Il conflitto israelo-palestinese: sintesi storica dal 1880 ad oggi

A cura di Paolo Barnard

Al declino dell’impero Ottomano, a partire dal 1880, gruppi di ebrei europei, per vari motivi ma anche a causa delle persecuzioni nell’est europeo, emigrarono in Palestina dove stabilirono alcune colonie. Fondarono il movimento Sionista, da cui presero il nome di sionisti.


Il loro arrivo preoccupò presto i Notabili palestinesi che gia’ nel 1891 scrissero al Gran Visir a Istambul chiedendogli di proibire le immigrazioni di sionisti in Palestina. Il Gran Visir lo fece ma gli Inglesi e i Francesi lo convinsero a invalidare gran parte del suo stesso editto.

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, nel 1914, gli immigranti sionisti in Palestina erano 85.000, il 9% della popolazione, mentre gli arabi musulmani e cristiani erano 500.000, ai quali si aggiungevano gli ebrei cosiddetti Ottomani (già presenti da tempo in Palestina e perfettamente integrati). I palestinesi facevano una netta distinzione fra gli ebrei Ottomani e quelli europei. Questi ultimi infatti erano visti come agenti di una penetrazione economica delle potenze europee.

Nel 1916 le potenze europee (quelle schierate in guerra contro Germania, Austria e Ungheria) siglarono l’accordo di Sikes-Picot: si trattava del piano alleato per dividere l’impero Ottomano (in disfacimento) fra Russia, Francia, e Inghilterra. Nell’accordo la Palestina doveva rimanere internazionalizzata sotto il controllo di tutte e tre. Ma gli inglesi volevano controllare il canale di Suez per tutelare i loro commerci con l’India, e cosi’ promossero la colonizzazione ebrea europea in Palestina a scapito della popolazione araba.

Nel 1917, dopo aver promesso ai palestinesi la libertà di formare governi propri, il ministro degli esteri inglese Arthur Balfour fece la famosa dichiarazione (che porta il suo nome) che di fatto riconosceva ai sionisti il diritto di costituire un proprio Stato in Palestina, contraddicendo quindi le garanzie di autodeterminazione date ai palestinesi. Ma non tutti i sionisti esultarono per le parole di Balfour: i più radicalizzati fra loro accolsero male la dichiarazione, e un loro leader, Israel Zangwill, nel 1919 rivendicò per tutti gli ebrei il diritto di colonizzare la Terra di Israele (Eretz Israel) su basi bibliche, il che significava colonizzare tutta la Palestina e molto oltre.

Qui abbiamo il primo appello palestinese rivolto alle potenze europee perché si creasse in Palestina una Monarchia Costituzionale Democratica, che salvaguardasse le minoranze etniche e religiose. I palestinesi chiedevano anche che fosse messo uno stop alla colonizzazione sionista.

Nel 1920, con il trattato di Sèvres, i vincitori della prima guerra mondiale si divisero l’impero Ottomano sconfitto: fra le varie spartizioni dell’area mediorientale la Siria andò alla Francia e la Palestina alla Gran Bretagna.

Nel 1922 l’Inghilterra ricevette dalla Lega delle Nazioni il Mandato per la Palestina, e istituì la Jewish Agency (Agenzia Ebraica) per promuovere l’economia dell’area. I palestinesi non avevano un’organizzazione simile e non gli fu chiesto di formarne una. I loro timori erano chiari: che il potere economico palestinese fosse destinato a essere gregario di quello ebraico.

Per i palestinesi riconoscere il Mandato inglese significava in pratica riconoscere la legittimita’ degli insediamenti sionisti, cosa che si rifiutarono di fare. Poiché i Notabili palestinesi non possedevano una struttura come la Jewish Agency, si rifiutarono per tutto il periodo del Mandato di partecipare all’amministrazione delle terre da una posizione che consideravano perdente in partenza. Ma cosi’ facendo si auto esclusero.

Gli intenti dei colonizzatori sionisti erano, pubblicamente, di trovare un’armonia di convivenza con gli arabi, ma alcune dichiarazioni di leaders dell’Organizzazione Sionista confermarono i peggiori sospetti dei palestinesi. Nel 1921 infatti il Dott. Eder dichiarava: “Ci sarà solo una nazione in Palestina, ed sarà quella ebraica. Non ci sarà eguaglianza fra ebrei e arabi, ma vi sarà la predominanza ebraica appena i numeri demografici ce lo permetteranno.”

QUI COMINCIA LA VIOLENZA E FINISCE LA STORIA CIVILE DI QUESTI POPOLI.

Nel 1921 cominciano gli scontri fra arabi ed ebrei (a Jaffa 200 morti ebrei e 120 morti arabi). Gli Inglesi concludono che si tratta di scontri spontanei, mentre i sionisti decidono che vi è un piano di persecuzione contro di loro, e il leader sionista Ben Gurion comincia a organizzare la difesa dei territori colonizzati.

Nel 1929 gli arabi attaccano alcuni ebrei non sionisti per una disputa religiosa, e cioé l’accesso dei fedeli ebrei al Muro del Pianto, uno dei luoghi di culto più importanti della tradizione ebraica che si trova però vicinissimo a due luoghi sacri della tradizione musulmana, il Haram al Sharif e la moschea Al Aqsa.

E’ QUI CHE IL MONDO ARABO E QUELLO EBRAICO IN GENERALE ( e cioé non solo sionista) VENGONO TIRATI NEL CONFLITTO.

La rabbia araba ha però anche altre cause. Infatti i sionisti (attravarso il Jewish National Fund) continuano a comprare le terre da proprietari arabi non residenti, e i contadini palestinesi che le lavorano vengono spesso espulsi senza voce in capitolo. Inoltre, come testimonia un rapporto ufficiale inglese del 1930, le terre acquistate vengono dichiarate suolo ebraico per sempre e solo gli ebrei vi possono lavorare.

Questo deteriora i rapporti ancora di piu’, e nel frattempo le tensioni vengono peggiorate dalla ulteriore ondata di immigrazione di Ebrei che fuggono dalla scalata al potere di Hitler in Europa. Nel 1940 i sionisti formano già il 33% della popolazione in Palestina.

Gli anni che vanno dal 1936 al 1947 vedono crearsi le basi per lo scoppio della famosa guerra arabo-israeliana del 1948:

1) I contadini palestinesi si ribellano nel 1936, gli inglesi reprimono la sollevazione ma capiscono l’impossibilita’ di mantenere le promesse fatte alle parti.

2) Cominciano le proposte di formazione di 2 Stati separati. Gli inglesi pubblicano il “Peel Report”, che prevede la separazione di ebrei e arabi secondo la divisione demografica del momento. Gli arabi non l’accettano. Essi chiedono: che sia fermata l’immigrazione ebraica e che gli si impedisca di acquistare le terre, e che la Palestina divenga uno Stato indipendente dove agli ebrei siano garantiti i diritti politici e civili. Gli inglesi, pubblicando il “White Paper” sulla Palestina nel 1939, accettano di limitare l’immigrazione ebraica e l’acquisto di terre, e promettono una transizione verso un futuro governo palestinese in uno Stato bi-nazionale. Gli arabi rigettano anche il “White Paper”, perché considerano troppo vaga la promessa di indipendenza palestinese.

