di Noam Chomsky
Un anno fa il sociologo dell’università ebraica Baruch Kimmerling osservava:
“Quello che temevamo si è avverato”, israeliani e palestinesi stanno “regredendo a un tribalismo superstizioso… La guerra appare come un destino inevitabile”, una “malvagia guerra coloniale”. Dopo l’invasione dei campi profughi da parte di Israele, il suo collega Ze’ev Sternhell ha scritto che “nell’Israele colonialista… la vita umana non vale nulla”.
I suoi leader “non si vergognano più di parlare di guerra quando quella in cui sono realmente impegnati è un’operazione di polizia coloniale, che ricorda gli attacchi da parte della polizia dei bianchi ai quartieri neri poveri del Sudafrica all’epoca dell’apartheid”. Entrambi sottolineano una cosa ovvia: non c’è simmetria tra i due gruppi etno-nazionali che sono regrediti al tribalismo. Il conflitto è in atto in territori che sono sottoposti a una dura occupazione militare da trentacinque anni.
L’occupante è una grande potenza che agisce con il supporto militare, economico e diplomatico della più grande potenza mondiale. I suoi sudditi sono soli e inermi: molti sopravvivono in miserabili campi profughi, sottoposti a un clima di terrore sempre più brutale, simile a quello delle “malvagie guerre coloniali”. E anche loro si vendicano con terribili atrocità.
L’inganno di Camp David
Il “processo di pace” avviato a Oslo ha cambiato le modalità dell’occupazione, ma non il concetto di base. Poco prima di entrare nel governo di Ehud Barak, lo storico Shlomo Ben-Ami scriveva che “gli accordi di Oslo erano fondati su una base neocolonialista, che prevedeva l’eterna dipendenza di una popolazione dall’altra”. Ma divenne ben presto uno degli autori delle proposte israelo-americane di Camp David dell’estate del 2000, che non modificavano questo quadro.
Queste proposte furono molto elogiate dai giornali americani. I palestinesi e il loro malvagio leader furono accusati di essere responsabili del fallimento delle proposte e della violenza che ne era conseguita. Ma era una menzogna bella e buona, come dichiararono Kimmerling e altri commentatori rigorosi.
Nessuno può seriamente dubitare del fatto che il ruolo degli Stati Uniti continuerà a essere decisivo. È dunque di cruciale importanza capire quale sia stato questo ruolo, e come viene percepito all’interno del paese. La versione delle “colombe” è presentata dal New York Times, che il 7 aprile elogiava il discorso “di svolta” del presidente e la “nuova visione” emersa dalle sue parole. Se il terrore palestinese finirà, scriveva qualche tempo dopo il quotidiano statunitense, gli israeliani saranno incoraggiati a “prendere più sul serio la storica offerta della Lega araba che prevede pace totale e il riconoscimento in cambio del ritiro di Israele”. Ma prima i leader palestinesi devono dimostrare di essere “partner diplomatici legittimi”.
La realtà ha ben poco a che fare con questo ritratto autogiustificatorio. La prima barriera contro la “nuova visione” è stata e rimane l’atteggiamento di rifiuto americano. Non c’è niente di nuovo nella “storica offerta della Lega araba”. Riprende fondamentalmente i termini di una risoluzione del Consiglio di sicurezza del gennaio 1976 sostenuta praticamente da tutto il mondo, compresi i principali Stati arabi, l’Olp, l’Europa, il blocco sovietico – in pratica, tutti quelli che contavano. Israele si dichiarò contraria e gli Stati Uniti opposero il veto, impedendole quindi di entrare nella storia.
La risoluzione invocava un accordo politico sulla base di confini riconosciuti a livello internazionale “con misure appropriate… per garantire… la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di tutti gli Stati della regione e il loro diritto a vivere in pace entro confini sicuri e riconosciuti”.
Le linee guida di Kissinger
L’atteggiamento di rifiuto statunitense risaliva già a cinque anni prima, al 1971, quando il presidente egiziano Sadat aveva offerto a Israele la pace totale in cambio del ritiro dal territorio egiziano, senza fare alcuna menzione dei diritti della nazione palestinese o del destino dei loro Territori occupati.
Il governo laburista israeliano aveva riconosciuto che questa era una vera offerta di pace, ma l’aveva rifiutata, perché aveva intenzione di estendere i suoi insediamenti al Sinai nord-orientale; cosa che fece ben presto con estrema brutalità e che costituì la causa immediata della guerra del 1973. Kissinger riuscì a bloccare la pace, dichiarando la sua preferenza per quella che chiamava “una fase di stallo”: niente negoziati, solo la forza. Anche le offerte di pace giordane furono respinte.
Da allora, la politica ufficiale degli Stati Uniti si è attenuta al consenso internazionale sul ritiro – fino a Clinton, che ha efficacemente ignorato le risoluzioni delle Nazioni Unite e le considerazioni del diritto internazionale. Ma in pratica, la loro politica ha sempre seguito le linee guida di Kissinger, accettando di negoziare solo quando non potevano farne a meno.
Degradante umiliazione
Non c’è da sorprendersi che il principio fondamentale dell’occupazione sia sempre stato l’incessante e degradante umiliazione, insieme alla tortura, al terrore, alla distruzione delle proprietà, allo spostamento forzato e all’insediamento, e all’acquisizione delle risorse fondamentali, soprattutto l’acqua.
Questo, naturalmente, ha richiesto il decisivo appoggio degli Stati Uniti per tutto il periodo Clinton. “Il governo Barak lascia al governo Sharon una sorprendente eredità”, commentava la stampa israeliana all’epoca della transizione: “Il più alto numero di costruzioni avviate nei Territori dal tempo in cui Ariel Sharon era ministro dell’Edilizia e degli Insediamenti nel 1992, prima degli accordi di Oslo”.
I finanziamenti erano forniti tra gli altri dai contribuenti americani, ingannati da fantasiosi racconti sulle “visioni” e sulla “magnanimità” dei leader statunitensi, frustrate da terroristi come Arafat, che hanno tradito “la nostra fiducia” e forse anche da alcuni estremisti israeliani che reagiscono in modo eccessivo ai loro crimini. Come dovrebbe comportarsi Arafat per riconquistare la nostra fiducia viene spiegato in modo sintetico da Edward Walker, il funzionario del dipartimento di Stato responsabile della regione sotto Clinton. Il subdolo Arafat deve annunciare senza ambiguità: “Noi rimettiamo il nostro futuro e il nostro destino nelle mani degli Stati Uniti”, che da trent’anni conducono la campagna contro i diritti dei palestinesi.
