La storia dell’astronomia dai miti dell’antichità all’Universo infinito 3: l’astronomia moderna

Roberto Renzetti

GALILEO E COPERNICO

[Premetto che tralascerò completamente ogni riferimento al processo per il quale rimando ai sei articoli dal titolo L’incapacità di comprendere la rivoluzione galileiana].

        Iniziamo con seguire l’approccio di Galileo a Copernico per poi passare a vedere le sue scoperte astronomiche che, per la prima volta, fornirono una realtà fisica al cielo. Fino ad allora infatti lo studio del cielo era stato eminentemente cinematico, come se gli astri non avessero caratteristiche fisiche, come se tutto ciò che non fosse la Terra non avesse consistenza e fosse, aristotelicamente, un altro mondo incorporeo. Abbiamo visto che Kepler provò ad assegnare qualche caratteristica agli astri ma abbiamo anche visto che i suoi lavori passarono abbastanza inosservati.

        La prima notizia che abbiamo da un documento della “conversione” di Galileo al copernicanesimo è del 1597 (Galileo ha 33 anni e da 5 anni da Pisa si è trasferito a Padova(1)). A maggio, da Padova, scrive una lettera (che in realtà è una vera pubblicazione che viene fatta circolare a mano) al suo ex collega Iacopo Mazzoni(2) manifestando per la prima volta la sua adesione alle teorie copernicane con una prima elaborazione matematica per contestare delle posizioni anticopernicane. Forte di questa prima uscita e del successo che aveva avuto, ad agosto, da Padova, scrive una lettera a Kepler(3) manifestandogli la sua adesione alle teorie copernicane. Egli dice che già da tempo pensa a tali teorie, di aver già in mano alcuni indizi favorevoli al sistema astronomico di Copernico, “nostro comune maestro“, come lo chiama Galileo, ma di non avere argomenti per sostenerle (si tenga conto che in quegli anni si era in piena Controriforma: 30 anni prima San Tommaso era stato fatto Dottore della Chiesa; Giordano Bruno da 6 anni era nel carcere dell’Inquisizione; non si respirava aria tranquilla). Galileo viene confortato dalla risposta di Kepler(4) il quale gli comunica che ormai, dalle sue parti, ogni astronomo calcola le effemeridi basandosi sul sistema copernicano. Kepler fa inoltre osservare a Galileo che l’ordinaria accettazione del sistema copernicano da parte degli astronomi fa sì che ormai non restino da convincere che i matematici, i quali – per loro stessa definizione – non concedono postulati senza dimostrazione.

        Galileo sa però che il copernicanesimo è solo una costruzione ipotetica che ha di fronte difficoltà enormi per essere solo preso in considerazione. Per quanto una gran mole di dati provenienti soprattutto dalle osservazione dei naviganti, testimonino la non affidabilità del sistema di Tolomeo, il geocentrismo è molto più affidabile, se non altro perché è a tutti più familiare. Galileo non ha altro, in questo momento, che lo spiraglio della possibilità di confutazione del sistema geocentrico attraverso una dimostrazione geometrica (quella che fa a Mazzoni). E’ molto poco ed egli non azzarda di squalificarsi senza avere argomenti più solidi. Alle sollecitazioni di Thyco del 1600 a scrivere qualcosa sull’argomento neppure risponde. Anche perché il 17 febbraio di quell’anno la Chiesa aveva messo al rogo Giordano Bruno per aver sostenuto, solo in ambito filosofico, il copernicanesimo. Inoltre nel 1592 Francesco Patrizi era stato condannato per aver sostenuto l’esistenza di un solo cielo, la rotazione della Terra, la vita e l’intelligenza degli astri, l’esistenza di uno spazio infinito – riempito dal lumen – al di sopra del mondo sublunare; nell’arco di dieci anni, durante il pontificato di Clemente VIII, erano state messe all’indice la Nota philosophia dello stesso Patrizi, il De rerum natura di Telesio, l’opera omnia di Bruno e di Campanella; erano state effettuate le inchieste contro Giambattista della Porta, Nicolò Stigliola e Cesare Cremonini; era stato condannato a morte Francesco Pucci, imprigionato Tommaso Campanella, arso sul rogo, come già detto, Giordano Bruno.

        A Padova il 10 ottobre del 1604 era apparsa nel cielo, nella costellazione di Ofiuco, una nuova stella (una supernova). Tutti gli studiosi si concentrarono sul fenomeno con varie discussioni, scritti e lettere(5). Lo stesso Galileo aveva redatto appunti per alcune sue lezioni(6), aveva chiesto informazioni sulle osservazioni di suoi conoscenti ed amici in altre città ed aveva fatto delle osservazioni, riportate come postille dal suo allievo Viviani ad un libretto che l’aristotelico Baldassar Capra aveva scritto sul fenomeno(7). A questo lavoro di Capra ne seguì un altro, il Discorso intorno alla Nuova Stella dell’altro aristotelico, Antonio Lorenzini da Montepulciano. A quest’ultimo lavoro seguì uno scritto di autore incerto che fu attribuito a Galileo (anche se poi si scoprì essere stato scritto dal monaco benedettino Girolamo Spinelli con il sostanzioso aiuto e consiglio dello stesso Galileo), il Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la stella nuova del 1605(8). Il fatto è che quella stella ed i tentativi di riportarne la spiegazione all’interno della fisica aristotelica erano fatti apposta per stuzzicarlo. In un cielo eterno, etereo, immutabile, queste stelle nuove (altra era apparsa, nella costellazione del Sagittario, nel 1572 e Thyco aveva avuto una grande attività intorno ad essa) rappresentavano, quantomeno, un fatto da discutere. La prima questione che si presentava riguardava il seguente quesito: il fenomeno che si vede, dove si genera ? Al di sotto del cielo della Luna, dove sono possibili generazione e corruzione ? O al di sopra di tale cielo ? Se quest’ultima è l’eventualità che ne è delle caratteristiche suddette dei cieli al di sopra di quelli della Luna ? e, come vedremo, una discussione analoga nascerà per le comete. Galileo, al di là delle pagine ufficiali che scrive si diletta con il citato lavoro, un poemetto che, si badi bene, è scritto in dialetto padovano molto ma molto stretto (tanto che Antonio Favaro, curatore dell’Edizione Nazionale, ha dovuto tradurlo in volgare). In tale poemetto vi sono delle affermazioni che mettono in dubbio varie concezioni aristoteliche. Si inizia un dialogo in cui l’interlocutore Matteo sostiene la grande lontananza di tale stella. Natale obietta che non è poi tanto lontana se si trova sotto il cielo della Luna. Matteo chiede chi gli ha detto tal cosa e Natale risponde che sono i filosofi. Al che Matteo risponde seccato: “Filosofo, gli è? che ha a che fare la sua filosofia col misurare? Non sai che un ciabattino non può ragionare di fibbie? E’ bisogna credere ai matematici, che sono misuratori dell’aria…”. Per Matteo sono i matematici che debbono misurare e non basta. Vi sono altre cose che quei filosofi non capiscono come, ad esempio, il fatto che le stelle potrebbero essere tante, molte di più di quante se ne vedono … Natale non demorde e dice che per quei filosofi se tale stella fosse in cielo rovinerebbe tutta la filosofia perché nel cielo non si può creare nulla essendo esso fatto di quint’essenza. Matteo si arrabbia e dice che allora dovrebbero portare in giudizio la stella. Quei filosofi dovrebbero convincersi che le cose in cielo vanno come sulla Terra e che quella stella è stata vista nello stesso luogo da spagnoli, tedeschi e napoletani e la cosa mostra che non sembra esservi parallasse. Infine Matteo consiglia a Natale di utilizzare come carta igienica il libro di quei filosofi.

        Non risultano altre cose di Galileo in relazione a Copernico per altri 5 anni. Il nostro continuò i suoi insegnamenti di fisica aristotelica su: l’Almagesto di Tolomeo, il De caelo di Aristotele, la Sphaera Mundi di Sacrobosco, il Liber de astronomia di Teone di Smirne. Mantenne pubblicamente  un cauto riserbo sull’interpretazione del fenomeno, facendo addirittura intendere che poteva trattarsi di vapori lontani, illuminati dal Sole, in rapido moto di allontanamento radiale (spiegazioni molto in uso tra i filosofi aristotelici). Occorrerà attendere il 1610 perché le cose cambino. 

IL “SIDEREUS NUNCIUS

        Arriviamo al 1610, primo anno fondamentale nella vita di Galileo che ha ora 46 anni. Raccoglie in un volume, “Nuncius Sidereus” (‘Il messaggero delle stelle’, nome che in qualche modo richiama il Mercurio, l’Hermes, della filosofia ermetica – vedi l’articolo “Magia, Scienza e Religione nel Rinascimento italiano“), tutte le osservazioni fatte nel cielo con il suo cannocchiale (elaborato da un esemplare che gli era stato portato dall’Olanda e che egli, per primo, rivolge al cielo). In particolare scopre:

– le macchie sulla Luna sono ombre proiettate dai monti (dei quali calcola l’altezza); la superficie del satellite si rivela scabrosa, irregolare, con monti e valli quali osserviamo nel nostro mondo e non certo incorruttibili e perfetti come descritti dalla cosmologia aristotelica(9);

La luna come disegnata da Galileo

– scopre le quattro ‘lune’ di Giove, fatto che mostra che non solo la Terra può essere centro di moti circolari(10); egli ne dà le successive posizioni disegnando Giove con un circoletto e le 4 lune con degli asterischi di diverse grandezze;

Le lune di Giove come si osservano in momenti diversi con un cannocchiale

– la via lattea è costituita da un’infinità di stelle (la cosa era già stata sostenuta da Democrito) e ne fornisce alcune mappe;

Una delle mappe stellari disegnate da Galileo e riportante svariate stelle non visibili ad occhio nudo

– scopre l’anello di Saturno (data la bassa risoluzione del suo cannocchiale, non vede chiaramente l’anello, ma il pianeta gli appare ‘tricorporeo’);

Saturno, disegnato da Galileo

I vari modi in cui poteva apparire Saturno con un cannocchiale come quello di Galileo (bassa risoluzione). Un corpo centrale con due rigonfiamenti laterali.

– scopre le fasi di Venere (e di Mercurio) che mostrano che Venere ‘potrebbe’ ruotare intorno al Sole ed inoltre stabilisce che i pianeti sono per loro natura oscuri risultando ricevere luce dal Sole(11).

Le fasi di Venere come risultano da un’osservazione con il cannocchiale.

        L’insieme di tutte queste clamorose scoperte lo convince finalmente della teoria copernicana ed inizia a pensare di poterla sostenere. 

Dal punto di vista dell’osservazione, il punto di vista matematico, ha prove che gli sembrano inconfutabili (e che non verranno confutate, anche se in molti si rifiuteranno di guardare nel cannocchiale, strumento bugiardo e demoniaco). Dal punto di vista filosofico vi sono vari passi della cosmologia e fisica aristotelica che vengono compromessi definitivamente. Il problema da discutere sarà sempre quello dei fenomeni se riguardano l’al di là del cielo della Luna o ciò che sta sotto di esso. In quest’ultimo caso non vi sarebbe stato alcun problema; nel primo invece i problemi sarebbero risultati insuperabili. 

1. Il paesaggio lunare è come il terrestre: vi sono monti, valli e “mari”. La Luna perde le caratteristiche di “pianeta etereo”, assumendo caratteristiche “materiali” precise. Inoltre un pianeta come la Luna, con caratteristiche terrestri, si muove senza essere dotato di un motore. Cade una delle fondamentali obiezioni di Tolomeo al moto della Terra (restano quelle contrarie al moto della Terra su se stessa, e quella di Aristotele sulla deviazione dalla verticale che dovrebbero subire gli oggetti in caduta).

2. La scoperta dei satelliti di Giove crea un enorme disordine nel mondo a sfere cristalline concentriche. Come possono quei satelliti ruotare senza sfondare più volte le sfere cristalline ? Si pensi che San Tommaso avanzava dubbi sul dogma di fede che asserisce la salita al cielo di Gesù con tutto il suo corpo e, proprio per lo stesso motivo, lo sfondamento delle sfere celesti. Inoltre, quei satelliti mostrano che non solo la Terra può essere centro di moti circolari. Altri astri possono candidarsi allo scopo.

3. La comparsa di nuove stelle pone la questione dell’immutabilità dei cielo. Il cielo muta. In esso vi è generazione e corruzione (che Aristotele prevedeva per la sola Terra e fin sotto il cielo della Luna). Più in generale, cade la divisione aristotelica dell’universo in due entità: quella al di sopra del cielo della Luna (perfetta e immutabile) e quella al di sotto di questo cielo, vile e corruttibile.