3) Gli inglesi, per non esacerbare la situazione in Medioriente, cominciano a proibire l’arrivo dei rifugiati ebrei in fuga da Hitler, con episodi di agghiacciante inumanità. Aggiungiamo che è di questo periodo uno dei più clamorosi autogoal della leadership religiosa palestinese, quando il Gran Mufti di Gerusalemme, lo Sceicco Haj Amin al-Husseini, ebbe la pessima idea di recarsi nella Germania nazista a confabulare con Heinrich Himmler affinché le SS impedissero l’emigrazione degli ebrei verso la Palestina (le foto che lo ritraggono sono al museo Yad Vashem di Gerusalemme).

E’ a questo punto che i sionisti si organizzano in gruppi di guerriglia, e cominciano attacchi terroristici contro gli inglesi e contro i palestinesi. I gruppi più noti furono l’Irgun e lo Stern, che nel 1944 uccide in ministro inglese per il medioriente Lord Moyne, e il gruppo Haganah. Nel ’46 c’e’ il noto attentato dell’Irgun contro gli inglesi: sotto la guida di Menachem Begin (futuro premier) viene fatto saltare in aria l’Hotel King David.

Nel 1947 gli Inglesi rinunciano al Mandato e passano la palla all’ONU. Ciò è dovuto anche al fatto che il potere di influenza sulla regione sta sempre più passando in mani statunitensi.

L’ONU propone nella risoluzione 181 l’ennesima divisione in Stati separati, ma gli Arabi la rifiutano, e non senza motivo: agli ebrei sarebbe andato il 54% delle terre anche se erano solo il 30% della popolazione presente. Sempre agli ebrei andava il Negev dove vivevano 90.000 beduini contro solo 600 ebrei.

Nella primavera del 1947 comincia lo scontro sul campo fra arabi ed ebrei, e nel Maggio 1948 gli Stati arabi (nati dalla decolonizzazine) mandano truppe in aiuto ai palestinesi. Ma gia’ le truppe ebraiche avevano conquistato grandi fette di territorio designato dall’ONU come Arabo, provocando la fuga di 300.000 rifugiati palestinesi. E’ di questo momento il massacro di 200 civili palestinesi a Deir Yassin sotto la responsabilità di Menachem Begin. Il mediatore ONU Folke Bernadotte viene ucciso dal gruppo terroristico ebraico Stern a Gerusalemme, e lo Stato d’Israele viene proclamato il 14 maggio 1948. La guerra continua, e all’ inizio del 1949 Israele vince definitivamente conquistando il 73% della Palestina. I rifugiati palestinesi sono ora 725.000.

Nel 1950 Israele vota una legge, la Legge sulla Proprietà degli Assenti, che espropria i profughi palestinesi fuggiti durante le ostilità delle loro terre e delle loro abitazioni, quelle cioé abbandonate a partire dal novembre 1947. Ancora oggi Israele sostiene che la maggioranza dei palestinesi fuggì volontariamente perché incitati dalle radio arabe a farsi da parte mentre Israele veniva “distrutto”. Ma secondo i più autorevoli storici questi appelli radiofonici sono un’invenzione e la realtà suggerisce che i palestinesi fuggirono per paura della guerra o delle stragi delle gang terroristiche ebraiche. Nella risoluzione ONU 194 (12/1948) è sancito il diritto dei rifugiati di tornare o di essere risarciti, ma Israele non l’ha mai riconosciuta.

Ai palestinesi, alla fine della guerra, rimane Gaza (con amministrazione egiziana) e la Cisgiordania (con amministrazione giordana. La Giordania era già nata come nazione e ospitava ampi numeri di palestinesi). Gli scontri di frontiera continuano fino al 1956, quando Israele (in accordo con la Gran Bretagna e la Francia) attacca l’Egitto (che aveva nazionalizzato il canale di Suez) conquistando Gaza e il Sinai, ma gli USA li convincono a ritirasi un anno dopo.

Intanto, nel 1964 gli Stati arabi creano l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Questo gruppo compie azioni di guerriglia contro Israele, e verra’ visto come l’unica speranza di riscatto palestinese.

Le tensioni crescono in una escalation che porterà alla prossima guerra, quella del ’67:

1966: la Siria permette ai guerriglieri palestinesi di operare dal suo territorio; Israele minaccia ritorsioni e la Siria fa un patto difensivo con l’Egitto. A causa di questo patto, e in seguito alle rappresaglie israeliane in Giordania, la Siria sollecita l’Egitto ad agire. Il Cairo assume un atteggiamento bellicoso, ma non va oltre.

Nel Maggio 1967 il presidente egiziano Nasser stringe un patto di difesa con la Giordania, che sembra mirare solo a un rafforzamento strategico, e non a un effettivo attacco contro Israele. Ma Israele non aspetta, e nel Giugno 1967 attacca l’Egitto. E’ la nota Guerra dei 6 Giorni, che segna la umiliante disfatta araba. In un baleno Israele occupa il Sinai, Gaza, la Cisgiordania, parte del Golan siriano e Gerusalemme Est.

Nel Novembre 1967 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU condanna la conquista dei territori di Israele con la risoluzione 242, che specificamente chiede: il ritiro israeliano dai territori occupati nel 1967 – che tutti gli Stati si riconoscano come sovrani, indipendenti e integri all’interno di frontiere sicure – che si trovi una soluzione giusta per i rifugiati.

Egitto e Giordania accettarono subito la 242, Israele la accetterà tre anni piu’ tardi senza pero’ evacuare i territori.

Nel 1968, un gruppo dell’OLP chiamato Fatah e capeggiato da un certo Yasser Arafat cade vittima di una feroce rappresaglia israeliana a Karama. Arafat ne trae prestigio e diviene capo dell’OLP, dichiarando ufficialmente gli scopi dell’Organizzazione: “Lotta armata e cancellazione dello Stato di Israele”. Ma altri gruppi militanti dell’OLP hanno differenti mire. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (FDLP) sostengono ideologie panarabe nazionaliste, mirando non solo a una lotta palestinese ma a una sollevazione in senso socialista di tutti gli Stati arabi. Essi divengono in pratica avversari interni dell’OLP, con proprie alleanze sotterranee.

In questi anni la Giordania diviene sia la base per gli attacchi dell’OLP verso Israele sia l’oggetto degli attacchi dei gruppi dissidenti. Infatti nel 1970 il FPLP di George Habbash fa esplodere alcuni aerei in Giordania, umiliando il monarca giordano Re Hussein, che decide di espellere i guerriglieri palestinesi con mezzi militari e scontri sanguinosi (episodio noto come Settembre Nero). Sono gli anni del terrorismo palestinese più clamoroso, con l’attacco alle Olimpiadi di Monaco (1972), con l’azione di tre kamikaze di Abu Nidal all’aeroporto di Tel Aviv, ecc. Il Mossad (servizi segreti israeliani) uccide i rappresentanti dell’OLP a Parigi e a Roma.