Il problema fondamentale, ieri come oggi, rimanda a Washington, che ha sempre sostenuto il rifiuto di Israele di un accordo politico nei termini di un ampio consenso internazionale, ripreso nelle sue linee essenziali dalla “storica offerta della Lega araba”.
Gli attuali cambiamenti di questo atteggiamento di rifiuto sono solo tattiche di minore importanza. Per non mettere in pericolo il loro progetto di un attacco all’Iraq, gli Stati Uniti hanno approvato una risoluzione dell’Onu che chiedeva il ritiro di Israele dai Territori appena invasi “senza indugio” – cioè, “al più presto possibile”, ha spiegato immediatamente il segretario di Stato Colin Powell.
Il terrorismo palestinese deve fermarsi “immediatamente”, ma l’ancor più estremo terrorismo israeliano – che va avanti da trentacinque anni – può prendersela comoda. Israele ha subito intensificato gli attacchi, portando Powell a dire: “Sono felice di sentire che il primo ministro ha accelerato le operazioni”. Si sospetta fortemente che l’arrivo di Powell in Israele sia stato rimandato per permettere a Israele di “accelerare” ulteriormente.
Questa posizione degli Stati Uniti potrebbe cambiare, ancora una volta per motivi tattici.
Un regime cliente
Gli Stati Uniti hanno anche approvato una risoluzione delle Nazioni Unite che invita a prevedere “l’idea” di uno Stato palestinese. Questa prova di disponibilità, che è stata molto elogiata, non arriva a livello del Sudafrica di quarant’anni fa, quando il regime dell’apartheid mise in atto la sua “idea” di Stati gestiti dai neri che erano realizzabili e legittimi almeno quanto la dipendenza neocoloniale che gli Stati Uniti e Israele hanno in mente per i Territori occupati.
Nel frattempo gli Stati Uniti continuano a “fomentare il terrore”, per usare le parole del presidente, fornendo a Israele mezzi di distruzione, come dimostra la recente spedizione dei più moderni elicotteri dell’arsenale statunitense. Questa è la normale reazione alle atrocità di un regime cliente.
Per citare un solo distruttivo esempio, nei primi giorni dell’attuale intifada Israele ha usato gli elicotteri statunitensi per attaccare obiettivi civili, uccidendo dieci palestinesi e ferendone trentacinque, e non si può proprio dire che si trattasse di “autodifesa”.
Clinton, scrive Ha’aretz, ha risposto con un accordo per “il più importante acquisto di elicotteri militari da parte dell’aeronautica israeliana degli ultimi dieci anni”, e di pezzi di ricambio per gli elicotteri da attacco Apache. E la stampa ha dato una mano rifiutando di diffondere la notizia. Qualche settimana dopo, Israele ha cominciato a usare gli elicotteri americani anche per assassinare.
Uno dei primi atti dell’amministrazione Bush è stato quello di inviare in Israele gli elicotteri Apache Longbow, i più distruttivi che aveva a disposizione. Di questo si è parlato marginalmente, nelle notizie economiche.
Washington ha dimostrato ancora una volta il proprio impegno a “fomentare il terrore” lo scorso dicembre, quando ha opposto il suo veto alla risoluzione delle Nazioni Unite che invocava l’applicazione del Piano Mitchell e l’invio di osservatori internazionali a verificare la riduzione degli atti di violenza, il sistema più efficace a detta di tutti, rifiutato da Israele e regolarmente bloccato da Washington. Il veto è stato posto durante un periodo di 21 giorni di calma – il che significa che un solo soldato di Israele era stato ucciso, rispetto a 21 palestinesi compresi 11 bambini, e c’erano state 16 incursioni israeliane nelle zone controllate dai palestinesi.
Dieci giorni prima del veto, gli Stati Uniti avevano boicottato – e quindi vanificato – la conferenza internazionale di Ginevra che ancora una volta è giunta alla conclusione che la Quarta Convenzione di Ginevra è applicabile ai Territori occupati, così che praticamente tutto quello che gli Stati Uniti e Israele fanno lì è una “grave violazione”, in parole povere un “crimine di guerra”.
La conferenza ha dichiarato che gli insediamenti israeliani finanziati dagli Stati Uniti sono illegali, e ha condannato la pratica “illegale e arbitraria” di “uccidere deliberatamente, torturare, deportare illegalmente, privare del diritto a un processo giusto e regolare, danneggiare e appropriarsi dei beni”. Gli Stati Uniti sono obbligati da un solenne accordo a perseguire le persone responsabili di questi crimini, compresi i loro stessi leader politici. Ma come al solito, tutto questo passa sotto silenzio.
Gli Stati Uniti non hanno ufficialmente ritirato il loro riconoscimento dell’applicabilità delle Convenzioni di Ginevra ai Territori occupati, o la loro censura nei confronti delle violazioni di Israele in quanto “potenza occupante” (affermata per esempio da George Bush senior quando era ambasciatore presso le Nazioni Unite).
Un vuoto nella memoria
Nell’ottobre del 2000, il Consiglio di Sicurezza riaffermava la propria posizione, “invitando Israele, la potenza occupante, a rispettare scrupolosamente gli obblighi legali previsti dalla Quarta Convenzione di Ginevra”.
La votazione finì 14 a 0. Clinton si astenne, presumibilmente perché non voleva opporre il suo veto a uno dei principi basilari del diritto internazionale umanitario, soprattutto alla luce delle circostanze in cui era stato concepito: per condannare formalmente le atrocità commesse dai nazisti. Anche tutto questo è stato messo rapidamente nel dimenticatoio, un altro contributo al “potenziamento del terrore”.
Fino a quando non sarà possibile discutere di questi temi, e non saranno state comprese le loro implicazioni, non ha nessun senso parlare di “impegno degli Stati Uniti per il processo di pace”, e le prospettive di un’azione costruttiva rimarranno scarse.
