ISRAELE-NUKE
La bomba (poco) segreta
400 atomiche In spregio all’Onu e in violazione delle convenzioni internazionali
MANLIO DINUCCI
La storia di come Israele riesce a costruire un potente e sofisticato arsenale nucleare, senza mai ammetterne l’esistenza, inizia nell’anno stesso della sua nascita. Nel 1948, una unità scientifica dell’esercito comincia le prospezioni che portano alla scoperta di uranio nel deserto del Negev. Contemporaneamente, l’Istituto Weizmann si concentra nella ricerca nucleare, in stretta collaborazione con gli Stati uniti, che gli forniscono apparecchiature e tecnologie. Su tale base, gli scienziati israeliani sviluppano un nuovo metodo per produrre acqua pesante, che forniscono agli Stati Uniti. A questo punto, per produrre il plutonio necessario alla fabbricazione di armi nucleari, Israele ha bisogno di un reattore, che ottiene dalla Francia con la quale già collabora.
Da parte loro, gli Stati uniti hanno interesse che, oltre alla Gran Bretagna (terza potenza nucleare dopo Usa e Urss), anche Francia e Israele si dotino di armi nucleari.
Si crea così una triade segreta: mentre Israele, servendosi anche di tecnologie statunitensi, aiuta la Francia a costruire un impianto per l’estrazione di plutonio a Marcoule (ufficialmente destinato ad uso civile), la Francia aiuta Israele a costruire, in un bunker sotterraneo a Dimona, un reattore nucleare e un impianto per l’estrazione del plutonio analogo a quello di Marcoule. Nel 1960, la Francia entra ufficialmente nel club nucleare, facendo esplodere nel Sahara la sua prima bomba al plutonio. Nello stesso anno, non potendo più nasconderlo, il primo ministro israeliano Ben Gurion annuncia al mondo l’esistenza del reattore, garantendo che esso verrà usato «a scopi pacifici».
A questo punto entra in scena anche il governo statunitense, che chiede a Israele di sottoporre il reattore di Dimona a ispezioni internazionali. Il governo israeliano accetta, ponendo la condizione che siano effettuate da ispettori statunitensi. Questi, tra il 1962 e il 1969, visitano più volte Dimona assicurando che si tratta di un impianto ad uso esclusivamente civile. Nel frattempo, probabilmente nel 1966, l’impianto di Dimona comincia a produrre armi nucleari. Nel 1967, Israele ha già alcune bombe nucleari, che schiera segretamente nella guerra dei sei giorni e, di nuovo, nella guerra del Kippur nel 1973.
La triade si trasforma in pentagono quando, con l’imprimatur di Washington, il governo israeliano allaccia una relazione segreta con il Sudafrica della apartheid, sostenuto dagli Usa e dalla Gran Bretagna. Il Sudafrica fornisce a Israele almeno 550 tonnellate di uranio e, in cambio, riceve da Israele il know-how tecnologico che gli permette di costruire sei bombe nucleari.
Israele è così riuscito a costruire un arsenale valutato in circa 400 armi nucleari con una potenza complessiva di 50 megaton, equivalente a 3.850 bombe di Hiroshima. Come vettori nucleari, le forze israeliane usano una parte degli oltre 300 caccia F-16 e F-15 potenziati, forniti dagli Usa, armati anche di missili israelo-statunitensi Popeye a testata nucleare. Un’altra versione, il Popeye Turbo, è installata su tre sottomarini Dolphin, forniti dalla Germania. Si aggiungono a questi vettori nucleari circa 50 missili balistici Jericho II, su rampe di lancio mobili, e i razzi Shavit utilizzabili anche come missili balistici a lunga gittata. Nonostante le ripetute risoluzioni con cui l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha ribadito «la sua condanna del rifiuto di Israele di rinunciare al possesso delle armi nucleari» e ha chiesto al Consiglio di sicurezza di «prendere urgenti misure perché Israele si adegui alla risoluzione 487 del Consiglio stesso, in cui si chiede che esso ponga i suoi impianti nucleari sotto la giurisdizione della Iaea» (Risoluzione 44/121 del 15 dicembre 1989), la sempre più pericolosa e destabilizzante presenza dell’arsenale nucleare israeliano (l’unico in Medio Oriente) continua a essere ignorata dai governi delle «grandi democrazie occidentali».
Dopo 18 anni Israele (non) libera Vanunu
Il tecnico nucleare israeliano uscirà questa mattina dal carcere di Ashqelon. Nel 1986 fu rapito a Roma dal Mossad e poi condannato a 18 anni per spionaggio per aver reso di dominio pubblico quello che tutti sapevano: che Israele costruisce bombe atomiche a Dimona. Ma più che liberato sarà trasferito agli arresti domiciliari: un altro scandalo
MI. GIO.