4. La scoperta della Via Lattea come agglomerato di stelle apre alla pluralità bruniana dei mondi e fa capire che l’universo è molto più grande di quanto si sospettava poiché, se è vero che si vedono molte più stelle, la loro dimensione apparente resta invariata.

5. La scoperta della diversità tra stelle e pianeti crea una ulteriore frattura nei due mondi aristotelici (i pianeti, contrariamente alle stelle, variano il loro raggio apparente).

6. La scoperta che Venere presenta delle fasi come quelle della Luna porta alla conclusione che il centro del moto deve essere il Sole e non la Terra.

Le fasi di Venere nel sistema tolemaico (a) e nel sistema copernicano (b). Nel primo caso Venere deve sempre apparire  con forma più o meno crescente mentre nel secondo caso può apparire quasi piena quando passa dietro il Sole con dimensioni notevolmente variabili. Da Westfall.

7. La scoperta che la Terra riflette luce sulla Luna fa concludere che l’umile Terra fornisce luce al mondo etereo.

8. La scoperta della “incorporeità” e “tricorporeità” di Saturno, di nuovo, rimette in discussione la perfezione del mondo sopralunare ed il fatto della non sfericità di tutti i corpi ivi situati.

9. La scoperta delle macchie sul Sole è la prova più manifesta che non vi è zona perfetta nell’universo: uno degli astri che appartiene a questa zona presenta segni di corruzione, le macchie.

        E’ un vero sconquasso nel sistema del mondo di Aristotele, ogni ordine gerarchico tra gli elementi è sconvolto, è fatta a pezzi la teoria dei luoghi naturali e si tratta di fatti che non necessitano di interpretazioni, essi sono eloquenti di per sé rispetto alla negazione delle ipotesi dominanti. Osservo comunque che distruggere non porta automaticamente ad un’altra fisica. E Galileo se ne rende perfettamente conto, deve elaborare una fisica che renda plausibile il sistema copernicano.

        La convinzione copernicana si rafforzò l’anno successivo (1611) quando Galileo scoprì le macchie solari (il fuoco, elemento tra i più nobili, quello che Tommaso mette più vicino a Dio, viene corrotto da macchie e ciò è inammissibile nella fisica aristotelica rimaneggiata da Tommaso). E tali macchie, per colmo di malvagità, ruotavano intorno al Sole o, meglio, il Sole ruotava su se stesso e le macchie restavano immobili (le due alternative erano presenti a Galileo che optò per la seconda; la prima avrebbe previsto una sostanza fluida in moto intorno al Sole ed era una cosa difficile da immaginare e descrivere). Il lavoro sarà pubblicato nel 1613 ed in esso si sostiene che si tratta proprio di macchie sull’astro e non come aveva sostenuto lo Scheiner, gesuita del Collegio Romano, di piccoli pianeti che lo eclissano. Galileo inizia a cambiare il contenuto delle sue lezioni.

        La pubblicazione del Sidereus Nuncius fece grande scalpore. Gli entusiasmi si mescolarono all’incredulità, all’invidia, allo scetticismo, alla rabbia. Iniziarono le tipiche operazioni dei filosofi peripatetici: è lo strumento che è ingannevole, le cose che si vedono sono prodotte dentro lo strumento, non è uno strumento che può mettere in dubbio la verità del maestro Aristotele. Il non guardare attraverso il cannocchiale divenne una prassi. Lo stesso Cremonini, amico di Galileo affermava che  “Quel mirare per quegli occhiali m’imbalordisce la testa“.

        La corrispondenza, in quel periodo si fa densa ed a Galileo arrivano anche dei consigli sul come comportarsi e sul non insistere troppo con le sue sconvolgenti scoperte(12)

        Intanto vi è la scoperta delle macchie solari alla quale ho accennato. Galileo le aveva mostrate a Roma durante il suo viaggio del 1611. Ma per almeno un anno non studiò la cosa spinto da uno studio del matematico gesuita Scheiner, Tres Epistolae de Maculis Solaribus Scriptae ad Marcum Welserum,  pubblicato in latino nel gennaio 1612 con lo pseudonimo di “Apelles latens post tabulam”  (“Apelle aspetta dietro il dipinto”). Nel suo lavoro Scheiner resta fedele alla filosofia peripatetica e tenta di salvare la perfezione del Sole inventandosi dei pianetini ruotanti intorno ad esso che in alcuni momenti lo eclissano. Fu lo stesso Welser che inviò a Galileo una copia dell’opera di Scheiner con la richiesta di commentarlo ma Galileo fu impegnato fino ad aprile con la pubblicazione dell’altra sua opera, “Intorno alle cose che stanno in su l’acqua“. Da quel momento si dedicò alle macchie solari con nuove osservazioni facilitate dalla scoperta dell’amico Benedetto Castelli che realizzò la proiezione dell’immagine del Sole catturata dal telescopio su una superficie. Galileo scrisse allora a Welser affermando che quelle macchie erano sul Sole ma ancora non era in grado di dire se sulla superficie o nella sua atmosfera (“nubi”). Welser fece conoscere la lettera a Scheiner che rispose (ottobre 1612) con l’opera De Maculis Solaribus . . . Accuratior Disquisitio nella quale ribadiva le sue convinzioni. Galileo aveva nel frattempo scritto (agosto 1612) un’altra lettera a Welser ed a questa ne aggiunse una terza nel dicembre, dopo aver letto il secondo lavoro di Scheiner. Quest’ultima è lunga ed articolata ed è un vero trattato moderno di fisica e cosmologia, ormai fuori dalle vuote ed inutili chiacchiere peripatetiche con la ferma critica dell’ammissione a priori della perfezione del Sole che Scheiner faceva (anche se va ricordato che i rapporti fra Scheiner e Galileo furono cordiali e di rispetto reciproco fino ad un malinteso che si originerà 10 anni più tardi. Nel suo Il Saggiatore Galileo criticò chi non gli aveva riconosciuto la priorità sulla scoperta delle macchie senza far cenno a Scheiner. Quest’ultimo credette che l’accusa fosse a lui diretta e, da questo momento, gli divenne acerrimo nemico). Alla fine di questa lettera, Galileo riassume le sue scoperte, le mette insieme alle macchie solari  e fa addirittura delle previsioni astronomiche su come si “muoveranno” nel tempo gli oggetti astronomici da lui scoperti per concludere: “… Siami per una volta permesso di usare un poco di temerità … per ora solamente su probabil coniettura sembra che tutto con ammirabil maniera concorre all’accordamento del gran sistema Copernicano, al cui palesamento universale veggonsi propizi venti indirizzarci con tanto lucide scorte, che ormai poco ci resta da temere tenebre o traversie”.

        Le tre lettere di Galileo a Welser vennero pubblicate in un unico volume a Roma dall’Accademia dei Lincei nell’estate del 1613 con il titolo Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti.

        Dopo la  pubblicazione del lavoro sulle macchie solari, continuarono le lettere che attaccavano Galileo, ma siamo ormai alla condanna pubblica del copernicanesimo in varie forme da parte di vari ordini religiosi. Pian piano iniziò un attacco concentrico a Galileo che sfocerà nell’Ammonizione (e non Precetto, come la Chiesa falsificò) di Bellarmino del 1616.

ASTRONOMIA E FISICA

        Le scoperte di Galileo disegnavano, come accennato, un cielo con medesime caratteristiche della Terra. Questo cielo era del tutto inconciliabile con ogni teoria cosmologica precedente, particolarmente  con quella aristotelico-tolemaica che, da San Tommaso, era stata assunta dalla Chiesa.

        Galileo si rese subito conto di ciò e, mentre da un lato divenne un convinto copernicano, accettando la cinematica di quel sistema, dall’altro si pose il problema fondamentale alla base dell’accettazione medesima di tale sistema. Abbiamo visto che Aristotele aveva costruito un mondo perfetto integrando strettamente cosmologia e fisica. Ma quella cosmologia con quella fisica. Cambiando sistema, cambiando le posizioni di Terra e Sole, l’intero sistema aristotelico crolla ed il sistema copernicano si trova privo, completamente privo, di una fisica. Ecco, l’impegno maggiore di Galileo non è astronomico ma riguarda proprio il dotare il sistema copernicano di una fisica consistente con esso. Per fare ciò non poteva partire da zero ma smontando ciò che c’era in un modo che doveva essere convincente per conquistare adepti alla nuova cosmologia.

        Galileo era ben cosciente che il sistema copernicano non si si riesce a mostrare in modo semplice agli osservatori ingenui per il semplice fatto che, osservando dalla Terra, sembra proprio che la Terra sia immobile e che il Sole le giri intorno. E’ la classica cosa contraria al senso comune e, detto di passaggio, la scienza ha sempre fatto passi importanti quando è riuscita a superare l’empirismo ingenuo, il senso comune, per sottoporre i fatti circostanti a trattamento teorico. Far vedere in qualche modo che i ruoli di Sole e Terra sono invertiti è il fine principale di Galileo. A questo se ne associa subito un altro: controbattere tutte le argomentazioni che dicono essere impossibile che la Terra si muova. Di passaggio, e non è una sciocchezza, si tratta di fornire dei contenuti alla spiegazione di tutti quei fenomeni naturali che osserviamo sulla Terra e che con la fisica di Aristotele trovavano una loro logica sistemazione. Ammettere infatti il moto della Terra in un universo aristotelico comportava degli sconquassi enormi. Solo alcuni: la Terra materiale si infila a enorme velocità in un mondo etereo attraverso sfere cristalline che devono andare in frantumi. Quale motore è in grado di muovere la Terra ? e cosa regge sospesa nello spazio Terra ed altro, dal momento che le sfere sono andate in frantumi ? ed un oggetto perché dovrebbe cadere per terra ? quel luogo non è più naturale, non è più il luogo più in basso. Ed una Terra in moto non dovrebbe vedere tutti gli oggetti che si trovano su di essa e non ancorati, andarsene in volo scagliati via nel verso contrario a quello del moto della Terra ? Eccetera, eccetera, eccetera.

        L’impresa è ardua e mai nessuno, nella storia dell’umanità a noi nota, ha dovuto affrontare simultaneamente, accordando il tutto, questa mole di problemi per costruire un mondo radicalmente diverso da quello di partenza (Descartes più oltre si diletterà in questioni metafisiche). E, per di più, con l’handicap di una Chiesa che non gradiva l’operazione e che aveva il potere, se si varcavano certe prescrizioni, di portarti fino al rogo.

        Questa operazione porterà Galileo a scrivere due opere fondamentali nella storia del pensiero scientifico, Discorso sui massimi sistemi del mondo e Discorsi e dimostrazioni matematiche. La prima di esse lo farà condannare dal Tribunale dell’Inquisizione della Chiesa, la seconda sarà pubblicata clandestinamente in Olanda (ripeto che di questo non mi occupo in questa sede, come non mi occuperò di raccontare di nuovo i contributi di Galileo alla fisica, rimandando per ogni questione riguardante Galileo agli articoli citati).

        In tali lavori, in modo discorsivo, si smonta la fisica di Aristotele e si fanno i primi fondamentali passi nella fisica nuova (comprensione del moto, principio d’inerzia, principio di relatività cinematica, caduta dei gravi, traiettorie dei proiettili, composizione dei movimenti, leggi del pendolo, … , microscopio, termoscopio,…). Gli argomenti di Galileo, sostenuti da sensate esperienze e dimostrazioni, hanno il senso del rivolgere completamente ogni conoscenza preesistente. Il principio di relatività, insieme al principio d’inerzia,  permette di assegnare il moto a determinati oggetti e non ad altri e luoghi privilegiati rispetto ad altri, sembrano ora svanire nel nulla. Si prefigura uno spazio moderno senza luoghi privilegiati e completamente geometrizzato, anche se non nel senso euclideo, con molte rotture rispetto al passato ma con ancora un indulgere a circonferenze e moti circolari dai quali non riesce quasi a staccarsi. Non siamo certo alla metafisica dello spazio assoluto di Newton ma certamente abbiamo liberato lo spazio ed il tempo da ogni costrizione metafisica(13).