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Benny Morris
Vittime
Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001
Rizzoli, 2001
di Sandro Viola (repubblica.it)
Quando anni fa presero a riscrivere molte pagine di storia patria custodite da mezzo secolo (e mai una volta ridiscusse) nei tabernacoli della storiografia filocomunista, i nostri storici cosiddetti revisionisti dimostrarono un certo ardire. Perchè certo non ignoravano che i sacerdoti e le vestali di quei tabernacoli gli avrebbero sparato contro a mitraglia, e senza risparmiare le munizioni. Immaginiamoci quindi il coraggio di cui ha avuto bisogno il professor Benny Morris, storico israeliano all’università Ben-Gurion di Beersheba, quando s’è posto a scrivere Vittime, il suo vasto e appassionante affresco dei centovent’anni del conflitto arabo-sionista (Rizzoli, 880 pagg., 52.000 lire). Un coraggio da leone, dato che si trattava di passare al pettine stretto le versioni ufficiali della storia di Israele. E in particolare la condotta tenuta dai primi coloni sionisti, poi dai “padri” dello Stato ebraico, quindi dai governi israeliani e dai loro eserciti, nei confronti del popolo palestinese. Centovent’anni durante i quali molti, per non dire innumerevoli, sono stati i soprusi e le ingiustizie che quel popolo ha subìto. Come tutte le epopee nazionali, anche quella israeliana gronda di belletti. Anche in Israele la politica e addirittura la propaganda si sono infatti mischiate alla storiografia con l’intento di mascherare i “buchi neri”, espungere gli episodi disonorevoli, mettendo invece in risalto l’eroismo dei fondatori, la saggezza e chiaroveggenza dei primi governanti, la generosità verso amici e nemici. Quanti ritocchi e manipolazioni, quindi, nella storiografia ufficiale israeliana. Il sionismo descritto come inerme, pacifico e non espansionista, gli arabi e i palestinesi ritratti come avversari irriducibili che nessuna benevolenza, mano tesa, ragionevolezza politica, è mai riuscita a distogliere dal proposito di “rigettare gli ebrei a mare”. E che avversari, poi: cento milioni di arabi tutt’attorno al “piccolo Israele”, antisemiti implacabili, maestri d’inganni, e con grandi eserciti armati sino ai denti. Non sono andate proprio così, le cose, nel secolo e più del conflitto. E sarebbe stato facile, per chiunque avesse un po’ studiato lo svolgersi di quella vicenda, dimostrarlo. Ma la storia del moderno Israele è una storia molto particolare: alle spalle c’era l’Olocausto, e di fronte c’era il rifiuto arabo. Sicché ad un paese emerso in modo tanto drammatico s’era indotti a perdonare molte cose. Anche un’abbondante cosmesi dei fatti realmente accaduti: compresa la rimozione delle prepotenze e violenze, delle crudeli mutilazioni del vecchio mondo palestinese, su cui è nato lo Stato ebraico. Finché anche in Israele non s’è affacciata una storiografia revisionista, accolta com’era prevedibile da reazioni scalmanate, accuse di tradimento, insulti. Ma quel baccano è senza importanza. Importante, invece, è che i libri di Morris e degli altri “new historians” (come vengono chiamati i revisionisti in Israele) abbiano costretto la società israeliana a ripensare senza più tante indulgenze il proprio passato. Poiché copre un secolo e più d’eventi, riassumere Vittime sarebbe impossibile. Ai suoi possibili lettori conviene quindi indicare i passaggi cruciali del conflitto che Morris ha scrostato di tutti gli orpelli che vi aveva aggiunto la vulgata nazionalista. I punti che, ricondotti alla verità, consentono di farsi un’idea meno lacunosa e confusa di come siano andati i fatti in Palestina tra la fine dell’Ottocento ed oggi. Tali punti sono essenzialmente quattro. Le intenzioni, l’animo, gli scopi riposti con cui il movimento sionista guidò il “ritorno” in Palestina, e i contraccolpi sul popolo che abitava quelle terre. Le guerre arabo-israeliane del ’48-’49, del ’56, del ’67, del ’73 e dell’ 82. L’occupazione della Cisgiordania e di Gaza nel ’67,e il mancato ritiro degli israeliani di cui oggi vediamo le ultime (solo in ordine di tempo, purtroppo) terribili conseguenze. I vari tentativi di riportare la pace tra i due popoli, e il loro fallimento. Qui è però necessaria una premessa. Il libro di Morris non scagiona, ci mancherebbe, i palestinesi. Non ne tace gli errori politici, le fasi di ferocia (“Berremo il sangue degli ebrei” si gridava al tempo delle prime rivolte), il pervicace rifiuto della presenza sionista in Palestina. Ma il suo interesse, la sua utilità stanno evidentemente nella critica ai primi sionisti e alla classe dirigente d’Israele, in quanto qui – su questo terreno – il libro dice cose che gli israeliani usavano tacere. Ed è perciò a questo versante dell’opera di Morris che conviene dare il giusto spicco. Lo slogan del primo sionismo, “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”, non nasceva – come s’è letto tante volte – dalle scarse conoscenze che l’Ostjudentum aveva della Palestina ottomana. Quell’immagine d’una terra disabitata o quasi fu invece costruita ad arte, al fine d’incoraggiare l’immigrazione ebraica dall’Europa Orientale. Ma i capi sionisti sapevano perfettamente che si sarebbe dovuta strappare la terra, in un modo o nell’altro, al popolo che l’abitava da tempo immemorabile. Né pensavano ad una piccola porzione di quella terra. La loro fu da principio una visione espansionista, con al centro l’idea della cacciata (o trasferimento forzoso che dir si voglia) dei palestinesi. Idea da cui scaturì in due fasi, 1948 e 1967, una massa cenciosa di 600.000 profughi. Nella descrizione di Morris, il rapporto tra i primi immigrati e la popolazione locale è sin dall’inizio, infatti, carico di tensioni. Gli ebrei non avevano stima né fiducia degli arabi, verso i quali provavano anzi “un sentimento di profonda ostilità”. Né i palestinesi potevano mostrarsi amichevoli, visto che l’immigrazione ebraica aveva letteralmente stravolto la loro esistenza. Espulsi dai terreni agricoli che i grandi proprietari stavano vendendo agli ebrei, impossibilitati ad acquistarli essi stessi (il prezzo dei terreni aumentò tra il 1910 e il ’40 del cinquemila per cento),in molti casi vittime dell’usura