Inizia una guerra d’attrito fra Egitto e Israele, che sfocia in un attacco egiziano e siriano a sorpresa contro Israele nel 1973 (guerra del Kippur). Israele è in seria difficolta’, e solo grazie a un massiccio aiuto militare americano si riprende e addirittura avanza nel Golan. Interviene la mediazione USA di Kissinger e un’altra risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la 338, chiede il cessate il fuoco e il rispetto della risoluzione 242, ma su quest’ultimo punto c’è un nulla di fatto.

La base della guerriglia OLP si sposta in Libano, fra i villaggi Shiiti del sud, vicino alla frontiera con Israele. Dapprima l’OLP è ben accetto, ma quando la popolazione si trova fra i due fuochi israeliani e palestinesi iniziano i dissapori con l’OLP, che non si fa scrupolo di imporre sanguinosamente la sua presenza. Israele bombarda e attacca il sud del Libano dal 1973 al 1978, causando enormi sofferenze fra i civili e la fuga verso Beirut di centinaia di profughi. Poi, nel 1978 invade il sud del Libano, causando circa 2000 morti. Di nuovo il Consiglio di Sicurezza dell’ONU condanna l’invasione con la risoluzione 425, e tenta di separare i belligeranti con un contingente di caschi blu (UNIFIL). L’UNIFIL però dovrà fare i conti con la presenza nell’area libanese sotto occupazione israeliana delle spietate milizie mercenarie della South Lebanese Army, che erano interamente sotto il controllo di Israele e che per conto di Israele conducevano azioni militari e ogni sorta di crimine di guerra (come l’assassinio di due caschi blu irlandesi, tuttora impunito nonostante gli assassini vivano liberi a Detroit, USA). Nasce nel Libano del sud la resistenza islamica degli Hezbollah.

Nel frattempo prende piede la più clamorosa svolta diplomatica della recente storia mediorientale. Nel novembre 1977 il presidente egiziono Sadat incontra il premier israeliano Begin in Israele. Nel Settembre 1978 Sadat va a Camp David negli USA, dove firma i famosi Accordi con Israele. Israele in cambio si ritira dal Sinai. Sadat firma a Washington il 26 marzo 1979 la pace con Israele, primo Stato arabo a farlo (verrà per questo assassinato da killer fondamentalisti nel 1981). Gli Arabi si sentono traditi, anche perché Israele, non dovendosi più preoccupare dell’Egitto al sud, e’ ora libero di attaccare il Libano al nord. Nel 1982 Israele reinvade il Libano, con la scusante di dare la caccia ai “terroristi”, e arriva fino a Beirut con l’aiuto delle milizie Cristiane Maronite libanesi. Gli USA mediano la fuga dell’OLP e di Arafat da Beirut, dove si erano asserragliati, ma nessuno protegge i civili palestinesi: il risultato è che nel campo profughi di Sabra e Chatila le milizie Cristiane Maronite pro israeliane e sotto il controllo di Ariel Sharon (allora min. della difesa di Isr.) sterminano 1.700 civili palestinesi, destando orrore in tutto il mondo. Israele si ritirera’ dal Libano (esclusa una fascia al sud) nel 1985, lasciandosi alle spalle 17.500 morti.

Da notare in questo periodo (1982) i tre piani di pace proposti da USA, URSS e Stati Arabi: gli USA rifiutano la richiesta araba di autodeterminazione per i palestinesi, e ignorano il piano sovietico. Gli arabi accettano tutti e tre piani. Israele li rifiuta tutti e tre.

Arafat, fuggito dal Libano, si trova isolato e stringe nel 1985 un patto per la pace con re Hussein di Giordania. Partono i colloqui di pace con una proposta giordano-palestinese: terra ai palestinesi in cambio di pace – accettazione di tutte le risoluzioni ONU – autodeterminazione del popolo palestinese – soluzione per il problema dei rifugiati.

Gli USA invece propongono: accettazione palestinese della risoluzione 242 (ma non si parla delle altre risoluzioni) – riconoscimento palestinese dello Stato di Israele – rinnegazone della violenza da parte dell’OLP. Il fallimento delle trattative sembra sia da attribuirsi al rifiuto USA di accettare l’autodeterminazione del popolo palestinese.

Siamo al 1985, tragico momento degli attentati terroristici palestinesi nel porto di Larnaca (Cipro) e a bordo della nave da crociera Achille Lauro, che furono degli autogoal clamorosi per tutta la causa del popolo palestinese. Israele bombarda il quartier generale dell’OLP che si era insediato a Tunisi, e gli USA screditano Arafat come “terrorista”, convincendo Re Hussein di Giordania a rompere il suo accordo nel 1986.

Le fortune dell’OLP sembrano precipitare negli anni dal 1985 al 1987, anno in cui il Consiglio Nazionale Palestinese si riunisce ad Algeri e ritrova una unita’ fra tutte le fazioni. Nei territori occupati il pugno di ferro di Israele, con la costruzione di insediamenti ebraici illegali, con le deportazioni, con le violenze contro i civili e con le torture (che verranno legalizzate dall’Alta Corte di Giustizia israeliana, unico Stato al mondo a farlo) trova ora un fronte unito, e forse per questo i giovani palestinesi possono esplodere nell’Intifada (sollevazione) il 9 Dicembre 1987.

Nel 1988 Arafat rinuncia ufficialmente al terrorismo e accetta la risoluzione 242, implicitamente riconoscendo l’esistenza di Israele. L’OLP decide a quel punto la futura nascita dello Stato palestinese.

Nel 1990 ancora un autogoal di Arafat: un raid di guerriglieri OLP su una spiaggia israeliana (abortito) causa le rottura fra Arafat e gli USA. Ma l’errore diplomaticamente forse più imperdonabile di Arafat sarà il suo ambiguo atteggiamento verso l’aggressione irachena al Kuwait nel 1991. Ciò gli frutterà la sospensione degli aiuti finanziari da parte dell’ Arabia Saudita e un imbarazzante isolamento internazionale.

Il presidente americano Bush (primo) comprende che è nell’interesse statunitense stabilizzare l’area mediorientale dopo la Guerra del Golfo contro Saddam Hussein, e per questo spinge un riluttante Israele a incontrare i Paesi arabi e alcuni rappresentanti palestinesi (ma non l’OLP) alla conferenza di Madrid nell’ottobre 1991.

Nel Giugno 1992 il partito Laborista di Yitzhak Rabin vince le elezioni in Israele (sconfiggendo il partito di destra Likud) e promette un accordo di autonomia ai Palestinesi.

Fine agosto 1993: a Oslo si svolgono colloqui segreti fra l’OLP e il laborista israeliano Shimon Perez con mediazione norvegese del ministro degli esteri Joan Jorgen Holst. Il tema e’ una proposta di autonomia per Gaza e per la citta’ di Jerico.

Il 9 Settembre 1993 Arafat, con la votazione a favore del Comitato Esecutivo Palestinese (8 voti a favore su 12) firma la lettera di riconoscimento dello Stato di Israele, e Israele il 10 Settembre riconosce l’OLP come il legittimo rappresentante dei palestinesi.

Lunedi’ 13 Settembre 1993 Arafat e Rabin a Washington, in una storica cerimonia, firmano una Dichiarazione di Principi, che comprende il mutuo riconoscimento di Israele e dell’OLP, il ritiro israeliano da Gaza e da Jerico, e un non meglio specificato ritiro israeliano da alcune aree della Cisgiordania entro 5 anni.