GERUSALEMME
Centinaia di pacifisti israeliani e sostenitori stranieri, tra cui l’attrice britannica Susanna York e l’europarlamentare italiana Luisa Morgantini, accoglieranno questa mattina alle 11 (le 10 in Italia) Mordechai Vanunu, il tecnico nucleare che uscirà dal carcere di Shikma (Ashqelon) dopo aver scontato una condanna a 18 anni di reclusione per aver rivelato nel 1986 al giornale britannico Sunday Times la produzione di armi atomiche in corso nella centrale di Dimona, nel deserto del Neghev. Già ieri decine di attivisti hanno tenuto un sit-in a poche decine di metri dalla sua cella per incoraggiarlo e «ringraziarlo». Vanunu è stato impegnato a riordinare la cella. Con lui c’erano i fratelli Meir e Asher. «Bisogna che lo stampa lo lasci tranquillo. Mio fratello non chiede nient’altro», ha affermato Asher in un’intervista. Non sembrano però questi i desideri reali di Vanunu che ogni volta che ha potuto far arrivare suoi messaggi all’esterno ha ribadito di voler continuare la sua battaglia contro la produzione di armi atomiche in Israele. E’ questo che preoccupa le autorità israeliane, la sua intenzione di diventare il portabandiera di una campagna contro la proliferazione nucleare che inevitabilmente coinvolgerebbe gli arsenali atomici di Israele che il mondo occidentale fa di tutto per ignorare. Per questa ragione il governo di Ariel Sharon intende rendergli la vita difficile. Lunedì le televisioni israeliane hanno trasmesso – ignorando le proteste di Vanunu – una registrazione condotta in carcere un mese e mezzo fa in cui l’ex tecnico nucleare diceva a due ufficiali della sicurezza di volere la distruzione della centrale di Dimona e la sostituzione dello Stato ebraico con uno Stato palestinese. La stampa ha aggiunto che Vanunu andrà ad abitare in un residence di Giaffa (Tel Aviv), in riva al mare, grazie all’aiuto economico dei suoi genitori adottivi, gli americani Nick e Mary Eoloff. Sarà comunque una nuova prigione, anche se di lusso. Su disposizione del ministro degli interni Avraham Poraz, Vanunu non potrà lasciare lasciare Israele per almeno un anno, poichè sarebbe in possesso di segreti che potrebbero mettere a rischio la sicurezza del paese. Non potrà concedere interviste e dovrà riferire alla polizia i nomi dei giornalisti che proveranno a contattarlo. Non dovrà parlare mai del suo lavoro a Dimona, sarà tenuto a riferire alla polizia con 24 ore di anticipo dei suoi spostamenti e se intende dormire in altre località. Infine non potrà avvicinarsi ai confini del paese e usare internet per chattare.
Secondo il presidente della Commissione parlamentare per gli affari esteri e la difesa, Yuval Steinitz, Israele rischia «troppo» liberandolo e «non è ancora troppo tardi per metterlo agli arresti amministrativi». Nessun ripensamento per il leader laburista (e premio Nobel per la pace) Shimon Peres, l’ex premier che ordinò il sequestro del tecnico nucleare. «Vanunu – ha detto Peres – aveva violato le norme, aveva tradito il suo paese. Giustizia è stata fatta». Ieri il quotidiano Yediot Aharonot ha scritto che Peres, il padre «politico» della bomba atomica israeliana, ordinò al Mossad di riportarlo in patria a tutti i costi.
La scarcerazione di Vanunu ha immediatamente riportato l’attenzione di una parte dei media internazionali sul nucleare israeliano. Una troupe della Cnn è stata fermata ieri da agenti della sicurezza israeliana mentre si trovava in una zona riservata vicino alla centrale di Dimona. I membri della troupe, che stava lavorando a un servizio su Vanunu, sono stati interrogati e poi rilasciati.