praticata dai nuovi venuti, essi assistevano impotenti al crollo del loro mondo. Qualcuno tra i capi sionisti, Ytzhak Epstein o Ben-Gurion, aveva certo capito a cosa si stesse andando incontro. “Noi, in quanto nazione”, scriveva Ben-Gurion, “vogliamo che il paese sia nostro: e gli arabi, in quanto nazione, vogliono che sia loro. Non ci sono soluzioni…”. Ma la politica ufficiale del movimento e dell’Agenzia ebraica non era così comprensiva. Sicché le prime reazioni violente dei palestinesi vennero etichettate – pur sapendo che la realtà era diversa – come manifestazioni d’antisemitismo, nuovi “pogrom” dopo quelli subiti nell’Est Europa. E il concetto d’una identità nazionale arabo-palestinese fu sempre rifiutato (ancora alla fine dei Sessanta, Golda Meir diceva che “i palestinesi non esistono”),così da accampare con più forza la pretesa d’una terra ebraica “tout court”. Sarà questo l’atteggiamento dinanzi alla grande rivolta palestinese del 1936-’38, spacciata per un hitlerismo mediorientale, un odio razzista verso gli ebrei. Mentre se è vero che gli agenti nazifascisti cominciavano a bazzicare la Palestina, è anche certo che quella sollevazione ebbe aspetti e carattere di risveglio nazionale. Al solito, Ben-Gurion fu tra i pochi a capirlo: “Se fossi un arabo, non esiterei ad insorgere contro un’immigrazione che prima o poi metterà il paese nelle mani degli ebrei”. Della rivolta nella seconda metà dei Trenta, c’è un’altra cosa da dire. E cioè chi sia stato ad innestare il terrorismo moderno sul ceppo del conflitto in Palestina. Gli arabi attaccavano infatti i kibbutz isolati, sparavano sui coloni ebrei al lavoro nei campi, a volte pugnalavano il nemico nei vicoli di Haifa o Gerusalemme. Ma la scienza del terrore – “la bomba camuffata nel mercato o nell’autostazione, l’autobomba e l’autocarro-bomba, le raffiche dalle auto in corsa” – ,vale a dire le tecniche e i metodi che portavano al massacro indiscriminato di uomini donne e bambini, questi furono invenzioni degli ebrei dell’Irgun e dell’Lhi. Una cultura o tradizione attecchita poi sul versante palestinese, con la sola variante – discesa questa dal fanatismo islamico – dell’attentatore suicida. Quanto alle guerre arabo-israeliane, anche qui Benny Morris corregge alcuni assunti della versione ufficiale sostenuta negli anni da Israele. Tranne che nel ’48, quando le forze armate israeliane avevano sopravvalutato la capacità degli avversari, e quindi dovettero prendere in considerazione anche l’idea d’una possibile sconfitta, la superiorità militare dello Stato ebraico fu sempre assoluta. Del resto fu Israele ad attaccare (questo non è Morris a dirlo, sono io) nel ’56, nel ’67 e nell”82: non gli arabi. Forte d’una struttura militare che dalla fine dei Sessanta comprendeva anche l’arma atomica. Beninteso, la superiorità bellica non toglie nulla al dramma vissuto ad ogni guerra dalla popolazione israeliana, la quale dovette legittimamente pensare che “l’alternativa fosse tra la vittoria e il possibile annientamento”. Ma resta che l’immagine del “piccolo Israele” tra gli artigli delle orde arabe era pura propaganda. “Benchè fragile demograficamente”, scrive Morris “Israele fu sempre in grado di mobilitare le sue risorse umane in modo da risultare numericamente superiore agli arabi in termini globali (come nel ’48), o su tutti i campi di battaglia importanti”. Il 1967, la vittoria israeliana nella guerra dei sei giorni, rappresenta un nodo cruciale nella storia del conflitto: il punto da dove israeliani e palestinesi avrebbero potuto muovere verso un compromesso, se mai da parte d’Israele – che a quel momento aveva i territori conquistati da usare come “merce di scambio” in una trattativa di pace – ci fosse stata la necessaria lungimiranza. Non andò così, invece. “La guerra dei sei giorni”, sostiene Morris, “fece risorgere in Israele lo spirito espansionista e l’avidità territoriale, ben presto tradottisi nella proliferazione degli insediamenti, allontanando ulteriormente la pace”. S’arriva così alla situazione da cui sarebbe scaturito il fiume di sangue che scorre oggi in Palestina: vale a dire i trentaquattro anni dell’occupazione israeliana di Gaza e della Cisgiordania, venticinque dei quali (sino al negoziato di Oslo) trascorsi senza che mai un governo israeliano pensasse di restituire ai palestinesi la loro terra. Anzi, badando a intasarla di colonie ebraiche: di quei coloni che avrebbero formato la destra nazional-religiosa, il segmento di società israeliana più forsennatamente avverso allo scambio tra i territori e la pace, dal quale segmento è uscito non a caso l’assassino di Rabin. Nel suo libro, Morris descrive così il clima nei territori occupati: “Israele amava credere, e far credere al mondo, che la sua occupazione fosse “illuminata”,”benevola”, qualitativamente diversa da quelle esistite in precedenza. Così non era. Come tutte le occupazioni, quella israeliana si basava sulla forza, sulla repressione e la paura, il collaborazionismo e la delazione, i pestaggi e le torture, l’intimidazione, l’umiliazione e la disinformazione quotidiane”. Qui sta il merito dell’autore di Vittime. Nel non tacere ciò che una gran parte degli israeliani, e il versante pro-israeliano dell’opinione pubblica internazionale, continuano ancor oggi a negare. Quel che succede in Palestina, l’orrore delle bombe di Hamas, il vicolo cieco in cui il conflitto sembra irrimediabilmente ficcato, tutto questo non deriva soltanto dall’impulso di distruggere Israele che oggi pervade le masse palestinesi. Israele ha fatto molto poco, e molto tardi, per avere la pace. E coloro che adesso guardano soltanto alla barbarie delle stragi commesse dai fondamentalisti palestinesi, commettono l’errore di trascurare i precedenti della tragedia. Ben-Gurion, che quei precedenti li conosceva bene, ha lasciato scritto: “Quando diciamo che gli arabi sono gli aggressori e noi quelli che si difendono, diciamo solo una mezza verità. Per quanto riguarda la sicurezza e la vita, noi siamo quelli che si difendono… Ma questa lotta è solo un aspetto del conflitto, che nella sua essenza è politico. E politicamente, noi siamo gli aggressori e loro quelli che si difendono”.