In base a questi accordi, chiamati “di Oslo” grazie alla mediazione norvegese, è concesso all’OLP di formare una propria amministrazione dei territori che cadranno sotto il suo controllo. Questa amministrazione si chiama Autorità Palestinese, che avrà come presidente Arafat (ma si dimostrerà spesso incapace e corrotta). Tuttavia gli accordi di Oslo rimandano a futuri negoziati i punti di disaccordo più spinosi: gli insediamenti ebraici illegali in terra palestinese – il ritorno dei rifugiati palestinesi – le risorse idriche – e il destino di Gerusalemme Est, che i palestinesi rivendicano come propria (come anche sancito dalla risol. ONU 242).

Il premier Rabin viene assassinato nel novembre del 1995 da uno studente ebraico estremista di destra che considerava l’avvicinamento ad Arafat un tradimento della nazione di Israele.

Nonostante ciò, nel 1996 la destra israeliana (partito Likud) vince le elezioni e al governo va Benjamin Netanyahu. Egli sostanzialmente imporrà un nulla di fatto sugli accordi di Oslo fino al 1999, anno in cui i laboristi di Ehud Barak tornano al potere.

Da notare che dietro le quinte le differenze di politiche fra la sinistra e la destra israeliana sono poche, soprattutto per quello che riguarda la spinosa questione degli insediamenti ebraici illegali in terra palestinese. Basti pensare che quando furono firmati gli accordi di Oslo c’erano già 32.750 abitazioni illegali di coloni ebrei in terra palestinese, che da allora a oggi sono cresciute del 62%, sia sotto governi israeliani di sinistra che di destra.

Barak concede ad Arafat alcuni territori in più a partire dal 1999, e a metà del 2000 l’Autorità Palestinese si trova a controllare il 40% della Cisgiordania e il 65% di Gaza. Ma attenzione: stiamo parlando di pezzetti di territorio palestinese scollegati e interamente circondati da insediamenti ebraici, e controllati giorno e notte da cordoni di militari israeliani con pieni poteri, letteralmente di vita o di morte, sulla popolazione palestinese. In queste condizioni la gestione economica palestinese è quasi impossibile e la povertà (già spaventosa) aumenta: i tassi di disoccupazione variano dall’11% al 50%.

Maggio 2000: Israele si ritira frettolosamente dal Sud del Libano, in seguito anche all’offensiva dei guerriglieri islamici Hezbollah (da più di 20 anni impegnati in una guerriglia di attrito per cacciare Israele dal Libano).

Nel luglio del 2000 il presidente americano Clinton convince un riluttante Arafat e il premier israeliano Barak ad andare a Camp David (USA) per finalizzare gli accordi di Oslo. L’incontro naufraga in un nulla di fatto, e ancora oggi molti sostengono che Arafat fu allora responsabile di aver rifiutato una generosa offerta israeliana. Anche se è vero che a Camp David l’israeliano Barak offre ad Arafat molto più territorio di quanto avessero mai fatto i suoi predecessori, è altrettanto vero che Barak si rifiuta 1) di ritirarsi da Gerusalemme Est 2) di affrontare la questione dei rifugiati palestinesi 3) di rispettare la risoluzione 242 dell’ONU 4) di affrontare drasticamente la questione degli insediamenti ebraici illegali. Per Arafat questo era ovviamente inaccettabile.

Arriviamo al 28 Settembre 2000, un’altra data catastrofica nella storia di questo conflitto. E’ il giorno in cui Ariel Sharon, leader dell’opposizione israeliana di destra (Likud), sfida le ire palestinesi sfilando a piedi con un esercito di guardie armate presso la moschea di Al Aqsa a Gerusalemme, che è uno dei luoghi più sacri della religione musulmana. Questo viene visto come un oltraggio imperdonabile, e le rabbie e le tensioni accumulatesi nei precedenti dieci anni riesplodono nella seconda (e tuttora in corso) Intifada. A differenza della prima Intifada (1987-91), questa sollevazione è assai più sanguinosa: da parte palestinese c’è un uso massiccio di armi da fuoco leggere contro i soldati israeliani e talvolta contro i civili, e soprattutto c’è un marcato aumento di giovani kamikaze che si fanno esplodere massacrando civili israeliani; mentre da parte israeliana la repressione, le uccisioni dirette e indirette di civili palestinesi, le devastazioni di aree abitate e gli “assassinii mirati” di presunti terroristi e/o di leader politici dell’OLP, non conoscono più limiti.

Nel febbraio 2001 il laburista Barak perde le elezioni e diviene premier Ariel Sharon del Likud.


IL GRANDE GIOCO

Israele ed USA uniti contro il mondo: l’aggressivita’ di Israele e’ sempre stata fattore destabilizzante per il Medioriente fin dall’anno della sua creazione come bastione degli interessi americani nell’area

di Uri Avnery, pacifista israeliano

Alcune settimane fa, e’ accaduto qualcosa di curioso: Israele ha scoperto che l’Iran e’ il Grande Satana.

E’ accaduto abbastanza improvvisamente. Non c’e’ stata alcuna notizia sensazionale precedentemente, nessuna scoperta. Come per ordine di un drill-sergeant, l’intero apparato israeliano ha mutato direzione. Tutti i politici, i generali, i media ufficiali, con il solito baccano concertato, tutti insieme hanno scoperto, in una notte, che l’Iran e’ l’immediato, vero e terribile pericolo.

Con un eccezionale tempismo, in quello stesso momento veniva sequestrata una nave che, cosi’ ci hanno detto, trasportava armi iraniane ad Arafat. E, in quello stesso momento, a Washington, Shimon Peres, un uomo per tutte le stagioni e servo di tutti i padroni, si avvicinava ad ogni diplomatico che incrociava ed a tutti raccontava la stessa storia di migliaia di missili iraniani dati agli Hezbollah. Si’, si’, gli Hezbollah (inclusi da Bush nella famigerata lista delle “organizzazioni terroristiche”) stanno ricevendo armi orribili dall’Iran (incluso da Bush nell’ “Asse del Male”) per minacciare Israele, il prediletto del Congresso.

Vi sembra folle? Affatto! In questa follia c’e’ metodo.

La faccenda e’ semplice da spiegare. L’America e’ ancora infuriata per l’attacco alle Torri gemelle. Ha appena vinto una guerra stupefacente in Afghanistan senza sacrificare quasi nessun soldato americano. Ora e’ ferma, furiosa ed ubriaca per la vittoria, e non sa chi attaccare. L’Iraq? La Corea del Nord? La Somalia? Il Sudan?

Il Presidente Bush non puo’ fermarsi proprio ora, non si puo’ sciupare una simile immensa concentrazione di potere. Inoltre, Bin Laden non e’ stato ancora ucciso. La situazione economica e’ disastrata, Washington e’ scossa da uno scandalo di proporzioni gigantesche (Enron). Il pubblico americano non deve sentirsi demoralizzato da tutto cio’.

Ed ecco che arrivano i leaders di Israele e cominciano a gridare dal tetto: l’Iran e’ il nemico! L’Iran deve essere attaccato!