VANUNU
«Riportatemi in Italia»
Il governo, i servizi e la giustizia italiani chiusero gli occhi per non infastidire Israele
Ma in Israele c’è anche chi vorrebbe rimandarlo in prigione: non ha pagato abbastanza. Ad accoglierlo fuori dal carcere ci saranno centinaia di pacifisti, non solo israeliani
MICHELE GIORGIO
«Riportatemi in Italia», urlò Mordechai Vanunu durante il processo nel 1986. Il tecnico nucleare sequestrato a Roma dal Mossad per aver rivelato al giornale britannico Sunday Times i segreti della bomba atomica israeliana, tornò a ripetere questa invocazione nel 1998 quando, per ottenere migliori condizioni di vita in prigione, attuò uno sciopero della fame. Le autorità italiane in tutti questi anni hanno fatto di tutto per ignorare un caso che avrebbe potuto creare tensione nei rapporti con Israele. Oggi, dopo 18 anni di carcere, in gran parte spesi in isolamento totale, Mordechai Vanunu lascia la sua cella a Shikma (Ashqelon) e, forse, torna il libertà. Il dubbio è forte perchè le misure decise dal governo israeliano, di fatto, lo terranno agli arresti domiciliari. Quando sarà in grado di farlo chiederà spiegazioni a tanti, anche all’Italia. I nostri servizi segreti erano stati messi al corrente del piano israeliano per rapirlo? Le nostre autorità politiche sapevano e hanno taciuto? L’unico che chiese, timidamente, spiegazioni fu Bettino Craxi. Il quotidiano israeliano Hadashot scrisse che il presidente del consiglio italiano stava cercando di «provocare una crisi» nelle relazioni tra i due paesi. Yossi Beilin, allora direttore generale del ministro degli esteri, poi convertitosi al pacifismo, qualche giorno dopo mentre sempre più persone si chiedevano dove fosse finito Vanunu, si disse sicuro che tra Italia e Israele non ci sarebbe stato alcun problema e che non bisognava dare ascolto alle «storie fantastiche» raccontate dal tecnico nucleare.
Da allora l’Italia ha dimenticato tutto. Le indagini aperte dal sostituto procuratore Domenico Sica non portarono a nulla, nessuno aveva visto e sentito. In seguito si sarebbe appreso che, rapito a Roma, Vanunu venne portato a La Spezia e imbarcato sul mercantile israeliano Tapuz diretto al porto di Haifa. «Traditore» o alfiere della lotta contro la profiferazione nucleare? In Israele, paese dove ancora oggi l’obiezione di coscienza su questioni militari viene intepretata come una vergognosa diserzione, l’interrogativo non si pone: per loro Vanunu è una volgare spia. Nonostante non abbia mai cercato di passare le sue informazioni ad un altro paese. Per il resto del mondo, e per fortuna anche di qualche centinaio di israeliani, gli stessi che ieri e oggi sono andati a sostenerlo a Shikma, è un uomo che ha cercato e cercherà ancora di denunciare la produzione di armi nucleari nel suo paese, in violazione dei trattati internazionali.
Vanunu, 50 anni, non ha mai fatto parte di alcun partito o movimento politico, anche se prima di essere incarcerato aveva cominciato a frequentare ambienti della sinistra pacifista. Giunto dal Marocco in Israele quando era ancora bambino, cominciò a formarsi una coscienza politica soltanto all’inizio degli anni ottanta. In precedenza aveva svolto con diligenza il suo lavoro di tecnico nucleare nella centrale di Dimona, costruita ufficialmente per la produzione di energia elettrica ma che il laburista Shimon Peres (e premio Nobel per la pace), con l’aiuto del padre della atomica francese Francis Perrin, trasformò in un centro segreto. Vanunu cominciò a riflettere su ciò che avveniva in segreto a Dimona quando venne trasferito nel Machon 2, un complesso di sei piani sotterranei della centrale atomica dove, secondo i dati raccolti dal tecnico nucleare, verrebbero prodotti annualmente una quarantina di chilogrammi di plutonio.
Quella e altre scoperte, documentate con fotografie, convinsero Vanunu dell’importanza di rivelare al mondo la produzione di ordigni atomici in Israele. Le sue domande ai diretti superiori da quel momento in poi divennero più incalzanti, i suoi dubbi espressi apertamente generavano imbarazzo nei suoi colleghi. Nel 1985 Vanunu venne costretto a dimettersi per «instabilità psichica». Il tecnico nucleare, con uno zaino pieno delle informazioni che aveva raccolto a Dimona, partì per l’Australia dove poco dopo si sarebbe convertito al Cristianesimo, in seguito a lunghi colloqui con il sacerdote anglicano John McKnight. E proprio dall’Australia per la prima volta si mise in contatto con il Sunday Times. Giunto a Londra nell’agosto del 1986, si recò al giornale riferendo per due intere settimane i suoi segreti. Il quotidiano britannico gli firmò un assegno da 300 mila dollari – mai incassato – ma esitò a pubblicare il suo racconto. Il direttore sospettò che fosse un agente del Mossad che, per conto del suo governo, intendeva far sapere ai paesi arabi che Israele è in possesso di un arsenale nucleare in grado di incenerire l’intero Medio Oriente. Il servizio giornalistico verrà pubblicato solo il 5 ottobre. Il resto è storia ormai nota. Vanunu, come nel più classico dei film di James Bond, cadde in una trappola preparata da una donna affascinante, Cindy, al secolo Cheryl Ben Tov, una agente del Mossad sposata ad un ufficiale israeliano – per la quale perse la testa. Il sequestro non avvenne a Londra ma a Roma dove il tecnico venne attirato da Cindy per un weekend romantico. Gli agenti del Mossad lo rapirono in un appartamento della capitale. Il ritorno via mare in Israele fu travagliato anche perché Vanunu era stordito dai narcotici. Gli agenti del Mossad furono visti spesso dirigersi verso il gabinetto del capitano per svuotare sacchetti pieni di vomito. Il 7 ottobre la nave commerciale entrò nel porto di Haifa e da allora Vanunu scomparve. Si rivide in pubblico solo per qualche attimo a Gerusalemme, durante il processo, quando con uno stratagemma – scrivendo sul palmo della mano che mostrò ai fotografi fuori dall’aula – fece sapere di aver raggiunto Roma il 30 settembre con il volo 504 della British Airways e di essere stato là rapito. E dove forse ha voglia di tornare per fare domande a coloro che in questi 18 anni hanno fatto finta di non vedere nulla.