Repubblica.it 11 gennaio 2004
Tel Aviv, 20:12
Israele, centomila a manifestazione coloni contro Sharon
Centomila persone hanno partecipato in piazza Rabin, a Tel Aviv, alla manifestazione del movimento dei coloni e dei nazionalisti di destra per protestare contro la politica di “disimpegno” dalla Cisgiordania del primo ministro Ariel Sharon. Alla manifestazione sono presenti anche alcuni esponenti del Likud, il partito del premier, fra i quali una ventina di parlamentari e un ministro. (red)
ISRAELE
Il muro in casa
ZVI SCHULDINER
Il primo ministro Ariel Sharon reitera le sue già famose innovazioni in materia di trattative di pace e diversi mezzi di comunicazione preferiscono chiudere gli occhi di fronte alla realtà e celebrare la sua flessibilità. L’eco del pacifismo sharonista si moltiplica quando parla al congresso del suo partito e si scontra con un nucleo di estrema destra che sbraita contro le grandi e gravi concessioni del premier. Ma, mentre Sharon parla, i bulldozer continuano il loro lavoro. Sharon parla dell’evacuazione degli insediamenti illegali (come se non fossero tutti illegali) e il giorno dopo già nuove case vanno ad ampliare tali insediamenti illegali, foraggiati con i fondi del ministero dell’educazione, del turismo o della difesa. Ogni giorno ci propinano una nuova rappresentazione della commedia delle «evacuazioni degli insediamenti illegali» e neppure i coloni più estremisti riescono a trattenere i sorrisi.
Sharon parla di pace e subito dopo continua a minacciare azioni unilaterali. Israele si ritirerà da zone densamente popolate e le circonderà con sangue, fuoco e mura. Israele si ritirerà e manterrà quella situazione già dimenticata o sconosciuta dalla maggioranza degli israeliani, dalla comunità internazionale e dai mezzi di comunicazione negligenti o complici: tre milioni di palestinesi chiusi in un girone infernale, con istituzioni che si sgretolano quotidianamente, con un’economia semidistrutta, con una disoccupazione, di proporzioni gigantesche.
Sharon parla del muro di sicurezza e molti annuiscono in Israele. Solo si sentono alcune balbettanti opposizioni da fuori: a Bush e alle sue coorti il muro non piace, gli europei si oppongono senza esagerare. Ma il «muro di sicurezza» si estende.
Muro, sì. Sicurezza? Il muro non ha nulla a che vedere con la linea verde del 1967 e si sta convertendo in uno strumento infernale per accerchiare e assediare innumerevoli villaggi palestinesi. Contadini che non possono raggiungere i loro campi, malati che non possono ricevere soccorso medico, bimbi che non possono andare a scuola o devono aspettare che i soldati dell’«esercito più morale del mondo» vengano ad aprire loro qualche varco del «sacro muro». Il muro si attorciglia, come un serpente che deve accudire ogni colonia israeliana nei Territori occupati. Se, per garantire la sicurezza di varie decine di fondamentalisti israeliani è necessario rinchiudere popolazioni intere di villaggi palestinesi… allora viva il muro!
Il muro attraversa anche la «indivisibile ed eternamente unificata» Gerusalemme. Decine di migliaia di palestinesi con residenza legale nella città e con gli appositi documenti di identità emessi da Israele, devono percorrere itinerari improbabili per raggiungere punti vicini alla loro casa. Il muro a Gerusalemme isolerà nel giro di poco tempo alcune istituzioni scolastiche appartenenti al Vaticano. Eppure, da Roma non si è ancora levata una sola voce di protesta.
Centinaia di milioni di dollari – che sarebbero tanto utili per uno stato sociale in bancarotta – vengono inghiottiti ogni giorno da un muro che non ha nulla a che vedere con una possibile futura frontiera di pace: questo muro potrà solo esacerbare la frustrazione, l’odio tra palestinesi e israeliani e certo non impedirà quelle azioni terroristiche che teoricamente dovrebbe prevenire; si tratta di un ulteriore strumento per estendere l’annessione dei territori occupati nel 1967, mentre la vita quotidiana dei palestinesi si converte in un inferno che potrebbe spingerli a un esilio volontario.
L’«esercito più morale del mondo» continua a sparare contro i civili. I dati ufficiali dicono che solo circa 600 palestinesi, tra i più di duemila uccisi negli ultimi tre anni, portavano armi. Però nulla sembra scuotere i gorilla dell’esercito più morale del mondo, che continuano a dirci che sparano contro coloro che danneggiano il muro di sicurezza in difesa delle nostre vite e dei sacri valori della patria.
Sharon parla di pace. Ma non con la Siria, perché Damasco cerca solo una scusa per ingraziarsi gli americani. Non con Arafat, perché è terrorista; né con Abu Ala, perché è debole; né con Gheddafi, perché questo migliorerebbe l’immagine del ministro degli esteri; né con nessuno, perché è meglio che tutto continui come prima. Se dovesse venire l’arcangelo Gabriele a parlare con Sharon, Sharon scoprirebbe i crimini che lo squalificano per non parlare di pace.
In questo gran casino quotidiano sarà sempre più difficile trattare i seri reati di cui in futuro si potrebbe accusare Sharon e i suoi figli. Sharon, parla di pace, la stampa si commuove, nuovi morti palestinesi si aggiungono alla lunga lista dei caduti della seconda Intifada. Sharon parla di pace e il fantasma del fascismo è sempre più presente in Israele.
(Zvi Schuldiner)
http://www.ilmanifesto.it/oggi/art63.html
L’antisemitismo in Italia, un nuovo sondaggio
E’ il terzo in tre mesi. Presentata ieri a Roma l’anticipazione di quello dell’Eurispes. Con molte conferme e qualche sorpresa
Il governo di Israele Giudizi secchi e dissenso nettissimo sulla linea praticata da Sharon nel conflitto con i palestinesi. Come sul ruolo dei kamikaze
Pregiudizi antiebraici Pochi i negazionisti e i revisionisti. Ma molti quelli che credono a un «potere occulto» degli ebrei. Non solo a destra ma anche a sinistra
MAURIZIO MATTEUZZI
ROMA
Proliferano sondaggi e controsondaggi sull’antisemitisimo. Ieri è stata diffusa l’anticipazione di quello dell’Eurispes dal titolo «L’opinione degli italiani sul conflitto israelo-palestinese e sulla questione mediorientale». E’ il terzo in tre mesi, dopo quelli – entrambi molto controversi, come del resto è inevitabile considerato il tema – dell’Eurobarometro (secondo cui il 59% dei cittadini dei 15 della Ue riteneva Israele il maggior pericolo per la pace nel mondo) e dell’Osservatorio di Vienna su xenofobia e razzismo (che cercava di dimostrare l’insorgenza di un antisemitismo di sinistra). Anche questo dell’Eurispes, su un campione di 1500 italiani, riserva molte conferme e qualche sorpresa. La conferma più interessante è, come si legge nel comunicato stampa di accompagnamento: «il profondo iato presente tra l’espressione di posizioni critiche nei confronti della politica governativa israeliana, sensisbilmente e significativamente molto più elevate, e la presenza di una possibile incubazione di pregiudizi e sospetti nei confronti del popolo ebraico».
