SUL PRINCIPIO DI PRECAUZIONE: Radici filosofiche e utilizzazione sociale

di Carlo Bernrdini

Dipt. Di Fisica, Università di Roma “la Sapienza”

Uno dei motivi per cui anche persone colte e non particolarmente credule fanno i rituali scongiuri suggeriti da molte delle superstizioni classiche (soprattutto in occasione dell’incontro di speciali individui detti o presunti “jettatori”) è quello determinato dalla “prudenza in condizioni di ignoranza”: non è detto che il pericolo sia reale ma, dal momento che lo scongiuro è a buon mercato e alla portata di tutti, meglio praticarlo per prudenza. Pare che un ilustre difensore di questo punto di vista fosse addirittura Benedetto Croce (la frase che gli è attribuita, esattamente, suona così: “Non è vero, ma prendo le mie precauzioni”, a quanto dichiara Massimo Polidoro del CICAP); e non si può negare che questo semplice ragionamento di cautela in favore degli scongiuri abbia la sua rilevanza. Sulla scorta di questo ormai antico esempio, possiamo allora dire che il “principio di precauzione” ha una sua solida base crociana, compatibile con le filosofie idealiste e dunque, più che mai, con quelle antiscientifiche che ancora tanto spazio hanno nel pensiero contemporaneo. Non annovererei tra i precursori del principio di precauzione, invece, l’ex presidente della repubblica Giovanni Leone, grande esperto praticante di scongiuri: Leone ci credeva e la sua non era precauzione ma convinzione, ovvero elemento costitutivo di una tradizione culturale. Informazioni più estese si possono ottenere sul sito http://www;cicap.org.

            Proprio in ragione di questa matrice più colta, devo riconoscere che i miei colleghi e io stesso commettiamo abitualmente un grave errore, che è quello di perdere le staffe di fronte a princìpi e convinzioni che ai più, invece, appaiono come dotate di un fondamento; ovvero, che ai più appaiono addirittura come proposizioni di senso comune, elementarmente inconfutabili. Effettivamente, in questo come in altri casi che implicano “credenze”, ci troviamo di fronte a una affermazione vagamente antinomica, che meriterebbe almeno una tesi di laurea. La formulo così: <<Non è possibile dimostrare razionalmente la non-esistenza di qualcosa che non esiste>>. L’affermazione si aggrava tramutandola perentoriamente in: <<Non può esistere la dimostrazione razionale della non-esistenza di qualcosa che non esiste>>. Un bel rompicapo, dovuto a un concetto di quelli che Ludovico Geymonat chiamava “predicabili”, cioè appartenenti alla “classe che contiene sé stessa come elemento” (per esempio, il concetto di astratto è predicabile, essendo esso stesso astratto; il concetto di virtuoso è, invece, impredicabile). In realtà, uno dei motivi per cui non ci cimentiamo razionalmente con i fenomeni di credulità e bruciamo le tappe dando in escandescenze apodittiche è che non sopportiamo che alcuni nostri colleghi furbacchioni rivestano la filosofia della “prudenza in presunte condizioni di ignoranza” di argomentazioni che appaiono scientifiche solo perché espresse da sedicenti scienziati, ma hanno in realtà finalità di altra natura: politiche, in genere, cioè, di consenso e di affermazione di un potere. Questa sì che è una importante scoperta fatta da alcune frange dell’ambiente scientifico: l’uso ideologico della scienza, una opportunità sino a poco fa forse impensabile. La scoperta, a prima vista di altra natura, mutatis mutandis è simile a quella di chi capisce che una applicazione tecnologica può far guadagnare molti soldi.

