nessuno spende una parola in difesa di Napolitano. Non gli viene solidarietà nemmeno da quei quadri che egli stesso ha allevato nelle federazioni. Né gli è venuto sostegno da quegli esponenti della Direzione che nell’ultimo anno si erano più volte differenziati da Berlinguer – soprattutto sul tema delicato del rapporto con i socialisti – mettendo spesso in difficoltà: Bufalini, Macaluso, Perna, Nilde Iotti (…). Parecchi esponenti della Direzione hanno preso la parola per giudicare inopportuno l’articolo di Napolitano (…). “Non c’è nessuna questione personale contro il segretario, ed è lungi da me l’intenzione di sostituirmi a lui”, è stata la risposta di Napolitano, che ha poi ribadito punto per punto senza asprezze ma anche senza arretramenti, le sue posizioni politiche”.
Dopochè, sempre “L’Espresso” intervistò Claudio Martelli sulla querelle Berlinguer e Napolitano. Al contrario di quello che si pensava, il dirigente socialista non si schierò a favore di Napolitano come fecero invece Balzamo, Labriola e Tempestini.
Secondo Martelli, “Berlinguer ripropone il compromesso storico, non più tra la Dc e il Psi, ma tra lo spirito santo e il pugno chiuso (…). Ingrao vede la crisi dello Stato, ma vuole curarla aumentando le dosi di assemblearismo che i partiti dovrebbero poi mediare recuperando una idea alta della politica (…). Napolitano è l’uomo dell’eurocomunismo, del dialogo con la Dc, poi con il capitalismo illuminato, poi con il Psi. Se egli sia una sorta di “Passator cortese” del comunismo italiano o la punta di un iceberg di elettori, quadri, amministratori, sindacalisti comunisti in transizione verso la socialdemocrazia europea, è quanto cercheremo di capire con tutta la simpatia per chi porge la mano aperta e non il pugno chiuso”.
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