Eurispes ha sondato gli italiani su alcuni punti specifici. Fra cui: 1) la politica del governo Sharon rispetto al conflitto israelo-palestinese; 2) la presenza di pregiudizi antisemiti rispetto agli ebrei; 3) i principali fattori di destabilizzazione nell’area mediorientale.
La politica di Sharon. Il 74.5% ritiene che «il governo israeliano sbaglia ma sbagliano anche i kamikaze palestinesi»; il 53.7% si dice «per niente o poco d’accordo» con la tesi che Tel Aviv «fa le scelte giuste perché deve difendersi dagli attacchi dei kamikaze» e il 53.8% con la tesi che «nei confronti dei palestinesi sta perseguendo l’unica linea possibile perché è in gioco la sopravvivenza stessa dello Stato di Israele». La percentuale aumenta ancora rispetto al Muro: solo il 10.8% è d’accordo. Su due altre domande sensibili il dissenso è meno netto ma comunque notevole e in certa misura sorprendente: il 35.9% «abbastanza o molto d’accordo» (contro il «disaccordo» del 45.9%) con l’affermazione che «il governo Sharon sta compiendo un vero e proprio genocidio e si comporta con i palestinesi come i nazisti si comportarono con gli ebrei» e il 36.9% «abbastanza o molto d’accordo» con l’affermazione che «la colpa degli attacchi dei kamikaze è da attribuire alla politca imperialista e aggressiva di Sharon» (contro il 45.9% di «disaccordo»). Complessivamente giudizi devastanti sul governo israeliano.
La presenza di pregiudizi antisemiti verso il popolo ebraico. Qui vengono i dolori. Perchè è vero che il 92.3% si dice «poco o niente d’accordo» con l’affermazione che «l’Olocausto degli ebrei non è mai avvenuto» (contro un 2.7% di negazionisti) e l’ 80.7% sostiene che l’Olocausto c’è stato «ma non ha prodotto così tante vittime come si afferma di solito» (contro un 11.1%, che non è poco, di revisionisti); è vero anche che il 91.4% (contro il 2.8%) non mette in discussione il diritto all’esistenza dello Stato di Israele (però il 26% lo condiziona al riconoscimento di uno Stato palestinese); ma l’area del pregiudizio razziale si presenta ancora, o di nuovo, molto forte quando il 34.1% si dice d’accordo con l’affermazione che «gli ebrei controllano in modo occulto il potere economico e finanziario, nonché i mezzi di informazione» (contro il 47.9%). E’ qui, secondo Eurispes, che si annida «il virus in incubazione» del pregiudizio antisemita. Tanto più per la «trasversalità» di quel 34.1% la cui maggioranza viene da destra (26.% «molto d’accordo», 56.8% «abbastanza d’accordo») ma con una consistente minoranza da sinistra (17.8% e 50.9%) passando per il centro.
I principali fattori di destabilizzazione del Medioriente. Il più pericoloso, col 33.7%, è il terrorismo islamico; il secondo, 20%, la mancanza di una politica comune della Ue; solo terzo, 19.5%, la politica di Bush. Curioso che manchi totalmente dai fattori destabilizzanti la politica israeliana, viste anche le risposte date sulla linea del governo Sharon. Che sia il contraltare del sondaggio targato Eurobarometro?
Prudente Amos Luzzatto, il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane («Ho la sensazione che anche in Italia esista un aumento non travolgente ma signficativo» dell’antisemtisimo, ma «molto cauto» sul suo colore politico). Cautela del tutto mancante all’opinionista Mario Pirani che si dice per nulla sorpreso dalla «trasversalità» degli atteggiamenti antiebraici e spara addirittura che l’antisemitismo è da sempre nel Dna della sinistra.
http://www.ilmanifesto.it/oggi/art92.html
Il manifesto 17 gennaio 2004
Si dimette il direttore di «Haaretz»
Marmari lascia, dopo lo scontro con l’editore Amos Shoken schierato con i refusnik
Alla fine le divergenze ai vertici del quotidiano liberal Haaretz, il più autorevole di Israele, sono esplose. Il direttore, Hanoch Marmari, ha dato le dimissioni dopo ben 13 anni. «Date le recenti differenze di opinione con l’editore Amos Shoken, l’ho informato della mia decisione di concludere il mio incarico», ha scritto. Marmari resterà in carica ancora alcuni mesi per garantire un morbido passaggio di consegne. Ma non è affatto scontata la serenità per la nomina della nuova direzione. Un po’ tutti si sono chiesti le ragioni del divorzio tra Shoken e Marmari, coppia ritenuta indivisibile alla luce del successo del giornale, largamente seguito anche dalla comunità straniera in Israele e nei Territori occupati per la sua edizione in lingua inglese. Eppure qualcosa era cambiato in Haaretz nell’ultimo anno. Il giornale aveva perduto parte del suo stile graffiante verso il governo di destra. I servizi dell’inviata in Cisgiordania e Gaza, Amira Hass, sempre critici della politica di «sicurezza» del governo Sharon avevano trovato meno spazio, specie nell’edizione in inglese. Erano invece più frequenti gli articoli dello specialista militare Zeev Schiff e degli altri giornalisti ritenuti meno schierati a sinistra. Per il settimanale Hair , la ragione vera delle dimissioni di Marmari è legata all’intifada e ai riservisti israeliani che si rifiutano di servire nei Territori occupati o di partecipare ad «esecuzioni mirate» di palestinesi. «Nelle sedute di redazione, tutte le domeniche, Amos Shoken assume spesso posizioni di estrema sinistra», ha spiegato Hair. In un’intervista l’editore ha rivelato di essersi trovato in minoranza nelle riunioni di redazione e di aver accusato i redattori di essere «troppo sensibili a considerazioni commerciali, ad inseguire i lettori. Loro mi hanno risposto che sono un kamikaze sciita». Il dissidio Shoken/Marmari era emerso a settembre: la direzione aveva condannato il fenomeno dei piloti riservisti che si rifiutano di partecipare alle «esecuzioni mirate». Tre giorni dopo così aveva replicato l’editore: «In questo lembo di terra ci sono due popolazioni. Una si vede assicurati tutti i diritti, l’altra se li vede negati. Se è dovere dei militari difendere la democrazia può darsi che proprio questo gruppo di piloti siano fra quanti oggi difendono la democrazia in Israele». Chi sarà il successore di Marmari? Forse proprio Shoken. (MI. GIO.)