VANUNU
«Non sono riusciti a spezzarmi. Né a farmi star zitto»
I suoi 18 anni di carcere in 2435 lettere. Campagna internazionale perché la libertà sia incondizionata
MARINELLA CORREGGIA
Il 28 ottobre scorso Mordechai Vanunu, nella sua lettera dal carcere numero 2435, scriveva: «Ancora sei mesi e sarò libero, dopo quasi diciotto anni. Da tanto tempo ci scriviamo e sono sempre qui, nella mia solita vita; ma in buona salute, e mi preparo per quel giorno. Non siete riusciti a far riaprire in Italia il processo per il mio rapimento a Fiumicino ad opera te degli israeliani e D’Alema e Dini quando erano al governo non hanno risposto alla mia lettera; però, inutile crucciarsi, era ovvio: l’Italia o l’Europa non sarebbero certo andate contro Israele per difendere me». Allegava alcune cartoline «riciclate» di stupendi paesaggi marini, su cui aveva scritto: «Il rapimento è il passato; ora, la libertà!». Sull’ultimo bollettino delle campagna internazionale per la sua liberazione campeggia un Mordechai ridente, in una bella foto dopo i pochi ritratti tristi concessi negli anni scorsi; c’è un suo messaggio, riferito dal fratello Meir: «Non sono riusciti a spezzarmi. Le porte e i chiavistelli si apriranno presto!». Ma la posta continuerà a essere l’unico suo contatto con il mondo? Le dure restrizioni programmate potrebbero avere su di lui un effetto «devastante», secondo la pacifista statunitense Mary Eoloff che con il marito ha adottato Mordechai e che fino a poco fa sperava di portarselo via subito («la sua stanza da noi è pronta da tanto tempo»). Vanunu è già segnato da diciotto anni di vessazioni, denunciate in passato da tante parti e da Amnesty international, che ora parla di ennesima violazione delle norme internazionali. Mordechai sognava di lasciare subito Israele e di proseguire l’impegno. Ecco, da un’altra sua lettera: «Sarò contento di incontrarvi e continuare con voi; perché non avremo pace finché le armi nucleari di ogni tipo non saranno abolite in tutto il mondo»; e qui un buco nel foglio, perché qualche parola censurata era di prammatica.
Tagli di forbici distratti e puramente punitivi: nessuna nuova rivelazione contenevano le lettere di un uomo prigioniero da 17 anni. Per vessazione, la corrispondenza di Mordechai arrivava ai destinatari tre, quattro, anche cinque mesi dopo la data che egli annotava, in alto a destra sul primo foglio. Certo non ha gli giovato il fatto che egli abbia sempre insistito sullo scandalo del nucleare e sulle colpe di Israele. Ma tempo fa, in risposta all’invito di «star quieto» per un po’, in modo da avere qualche chance di essere rilasciato in anticipo, rispose: «Non mi si può chiedere questo, dopo che per le mie idee ho già pagato con dodici anni di carcere; non chiederò mai scusa e non starò mai zitto», aggiungendo poi: «Solo una persona ingenua può credere che la mia sottomissione serva alla mia libertà». Se la ragione ufficiale delle restrizioni è che egli può mettere in pericolo la sicurezza di Israele, in realtà quel che temono le autorità israeliane è che, con Vanunu libero e in giro per il mondo, possa accrescere il dibattito pubblico e internazionale sul ruolo nucleare dello stato ebraico (intanto il fisico Uzi Even, che a Dimona ha lavorato, ha di recente ripetuto l’appello a chiudere il vecchio reattore considerandolo molto pericoloso).
La sorte di Vanunu è appesa all’esito del ricorso presentato dai suoi avvocati. La campagna internazionale (http://www.vanunu.freeserve.co.uk) chiede di premere su Israele contro quest’ennesima violazione del diritto internazionale. Sul sito si può firmare una petizione. Alcuni parlamentari inglesi hanno firmato una mozione impegnando il Foreign Office a intraprendere azioni per sua liberazione incondizionata.
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