        Ma a Galileo si deve un’altra innovazione fondamentale: il metodo sperimentale che fa accettare teorie solo se confermate dall’esperienza. Tale metodo rende la ricerca scientifica completamente indipendente da dogmi filosofici e religiosi. È lo stesso esperimento che va progettato in funzione della teoria a priori. L’esperienza pregalileiana era altra cosa: la teoria a priori che discendeva da osservazioni offerteci dal mondo naturale, senza riproduzione e ripetizione in laboratorio e, soprattutto, senza quella sensazionale scoperta di Galileo (della quale quasi nessuno parla) della separazione delle variabili e dell’idealizzazione dell’esperienza medesima che spesso fa astrazione del fatto empirico per immaginare come andrebbero le cose senza alcune costrizioni (attrito, resistenza dell’aria, …). Non è cosa da poco: ciò che ci offre la natura è un misto di vari fenomeni, eventi, moti, .. . Come distinguere, venirne a capo ? Isolando ciò che ci interessa. Tra i tanti parametri suscettibili di variazione, scegliere i “due” che si vogliono studiare; sterilizzando il fenomeno da studiare; semplificando il problema mediante astrazioni; riconducendo il fatto reale ad un fatto teorico. Questo procedimento assume un tal rilievo che lo stesso Newton seguirà pedissequamente la strada tracciata da Galileo: solo con i lavori dei fisico-matematici francesi della seconda metà del ‘700 (Lagrange, D’Alembert, Laplace, . . . ) si riuscirà a formalizzare l’astrazione vincolare, d’attrito (Coulomb), ed altro realizzata da Galileo.

        E poi, basta una sola osservazione di laboratorio ? Occorre farne molte, perché una sola può essere proprio quella osservazione che, oggi diremmo, sta nelle code della gaussiana. Come confrontare i risultati delle diverse esperienze ? Non lo si può fare se non si ha una redazione precisa di ognuna; e per far ciò occorre passare dal qualitativo aristotelico al quantitativo. E per far ciò è necessaria la matematica come già detto da Galileo ne Il Saggiatore.  A lui si deve quindi anche la formulazione esplicita della necessità di descrivere i fenomeni in forma matematica.

        Ed in definitiva: prima ci vuole la chiara coscienza di ciò che si vuole trovare, una teoria a priori che si fondi sulla matematica e che parta dai presupposti più semplici(14); poi esperienza, ancora con il sostegno della matematica per la redazione dei risultati e per il loro confronto; quindi dallo studio di casi particolari alla formulazione di leggi che abbiano carattere più generale. Nel far questo è di potente ausilio il processo di astrazione che permette da una parte di superare l’empirismo ingenuo e, dall’altra, mediante il processo di separazione delle variabili, di cogliere l’essenza del fenomeno (si trascuri la resistenza dell’aria, si trascurino gli attriti, supponiamo un filo privo di massa, . . . ). Se tutto questo pare poco, lo stesso Galileo afferma la provvisorietà di ogni risultato e propone un modo per controllarlo iterativamente nei Discorsi. In tutto questo argomentare è delineata la nuova fisica: intersezione di teoria, matematica ed esperienza. Ma da questo momento Galileo avrebbe avuto altre questioni da affrontare.

        Altro aspetto da sottolineare è la nuova strumentazione introdotta ancora da Galileo ed in particolare il cannocchiale ed il pendolo per la misura del tempo. Proprio per uscire dall’empirismo ingenuo è fondamentale, come detto, fare esperienze ma senza strumenti di precisione con affidabilità sempre maggiore l’impresa risulterebbe illusoria. L’avanzare della tecnica nel Rinascimento, nel Barocco e nelle epoche successive, insieme all’approfondimento degli studi sulle basi concettuali su cui si realizza uno strumento, permetterà di costruire strumenti di grandissima precisione che davvero destano ancora vivissima ammirazione.

        Ultimo aspetto da tenere presente è l’operazione che inconsapevolmente il cannocchiale aveva realizzato. Ora l’astronomia non era più un qualcosa riservato ai sacerdoti scienziati che con presunti meri artifici matematici disegnavano il mondo, in modo certamente utile ma sfuggente di qualunque significato fisico. Ora chiunque avrebbe potuto guardare il cielo osservando un universo che solo l’ottusa Chiesa non riconosceva come copernicano o comunque non certamente aristotelico-tolemaico.

HUYGENS

[Anche per la biografia ed il complesso dell’opera di Huygens rimando agli articoli che lo riguardano]

          Huygens (1629-1695), fisico olandese, è in qualche modo il vero e forse unico seguace del metodo di Galileo. Le sue ricerche possono essere considerate il seguito ideale di quelle dello scienziato pisano e certamente alla porta delle scoperte fondamentali di Newton sulla gravitazione universale.  Purtroppo, come già altrove detto, di Huygens in Italia si conosce poco eppure è uno dei massimi scienziati della storia del pensiero scientifico. Qui seguirò i suoi lavori di astronomo e di costruttore di strumenti per poi passare alle sue scoperte di meccanica che avranno un ruolo fondamentale nella comprensione del moto dei pianeti.

        Tra il 1651 ed il 1654, mentre scriveva di matematica, Huygens(15)  rivolse la sua attenzione ad una sua vecchia passione, il lavorare con le mani per realizzare meccanismi di ogni genere e si dedicò, questa volta, alla fabbricazione di lenti ed alla costruzione di telescopi. Apprese da studiosi e artigiani molte informazioni teoriche riguardo ai telescopi realizzati utilizzando più di due lenti, mettendo poi in pratica queste nozioni con la costruzione di lenti e telescopi. Intorno al 1654 sviluppò un modo originale di taglio e levigatura di lenti che lo portarono a telescopi di grande qualità ed anche di grandi dimensioni (uno di essi era lungo 5 metri). Diresse uno di tali telescopi, tra i migliori esistenti all’epoca, verso il cielo in cerca di eventuali lune di Marte (osservando tale pianeta, scoprì, come dirò più oltre, alcune macchie su di esso delle quali il primo disegno era stato realizzato nel 1636 dal napoletano Francesco Fontana), Venere e Saturno. Quest’ultimo pianeta lo incuriosiva particolarmente perché il suo aspetto, dalle osservazioni di Galileo, restava misterioso risultando tricorporeo.

I disegni di Galileo sulle sue osservazioni di Saturno

Dopo varie osservazioni, nel 1655, scoprì la prima luna di Saturno, Titano(16) e la natura della tricorporeità del pianeta, ma aspettò un anno prima di comunicare la sua scoperta perché voleva controllare molto bene le sue osservazioni.

Nel frattempo, ad evitare che qualcuno gli togliesse la priorità delle scoperte, utilizzò anagrammi in latino composti di varie lettere che per loro trasposizione formavano la frase nascosta e li incideva sull’oculare del telescopio. L’anagramma per l’anello di Saturno era: aaaaaaa ccccc d eeeee g h iiiiiii llll mm nnnnnnnnn oooo pp q rr s ttttt uuuuu che sta per Annulo cingitur tenui, plano, numquam cohaerente ad eplicticam inclinato (“È circondato da un sottile anello piatto, che non lo tocca mai e che è inclinato rispetto all’eclittica”), mentre quello per la scoperta di Titano era: aaaaa b ccc ddd eee h iiii l mm nn ooo q rrrrr ssssss ttt uuuuuuuuu x che sta per Saturno luna sua circumducitur diebus sexdecim, horas quatuor (“Saturno è accompagnato da una luna che gli gira intorno in 16 giorni e quattro ore”). Per la scoperta di Titano, Huygens ricevette le felicitazioni del grande astronomo ligure, Gian Domenico Cassini (che per la fama conquistatasi con le sue osservazioni a Bologna, nel 1669, venne chiamato a Parigi dal Re Sole, Luigi XIV, presso l’Observatoire Royal, appena istituito).
 

Disegno di Huygens rappresentante la Luna e Saturno

Vari disegni di Huygens relativi alle sue osservazioni di Saturno.

Spiegazione grafica di Huygens del perché, dalla Terra, le osservazioni danno immagini diverse dell’anello di Saturno

Disegni di Huygens rappresentanti le grandezze di varie orbite planetarie confrontate con quelle della Luna intorno alla Terra (il piccolo disegno in basso). Questa illustrazione proviene dall’ultima opera di Huygens, Cosmotheoros, che discuterò più oltre.

        Egli non dette alcun nome al satellite di Saturno, lo chiamò semplicemente Luna Saturni. Le sue osservazioni proseguirono e nel 1656 riscoprì la nebulosa di Orione, già scoperta dal gesuita astronomo svizzero Jean-Baptiste Cysat (che fu allievo dello Scheiner delle macchie solari che ebbe varie controversie con Galileo)nel 1618, isolando varie stelle che la costituiscono (era la seconda nebulosa

Il disegno di Orione fatto da Huygens

osservata, dopo quella di Andromeda). Più tardi, nel 1659, pubblicò Systema Saturnium nella quale spiegava la tricorporeità di Saturno: si trattava di un anello piatto sottile, formato da rocce orbitanti, che circondava il pianeta inclinato sul piano dell’orbita, cambiando forma secondo determinate fasi e, soprattutto, non legato al pianeta in alcun punto: “Saturne est entourée d´un anneau mince n’adhérant à l’astre en aucun point, et incliné sur l’écliptique“. Per poter comprendere la vera natura delle singolari protuberanze, l’astronomo olandese adottò nelle osservazioni un nuovo telescopio da lui costruito avente una lunghezza focale circa doppia rispetto al primo e capace di raggiungere un centinaio di ingrandimenti. Nello stesso 1659 Christiaan Huygens misurò l’angolo che sottende Marte nel cielo e, attribuendo arbitrariamente un valore al diametro di questo pianeta, stimò che l’unità astronomica cioè la distanza media della Terra dal Sole, doveva essere di 160 milioni di chilometri, cioè sette volte maggiore di quella stimata da Kepler (ma un 10% più grande del suo valore reale che è di 149 milioni di chilometri). Tale misura non fu accettata ed anche lo stesso Huygens non la sostenne perché tutto dipendeva dall’arbitrarietà assunta per quel diametro di Marte (che per felice combinazione egli aveva indovinato). Altre osservazioni astronomiche di grande interesse sono dovute al nostro: fu lui che per primo parlò di atmosfera e nubi sul pianeta Venere; a lui si deve la scoperta di una macchia caratteristica su Marte, Syrtis Major, che gli permise di stabilire che anche quel pianeta aveva un moto di rotazione intorno al suo asse con una durata di circa 24

Disegni di Huygens della superficie di Marte. Il primo è del 28 novembre 1659; il secondo del 13 agosto 1672 (ore 22 e 30); il terzo del 17 maggio 1683 (ore 22 e 03)

ore(17); fu ancora lui che, subito dopo che lo aveva fatto Robert Hooke, osservò la grande macchia rossa sul pianeta Giove. Naturalmente il giovane Huygens fu duramente attaccato da vari personaggi tra cui il gesuita Fabri. Solo nel 1665, quando tutti poterono disporre di migliori telescopi, la teoria di Huygens degli anelli di Saturno fu generalmente accettata, anche da Fabri.

Il Sole, sullo sfondo, a confronto con le dimensioni di vari pianeti. Questa illustrazione proviene dall’ultima opera di Huygens, Cosmotheoros, che discuterò più oltre.

        E proprio al perfezionamento dei telescopi egli, con l’aiuto del fratello, dedicò gli anni che vanno dal 1681 al 1687 alla costruzione sempre più sofisticata di lenti per telescopi che arrivarono a dimensioni insperate per quell’epoca. Uno di tali telescopi, montato per quegli obiettivi, era lungo 70 metri ed un altro 56 metri. Questi erano due casi particolari. In modo più “commerciale” essi realizzarono comunemente telescopi di 35 metri o più piccoli.

           Ma questo è solo uno dei contributi agli strumenti che Huygens fornì. Di fondamentale importanza fu la sua realizzazione della misura del tempo attraverso un orologio a pendolo. Nel 1657, Huygens aveva brevettato il primo orologio a pendolo che aumentò enormemente la precisione nella misura del tempo. Egli aveva incorporato al pendolo, che oscillava per un tempo limitato, il meccanismo di alimentazione da parte di pesi in caduta rallentata su una ruota dentata, in modo da mantenere l’oscillazione per tutto il tempo che tali pesi impiegavano nella loro caduta. Egli riuscì poi ad accoppiare meccanismi di orologi (che avevano una storia lunga, di circa 400 anni) con il pendolo mediante l’invenzione un sistema meccanico che permetteva di mantenere per molto tempo le regolari oscillazioni del pendolo e di misurare intervalli di tempo relativamente piccoli (fino ad un secondo): lo scappamento. Si tratta di un sistema meccanico per trasformare il moto oscillatorio in moto rotatorio. Questo sistema fu successivamente perfezionato dallo stesso Huygens che riuscì a rendere isocrone anche oscillazioni pendolari non più piccole, mediante il pendolo cicloide.