L’opera ritraeva la terrorista suicida che lo scorso 4 ottobre
ha provocato la morte di 21 persone in un ristorante di Haifa
Svezia, ambasciatore israeliano distrugge ritratto di kamikaze
“Non è arte, è una orribile distorsione della realtà”
Il diplomatico allontanato dal direttore del Museo
Figura in basso: Un curatore della mostra accanto all’opera danneggiata |

STOCCOLMA – L’inaugurazione di una mostra a Stoccolma si è trasfomata in incidente diplomatico: l’ambasciatore israeliano in Svezia, Zvi Mazel, si è scagliato contro un’opera che ritraeva una terrorista suicida. Ed ha strappato i fili elettrici, gettando nell’acqua la lampadina che illuminava l’installazione. Dura la reazione del ministero degli Esteri svedese, che ha convocato per la prossima settmana il diplomatico: “Chiederemo spiegazioni – ha detto un portavoce – su un gesto inacettabile”.
Teatro dell’incidente, il Museo storico della capitale svedese, dove si è tenuta l’inaugurazione di di una esposizione collegata ad una conferenza internazionale contro il genocidio, in calendario a fine mese. L’ambasciatore Mazel stava visitando la mostra, quando si è imbattuto in una installazione, dal titolo Biancaneve e la follia della verità: un bacino rettangolare, colmo di acqua rossa, dove galleggiava una barchetta con il ritratto di Hanadi Jaradat, la terrorista suicida che, lo scorso 4 ottobre, ad Haifa, si è fatta saltare in aria nel ristorante arabo israeliano “Maxim” provocando la morte di ventuno persone.
Mazel, visibilmente scosso, ha strappato i fili elettrici collegati al bacino ed ha gettato nell’acqua uno dei faretti che illuminavano l’installazione. Il direttore del museo, Kristian Berg, gli ha chiesto subito di uscire e lo ha scortato all’esterno.
Dror Feiler, israeliano residente in Svezia ed autore dell’opera insieme alla moglie Gunilla Skold, avrebbe dovuto eseguire una performance alla mostra, ma si è rifiutato di farlo in presenza di Mazel. Feiler, che è presidente dell’associazione “Ebrei per una pace israelo-palestinese”, ha accusato l’ambasciatore di “vandalismo” e di voler attentare alla libertà artistica e d’espressione. Il suo obiettivo artistico, ha spiegato, era mostrare come le persone deboli possono fare le cose più terribili una volta lasciate sole.
“Non era un’opera d’arte, ma una mostruosità – ha dichiarato Mazel alla radio svedese “Sr” – una oscena e intollerabile distorsione della realtà, ed un insulto alle famiglie delle vittime. E come ambasciatore, non potevo restare indifferente”.
Il direttore del museo ha detto di comprendere in parte la reazione dell’ambasciatore israeliano, ma allo stesso tempo ha giudicato “inaccettabile” la distruzione di un’opera d’arte: “Se a uno non piace quel che vede, se ne può sempre andare”. “E poi – ha aggiunto – strappando il faretto e gettandolo nella vasca, ha provocato un corto circuito che ha messo a repentaglio la vita dei presenti. Siamo stati costretti ad accompagnarlo alla porta”.
Da Gerusalemme una prima reazione è giunta da David Saranga, portavoce del ministro degli Esteri, che ha accusato Stoccolma di aver violato un accordo: “Il governo svedese si era impegnato a non collegare la conferenza sul genocidio al conflitto in Medio Oriente. L’orrenda opera che decanta una terrorista suicida che ha assassinato 21 civili – ha detto Saranga – è una flagrante violazione di questa intesa. Israele chiede al governo svedese di rimuovere quest’opera”. E se la Svezia dicesse di no? “In questo caso Israele dovrà considerare quali passi compiere”.
Intanto il ministero degli Esteri svedese ha convocato per la settimana prossima l’ambasciatore Mazel: “Gli chiederemo spiegazioni, dal nostro punto di vista è inaccettabile distruggere in questo modo opere d’arte”, ha detto la portavoce Anna Larsson.
( 17 gennaio 2004 )
Il premier israeliano ha “ringraziato” il diplomatico
che a Stoccolma si è scagliato contro una installazione
Ambasciatore rompe opera d’arte e riceve l’elogio di Sharon
“Giusta presa di posizione contro l’antisemitismo nel mondo”
GERUSALEMME – “Una presa di posizione contro l’ondata di antisemitismo nel mondo”. Con queste parole il premier Ariel Sharon ha pubblicamente elogiato l’ambasciatore israeliano in Svezia, Zvi Mazel: due giorni fa il diplomatico, durante l’inaugurazione di una mostra, aveva distrutto un’opera ispirata ad una giovane terrorista suicida.
“Ho telefonato all’ambasciatore e l’ho ringraziato per la sua presa di posizione” ha detto Sharon, che alla vicenda ha dedicato la dichiarazione di apertura della riunione settimanale del suo gabinetto ministeriale. “Gli ho detto – ha aggiunto – che il governo lo sostiene”.
L’iniziativa del primo ministro israeliano non sembra destinata a far rientrare gli attriti diplomatici seguiti all’incidente. Il ministero degli Esteri svedese, dopo l’accaduto, ha infatti convocato per la prossima settimana Mazel, “per chiedere chiarimenti” in merito al gesto”.
L’autore dell’installazione, Dror Feiler, israeliano trapiantato in Svezia, ha definito Mazel “un nano intellettuale”, precisando, tuttavia, di essere personalmente “contro gli attentatori suicidi”: “ritengo che sia una cosa orribile – ha dichiarato l’artista – e che non serva alla causa dei palestinesi”.