            Dunque, vi invito a riflettere sulla nostra abitudine di minacciare con anatemi i nostri colleghi disponibili all’uso psicopolitico della credulità. In realtà, faremmo meglio a cercare di travolgerli con usi in qualche modo “vantaggiosi” della credulità. Questo non è banale: promesse sui benefici futuri della ricerca non fanno più alcuna presa sull’opinione pubblica e sono banalmente confutabili perfino da giornalisti avveduti. No, bisogna usare in modo positivo proprio quella paura che rende efficace il principio di precauzione; ma salvaguardando la nostra rispettabilità e credibilità. Vi faccio un esempio, che mi fu suggerito da una vicenda reale (che premetto). Anni fa, una notissima astronoma italiana fu consultata da alcuni sindacalisti di Pordenone che avevano appreso da un ufficiale americano che il rilevamento della radioattività nelle cantine di Aviano e dintorni adibite a bettole aveva dato valori molto alti. I sindacalisti chiesero se questo era attribuibile alla presenza delle numerose testate nucleari nella base. L’onesta astronoma rispose: “Non me ne intendo, perciò non posso escludere”. Il giorno dopo il quotidiano locale uscì con un titolone: “La nota professoressa XY dichiara che molto probabilmente…”. Successe il finimondo. Mi telefonarono e mi sforzai invano di spiegare che no, non poteva essere; le cantine hanno sempre attività naturale più elevata a causa del Radon proveniente dal sottosuolo; inoltre, è inverosimile che le radiazioni del materiale fissile di un ordigno nucleare superino l’involucro delle bombe . Fui sospettato di connivenza con i militari. Allora svegliai, di notte, i dirigenti di quel tempo dell’ENEA: Umberto Colombo (Presidente), Giovanni Naschi (Divisione Sicurezza e Protezione) e Fabio Pistella (Direttore Generale). Avevo consultato, per tranquillità, l’amica e collega Silvana Ricci Piermattei, esperta di radon, che aveva confermato la mia banale conclusione. Tuttavia, sapevo che una dichiarazione autorevole e responsabile valeva di più dei nostri pareri. Perciò, insistetti: “Fate qualcosa, fate un comunicato ufficiale dell’ENEA”. Mi dissero che era una questione delicata. Insomma, sembrava che temessero di giocarsi il posto. Il clima era simile a quello che abbiamo vissuto con Scanzano Jonico. Però, a me venne, qualche tempo dopo, un’idea.

            La frase magica, l’abracadabra, è: “Non posso escludere”. Qualunque scienziato, se non sa niente di qualcosa, copre così la sua ignoranza. Non dice “non so” ma dice che “non può escludere”: anche questa è precauzione, a suo modo. Fateci caso: i giornalisti adorano consultare i premi Nobel, specie i nazionali. Un premio Nobel è il moderno oracolo e deve salvaguardare la sua attendibilità, che non è tanto quella legata a una sua competenza specialistica quanto quella associata a una presunta capacità di ragionare in modo originale. Difficile, perciò, che escluda una eventualità minimamente possibile di cui in realtà non sa nulla: se può, copre la sua ignoranza con un espediente retorico ambiguo. Ma allora – e questa è l’idea che mi venne mentre pensavo con rancore che avrei raccontato la pavidità del vertice ENEA sul Radon ad Aviano in ogni occasione che mi si offrisse – vediamo cosa si può fare di buono con un autorevole “non posso escludere”. Immaginate, per esempio, che una équipe di luminari della medicina si risolva a dichiarare in un importante canale televisivo e in fascia oraria di massimo ascolto, magari sapientemente sollecitata da giornalisti che hanno studiato queste tecniche: “Non possiamo escludere che la lunga permanenza al volante di una auto nel traffico cittadino produca un sensibile calo delle prestazioni sessuali, oltre a favorire l’obesità e alcuni specifici disturbi neurologici”. Ebbene, sarei pronto a scommettere che il traffico cittadino si ridurrebbe di punto in bianco di non meno del 30%, per ridursi poi ulteriormente nei giorni successivi grazie ad una campagna giornalistica ben congegnata. Padronissimi, i luminari, di dichiarare che non sono sicurissimi, che la loro affermazione è solo precauzionale…Ma, ci pensate? Ridurre il traffico con il principio di precauzione: un risultato socialmente straordinario! Lascio perdere la possibilità che il programma TV sia sponsorizzato da una fabbrica di biciclette, o pattini, o monopattini: di queste opportunità venali noi scienziati non ci occupiamo.