LA FORZA CENTRIFUGA 

        Huygens, tra i molti suoi lavori, aveva anche scritto un trattato sulla forza centrifuga, De Vi Centrifuga(18), pubblicato postumo nel 1703 negli Opuscola Postuma ed aveva anche discusso di forza centrifuga nella Parte V ed ultima dell’Horologium oscillatorium del 1673 ma solo presentando alcuni teoremi senza dimostrazione. Un commento sul titolo è indispensabile: si introduce la parola forza e quindi programmaticamente Huygens si pone sulla strada complessa della dinamica, strada che aveva rifiutato quando si era occupato di urti. Probabilmente, con Westfall, l’idea era di pensare questa forza come un peso statico e quindi del tutto accettabile nella statica. L’interesse per questo problema gli nasceva dallo studio degli orologi a pendolo e dalle oscillazioni ad arco di cerchio delle masse rigide pendolari. Egli osservò che un corpo rigido che si muove di moto circolare uniforme ha la tendenza (il conatus) a spostarsi verso la periferia e, tale tendenza, è del tutto simile a quella di un corpo in caduta, e quindi dei corpi pesanti sospesi ad un filo. Per Huygens forza centrifuga e peso, erano più che fenomeni simili; essi dovevano anche essere complementari. Occorre solo aggiungere che si risente l’influsso di Descartes, non certo per le conclusioni ma per l’essersi impegnato nell’esprimere in modo quantitativo il tentativo (conatus) dei corpi di allontanarsi dal centro di rotazione. Cercherò ora di discutere i risultati che egli ricavò su una grandezza, la forza centrifuga, che fu introdotta proprio da lui a partire dal principio d’inerzia, il quale nella pratica dice che solo quando si ha deviazione da un moto rettilineo a velocità costante, occorre ricercare la presenza di forze. La domanda di Huygens è: quale forza deve agire su un corpo che si muove di moto circolare ?

        Per trattare l’argomento, come diremmo oggi, Huygens si pone nel sistema di riferimento in moto rotatorio. Occorre aggiungere che oggi la forza centrifuga è considerata una forza fittizia poiché scegliamo sempre di studiare i fenomeni rotatori da un riferimento inerziale (o fermo o in moto rettilineo uniforme). Osservando da tale riferimento noi possiamo solo dire che un oggetto in moto circolare ha la tendenza ad andare verso il centro del moto, essendo soggetto così ad una accelerazione centripeta (variazione della velocità non in modulo ma in direzione e verso)(19). Egli ipotizza una grossa ruota in rotazione su un piano orizzontale ed imperniata su un asse verticale. Prima di passare a discutere le elaborazioni di Huygens, leggiamo alcuni passi del De vi centrifuga, riferendoci alla figura seguente (sovrapposizione di due figure, la 4 e la 6, del De vi centrifuga).

Sia una ruota BG orizzontale ruotante attorno al suo centro A. Una sfera attaccata alla sua circonferenza, quando giunge al punto B, ha una tendenza (conatus) a continuare il suo percorso secondo la retta BS tangente alla ruota nel punto B: in effetti, se essa è staccata dalla ruota e se sfugge, resterà sul percorso BS e non ne uscirà, a meno che la forza di gravità non la tragga verso il basso o che l’incontro con un altro corpo non impedisca il suo movimento. In verità, è difficile comprendere, a prima vista, perché il filo AB sia teso come è quando il globo ha una tendenza a procedere secondo BS, perpendicolare ad AB. Ma tutto diventerà chiaro con il seguente ragionamento.

Immaginiamo, inoltre, che quest’uomo tenga in mano un filo che porti attaccato alla sua seconda estremità una palla di piombo. Il filo sarà dunque teso allo stesso modo e con la stessa energia (aeque valide) per mezzo della forza di rotazione, sia che venga tenuto in questo modo, sia che vada sino al centro A e che vi sia attaccato; la ragione per la quale è teso può essere intuita molto chiaramente. Prendiamo degli archi uguali BE, EF, molto piccoli in rapporto alla circonferenza intera … L’uomo fissato alla ruota percorre questi archi in tempi eguali, e negli stessi intervalli di tempo, il piombo percorrerebbe, se venisse lasciato, dei percorsi rettilinei BK, KL uguali a questi archi, e le cui estremità K, L, non cadono in verità esattamente sui raggi AE, AF, ma, sono ad una piccolissima distanza da queste linee dalla parte di B … (Poiché queste estremità si allontanano un poco dai raggi del lato di B), accade che il globo non tenda ad allontanarsi dall’uomo seguendo un raggio, bensì una curva che tocca questo raggio nel punto in cui si trova l’uomo. ( … )

Di conseguenza, poiché il globo trascinato dalla ruota, tende a descrivere, in rapporto al raggio nel quale si trova, una curva tangente a questo raggio, si vede che il filo sarà teso da questa tendenza (conatus) esattamente come se il globo tendesse a seguire il raggio stesso.

Ma gli spazi che percorrerebbe il globo sulla suddetta curva in tempi crescenti per gradi uguali sono come la sequenza dei quadrati 1,4,9.,16, … di numeri interi, se si considera l’inizio del movimento e degli spazi molto piccoli. La figura mostra ciò nel caso in cui si

[Fig. 6]

siano presi, sulla circonferenza della ruota, degli archi uguali BE, EF, FM, e sulla tangente BS dei segmenti BK, KL, LN, uguali a detti archi; poiché essendo d’altra parte i raggi EC, FD, MS. Se il globo fosse staccato nel punto B dalla ruota che gira, quando B giungesse nel punto E, il globo sarebbe nel punto K e avrebbe percorso l’elemento EK della curva qui sopra descritta; in capo ad un secondo intervallo di tempo uguale al primo, quando B fosse arrivato al punto F, il globo si troverebbe nel punto L e avrebbe percorso la parte di curva FL. .. Ma queste porzioni di curva devono essere considerate all’inizio della separazione del globo e della ruota come uguali alle rette EC, FD, MS che esse toccano, poiché si possono prendere, a partire da B, degli archi sufficientemente piccoli perché la differenza tra queste rette e gli archi stia, con la loro lunghezza in un rapporto interiore ad ogni rapporto immaginabile.

Dunque gli spazi EK, FL, MN, devono essere considerati come crescenti secondo la serie dei quadrati 1,4,9,16. E, conseguentemente, il conatus del globo trattenuto sulla ruota in movimento, sarà lo stesso che se il globo tendesse ad avanzare seguendo il raggio con un movimento accelerato nel corso del quale percorrerebbe in tempi uguali degli spazi crescenti come i numeri dispari… Da ciò trarremo la conclusione che le forze centrifughe di mobili disuguali trasportati in cerchi uguali a velocità uguali stanno tra di loro come le gravità dei mobili, cioè come le quantità solide … Ci rimane da trovare la grandezza o la quantità dei diversi conatus per le diverse velocità della ruota 
[Tratto da   Canguilhem].

        Da questa presentazione del fenomeno occorre passare alla sua formalizzazione. Intanto alcune osservazioni. La prima è relativa alla gravità che, come si può facilmente apprezzare, è considerata una tendenza verso la caduta (il conatus). La seconda riguarda come viene presentato il problema della misura della gravità: si deve misurare la velocità dell’oggetto immediatamente dopo la rottura del vincolo. E da ciò prende le mosse Huygens per discutere quantitativamente la forza centrifuga (seguirò D’Agostino).

        L’uomo che si trova sulla ruota nel punto B rompe il vincolo (la corda) che teneva il corpo legato al centro A. Se questo corpo continua a muoversi con la medesima velocità, allora arriverà successivamente in K, L, … Per piccoli intervalli di tempo, tali che il conatus non faccia in tempo a distruggersi, si

possono fare le seguenti approssimazioni: EK = EC;  FL = FD. Osserviamo ora che EC ed FD aumentano con i quadrati dei tempi e ciò vuol dire che il conatus si comporta come un grave sospeso ad un filo per il quale già sappiamo che vi è una dipendenza dal quadrato del tempo. Da qui si può trarre una prima conclusione:  le forze centrifughe dei corpi mobili ineguali, ma mossi secondo circonferenze eguali e con eguali velocità stanno tra loro come la gravitas o quantità solide dei corpi(20), la stessa cosa deve accadere per i corpi in rotazione, inoltre la forza centrifuga aumenta in proporzione con il peso (o materia solida) del corpo.

        Prendiamo ora in considerazione il triangolo rettangolo BAD. Da esso si ricava:

AB2 + BD2 = AD2

osservando che  AD = AF + FD e che AF = AB, si ha:

AF2 + BD2 = (AF + FD)2

sviluppando e semplificando:

BD2 = FD2 + 2.AF.FD

Se FD è, come nelle ipotesi, piccolo, allora FD2 è trascurabile:

BD2 = 2.AF.FD =>

1)                                             

Si devono ora fare delle osservazioni relativamente alla fisica del problema. La lunghezza BD è quella percorsa dall’oggetto che si allontana di moto uniforme, si avrà pertanto:

La lunghezza AF è il raggio r della ruota, la lunghezza FD è la lunghezza che il corpo percorre soggetto alla gravitas e quindi percorsa di moto uniformemente accelerato:

Sostituendo le ultime due espressioni nella 1) si trova:

2)                                                  

che è l’espressione nota per l’accelerazione centrifuga. Quando sarà affermata la definizione newtoniana di forza (F = ma), basterà sostituire ad a questa espressione per avere la relazione che fornisce la forza centrifuga(21). Occorre osservare che la 2) non fu data esplicitamente da Huygens ma che era completamente implicita nelle sue proposizioni.

        Questo brillante studio di Huygens era finalizzato a realizzare pendoli sempre più perfezionati ed in particolare i pendoli conici, quelli costretti ad oscillare non su di un piano ma nello spazio.  In un tale pendolo acquista importanza la forza centrifuga perché assume un valore che supera il peso del bilanciere e perché tale forza mantiene il pendolo non lungo la naturale linea verticale. Dice Westfall:

Quando la corda faceva un angolo di 45° con la verticale, intuitivamente sembrava che la forza centrifuga dovesse essere uguale al peso del bilanciere. In questo pendolo conico, il raggio della circonferenza descritta dal bilanciere era uguale all’ altezza verticale del cono, e di conseguenza (in base alla sua analisi del moto circolare) la velocità del bilanciere era uguale a quella che acquisterebbe un corpo cadendo lungo metà dell’ altezza del cono. Mediante quest’equazione, poté anche paragonare il tempo di caduta di un corpo lungo 1’altezza del cono al periodo del pendolo conico. Aveva dimostrato che tutti i pendoli conici con la medesima altezza verticale hanno lo stesso periodo e che tra pendoli che hanno diverse altezze verticali il periodo varia secondo la radice quadrata dell’altezza verticale (AB).

Galileo aveva mostrato che il periodo di un pendolo normale varia secondo la radice quadrata della sua lunghezza e Huygens comprese che nel caso singolo di un’oscillazione minima il pendolo conico diventa uguale al pendolo normale. Il periodo di un pendolo conico quindi è uguale al periodo di un pendolo normale la cui lunghezza sia uguale all’ altezza verticale del cono (AB). Poi, con una serie di semplici rapporti, utilizzando la propria analisi sul pendolo conico e la cinematica della caduta di Galileo, stabili che il rapporto tra il periodo di un pendolo ed il tempo di caduta lungo la sua lunghezza è uguale a p√2. Ma il periodo di caduta è √2l/g. Di conseguenza il periodo di un pendolo è 2p√l/g. Per Huygens, l’incognita dell’equazione era l’accelerazione di gravità, g. Riuscì a misurare il periodo e la lunghezza. A partire dal tempo di Galileo, moltissimi studiosi avevano cercato di misurare g misurando la distanza che un grave cadendo copre in un secondo. La maggior parte dei risultati dava g = circa 24 piedi/sec2; il gesuita Riccioli aveva trovato un dato di 30 piedi/sec2. Con il pendolo, Huygens stabili che g = 32,18 piedi/sec2, alla latitudine dei Paesi Bassi, un dato che corrisponde alla migliori misurazioni odierne.

LA CAUSA DELLA GRAVITA’

        E’ d’interesse osservare che alcune note di Huygens scritte a margine del De vi centrifuga nel 1659 ed alcune proposizioni dell’Horologium oscillatorium mostrano che Huygens aveva compreso che la forza centrifuga facesse equilibrio alla forza gravitazionale che il Sole esercita sui pianeti, in modo da mantenerli sulle loro orbite (la gravità, ipotizzata da Newton, controbilancia così bene le forze centrigughe dei pianeti e produce esattamente l’effetto dei movimenti ellittici di Kepler). Huygens, da seguace di Galileo, non indugiava spesso a speculazioni che non potesse poi sottoporre ad esperienza. Sta di fatto che rifiutava (insieme a molti altri scienziati) la concezione newtoniana di azione a distanza (a me pare assurda) poiché sembrava un cedere il passo a qualità occulte (in nota 12 vi sono altre considerazioni in proposito).