( 18 gennaio 2004 )
18.01.2004
Auschwitz, l’orrore dall’alto
di Nicola Tranfaglia
Da oggi per poco più di 14 euro, le immagini aeree scattate dalla Raf durante la seconda guerra mondiale saranno disponibili all’indirizzo www.evidenceincamera.co.uk: circa 5 milioni di fotografie dell’Aerial Reconnaissance Archive, messe in ordine e digitalizzate tramite un progetto della Keele University (uno dei luoghi ufficiali di deposito degli Archivi Nazionali britannici) e mai viste finora dal grande pubblico. Dal fumo dalle ciminiere di Auschwitz ai soldati americani dello sbarco in Normandia, trasformati in centinaia di cadaveri sparsi sul mare, alla corazzata tedesca Bismarck nascosta sette giorni in un fiordo norvegese prima del suo affondamento. Le immagini, per dirla con le parole del coordinatore del progetto Allan William, «ci consentono di vedere la guerra vera di prima mano». E anche se furono vitali per lo sforzo bellico degli alleati mostrano anche che, se fossero state esaminate con la dovuta attenzione, avrebbero potuto salvare migliaia di vite umane.

La fotografia ad alta definizione di un aereo britannico di ricognizione (apparsa sabato sul “Corriere della Sera” e visibile da oggi, insieme ad altri cinque milioni di immagini scattate dalla Raf, sul sito www.evidenceincamera.co.uk) che l’11 agosto 1944 scorse sul campo di Auschwitz-Birkenau, in Polonia, levarsi una colonna di fumo suscita nello storico che per tanti anni (metà della sua vita almeno) ha studiato le vicende dei fascismi europei, e in particolare del nazionalsocialismo, sensazioni forti e contraddittorie.
Quella colonna di fumo segnalava l’attività dei forni crematori e dei campi aperti in cui le SS bruciavano i cadaveri con la fretta indotta dalle sorti della guerra e dalla ormai imminente sconfitta del Reich millenario. Il 27 gennaio del 1945, quel ventisette gennaio che sarebbe diventato per una legge dello Stato il «giorno della memoria» in Italia, l’armata sovietica avrebbe raggiunto Auschwitz e agli occhi dei liberatori sarebbero apparsi i pochi superstiti del più grande barbaro massacro dell’età contemporanea.
Se gli inglesi avessero comunicato la scoperta, l’opinione pubblica occidentale avrebbe avuto la prova, con un certo anticipo, del «terribile segreto» che custodiva la seconda guerra mondiale.
Ma questo non avvenne perché le vite di milioni di prigionieri non erano l’obbiettivo politico e militare prioritario: in quel momento gli stati e i governi si preoccupavano prima di tutto di battere Hitler e di sconfiggere definitivamente la Germania nazista con i suoi satelliti (tra cui la Repubblica sociale italiana di Mussolini) e il Giappone di Hiro Hito che ancora combattevano contro gli alleati nell’unico intento ormai di allontanare il giorno della catastrofe politica e militare.
Questa è la prima, terribile constatazione che si presenta allo storico scrutando quella fotografia che è stata rilasciata ora dai National Archives di Londra dopo che per cinquant’anni era rimasta inaccessibile.
Ma bisogna, subito dopo, ricordare che molti, e da tempo, avevano segnalato quello che stava succedendo nei lager: molti diplomatici a contatto con le autorità del Terzo Reich, una parte del clero e probabilmente della Curia vaticana, la Croce rossa internazionale e i governi dell’alleanza antinazista. Le stesse organizzazioni ebraiche avevano comunicato ai governi di Washington e Londra la loro angoscia per le numerose testimonianze sul massacro che stava avvenendo in Germania e nell’Europa orientale.
Non si può dire insomma, dal punto di vista storico, che fosse un segreto assoluto come pure per molto tempo si è preteso di sostenere in libri e giornali del secondo dopoguerra. Quando non si è scritto, da parte dei revisionisti e dei negazionisti, che il grande massacro non fosse avvenuto mai o non avesse comunque le dimensioni accertate a poco a poco dalla ricerca storica: sei milioni di ebrei e altri milioni di oppositori civili e militari di tutta l’Europa caduti nelle grinfie dei nazisti prima e dopo il 1943.
Ci fu, insomma, una forte responsabilità dell’Europa e dell’intero Occidente per quello che è successo, per una barbarie che ha distrutto milioni di esseri umani perché ebrei o perché nemici del Reich e dei molti fascismi che si impadronirono negli anni trenta di una parte notevole del vecchio continente.
Se si pensa che in quel campo di sterminio almeno mezzo milione di persone venne ancora ucciso nei cinque mesi che separarono la ricognizione dell’aereo britannico dalla liberazione del lager, si ha una misurazione, per così dire esatta, del rilievo di quella fotografia e della completa impotenza che caratterizzò l’azione degli alleati rispetto ai forni crematori del Reich. In un certo senso una drammatica resa di fronte a un nemico che già negli ultimi anni trenta aveva clamorosamente bandito la crociata contro gli ebrei e in nemici del Reich senza che l’Occidente gli credesse e aprisse le ostilità fino all’invasione della Cecoslovacchia e della Polonia dopo che l’anno precedente, nella più assoluta impunità, aveva potuto invadere l’Austria e farla diventare parte del Terzo Reich.
A queste drammatiche sensazioni che quella fotografia suscita si aggiunge inevitabilmente un pensiero che sorge immediato di fronte al mondo in cui viviamo oggi di fronte a guerre che continuano senza interruzione come in Iraq, alle quelle che si preparano da parte degli Stati Uniti del presidente Bush contro altri «stati canaglia», ad altre guerre locali del tutto dimenticate dai grandi mezzi di comunicazione perché si svolgono in zone periferiche del mondo.
Viene spontaneo chiedersi che cosa sappiamo noi dei teatri di guerra, delle brutalità degli eserciti combattenti, della censura fortissima che tutela ancora la vita e la morte degli uomini impegnate su quei teatri.
Sarebbe ingenuo, o addirittura stupido, pensare che, sconfitta la barbarie nazista e fascista, si può essere tranquilli su quello che accade oggi in varie parti del mondo. Ci fu allora una macchina tremenda sostenuta da un pensiero perverso ma la guerra moltiplica sempre la ferocia degli oppressori e c’è da temere che il non rispetto dei diritti umani che sempre nei conflitti bellici e nelle occupazioni troviamo facciano ancora vittime e compiano azioni che l’opinione pubblica dovrebbe conoscere se volesse arrivare davvero a quel ripudio della guerra che è scritto nell’articolo 11 della Costituzione repubblicana e che, se non mi inganno, è ancora pienamente in vigore almeno fino alle prossime venture che prepara il secondo governo Berlusconi.
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