            Molti altri risultati potrebbero essere così ottenuti. Certo, le fabbriche di auto correrebbero ai ripari. Allora, pensiamone altre. Si aprirebbe un ventaglio enorme di possibilità. “Non si può escludere che buttare rifiuti di ogni genere per strada o nei luoghi pubblici o nelle campagne produca nuovi microorganismi in grado di determinare nuove e gravi malattie infantili”; “Non si può escludere che il piercing sia la causa di particolari tumori”; “Non si può escludere che… (inventate voi qualcosa che vi dà fastidio e mettetela fuori gioco con una precauzione mirata)”. Insomma, anziché proibire o imporre come un qualsiasi tiranno, fate apparire la norma come una saggia precauzione: proibizioni e imposizioni sono cause di conflitti, meglio accontentarsi di realizzarle “come misure precauzionali”. E’ anche assai più democratico: ciascuno è libero di decidere se cautelarsi, “chi non lo fa, su’ danno”. Non chiediamo più di così: vogliamo forse metterci al livello di chi vuole proibire normativamente gli OGM, o gli anticoncezionali, o le linee elettriche, o le centrali nucleari? Se non imbocchiamo questa strada, illustri colleghi, perderemo in qualunque faccia a faccia contro chi, della scienza, diffida e invita a diffidare “per principio”. Riconosciamo dunque che “c’è del metodo in quella – che a noi appare – follia” e usiamo il metodo.

            A me piacerebbe addirittura approfittare dell’opportunità, ma mi sembra rischioso. Forse, non si possono proporre cose come “Bossi mi sembra pericolosamente antipatico e non posso escludere che lo sia veramente. Per precauzione, non votatelo più”.  Non è certo un caso, comunque, che i colleghi che hanno fatto fortune mondane con l’ambientalismo oltranzista siano animati da una vena di moralismo mistico che ha contagiato particolarmente la sinistra estrema, gli ex sessantottini e altri eterni tormentati dalla razionalità. Tra gli ambientalisti, ci sono due tipi di “caratteristi” che si danno manforte, ciascuno dalla propria parte: i guru e gli attivisti. I guru sarebbero un po’ l’equivalente dei “teorici” (nella nomenclatura dei fisici), gli attivisti degli “sperimentali”. I guru parlano in un linguaggio canonico intriso di diffidenza verso categorie classiche come la “scienza ufficiale”, il “progresso”, la stessa “razionalità” o il “metodo”; sono al confine della New Age, si riferiscono almeno a George Bateson, amavano Barry Commoner e oggi Jeremy Rifkin, e così via. Gli attivisti pescano “evidenze” con le metodologie più deprecabili: certificazioni di medici privati, testimonianze di gente comune (su epidemie infantili o su vitelli a due teste – peraltro mai esibiti in televisione, con la fame di mostri che c’è). Le dichiarazioni di individui isterici resi insonni dalle onde elettromagnetiche sono pregnanti e spettacolari. Ma soprattutto, a parte la descrizione fenomenologica di presunti immani danni ambientali imputabili alla spregiudicatezza della scienza ufficiale accoppiata ad interessi economici mondiali, il cavallo di Troia del principio di precauzione sono gli argomenti inquietanti, atti a produrre disagio. Per esempio: interrogare la pubblica opinione sulla liceità dell’uso di un farmaco che guarisce il raffreddore ma è letale in un caso su un milione. Se prendete un milione di persone e chiedete se assumerebbero quel farmaco, scoprirete che ciascuno pensa di essere il caso eccezionale; a nulla varrà far notare che il rischio di incidenti d’auto o di caduta massi o di folgorazione è ben più grande. L’accidente è accidente e pertanto accettato, la letalità eccezionale di un farmaco è un attentato deliberato della scienza.

            Colleghi, cambiamo metodo di gioco. Nell’affrontare la pubblica opinione, cominciamo a “non poter escludere” che se si vuole vivere a rischio zero oggi, domani moriremo di freddo e di fame. Siate razionali con giudizio, armatevi di capacità di comunicazione. Per quanto mi riguarda, mi limito a proporre con forza una riforma didattica che ci riguarda da vicino. Le scienze, così come sono insegnate, appaiono stupidamente deterministiche (cioè “risolutive”). Nessuno di noi, però, s’azzarderebbe a valutare più che una probabilità che accada ciò che tentiamo di prevedere. Ma la gente vuole certezze e noi sbagliamo a cercare di darle o di aggirare la domanda per non darle. Dedichiamoci all’insegnamento sistematico, sin dalle scuole dell’infanzia, del concetto di probabilità. Ricordatevi che il principio di precauzione ha la forza del determinismo: non fare, è l’unica cosa  proponibile che appaia ingannevolmente certa. Ma le conseguenze del non fare sono valutabili soltanto probabilisticamente: è qui che i guru imbrogliano, perché spacciano per salvezza certa l’esito del non fare. Vanno confutati su questo piano. Coraggio,



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