        Sulla questione della gravità Huygens tornò nel 1686, nei suoi Pensées privées, scrivendo:

I pianeti galleggiano nella materia. Se così non fosse cosa impedirebbe infatti ai pianeti di fuggirsene via, e cosa li farebbe muovere ? Keplero assegna, erroneamente, questa funzione al sole [Oeuvres completes, Vol XXI, pag. 366].

e due anni dopo appuntò:

Vortici distrutti da Newton. Vortici di movimento sferico al loro posto.

Rettificare l’idea dei vortici.

Necessità dei vortici: la terra fuggirebbe via lontano dal sole; ma assai distanti l’uno dall’altro e non come quelli di Descartes, l’uno contiguo all’altro [Oeuvres completes, Vol. XXI, pagg. 437-439]

e quindi scrisse:

Il famoso Newton ha spazzato via tutte le difficoltà [relative alle leggi di Kepler] insieme ai vortici di Descartes; ha dimostrato che i pianeti sono mantenuti nelle rispettive orbite dalla loro gravitazione verso il sole. E che gli eccentrici diventano necessariamente ellittici [Oeuvres completes, Vol. IX, pag. 190].

      Finché, nel 1690, pubblicò il suo Discours de la cause de la pesanteur, che era un’elaborazione di una conferenza che tenne alla Royal Society di Londra nel 1689, nel quale espone ampiamente le sue visioni che contrastano nettamente con quelle di Newton (seguirò qui la discussione che fa Koyré).

     Questo lavoro di Huygens inizia con queste parole:

La Natura agisce attraverso delle vie così segrete ed impercettibili, portando a Terra tutti i corpi che chiamiamo pesanti, che per quanta attenzione o industria s’impiega i sensi non riescono a scoprire nulla. E ciò ha obbligato molti Filosofi del secolo passato a non cercare la causa di questo effetto mirabile che dentro i corpi medesimi e di attribuirla a qualche qualità interna e inerente che li faccia tendere in basso e verso il centro della Terra dove c’è una tendenza delle parti ad unirsi al tutto. E ciò non ci fa cogliere le cause ma supporre dei Principi oscuri e non capiti. […]

Mediante autori e studiosi moderni della Filosofia, molti hanno giustamente affermato che occorrerebbe trovare qualcosa all’esterno dei corpi che causasse le loro attrazioni ed i fenomeni che, in relazione ad esse, uno osserva [Oeuvres complètes, vol. XXI, pag 445].

        Ed Huygens propende per questa seconda possibilità, rifacendosi in qualche modo a Descartes con delle sostanziali modifiche alla teoria dei vortici. Egli affermava:

Credo che se l’ipotesi principale, sulla quale io mi baso, non è quella vera, vi siano poche speranze di poterla trovare, restando nei limiti della vera e sana filosofia.

e così scriveva:

Se ci limitiamo ai corpi, senza (considerare) quella qualità che è chiamata gravità, vediamo che il loro movimento è naturalmente rettilineo o circolare; il primo è proprio dei corpi che procedono senza incontrare resistenza, il secondo di quelli che vengono trattenuti intorno a qualche centro o proprio intorno a questo centro ruotano. Conosciamo abbastanza la natura del movimento rettilineo e le leggi osservate dai corpi, quando si scontrano, nel trasmettere il loro movimento. Ma per quanto si ci sforzi di analizzare soltanto questo tipo di movimento e le reazioni che è capace di determinare nelle parti della materia, non si scoprirà tuttavia la necessità del loro tendere verso un centro. Diviene quindi indispensabile volgersi alle proprietà del moto circolare per vedere se ve ne siano alcune che possano servire al nostro scopo.

So bene che Descartes ha già tentato, nella sua Fisica, di spiegare la gravità con il movimento di una certa materia che ruota intorno alla terra; e torna a suo grande merito l’aver avuto per primo quest’idea. Ma, attraverso le osservazioni che svilupperò nel resto di questo Discorso, vedremo in che cosa la sua soluzione è diversa da quella che io proporrò, e anche da che punto di vista la consideri 
[Oeuvres complètes, vol. XXI, pag 455]

Sono le forze centrifughe, le cui proprietà egli qui ricorda, che lo aiutano sulla strada della sua interpretazione:

Lo sforzo di allontanarsi dal centro è, dunque, un effetto costante del movimento circolare e sebbene questo effetto possa sembrare direttamente opposto a quello della gravità, e sebbene si sia obbiettato a Copernico che, a causa della rotazione diurna della terra, le case e gli uomini verrebbero scagliati in aria, dimostrerò tuttavia che proprio quello sforzo che compiono i corpi che si muovono di moto circolare per allontanarsi dal centro è motivo del convergere di altri verso il medesimo centro [Oeuvres complètes, vol. XXI, pag 452]

        Per spiegare ciò egli introduce un’esperienzacon la quale egli credeva di poter spiegare la gravitazione mediante il moto molto veloce delle parti di un mezzo. Pose in un vaso chiuso pieno d’acqua dei pezzetti di ceralacca (cera spagnola), che essendo un po’ più pesanti dell’acqua si depositano sul fondo del vaso. Se si fa ruotare il vaso, la ceralacca si dispone ai bordi esterni del vaso; se si fa cessare improvvisamente la rotazione, l’acqua continua a girare, mentre i pezzi di ceralacca, che stanno sul fondo e il cui moto è di conseguenza frenato con maggiore rapidità, sono ora spinti verso il centro del vaso. Huygens vide in questo fenomeno una copia esatta dell’effetto della gravitazione oltre a vedervi anche i vortici cartesiani che comunque dovevano essere pensati in modi diversi da quanto aveva fatto Descartes. Scrive egli dunque:

Supporrò che nello spazio sferico che comprende la terra e i corpi che la circondano fino a grande distanza si trovi una materia fluida, formata da piccolissime particelle, che, in diversi modi, viene agitata in tutte le direzioni con grande velocità. Dico che il movimento di tale materia, poiché non può abbandonare questo spazio, dato che è circondato da altri corpi, deve divenire parzialmente circolare intorno al centro; non in modo tale, comunque, che le sue particelle ruotino tutte nello stesso modo, ma piuttosto in modo che la maggior parte dei suoi movimenti si compia su superfici sferiche intorno al centro di questo spazio che diviene, per casi dire, il centro della Terra [Oeuvres complètes, vol. XXI, pag 455]

ed allora le particelle che costituiscono il vortice non ruotano più, come Descartes aveva supposto, tutte in un’unica direzione e su piani paralleli, ma in tutte le direzioni e su tutti i piani pensabili passanti per il centro della Terra. Inoltre tali vortici dovevano essere pensati molto più piccoli di quelli ipotizzati da Descartes e costituiti da particelle in moto rapido in tutte le direzioni; pensò che, in uno spazio chiuso, il moto circolare di queste particelle prevalga su quello rettilineo, e si stabilisca da se stesso. Conseguenza di ciò è che:

Non è difficile spiegare come, da questo movimento, venga generata la gravità. Poiché, se in mezzo alla materia fluida che ruota nello spazio, come abbiamo supposto, si trovano delle parti più grosse di quelle che compongono la materia fluida, o anche corpi formati da fasci di piccole particelle strettamente aderenti, e [se] questi corpi non seguono il rapido movimento della suddetta materia [fluida], saranno necessariamente spinti verso il centro del movimento e li formeranno il globo terrestre, se si suppone che la terra ancora non esista. E la ragione è la medesima che, nel sopracitato esperimento, costringe la cera spagnola ad ammassarsi al centro del recipiente. È dunque probabilmente in questo [effetto] che consiste la gravità dei corpi, e si può dire che essa [cioè la gravità] è lo sforzo che la materia fluida compie per allontanarsi dal centro e per spingere al suo posto i corpi che non seguono il suo movimento. Adesso, il motivo per cui i gravi che si vedono discendere nell’aria non seguono il movimento sferico della materia fluida è abbastanza chiaro; infatti, poiché v’è movimento in ogni direzione, gli impulsi che un corpo riceve si succedono l’un l’altro così rapidamente che nessuno di essi viene esercitato per un periodo di tempo sufficiente a fare acquistare al corpo un movimento sensibile [Oeuvres complètes, vol. XXI, pag 456]

      In definitiva, messa a punto qualche altra questione, ha in mano la sua teoria della gravità e può quindi concludere su Newton:

Non ho dunque niente contro la «Vis Centripeta», come la definisce il signor Newton, che ne fa la causa del gravitare dei pianeti verso il Sole e della Luna verso la Terra; al contrario, non trovo difficoltà a dichiararmi completamente d’accordo: infatti l’esperienza c’insegna non soltanto che esiste in natura un’attrazione o impulso di questo genere, ma anche che esso si può spiegare con le leggi del movimento, come si vede da quanto ho scritto supra a proposito della gravità. Niente impedisce infatti che la causa di questa «Vis Centripeta» verso il Sole sia simile a quella che costringe i gravi a muoversi verso la Terra. È passato ormai molto tempo da quando si immaginò che la figura sferica del Sole potesse esser prodotta dalla medesima [causa] che, secondo me, produceva quella della Terra; ma non avevo esteso l’azione della gravità a distanze così grandi come quelle che separano il Sole dai pianeti, o la Terra dalla Luna; questo perché i vortici di Descartes, che in un primo momento mi apparvero assai verosimili, e che tenevo ancora presenti, le superavano. Neppure immaginavo, a proposito del regolare diminuire della gravità, che esso fosse inversamente proporzionale al quadrato delle distanze dai centri: una nuova ed importante qualità della gravità di cui mette conto di indagare la causa. Ma vedendo adesso, con la dimostrazione del signor Newton, che, se si suppone una simile gravità verso il Sole e che diminuisce secondo detta proporzione, essa controbilancia così bene le forze centrifughe dei pianeti e produce esattamente l’effetto dei movimenti ellittici supposti e dimostrati con osservazioni di Keplero, non posso dubitare né della verità di queste ipotesi riguardanti la gravità, né del sistema di Newton in quanto vi si fonda […]

Sarebbe diverso, naturalmente, se la supposizione fosse che la gravità è una qualità inerente alla materia corporea. Ma non credo che il signor Newton lo avrebbe ammesso perché una simile ipotesi ci allontanerebbe di molto dai principi matematici e meccanici 
[Oeuvres complètes, vol. XXI, pag 472-474] .

    Altro punto di disaccordo con Newton ed in accordo con la sua teoria dei vortici, era la supposizione di uno spazio vuoto (e non perché avesse obiezioni contro il vuoto ma perché era convinto che la luce si propagasse per onde e ciò non andava d’accordo, nella sua concezione, con spazi vuoti). E’ così che su questo tema conclude:

V’è solo questa difficoltà, che Newton, respingendo i vortici di Descartes, afferma che gli spazi celesti contengono soltanto una materia molto rarefatta, tale da consentire ai pianeti e alle comete di procedere nella loro rapida corsa incontrando un minimo di resistenza. Ma se si ammette questa estrema rarefazione degli spazi celesti, pare non sia possibile spiegare l’azione della gravità o quella della luce, almeno con i mezzi di cui mi sono servito. Per esaminare questo problema, dico che la materia eterea può considerarsi rarefatta in due modi: a) le sue particelle restano separate l’una dall’altra da un vasto spazio; b) sono l’una contigua all’altra, in modo però che la trama che ne risulta non sia eccessivamente compatta, ma piuttosto cosparsa di un grande numero di piccoli spazi vuoti. Quanto al vuoto, lo ammetto senza difficoltà e credo che sia indispensabile per il movimento dei piccoli corpuscoli tra di loro, poiché non sostengo affatto con Descartes che solo l’estensione costituisce l’essenza del corpo; aggiungo bensì ad essa la perfetta durezza che lo rende impenetrabile e impedisce che venga rotto o scalfito. Comunque, se si considera la rarefazione nel primo modo non vedo come si possa arrivare a una spiegazione della gravità; e, quanto alla luce, mi sembra del tutto impossibile, ove si ammettano tali vuoti, spiegarne la prodigiosa velocità che, secondo la dimostrazione del signor Roemer, da me riportata nel Traité de lumière, deve essere seicento volte maggiore di quella del suono. Questo è il motivo per cui ritenni che una tale rarefazione non poteva darsi negli spazi celesti [Oeuvres complètes, vol. XXI, pag 473].


NOTE

(1) A Padova vi erano due università, quella per studi giuridici e quella per studi “artistici”. Galileo insegnava nella seconda dove frequentavano teologi, filosofi e medici. Gli studenti di Galileo erano in gran parte quelli di medicina che apprendevano un poco di geometria per poi passare all’astronomia che serviva loro per l’astrologia, specializzazione indispensabile per il “decoro” di un medico. Per quanto ne sappiamo dai pochi documenti ritrovati, Galileo insegnava gli Elementi di Euclide; la Sfera di Sacrobosco; l’Almagesto di Tolomeo; le Questioni Meccaniche di Aristotele.