Chi ha preso questa decisione? Quando? Come? E, piu’ importante, dove? Chiaramente non in Israele, ma a Washington DC. Una componente importante dell’amministrazione USA ha dato un segno ad Israele: Inizia una massiccia offensiva politica per indirizzare la pubblica opinione, i media ed il Congresso americani.

Chi sono questi elementi? E quali sono i loro interessi? C’e’ bisogno di una spiegazione piu’ dettagliata.

La risorsa terrestre piu’ ambita sono i giganteschi giacimenti di petrolio della regione del Mar Caspio, i quali sfidano la ricchezza di quelli sauditi. Si ritiene che nel 2010 essi produrranno 3,2 miliardi di barili di greggio al giorno, che vanno ad aggiungersi ai 4850 miliardi di piedi cubici di gas naturale all’anno.

Gli Stati Uniti sono determinati a (1) ottenerne il possesso, (2) eliminare tutti i potenziali rivali, (3) salvaguardare l’area politicamente e militarmente, e (4) riuscire a trovare una via che, dai giacimenti, arrivi al mare aperto.

Questa campagna e’ sostenuta da un gruppo di persone alle quali appartiene anche la famiglia Bush. Insieme all’industria degli armamenti, questo gruppe include sia George Bush senior, che il George junior appena eletto. Il Presidente degli USA e’ una persona sempliciotta, il suo mondo mentale ed intellettivo e’ piuttosto limitato, ed i suoi discorsi sono primitivi, provocano caricature, come un Western di seconda categoria. Va bene per la massa. Ma i suoi manipolatori sono persone sofisticate ed astute, davvero. Sono loro che guidano, in realta’, l’amministrazione.

L’attacco alle Torri gemelle ha reso il loro lavoro incredibilmente facile. Osama Bin Laden non ha compreso di servire, con le sue azioni, gli interessi americani. Se credessi alla Teoria della Cospirazione, penserei che Bin Laden e’ un agente segreto americano. Non credendovi, sono portato, piuttosto, a stupirmi di fronte alla coincidenza.

La “Guerra al Terrorismo” di Bush costituisce un pretesto perfetto per la campagna orchestrata dai manipolatori. Sotto la copertura di questa guerra, l’America ha ottenuto il controllo totale sulle tre piccole nazioni islamiche che circondano i giacimenti di petrolio: Turkmenistan, Uzbekistan e Kyrgyzstan. L’intera regione e’ ora sotto il completo controllo americano, sia militare che politico. Tutti i potenziali rivali – primi tra tutti Russia e Cina – sono stati eliminati.

Da lungo tempo, gli americani stavano studiando quale fosse il tragitto migliore per trasportare il petrolio del Caspio al mare. Le rotte che passavano attraverso le zone di influenza russa sono state scartate. La competizione ottocentesca tra Gran Bretagna e Russia, denominata il “Grande Gioco”, continua oggi tra America e Russia.

Fino a poco fa, la rotta occidentale, che passava attraverso il Mar Nero e la Turchia, sembrava la piu’ gettonata, ma c’e’ da dire che agli americani non piaceva molto. La Russia era ancora troppo vicina.

La rotta migliore era a sud, verso l’Oceano Indiano. L’Iran non era stata presa affatto in considerazione, essendo guidata da un “manipolo di fanatici”. Rimaneva una rotta alternativa: dal Mar Caspio, attraverso l’Afghanistan e la parte occidentale del Pakistan (chiamata Belucistan), all’Oceano Indiano. Per questo gli americani condussero delle trattative, abbastanza amichevolmente, con il regime dei Taleban. Non ottennero granche’. Quindi inizio’ la “Guerra contro il Terrorismo”, gli USA conquistarono tutto l’Afghanistan ed installarono i loro agenti come nuovo governo. Il dittatore pakistano fu anch’egli piegato al volere americano.

Se si guardano le mappe delle grandi basi americane create per la guerra, si rimane colpiti dal fatto che sono sistemate sulla rotta dell’oleodotto progettato per trasportare il petrolio all’Oceano Indiano.

E cio’ avrebbe dovuto essere la fine della storia, ma, come si sa, l’appetito vien mangiando. Gli americani hanno imparato due cose dall’ esperienza afghana: (1) che ogni paese puo’ essere piegato attraverso bombardamenti sofisticati, senza mettere in pericolo la vita di nessun soldato, e (2) che la forza militare ed i soldi dell’America possono insediare governi-fantoccio dovunque.

Quindi a Washington si e’ fatta strada una nuova idea: perche’ l’oleodotto dovrebbe “circumnavigare” l’Iran se e’ possibile costruirne uno piu’ breve passante per lo stesso Iran? Si deve soltanto far cadere il governo iraniano ed installare un governo filo-americano. Nel passato cio’ sembrava impossibile. Ora, dopo l’episodio afghano, il progetto sembra molto verosimile. Bisogna solo preparare l’opinione pubblica americana ed ottenere il sostegno del Congresso prima di sferrare un attacco all’Iran.

Per questo obiettivo, c’e’ bisogno dei servigi israeliani. Israele ha un’enorme influenza sul Congresso e sui media. Funzionera’ cosi’: ogni giorno i generali israeliani dichiarano che l’Iran sta producendo armi di distruzione di massa e che minaccia lo stato ebraico di un secondo Olocausto. Sharon annuncia che il sequestro di una nave iraniana carica d’armi dimostra che Arafat e’ collegato alla cospirazione iraniana. Peres dice a tutti che i missili iraniani minacciano il mondo intero. Ogni giorno qualche giornale americano annuncia che Bin Laden e’ in Iran o presso gli Hezbollah libanesi.

Il presidente Bush sa come ricompensare coloro che lo servono a puntino. Sharon ha ottenuto mano libera per opprimere i palestinesi, arrestare Arafat, assassinare i militanti ed espandere gli insediamenti. E’ semplice, lo scambio: tu mi procuri il sostegno della stampa e del Congresso, io ti servo i palestinesi su di un piatto d’argento.

Questo non potrebbe accadere se l’America avesse ancora bisogno del supporto di alleati europei ed arabi. Ma in Afghanistan gli americani hanno capito che non hanno piu’ bisogno di alcuno. Possono sputare negli occhi dei pietosi regimi arabi, sempre a caccia di sostegno finanziario, e anche dell’Europa. Chi ha bisogno delle insignificanti armate britanniche o tedesche quando l’America, da sola, e’ piu’ potente di tutti gli eserciti del mondo messi assieme?

L’idea della cooperazione israelo-americana contro l’Iran non e’ nuova per Sharon. Al contrario, nel 1981, quando egli era ministro della Difesa in Israele, offri’ al Pentagono un piano ben disegnato: nel momento in cui Khomeini si sarebbe dimesso, l’esercito israeliano avrebbe immediatamente occupato l’Iran in attesa dell’arrivo degli americani. A tale proposito, il Pentagono avrebbe dovuto rifornire Israele delle armi piu’ sofisticate, da trattenere nel paese per essere usate dagli americani nell’operazione.

A quel tempo, il Pentagono non accetto’ l’idea. Ora, la cooperazione e’ stata ridefinita con un differente background.