(2) Galileo a Iacopo Mazzoni in Pisa. Padova 30 maggio 1597 (vedi Vol. 2 dell’Edizione Nazionale – in seguito E.N. – pagg. 195-202). Si tratta di una lunga lettera in cui Galileo confuta con una dimostrazione matematica, alcune considerazioni del suo maestro ed amico Mazzoni. Secondo quest’ultimo, le ombre delle montagne dimostrerebbero la non plausibilità del sistema copernicano. Galileo dimostra che invece è plausibile se solo si tiene conto che l’universo copernicano è più grande di quello aristotelico.

Per strano che possa sembrare è la parte relativa al moto ed al galleggiamento , cioè la totale insoddisfazione per la fisica (e non cosmologia) aristotelica, che scuote Galileo. Ancora nel 1590, quando era a Pisa, aveva confutato che i corpi avessero leggerezza in sé. Egli sosteneva che se la sostanza in cui i corpi si muovono è l’acqua invece dell’aria, alcuni di essi, come il legno, che sono considerati “pesanti”, diventano “leggeri” perché il loro moto, anziché verso il basso è verso l’alto. Galileo ne conclude che tutti i corpi sono gravi ed il loro andare verso l’alto o verso il basso dipende solo dalla loro gravità specifica rispetto a quella del mezzo ambiente. E non è vero, aggiungeva Galileo, che un corpo si muove più velocemente quanto meno è denso il mezzo in cui si trova. Se si gonfia una vescica di aria, essa si muove lentamente verso il basso nell’aria e velocemente verso l’alto nell’acqua. Galileo ne deduce una conclusione che sarà fondamentale per il suo allievo Torricelli: l’horror vacui di Aristotele è da rifiutare. Inoltre l’idea stessa del moto violento mantenuto dall’aria che si richiude dietro il corpo scagliato perde completamente significato perché diventerebbe impensabile un corpo in moto nel vuoto (su questo Galileo tornerà nel Dialogo). Ma anche altre furono le questioni che rendevano la fisica di Aristotele insoddisfacente: la caduta dei gravi, ad esempio. Per Galileo era inaccettabile che i corpi cadessero con gradi di velocità maggiori quanto maggiore è la massa di un corpo.

(3) Galileo a Giovanni Kepler in Graz. Padova, 4 agosto 1597 – E.N. Vol. 10, pagg. 67-68. “… già da svariati anni mi sono schierato con l’opinione di Copernico e, partendo da tale posizione, ho avuto modo di trovare le cause anche di svariati effetti naturali che sono indubbiamente inesplicabili per mezzo delle ipotesi correnti. Ho scritto molte ragioni e confutazioni di argomenti che tuttavia non ho osato pubblicare fino ad ora, spaventato dalla sorte dello stesso Copernico, nostro maestro, che, sebbene si sia procurato fama immortale presso alcuni, tuttavia presso moltissimi (tanto grande è infatti il numero degli stolti) è divenuto motivo di riso e disapprovazione. Oserei certamente esporre le mie riflessioni davanti a molti come te, se ce ne fossero, ma, non essendovene, soprassiederò ad un impegno di tal genere” 

(4) Giovanni Kepler a Galileo in Padova. Graz, 13 ottobre 1597 – E.N. Vol. 10, pagg. 69-71.

(5) Riporto dei brani di lettere a Galileo e da Galileo su questo fenomeno (ho ripreso questa selezione dal sito dell’Unione Astrofili Italiani):

ILARIO ALTOBELLI a GALILEO in Padova.
Verona, 3 novembre 1604.

[..]In tanto mi piace che V. S. si sia accorta di questo nuovo mostro del cielo, da far impazzir i Peripatetici, ch’hanno creduto sin hora tante bugie in quella stella nova e miracolosa del 1572, priva di moto e di parallasse. Come semifilosofi, potriano protervire che pur era fuor del zodiaco et in parte boreale; ma in questa, quo se vertant, nescient: poi che, se non intendono le parallasse, non potranno negare che non sia in parte australe nel Zodiaco, vicino alla eclittica, in segno igneo, appresso Giove calido, et hora poco lontana si può dir dal sole), e più bella che mai, nata nella congiunzione di Giove et Marte calidissimo, alli 9 d’Ottobre e non prima, perchè io osservando la congiunzione di Giove et Marte se rispondeva al calcolo Prutenico alli 8 d’Ottobre, intento tutto e per lungo spatio in quella parte del cielo, con un compagno, non si vedeva altra stella nè vicina nè lontana che gli tre superiori, per esser l’aria molto chiara. Ma perchè io ne scrivo per hora una breve indicatione, che fra 8 giorni forsi sarà finita, per servire tanti che mi fanno instanza, non ne dirò altro per hora a V. S.; ma la prego sì bene instantissimamente a farmi gratia di osservar se facci diversità d’aspetto et quanta, come anco la lunghezza et larghezza precisamente, perchè io non ho altro instrumento che un astrolabio d’un piede di diametro e manco, sì che non posso scapricciarmi bene. Et del tutto mi farà gratia, come ne la prego grandemente, avisarmi.[..]


ILARIO ALTOBELLI a GALILEO in Padova.
Verona, 25 novembre 1604.

Tengo molto cara la risposta di V. S. gentilissima, godendo insieme l’amore che scuopre verso di me, e che così presto l’habbi accecata per mio gusto, e che l’occasione di questa maravigliosissima maraviglia del cielo, donata per ultima luce all’ultimo della penultima età del mondo, facci conoscere gl’ingegni e la verità della natura celeste, nei secoli precedenti sin alla prima origine d’ogni cosa non mai più così chiaramente testificata. Questo è impossibile che sia globo sospeso nell’aria elementare per cagion di freddo et humido, pasto del foco celeste, mentre vediamo che non ha nessun moto proprio, nè retto nè obliquo nè confuso, che saria impossibile ad intenderlo, stante la liquidezza e continua concitatione varia dell’aria. Non è dissimile dall’altre dell’ottava sfera, non ha mutato mai colore, scintilla più d’ogni altra fissa a quali solo e per natura propria, et il suo sito rende possibile ogni impossibilità conietturata di Aristotile, distrugendo ogni sua imaginatione, poi che è in parte australe nel zodiaco, vicino all’eclittica, in segno igneo e fra pianeti calidissimi nata, nè teme la faccia del sole che già l’asconde, sì che è cosa manifesta ch’ella habbi ottenuto il suo trono infra le fiamme ardenti.

[..]Ma, in ogni modo, l’istessa stella, emula di Giove, et opposta al tempio di Mercurio, doppio non men di figura che di natura, distrugerà il falso e parturirà il vero, e finalmente si caminerà per la luce et non per le tenebre.
Io credo esser stato un de’ primi, e forsi solo primo, a conoscere et veder la sua prima apparitione in Europa, che fu li 9 d’Ottobre, quasi nel tramortar del sole, nella congiungiunzionr di Giove et Marte et certo che all’occhio pareva che havesse l’istessa lunghezza che havevano questi doi, poi che si vedeva in sito consimile:

Stella nova
GioveSaturno
Marte


[..] In quei giorni ero vigilante in censurar il calcolo Prutenico con l’occasione della congiunzione di Giove e Marte , et la sera delli 8 d’Ottobre particolarmente, sul traboccar del sole, trovai gli tre superiori soli, in questa forma di trigono equicrurio giusto:

Giove
Saturno
Marte

nè si vedeva altra stella per tutto il cielo, con particolare maraviglia d’un Padre qui secondo lettore, instrutto così da me alla cognitione oculare degli stessi pianeti più volte: e la sera delli 9 Ottobre, tornando al medesimo luogo, vedessimo gli istessi con la positura visuale antescritta, sì che non v’è dubio alcuno.[..]

CRISTOFORO CLAVIO a GALILEO in Padova.
Roma, 18 dicembre 1604.

[..]Qui è stato un gran bisbiglio della stella nova, la quale habbiamo trovata nel 17 grado di Sagittario, con latitudine borea di gradi 1 1/2 in circa. Se V. S. ha fatto qualche osservatione, mi farà piacere d’avisarmi. Il Magino mi scrive d’haverla anco lui osservata nel medesimo grado; et così anco scrivono di Germania e Calabria.[..]

LEONARDO TEDESCHI a GALILEO in Padova
Verona, 22 dicembre 1604.

[..] Et per cominciar hor mai, io dico che, essendo la questione che cosa sia questa luce nuovamente alli X ottobre del presente anno apparsa nel Saggittario, vicino a Giove che si era per congionger insieme con Marte, bisogna che sia luce fondata o in un corpo, et così sia reale et radicata in un soggetto solo, o in due corpi, et così sia più tosto luce intentionale et spirituale, cioè dependente dal suo producente et efficiente. Se è d’un corpo solo, o che è elementare et corruttibile, o celeste et immortale; se è di doi, o che ambidui sono elementari, o ambidoi celesti, o l’uno elementare e l’altro celeste. Ritorno al primo, et mostro che non poss’esser elementare: perchè se tale fosse, essendo in regione alta, sarebbe corpo meteorologico, et per consequenza, havendo gran duratione et moto verso l’occaso, saria del genere delle comete: ma come[ta] non è, come son per provare; adonque non può esser questa luce, luce di corpo elementare. Le ragioni mo’ sono altre naturali, altre più tosto matematiche. Et per cominciar dalle naturali, la prima sarà tolta dalla chiarezza, limpidezza e splendor suo incomparabile, che di gran lunga avanza ogni stella et qual si voglia altra celeste luce, dalla solare in poi, non che luce o di foco che sia qui tra noi, o di vapore ignito et cometa. Se dunque supera di splendore tutte le stelle, et Venere et Giove istesso, le quali hanno la sua luce dalla sola densità del loro orbe, senza admistioni d’alcuna sostanza opaca, chi non dirà che questa non sia luce di foco? [..]

ILARIO ALTOBELLI a GALILEO in Padova.
Verona, 30 dicembre 1604.

[..]Per servir V. S. Ecc.ma, le significo della nuova stella che già doi giorni sono un mio amico qua intendente l’ha veduta; ma io, non havend’orizzonte commodo in questi tempi così rigidi, massime la matina, non ho animo di vederla per hora.
Ho aviso dal S.r Pirro Colutii, mio paesano et peritissimo nella professione, che scrive a lui l’Ill.mo S.r Bardi, haver veduto la sua prima apparitione li 27 Settembre et osservatala più sere, ch’è cosa alienissima dal vero; poi che io avanti li 9 Ottobre più giorni hebbi l’occhio in quella parte del cielo, intentissimo al moto di Marte, che andava a Giove, con testimonio intendente, nè mai fu veduta, ma solo li 9 Ottobre, che ci fece grandemente maravegliare, et era quasi un narancio mezzo maturo. L’istesso scrive un medico da Cosenza, di Calabria, matematico, ciò è che non prima delli 9 Ottobre apparve, intento ancor lui in quei giorni pur là su. [..]

ONOFRIO CASTELLI a GALILEO [in Padova].
Roma, 1° gennaio 1605.

[..]Sì come l’obligatione che tengo a V. S. è grande, così vengo ad esser in debito di augurarle, come faccio, il buon Capo d’Anno; ricordandoli appresso, che mi farà molta gratia mentre mi favorirà di qualche commandamento, et parimente a dirmi due parole del suo giuditio circa questa nuova stella. [..]

GALILEO GALILEI a ONOFRIO CASTELLI
[Padova, gennaio 1605].

Mi è più di una volta stata fatta instanza dal nostro gentilissimo S. Orazio Cornacchini, che io dovessi mandare a V. S. Ecc.ma copia di tre letioni fatte da me in publico sopra il lume apparso circa li 9 di Ottobre in cielo, il quale sotto nome di stella nuova viene addimandato, affermandomi ciò esser da lei molto desiderato. [..]

Sono poi andato differendo tal publicazione, et sono anco per differirla per qualche giorno, perchè il fermarmi solamente nel dimostrare, il sito della nuova stella essere et esser sempre stato molto superiore all’orbe lunare, che fu il principale scopo delle mie letioni, è cosa per sè stessa così facile, manifesta et comune, che al parer mio non merita di slontanarsi dalla catedra; dove bisognò che io ne trattassi in grazia de i giovani scolari et della moltitudine bisognosa di intendere le demostrazioni geometriche, ben che apresso li esercitati nelli studii di astronomia trite et domestichissime. Ma perchè ho hauto pensiero di esporre ancora io, tra tanti altri, alla censura del mondo quel che io senta non solo circa il luogo et moto di questo lume, ma circa la sua sustanza et generatione ancora, et credendo di havere incontrato in opinione che non habbia evidenti contradizioni, et che per ciò possa esser vera, mi è bisognato per mia assicuratione andar a passo lento, et aspettare il ritorno di essa stella in oriente dopo la separatione del sole, et di nuovo osservare con gran diligenza quali mutationi habbia fatto sì nel sito come nella visibile grandezza et qualità di lume: et continuando la speculazione sopra questa meraviglia, sono finalmente venuto in credenza di poterne sapere qualche cosa di più di quello in che la semplice coniettura finisce[..]

ILARIO ALTOBELLI a GALILEO in Padova.
Verona, 10 gennaio 1605.

[..]Ho veduto quella buffoneria o temerità del Discorso della Nuova Stella, in disterminatione dell’autore, non de’ matematici; et perchè incidit in foveam quam fecit, non occorre risponder altro: vilesceret animus etc.
La stella poi, quando fu veduta da me e da quelli ch’eran con me, alli 9 Ottobre, e non prima, ancor che fussimo pur intenti a rimirar quella parte del cielo più giorni prima, et massime la sera delli 8, e c’intervennero, per maggior giustificatione, queste parole: Com’è possibile che non si vedano altre stelle che quelle tre?, vedendosi Giove Saturno e Marte soli: et la sera delli 9 alla prima vista apparve con le tre la nuova, e disse quell’istesso: O là, che stell’è quella? hier sera non v’era già? Et era grande, al mio parere, quanto Giove, et di colore come un narancio mezzo giallo e mezzo verde, o pur misto di giallo et verde. Dopo non la potei vedere, per turbarsi il tempo, sino la sera delli 15 Ottobre, et appareva assai più grande di Giove, anzi quella fu la maggior grandezza ch’io habbi osservato nella stella nuova, e credo che più tosto gli giorni seguenti sia decresciuta che altrimente; ma poco però in quei primi giorni potea andar mancando, havendo continuato d’osservarla per molti giorni seguenti sempre maggior di Giove. Scrive l’istesso al P. Clavio un medico matematico di Calabria, ciò è che non è stata veduta prima delli 9 Ottobre, ancorachè egli havesse intentamente più giorni prima rimirato quella parte del cielo, et massime la sera delli 8, et che nella prima apparitione era come Giove, e poi si fece presto assai maggior di Giove: et io ho la copia della sua lettera, mandata dal P. Clavio al S.r Magino et dal S.r Magino a me etc. Et questo basti della grandezza, che hora deve esser di seconda in circa.[..]

OTTAVIO BRENZONI a GALILEO in Padova.
Verona, 15 gennaio 1605
.

[..]Circa li 15 d’Ottobre 1604, nell’occultarsi del sole, vidi improviso una nova luce, che rassembrava stella a Giove, di equale a lui o di maggior grandezza, quasi con l’istesso colore, ma scintillante. Sarei stato all’hora (lo confesso), per la meraviglia, incredulo a me stesso, se ciò non havessi creduto esser fiamma altamente acesa, che comunemente si dice cometa; et forse …maggiormente la meraviglia, quando anco così fatto splendore potevo dubbitare che fosse novamente apparso in cielo, poi che ramentomi d’haver letto che ne l’anno 1572 un simile n’apparve in Cassiopeia. All’hora, per trovar argomento di levarmi di dubio et farmi, se non chiaro, almeno men confuso, osservai con un instromento, in ciò mediocremente opportuno, una distanza tra Marte et questa nova luce, et la vidi se non maggiore, almeno equale, quando era alta da terra, a quella distanza che presi per due hore doppo, ciò è nel tramontar di quella: assai chiaro argomento, per il creder mio (s’altra condittion materiale non s’interpose), ch’ella non fosse sotto il cerchio della luna, perchè in questo caso sarebbe stata maggiore la distanza ultimamente presa della prima…[..]

(6) Vedi E.N. Vol 2, Frammenti di lezioni e di studi sulla nuova stella, pagg. 275-284. Riporto un brano di tali frammenti per la traduzione di Ezio Fonio:

“Una luce estranea, il dieci ottobre di questo milleseicentoquattro, per la prima volta fu vista in alto; inizialmente di debole consistenza, ma in seguito, passati pochi giorni, grandemente aumentata da superare tutte le stelle, sia le fisse sia le mobili, ad eccezione della sola Venere; luce splendidissima e interamente sfavillante, al punto da sembrare nel vibrare della luminosità quasi spegnersi e subito riaccendersi; luce che supera in splendore quello di tutte le stelle fisse, compreso lo stesso Cane; simile, per il colore della luce, allo splendore dorato di Giove e al rossastro colore di Marte.
Mentre infatti contrae i raggi temibili e dà l’idea errata di uno spegnimento, si presenta quasi incandescente a causa del colore rosso di Marte, ma mentre diffonde i raggi in modo più ampio, come se rivivesse, si mostra splendente del bagliore di Giove: dal che qualcuno non a torto sarebbe portato a credere che tale luce sia stata generata dalla congiunzione di Giove e di Marte; e questo, inoltre, soprattutto, perché appare generata quasi nello stesso luogo e nello stesso tempo nella congiunzione dei citati pianeti.
Il nove ottobre, infatti, alle cinque del mattino si verificò la congiunzione di Giove e di Marte davanti a Saturno, situato a 8 gradi soltanto da essi, verso occidente; nel qual tempo, osservando tale congiunzione, non abbiamo visto in quella zona nessun’altra stella oltre le tre citate: la sera seguente, cioè il dieci ottobre al tramonto del sole, si vide innanzitutto questa nuova luce; e, mentre inizialmente appariva debole e piccola, ben presto nel giro di pochi giorni raggiunse una notevole dimensione, non sarà fuori luogo supporre che quella nuova luce sia stata generata al momento della citata congiunzione e, data la tenuità, sia rimasta nascosta.
E inoltre allorché i pianeti si ritrovarono insieme al 19° grado del Sagittario, nel 18° grado del medesimo segno questa luce apparve nuovamente; inoltre le distanze secondo la latitudine dall’ellittica furono allora, di Marte anzitutto, a mezzodì [a Sud], di gradi 0,53′, di Giove, a tramontana [a Nord], gradi 0,37′, della nuova luce poi gradi 1,40′ circa, ad aquilone [Nord-Nord-Est], di Saturno invero gradi 1,48′, parimenti, in direzione dell’Orsa, di modo che tale configurazione risulterebbe costituita da queste quattro luci.
Questo splendore fece elevare alle realtà divine gli occhi ottusi e rivolti alle terrene della gente, quasi si trattasse di un nuovo miracolo del cielo; ciò che la congiunzione di astri splendidissimi ed innumerevoli di cui si ornano i campi del cielo non riesce ad effettuare: la condizione della struttura umana è infatti tale che le realtà quotidiane, anche quelle degne di ammirazione, ci sfuggono; al contrario, se accade qualcosa d’insolito e fuori della norma, questo attira ogni popolazione.
Siete testimoni, giovani che qui siete accorsi numerosi per sentirmi trattare di questa apparizione degna di ammirazione; alcuni, spaventati e scossi da inconsistente superstizione, per capire se il prodigio portentoso annunci un cattivo augurio; altri chiedendosi se esista nei cieli una vera stella oppure un vapore bollente nelle vicinanze della terra; tutti, poi, cercando ansiosamente di conoscere con unanime interesse la sostanza, il moto, il luogo e il motivo di quella apparizione. Desiderio stupendo, perbacco, e degno delle vostre intelligenze!

E, oh! voglia il cielo, che la pochezza della mia intelligenza possa rispondere all’importanza della cosa e alla vostra attesa! Non spero né diffido: ritengo di accingermi a stabilire soltanto questa unica cosa di mia stretta competenza, se si riferisca, in modo da potersi dimostrare, al movimento relativo alla sostanza, imparerete a conoscerlo tutti…[..].”

(7) Postille di Galileo alla Considerazione Astronomica circa la Stella Nova dell’anno 1604 di Baldesar Capra, E.N. Vol. 2, 285-305.

(8) E.N. Vol. 2, pagg. 309-334.

(9) «Da osservazioni più volte ripetute di tali macchie fummo tratti alla convinzione che la superficie della Luna non è levigata, uniforme ed esattamente sferica, come gran numero di filosofi credette di essa e degli altri corpi celesti, ma ineguale, scabra e con molte cavità e sporgenze, non diversamente dalla faccia della Terra, variata da catene di monti e profonde valli.»

(10) «Abbiamo dunque un valido ed eccellente argomento per togliere ogni dubbio a coloro che, accettando tranquillamente nel sistema di Copernico la rivoluzione dei pianeti intorno al Sole, sono tanto turbati dal moto della sola Luna intorno alla Terra, mentre entrambi compiono ogni anno la loro rivoluzione attorno al Sole, da ritenere si debba rigettare come impossibile questa struttura dell’universo. Ora, infatti, non abbiamo un solo pianeta che gira intorno a un altro, mentre entrambi percorrono la grande orbita intorno al Sole, ma la sensata esperienza ci mostra quattro stelle erranti attorno a Giove, così come la Luna attorno alla Terra, mentre tutte insieme con Giove, con periodo di dodici anni si volgono in ampia orbita attorno al Sole. »

(11)Qui si potrebbe aggiungere una cosa che se fosse stata compresa fino in fondo da Galileo avrebbe creato molti scompigli ed in particolare avrebbe fatto recedere Kepler dal suo sistema astronomico. Come hanno mostrato Kowal e Drake (1980), dallo studio minuzioso dei manoscritti galileiani, Galileo, tra il dicembre 1612 ed il gennaio 1613, scoprì anche il pianeta Nettuno che fu riscoperto da Lalande l’8 maggio 1795 ma che lo scambiò per una stella finché Galle nel 1846, basandosi su calcoli di Leverrier, lo identificò definitivamente. Ricordo che all’epoca ancora non era stato scoperto Plutone. 

Galileo per due volte annotò nei suoi appunti la posizione di un astro relativamente luminoso, la prima volta il 28 dicembre 1612 alle 3 e 46, alla destra di Giove; la seconda volta il 27 gennaio 1613 intorno alle 23, a 20 raggi di Giove osservò un astro di magnitudine 7. In tali posizioni l’osservatorio di Monte Palomar non situa alcuna stella. In compenso, con il computer si è risaliti a tale data e Nettuno si trovava proprio lì dove Galileo aveva appuntato. Poiché gli scomparve dalla visione nel raggio d’azione dell’osservazione di Giove e perché probabilmente il pregiudizio di pianeti che terminavano con quelli conosciuti era troppo forte, la cosa finì solo sugli appunti delle due osservazioni citate.

Tanto per capire con cosa si scontrava Galileo, è utile un cenno ai filosofi aristotelici che, come tutte le persone colte dell’epoca, facevano gli astrologi. Essi dicevano per negare l’esistenza dei satelliti di Giove: Perché mai Dio avrebbe posto nel cielo pianeti tanto piccoli destinati a rimanere superflui ed inefficaci, del tutto inutili all’uomo ed indegni della sua considerazione ?

(12) Quella che segue è la lettera del Cardinale Carlo Conti (7 luglio 1612) che avverte Galileo di lasciar perdere Copernico (E.N. Vol. 11, pagg. 354-355):

Ill.re et molto Ecc.te Sig.re

Le questione mosse da V. S. nel suo libro sono molto belle et curiose, fondate in assai ferme ragione et esperienze certe: però, come sono le cose nove, non vi mancaranno impugnatori, quali spero serviranno solo a fare più chiaro l’ingegno di V. S., et la verità più certa.

In quanto poi a quello che me rechiede, se la Scrittura Sacra favorisca a’ principii de Aristotele intorno la constitutione dell’universo; se V. S. parla dell’incorrottibilità del cielo, come pare che accenni nella sua, dicendo scoprirse ogni giorno nove cose nel cielo, le respondo non essere dubbio alcuno che la Scrittura non favorisce ad Aristotele, anzi più tosto alla sentenza contraria, sì che fu comune opinione de’ Padri che il cielo fosse corruttibile. Se poi queste cose che di nuovo si scorgono in cielo, dimostrino questa corruttibilità, ricerca longa consideratione, sì perchè il cielo essendo da noi sì distante, è difficile affermare di lui cosa di certo senza longhe osservatione, sì anco perchè se è corruttibile, bisogna habbi determinate cause di queste mutatione, quale a certi et determinati tempi si debbino vedere, nè salvare si possino senza che il cielo patisca corruttione, come facilmente alcuni pensaranno potersi salvare le macchie che si vedono nel sole con il moto de alcune stelle che sotto de lui se aggirino. Queste ragione, et altre molte, penso siino state da V. S. molto ben considerate et essaminate; et però aspetto haver da lei più longa dechiaratione delle sue osservatione et ragione.