Quale conclusione otteniamo da tutto cio’? Innanzitutto dobbiamo tenere ben presente che una reazione iraniana ad un eventuale attacco americano potrebbe farci molto male. Ci sono missili. Ci sono armi chimiche e batteriologiche. Inoltre, quelli tra noi che desiderano la pace, non dovrebbero fare affidamento sull’America. Tutto dipende da noi, israeliani e palestinesi.

Il nostro sangue e’ piu’ prezioso del petrolio del Mar Caspio. Almeno per noi.


L’articolo e’ tratto da Gush-Shalom.org

La guerra di Rachel

Rachel Corrie, una pacifista ventitreenne americana, è stata schiacciata e uccisa da una ruspa mentre tentava di impedire che l’esercito israeliano distruggesse le case nella striscia di Gaza.
In una straordinaria serie di e-mail dirette alla sua famiglia spiega per quali motivi rischiava la vita.


7 febbraio 2003

Ciao amici e famiglia e tutti gli altri, sono in Palestina da due settimane e un’ora e non ho ancora parole per descrivere ciò che vedo. È difficilissimo per me pensare a cosa sta succedendo qui quando mi siedo per scrivere alle persone care negli Stati Uniti. È come aprire una porta virtuale verso il lusso. Non so se molti bambini qui abbiano mai vissuto senza i buchi dei proiettili dei carri armati sui muri delle case e le torri di un esercito che occupa la città che li sorveglia costantemente da vicino. Penso, sebbene non ne sia del tutto sicura, che anche il più piccolo di questi bambini capisca che la vita non è così in ogni angolo del mondo. Un bambino di otto anni è stato colpito e ucciso da un carro armato israeliano due giorni prima che arrivassi qui e molti bambini mi sussurrano il suo nome – Alì – o indicano i manifesti che lo ritraggono sui muri. I bambini amano anche farmi esercitare le poche conoscenze che ho di arabo chiedendomi “Kaif Sharon?” “Kaif Bush?” e ridono quando dico, “Bush Majnoon”, “Sharon Majnoon” nel poco arabo che conosco. (Come sta Sharon? Come sta Bush? Bush è pazzo. Sharon è pazzo.). Certo, questo non è esattamente quello che credo e alcuni degli adulti che sanno l’inglese mi correggono: “Bush mish Majnoon” … Bush è un uomo d’affari. Oggi ho tentato di imparare a dire “Bush è uno strumento” (Bush is a tool), ma non penso che si traduca facilmente. In ogni caso qui si trovano dei ragazzi di otto anni molto più consapevoli del funzionamento della struttura globale del potere di quanto lo fossi io solo pochi anni fa.

Tuttavia, nessuna lettura, conferenza, documentario o passaparola avrebbe potuto prepararmi alla realtà della situazione che ho trovato qui. Non si può immaginare a meno di vederlo, e anche allora si è sempre più consapevoli che l’esperienza stessa non corrisponde affatto alla realtà: pensate alle difficoltà che dovrebbe affrontare l’esercito israeliano se sparasse a un cittadino statunitense disarmato, o al fatto che io ho il denaro per acquistare l’acqua mentre l’esercito distrugge i pozzi e naturalmente al fatto che io posso scegliere di andarmene. Nessuno nella mia famiglia è stato colpito, mentre andava in macchina, da un missile sparato da una torre alla fine di una delle strade principali della mia città. Io ho una casa. Posso andare a vedere l’oceano. Quando vado a scuola o al lavoro posso essere relativamente certa che non ci sarà un soldato, pesantemente armato, che aspetta a metà strada tra Mud Bay e il centro di Olympia a un checkpoint, con il potere di decidere se posso andarmene per i fatti miei e se posso tornare a casa quando ho finito. Dopo tutto questo peregrinare, mi trovo a Rafah: una città di circa 140.000 persone, il 60% di questi sono profughi, molti di loro due o tre volte profughi. Oggi, mentre camminavo sulle macerie, dove una volta sorgevano delle case, alcuni soldati egiziani mi hanno rivolto la parola dall’altro lato del confine. “Vai! Vai!” mi hanno gridato, perché si avvicinava un carro armato. E poi mi hanno salutata e mi hanno chiesto “come ti chiami?”. C’è qualcosa di preoccupante in questa curiosità amichevole. Mi ha fatto venire in mente in che misura noi, in qualche modo, siamo tutti bambini curiosi di altri bambini. Bambini egiziani che urlano a donne straniere che si avventurano sul percorso dei carri armati. Bambini palestinesi colpiti dai carri armati quando si sporgono dai muri per vedere cosa sta accadendo. Bambini di tutte le nazioni che stanno in piedi davanti ai carri armati con degli striscioni.

Bambini israeliani che stanno in modo anonimo sui carri armati, di tanto in tanto urlano e a volte salutano con la mano, molti di loro costretti a stare qui, molti semplicemente aggressivi, sparano sulle case mentre noi ci allontaniamo.

Ho avuto difficoltà a trovare informazioni sul resto del mondo qui, ma sento dire che un’escalation nella guerra contro l’Iraq è inevitabile. Qui sono molto preoccupati della “rioccupazione di Gaza”. Gaza viene rioccupata ogni giorno in vari modi ma credo che la paura sia quella che i carri armati entrino in tutte le strade e rimangano qui invece di entrare in alcune delle strade e ritirarsi dopo alcune ore o dopo qualche giorno a osservare e sparare dai confini delle comunità. Se la gente non sta già pensando alle conseguenze di questa guerra per i popoli dell’intera regione, spero che almeno lo iniziate a fare voi.

Un saluto a tutti. Un saluto alla mia mamma. Un saluto a smooch. Un saluto a fg e a barnhair e a sesamees e alla Lincoln School. Un saluto a Olympia.
Rachel

20 febbraio 2003
Mamma,

adesso l’esercito israeliano è arrivato al punto di distruggere con le ruspe la strada per Gaza, ed entrambi i checkpoint principali sono chiusi. Significa che se un palestinese vuole andare ad iscriversi all’università per il prossimo quadrimestre non può farlo. La gente non può andare al lavoro, mentre chi è rimasto intrappolato dall’altra parte non può tornare a casa; e gli internazionali, che domani dovrebbero essere ad una riunione delle loro organizzazioni in Cisgiordania, non potranno arrivarci in tempo. Probabilmente ce la faremmo a passare se facessimo davvero pesare il nostro privilegio di internazionali dalla pelle bianca, ma correremmo comunque un certo rischio di essere arrestati e deportati, anche se nessuno di noi ha fatto niente di illegale.
La striscia di Gaza è ora divisa in tre parti. C’è chi parla della “rioccupazione di Gaza”, ma dubito seriamente che stia per succedere questo, perché credo che in questo momento sarebbe una mossa geopoliticamente stupida da parte di Israele. Credo che dobbiamo aspettarci piuttosto un aumento delle piccole incursioni al di sotto del livello di attenzione dell’opinione pubblica internazionale, e forse il paventato “trasferimento di popolazione”. Per il momento non mi muovo da Rafah, non penso di partire per il nord. Mi sento ancora relativamente al sicuro e nell’eventualità di un’incursione più massiccia credo che, per quanto mi riguarda, il rischio più probabile sia l’arresto. Un’azione militare per rioccupare Gaza scatenerebbe una reazione molto più forte di quanto non facciano le strategie di Sharon basate sugli omicidi che interrompono i negoziati di pace e sull’arraffamento delle terre, strategie che al momento stanno servendo benissimo allo scopo di fondare colonie dappertutto, eliminando lentamente ma inesorabilmente ogni vera possibilità di autoderminazione palestinese. Sappi che un mucchio di palestinesi molto simpatici si sta prendendo cura di me. Mi sono presa una lieve influenza e per curarmi mi hanno dato dei beveroni al limone buonissimi. E poi la signora che ha le chiavi del pozzo dove ancora dormiamo mi chiede continuamente di te. Non sa una parola d’inglese ma riesce a chiedermi molto spesso della mia mamma ­ vuole essere sicura che ti chiami. Un abbraccio a te, a papà, a Sara, a Chris e a tutti. Rachel

27.02.03
(alla madre)
Vi voglio bene. Mi mancate davvero. Ho degli incubi terribili, sogno i carri armati e i bulldozer fuori dalla nostra casa, con me e voi dentro. A volte, l’adrenalina funge da anestetico per settimane di seguito, poi improvvisamente la sera o la notte la cosa mi colpisce di nuovo: un po’ della realtà della situazione. Ho proprio paura per la gente qui. Ieri ho visto un padre che portava fuori i suoi bambini piccoli, tenendoli per mano, alla vista dei carri armati e di una torre di cecchini e di bulldozer e di jeep, perché pensava che stessero per fargli saltare in aria la casa. In realtà, l’esercito israeliano in quel momento faceva detonare un esplosivo nel terreno vicino, un esplosivo piantato, a quanto pare, dalla resistenza palestinese. Questo è nella stessa zona in cui circa 150 uomini furono rastrellati la scorsa domenica e confinati fuori dall’insediamento mentre si sparava sopra le loro teste e attorno a loro, e mentre i carri armati e i bulldozer distruggevano 25 serre, che davano da vivere a 300 persone. L’esplosivo era proprio davanti alle serre, proprio nel punto in cui i carri armati sarebbero entrati, se fossero ritornati. Mi spaventava pensare che per quest’uomo, era meno rischioso camminare in piena vista dei carri armati che restare in casa. Avevo proprio paura che li avrebbero fucilati tutti, e ho cercato di mettermi in mezzo, tra loro e il carro armato. Questo succede tutti i giorni, ma proprio questo papà con i suoi due bambini così tristi, proprio lui ha colto la mia attenzione in quel particolare momento, forse perché pensavo che si fosse allontanato a causa dei nostri problemi di traduzione. Ho pensato tanto a quello mi avete detto per telefono, di come la violenza dei palestinesi non migliora la situazione. Due anni fa, sessantamila operai di Rafah lavoravano in Israele. Oggi, appena 600 possono entrare in Israele per motivi di lavoro. Di questi 600, molti hanno cambiato casa, perché i tre checkpoint che ci sono tra qui e Ashkelon (la città israeliana più vicina) hanno trasformato quello che una volta era un viaggio di 40 minuti in macchina in un viaggio di almeno 12 ore, quando non impossibile. Inoltre, quelle che nel 1999 erano le potenziali fonti di crescita economica per Rafah sono oggi completamente distrutte: l’aeroporto internazionale di Gaza (le piste demolite, tutto chiuso); il confine per il commercio con l’Egitto (oggi con una gigantesca torre per cecchini israeliani al centro del punto di attraversamento); accesso al mare (tagliato completamento durante gli ultimi due anni da un checkpoint e dalla colonia di Gush Katif). Dall’inizio di questa intifada, sono state distrutte circa 600 case a Rafah, in gran parte di persone che non avevano alcun rapporto con la resistenza, ma vivevano lungo il confine. Credo che Rafah oggi sia ufficialmente il posto più povero del mondo. Esisteva una classe media qui, una volta. Ci dicono anche che le spedizioni dei fiori da Gaza verso l’Europa venivano, a volte, ritardate per due settimane al valico di Erez per ispezioni di sicurezza. Potete immaginarvi quale fosse il valore di fiori tagliati due settimane prima sul mercato europeo, quindi il mercato si è chiuso. E poi sono arrivati i bulldozer, che distruggono gli orti e i giardini della gente. Cosa rimane per la gente da fare? Ditemi se riuscite a pensare a qualcosa. Io non ci riesco.
Se la vita e il benessere di qualcuno di noi fossero completamente soffocati, se vivessimo con i nostri bambini in un posto che ogni giorno diventa più piccolo, sapendo, grazie alle nostre esperienze passate, che i soldati e i carri armati e i bulldozer ci possono attaccare in qualunque momento e distruggere tutte le serre che abbiamo coltivato da tanto tempo, e tutto questo mentre alcuni di noi vengono picchiati e tenuti prigionieri assieme a 149 altri per ore: non pensate che forse cercheremmo di usare dei mezzi un po’ violenti per proteggere i frammenti che ci restano? Ci penso soprattutto quando vedo distruggere gli orti e le serre e gli alberi da frutta: anni di cure e di coltivazione. Penso a voi, e a quanto tempo ci vuole per far crescere le cose e quanta fatica e quanto amore ci vuole. Penso che in una simile situazione, la maggior parte della gente cercherebbe di difendersi come può. Penso che lo farebbe lo zio Craig. Probabilmente la nonna la farebbe. E penso che lo farei anch’io.
Mi avete chiesto della resistenza non violenta. Quando l’esplosivo è saltato ieri, ha rotto tutte le finestre nella casa della famiglia. Mi stavano servendo del tè, mentre giocavo con i bambini. Adesso è un brutto momento per me. Mi viene la nausea a essere trattata sempre con tanta dolcezza da persone che vanno incontro alla catastrofe. So che visto dagli Stati Uniti, tutto questo sembra iperbole. Sinceramente, la grande gentilezza della gente qui, assieme ai tremendi segni di deliberata distruzione delle loro vite, mi fa sembrare tutto così irreale. Non riesco a credere che qualcosa di questo genere possa succedere nel mondo senza che ci siano più proteste. Mi colpisce davvero, di nuovo, come già mi era successo in passato, vedere come possiamo far diventare così orribile questo mondo. Dopo aver parlato con voi, mi sembrava che forse non riuscivate a credere completamente a quello che vi dicevo. Penso che sia meglio così, perché credo soprattutto all’importanza del pensiero critico e indipendente. E mi rendo anche conto che, quando parlo con voi, tendo a controllare le fonti di tutte le mie affermazioni in maniera molto meno precisa. In gran parte questo è perché so che fate anche le vostre ricerche. Ma sono preoccupata per il lavoro che svolgo. Tutta la situazione che ho descritto, assieme a tante altre cose, costituisce un’eliminazione, a volte graduale, spesso mascherata, ma comunque massiccia, e una distruzione, delle possibilità di sopravvivenza di un particolare gruppo di persone.
Ecco quello che vedo qui. Gli assassini, gli attacchi con i razzi e le fucilazioni dei bambini sono atrocità, ma ho tanta paura che se mi concentro su questi, finirò per perdere il contesto. La grande maggioranza della gente qui, anche se avesse i mezzi per fuggire altrove, anche se veramente volesse smetterla di resistere sulla loro terra e andarsene semplicemente (e questo sembra essere uno degli obiettivi meno nefandi di Sharon), non può andarsene.
Perché non possono entrare in Israele per chiedere un visto e perché i paesi di destinazione non li farebbero entrare: parlo sia del nostro paese che di quelli arabi. Quindi penso che quando la gente viene rinchiusa in un ovile – Gaza – da cui non può uscire, e viene privata di tutti i mezzi di sussistenza, ecco, questo credo che si possa qualificare come genocidio.
Anche se potessero uscire, credo che si potrebbe sempre qualificare come genocidio. Forse potreste cercare una definizione di genocidio secondo il diritto internazionale. Non me la ricordo in questo momento. Spero di riuscire con il tempo a esprimere meglio questi concetti. Non mi piace usare questi termini così carichi. Credo che mi conoscete sotto questo punto di vista: io do veramente molto valore alle parole. Cerco davvero di illustrare le situazioni e di permettere alle persone di tirare le proprie conclusioni. Comunque, mi sto perdendo in chiacchiere.
Voglio solo scrivere alla mamma per dirle che sono testimone di questo genocidio cronico e insidioso, e che ho davvero paura, comincio a mettere in discussione la mia fede fondamentale nella bontà della natura umana. Bisogna che finisca. Credo che sia una buona idea per tutti noi, mollare tutto e dedicare le nostre vite affinché ciò finisca. Non penso più che sia una cosa da estremisti. Voglio davvero andare a ballare al suono di Pat Benatar e avere dei ragazzi e disegnare fumetti per quelli che lavorano con me. Ma voglio anche che questo finisca. Quello che provo è incredulità mista a orrore. Delusione. Sono delusa, mi rendo conto che questa è la realtà di base del nostro mondo e che noi ne siamo in realtà partecipi. Non era questo che avevo chiesto quando sono entrata in questo mondo. Non era questo che la gente qui chiedeva quando è entrata nel mondo. Non è questo il mondo in cui tu e papà avete voluto che io entrassi, quando avete deciso di farmi nascere. Non era questo che intendevo, quando guardavo il lago Capital e dicevo, “questo è il vasto mondo e sto arrivando!” Non intendevo dire che stavo arrivando in un mondo in cui potevo vivere una vita comoda, senza alcuno sforzo, vivendo nella completa incoscienza della mia partecipazione a un genocidio. Sento altre forti esplosioni fuori, lontane, da qualche parte. Quando tornerò dalla Palestina, probabilmente soffrirò di incubi e mi sentirò in colpa per il fatto di non essere qui, ma posso incanalare tutto questo in altro lavoro. Venire qui è stata una delle cose migliori che io abbia mai fatto. E quindi, se sembro impazzita, o se l’esercito israeliano dovesse porre fine alla loro tradizione razzista di non far male ai bianchi, attribuite il motivo semplicemente al fatto che io mi trovo in mezzo a un genocidio che io anch’io sostengo in maniera indiretta, e del quale il mio governo è in larga misura responsabile. Voglio bene a te e a papà.
Scusatemi il lungo papiro. OK, uno sconosciuto vicino a me mi ha appena dato dei piselli, devo mangiarli e ringraziarli.
Rachel