Quanto poi al moto della terra et del sole, si trova che de due moti della terra puol essere questione: l’uno de’ quali è retto, et fassi dalla mutatione del centro della gravità; et chi ponesse tal moto, non dirrebbe cosa alcuna contro la Scrittura, perchè questo è moto accidentario alla terra: et così la notò Lorino sopra il primo recto (sic) dell’Ecclesiastico (sic)(1). L’altro moto è circolare, sì che il cielo stii fermo et a noi appare moversi per il moto della terra, come a’ naviganti appare moversi il lido; et questa fu opinione di Pittagorici, seguitata poi dal Copernico(2), dal Calcagnino et altri, et questa pare meno conforme alla Scrittura: perchè, se bene quei luoghi dove se dice che la terra stii stabile et ferma, si possono intendere della perpetuità della terra, come notò Lorino nel luogo citato, nondimeno dove si dice che il sole giri et i cieli si movono, non puole havere altra interpretatione la Scrittura, se non che parli conforme al comun modo del volgo; il qual modo d’interpretare, senza gran necessità non non si deve ammettere. Nondimeno Diego Stunica(3), sopra il nono capo di Giob, al versetto 6°, dice essere più conforme alla Scrittura moversi la terra, ancor che comunemente la sua interpretatione non sia seguita. Che è quello si è potu[to] trovare fin hora in questo proposito; se bene quando V. S. desideri di havere altra chiarezza d’altri luoghi della Scrittura, me lo avisi, chè gli lo mandarò.

Et quanto a quelle macchie negre che V. S. vede nel sole, ho voluto mandarle copia(4) di quanto si trova scritto in un libro non comune, dal quale si ricava che sono stelle che lo girano. Et rengratiando V. S. della parte che ha voluto darne de questa sua nobile fatiga, fo fine, et me le raccomando di cuore.

Di Roma, li 7 di Luglio 1612.  

(1) Cfr. IOANNIS LORINI Avenionensis, Societatis Iesu. Commentarii in Ecclesiasten, ecc. Lugduni, sumptibus Horatii Cardon, 1606, pag. 27, al cap. I, vers. 4 “terra autem in aeternum stat”.
(2) dal Coperniae — [CORREZIONE]
(3) DIDACI A STUNICA Salmaticensis Eremitae Augustiniani In Iob Commentaria. Romae, apud Franciscum Zannettum, M.D.XCI, pa”. 140-141.
(4) Non è ora allegata alla lettera.
(5) CONTE CONTI, Duca di Poli.

(13) Un solo cenno a questo problema della metafisica nella fisica. Galileo farà i salti mortali per cacciare ogni metafisica dall’interpretazione del mondo ma sulla sua strada, anche coloro che si proclamavano seguaci, pochi si mossero davvero (tra questi Huygens, un vero galileiano). Descartes e Newton, per citare i personaggi più noti, rimetteranno non solo la metafisica ma direttamente Dio nella spiegazione del mondo.

        Una delle obiezioni che viene rivolta a Galileo è di non avere incluso nella sua fisica le orbite ellittiche introdotte da Kepler. Se il discreto lettore conosce gli scritti di Kepler capirà meglio quanto dico: Galileo era agli antipodi da quel misticismo e da quella numerologia, davvero incomprensibili. Tra l’altro, ancora oggi, è estremamente difficile estrarre le leggi di Kepler dalla mole dei suoi scritti. Vi sono poi altri motivi. Le emanazioni di cui parla Kepler da parte del Sole, emanazioni che provocherebbero il moto dei pianeti, e quelle da parte della Luna, che provocherebbero le maree (Kepler aveva intuito il fenomeno delle maree), erano per lui forze misteriose e comunque un qualcosa di fuori del metodo che si era imposto. Infine, probabilmente, vi era la sua convinzione di orbite circolari che erano di ogni copernicano (il De Revolutionibus di Copernico apre proprio su queste circolarità).

(14) Il criterio di ricerca di semplicità è lo stesso con il quale lo scienziato si è sempre mosso : prima si cercano eventuali relazioni lineari e poi si passa ad andamenti parabolici e quindi a relazioni più complesse. Solo Kepler ebbe la costanza e la forza di passare al terzo grado.

(15) Su Gallica http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k77849n/f144.item vi è pubblicata tutta l’opera di Huygens, oltre a quella di moltissimi altri autori. Anche nel sito http://www.xs4all.nl/~adcs/Huygens/oeuvres.html si può trovare l’opera completa di Huygens (quest’ultimo link è più agile nell’uso). Vi sono comunque dei problemi di consultazione: in Gallica non si capisce bene come andare a cercare il volume che interessa mentre nel sito olandese, più agile di Gallica, non vi è proprio tutta l’opera di Huygens. Il sito che meglio funziona, utile anche per vari altri autori del secolo XVII è:

http://www.clas.ufl.edu/users/rhatch/pages/03-Sci-Rev/SCI-REV-Home/resource-ref-read/sci-rev-primary/sr-prim-index.htm

(16) Dopo aver scoperto Titano, Huygens non cercò altri satelliti per un suo strano preconcetto (strano per un uomo come lui che non aveva mai fatto concessioni a numerologie o misticismi vari). Egli era convinto che il numero dei satelliti non poteva essere superiore al numero dei pianeti principali e che, dopo la scoperta di Titano, il sistema solare contava sei pianeti e sei satelliti e quindi era completo.

(17) Con queste parole Huygens descrisse Marte:

Marte … presenta zone più scure delle altre; il cui periodico apparire ha permesso di stabilire che i suoi giorni durano all’incirca quanto ai nostri. I suoi abitanti, però non noteranno apprezzabili differenze fra estate ed inverno, perchè, come è stato dimostrato dal movimento delle macchie, l’asse di rotazione è pochissimo o per niente inclinato sul piano dell’orbita (in epoca più recente si stabilì che l’asse di Marte è leggermente più inclinato di quello terrestre). La Terra deve apparire ai marziani suppergiù come a noi appare Venere e, con l’aiuto di un telescopio mostrerebbe le fasi come la Luna; essa non si discosta mai dal Sole di più di 48° per cui la vedrebbero come Mercurio e Venere, passare talvolta davanti al disco solare. Essi possono anche osservare Venere ad intervalli, come noi Mercurio. Sono incline a ritenere che il suolo di Marte sia di colore più scuro di quello di Giove o della Luna, il che causa la colorazione rossastra e la riflessione di una luce più debole di quanto dovrebbe essere a quella distanza dal Sole. Marte, come ho già notato, per quanto sia più lontano dal Sole è più piccolo di Venere e non ha lune che gli ruotano attorno (in tempi molto recenti verranno scoperti due satelliti di Marte) , e anche sotto questo aspetto come Mercurio e Venere deve essere ritenuto inferiore alla Terra. La luce e il calore che gli giungono sono la metà e talvolta tre volte minori dei nostri, ma ritengo gli abitanti si siano adattati a queste condizioni.

(18) A questo indirizzo DE VI CENTRIFUGA , si trova l’opera in oggetto nella sua traduzione inglese.

(19) Dice Mach in proposito:

Se si accetta il principio galileiano che la forza determina accelerazione, necessariamente va attribuita a una forza ogni variazione di velocità, e quindi ogni variazione nella direzione del moto (giacché la direzione è determinata da tre componenti della velocità perpendicolari fra loro). Se dunque un corpo sospeso a una corda, per esempio una pietra, è fatto ruotare con moto circolare uniforme, la traiettoria curvilinea è spiegabile solo supponendo che una forza costante faccia deviare il corpo dalla traiettoria rettilinea. La tensione della corda è questa forza che fa deviare dalla linea retta il corpo e lo tira verso il centro del cerchio. La tensione rappresenta dunque una forza centripeta. D’altra parte la tensione del filo agisce anche sull’asse o sul centro fisso del cerchio, e quindi si presenta come forza centrifuga.

(20) Si osservi che l’espressione usata da Huygens, quantità solida, non può essere altro che la massa. Si osservi anche che l’influenza della sua formazione cartesiana (teoria dei vortici) faceva considerare ad Huygens il peso come una mancanza di forza centrifuga: la caduta di una pietra avviene in corrispondenza ad una piccola quantità di materia che si allontana dalla Terra.

(21) A commento della scoperta di Huygens dell’accelerazione centrifuga e delle conseguenze che ne derivavano nella spiegazione della gravità, dice Dijksterhuis:

Fra le varie applicazioni per le quali Huygens fece uso della sua teoria del moto circolare uniforme citiamo specialmente il pendolo conico, una particella appesa a una corda priva di massa, che descrive un cono circolare retto. Questo caso presentava per lui un interesse particolare in connessione con la costruzione di orologi a pendolo. L’importanza della teoria della forza centrifuga di Huygens per la meccanica teorica consiste principalmente nel fatto che essa rendeva assolutamente chiaro che il mantenimento di un moto curvilineo, anche se è uniforme, richiede l’azione costante di una forza (la tensione esercitata lungo la corda è tale da neutralizzare la forza centrifuga). Così una vecchia, ma mai completamente sradicata, concezione dell’inerzia, la quale riteneva che una particella, una volta che si trovasse in moto lungo un cerchio, avrebbe continuato a muoversi in questo moto circolare, qualora fossero state eliminate tutte le influenze esterne, veniva così definitivamente confutata. E’ inoltre importante il fatto che un moto curvilineo uniforme possiede un’accelerazione (giacché questo è, propriamente parlando, il risultato a cui porta la linea di pensiero di Huygens, anche se egli non usa la parola “accelerazione”) si basa sul fatto che la variazione di una velocità (il requisito per la presenza di una accelerazione) può anche consistere esclusivamente in un mutamento di direzione; e ciò equivale al riconoscimento del carattere vettoriale di una velocità.

Sullo stesso argomento dice Mach:

Con l’aiuto della sua teoria Huygens fu in grado di spiegare immediatamente tutta una serie di fenomeni. Quando, per esempio, si scoprì che un orologio a pendolo trasportato da J. Richer da Parigi a Caienna (1671-73) ritardava nel suo movimento, Huygens osservò che la forza centrifuga dovuta alla rotazione della terra è maggiore all’equatore, e ne dedusse la diminuzione dell’accelerazione gravitazionale g, dando così la spiegazione del ritardo.

Ed in proposito aggiunge Dijkstheruis:

Huygens introduceva una nuova specie di materia dotata di un particolare grado di sottigliezza ogni volta che ne avesse bisogno per la spiegazione di un fenomeno. Così c’era una materia per la spiegazione dei fenomeni magnetici, una per i fenomeni elettrici e una per render conto del fenomeno – da lui scoperto – che un liquido che non contenga aria può rimanere in un tubo barometrico a un livello molto più alto di quello che corrisponde alla pressione atmosferica. Ma non sempre è chiaro se anche più tardi abbia continuato a distinguere tra due tipi siffatti di materia. E nel Traité de la lumière, per dare una spiegazione del fatto che vi sono corpi che non trasmettono affatto la luce (i metalli) si suppone persino che tra le particelle dure ve ne siano alcune molli, le quali ricevono gli impulsi di etere, ma non li trasmettono. Ma allora questa mollezza avrebbe a sua volta dovuto venir spiegata supponendo che queste particelle fossero composte da particelle ancora più piccole, le quali avrebbero dovuto a loro volta essere dure. Ciò mostra in maniera convincente come la concezione puramente meccanicistica, la quale non riconosce altre qualità all’infuori della dimensione, della forma e del movimento, coinvolgesse gli scienziati nelle massime difficoltà non appena essi cominciavano a studiare i fenomeni in maniera esaustiva. E tuttavia, accettando la durezza come una proprietà originaria, Huygens si allontanava già dalla posizione strettamente ortodossa.

E D’Agostino, per parte sua, conclude:

La pesantezza o peso è spiegata in questo lavoro come effetto dell’urto o pressione nelle particelle dell’etere che circonda i corpi sui corpi stessi ed in questo senso viene modificata la teoria di Descartes del trascinamento (che, fra l’altro, non spiegava il moto retrogrado di alcune comete), Huygens si chiede anche come i corpi possono essere ancora pesanti quando si muovono con una velocità uguale a quella delle particelle urtanti di etere: ma le particelle di etere sono accelerate ed in questo fatto Huygens crede di trovare una spiegazione anche alla legge di. uguale accelerazione di caduta dei gravi scoperta da Galilei. (vedi, in questi tentativi di spiegazione per urto, oltre che un ritorno al quadro Cartesiano, anche un inizio di quei concetti che saranno ripresi dalla teoria cinetica dei gas). Si accenna arche all’esperimento eseguito dalla spedizione alla Caienna, un paese dell’America centrale, sulle oscillazioni del pendolo: il fatto che le oscillazioni in quel paese equatoriale sono più lente, cioè g è minore che a Parigi, viene spiegato con la presenza della forza centrifuga (sic) senza tener conto dello schiacciamento terrestre.


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