28 Febbraio 2003
(alla madre)

Grazie, mamma, per la tua risposta alla mia e-mail. Mi aiuta davvero ricevere le tue parole, e quelle di altri che mi vogliono bene.
Dopo averti scritto ho perso i contatti con il mio gruppo per circa dieci ore: le ho passate in compagnia di una famiglia che vive in prima linea a Hi Salam. Mi hanno offerto la cena, e hanno pure la televisione via cavo. Nella loro casa le due stanze che danno sulla facciata sono inutilizzabili perché i muri sono crivellati da colpi di arma da fuoco, perciò tutta la famiglia ­ padre, madre e tre bambini­dorme nella stanza dei genitori. Io ho dormito sul pavimento, accanto a Iman, la bimba più piccola, e tutti eravamo sotto le stesse coperte. Ho aiutato un po’ il figlio maschio con i compiti d’inglese e abbiamo guardato tutti insieme Pet Semetery, che è un film davvero terrificante. Penso che per loro sia stato un gran divertimento vedere come quasi non riuscivo a guardarlo. Da queste parti il giorno festivo è venerdì, e quando mi sono svegliata stavano guardando i Gummy Bears doppiati in arabo. Così ho fatto colazione con loro, e sono rimasta un po’ lì seduta così, a godermi la sensazione di stare in mezzo a quel groviglio di coperte, insieme alla famiglia che guardava quello che a me faceva l’effetto dei cartoni della domenica mattina. Poi ho fatto un pezzo di strada a piedi fino a B’razil, che è dove vivono Nidal, Mansur, la Nonna, Rafat e tutto il resto della grande famiglia che mi ha letteralmente adottata a cuore aperto. (A proposito, l’altro giorno, la Nonna mi ha fatto una predica mimata in arabo: era tutto un gran soffiare e additare lo scialle nero. Sono riuscita a farle dire da Nidal che mia madre sarebbe stata contentissima di sapere che qui c’è qualcuno che mi fa le prediche sul fumo che annerisce i polmoni).
Ho conosciuto una loro cognata, che è venuta a trovarli dal campo profughi di Nusserat, e ho giocato con il suo bebè. L’inglese di Nidal migliora di giorno in giorno. È lui a chiamarmi “sorella”. Ha anche cominciato ad insegnare alla Nonna a dire “Hello. How are you?” in inglese. Si sente costantemente il rumore dei carri armati e dei bulldozer che passano, eppure tutte queste persone riescono a mantenere un sincero buon umore, sia tra loro che nei rapporti con me. Quando sono in compagnia di amici palestinesi mi sento un po’ meno orripilata di quando cerco di impersonare il ruolo di osservatrice sui diritti umani o di raccoglitrice di testimonianze, o di quando partecipo ad azioni di resistenza diretta. Danno un ottimo esempio del modo giusto di vivere in mezzo a tutto questo nel lungo periodo. So che la situazione in realtà li colpisce ­ e potrebbe alla fine schiacciarli ­ in un’infinità di modi, e tuttavia mi lascia stupefatta la forza che dimostrano riuscendo a difendere in così grande misura la loro umanità – le risate, la generosità, il tempo per la famiglia ­ contro l’incredibile orrore che irrompe nelle loro vite e contro la presenza costante della morte. Dopo stamattina mi sono sentita molto meglio. In passato ho scritto tanto sulla delusione di scoprire, in qualche misura direttamente, di quanta malignità siamo ancora capaci. Ma è giusto aggiungere, almeno di sfuggita, che sto anche scoprendo una forza straordinaria e una straordinaria capacità elementare dell’essere umano di mantenersi umano anche nelle circostanze più terribili ­ anche di questo non avevo mai fatto esperienza in modo così forte. Credo che la parola giusta sia dignità. Come vorrei che tu potessi incontrare questa gente. Chissà, forse un giorno succederà, speriamo.
Rachel

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Traduzioni di Miguel Martinez, Lucia De Rocco, Silvia
Lanfranchini, Nora Tigges Mazzone, Andrea Spila
Translators for Peace
Traduttori per la Pace [http://web.tiscali.it/traduttoriperlapace]
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