TEST BRAVO

il manifesto – 27 Agosto 2004

Le cavie di Bikini, 50 anni dopo.


Il 1° marzo 1954 una bomba atomica Usa polverizzava un atollo delle isole Marshall. Deportati i 167 abitanti, abbandonati al loro destino radioattivo migliaia di persone degli atolli vicini
STEFANO LIBERTI
Una mattina di cinquanta anni fa, mentre il sole si accingeva a sorgere sul mare piatto, una devastante esplosione rompeva la tranquillità dell’alba e polverizzava in un decimo di secondo la parte settentrionale dell’atollo di Bikini, nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico. Era il 1° Marzo 1954: nel corso del cosiddetto «test Bravo», gli Stati uniti avevano sganciato la più potente bomba a idrogeno mai liberata sulla terra. L’esperimento faceva parte di un programma militare che, dal 1946 al 1958, ha visto compiere 67 test nucleari sulle isole Marshall. Un programma che, in termini di megaton, ha investito l’area con una pioggia radioattiva pari all’esplosione quotidiana per dodici anni di 1,6 bombe di Hiroshima.

Settemila profughi


Le conseguenze di quel periodo infausto, sotterrato negli annali della guerra fredda, pesano ancora in modo evidente su questo sperduto arcipelago: a più di mezzo secolo di distanza, circa 7.000 profughi vorrebbero tornare sui propri atolli di origine (troppo contaminati per essere abitati), mentre altre centinaia continuano a sperimentare sulla propria pelle le conseguenze dell’esposizione alle radiazioni. Ciò nonostante, la vicenda degli sfollati atomici del Pacifico non sembra suscitare grande clamore negli Stati uniti: alle decine di richieste di indennizzo e petizioni impilate da decenni dagli abitanti delle Marshall, il governo di Washington ha sempre fatto orecchio da mercante, accordando loro piccole cifre del tutto inadeguate ai danni subiti.

Tutto è cominciato all’indomani della seconda guerra mondiale. Il bombardamento atomico sul Giappone aveva impresso una marcata accelerazione alla corsa agli armamenti: ancor prima che si dissolvesse il fungo di fumo sul disfatto impero del Sol Levante, gli scienziati sovietici si erano già messi freneticamente al lavoro (riusciranno a creare la loro prima bomba nel 1949). Il presidente Harry Truman, sull’altro fronte, si era mosso subito alla ricerca di un luogo adatto per sperimentare i suoi sempre più sofisticati ordigni nucleari. Nel 1946, l’arcipelago delle Marshall – sottratto alle truppe di Tokyo durante le operazioni nel Pacifico e divenuto protettorato statunitense sotto l’egida delle Nazioni unite – veniva scelto come terreno operativo per una serie di test. Bikini, in particolare, sembrava essere il luogo più adatto all’uopo, in virtù della sua posizione remota, distante da tutte le regolari rotte aree e marittime.

L’unico ostacolo ai piani di Washington era costituito dal modesto manipolo dei 167 abitanti dell’atollo. Un problema di poco conto, di cui si fece carico il comandante Ben H. Wyatt, l’allora governatore militare delle isole Marshall. Una domenica, dopo la messa, radunò gli abitanti di Bikini fuori dalla chiesa e, con tono solenne, chiese loro se fossero disposti a lasciare temporaneamente le proprie case «per il bene dell’umanità». Dopo lunghe discussioni, il re Juda – rappresentante dei bikinesi – accettò e, con parole altrettanto altisonanti, dichiarò: «Continueremo a credere che ogni cosa sia nelle mani di dio».

Il buon dio era probabilmente troppo occupato per curarsi del destino dei bikinesi. L’esodo che ne seguì, infatti, non solo non fu temporaneo ma si rivelò assai più tormentato del previsto: i 167 sventurati si trovarono sballottati su varie isole deserte, prive di pesce commestibile e povere di frutta; quasi morirono di fame, prima di approdare nel novembre 1948 a Kili, dove furono fatti alloggiare in tende di fortuna. Intanto, sulla loro isola veniva avviato il programma sperimentale, iniziato con alcune esplosioni minori e culminato nel big bang di quel fatidico 1° marzo.

Un’esplosione fragorosa

Il «test Bravo» rappresenta un autentico spartiacque non solo per Bikini, ma per tutta l’area orientale delle Marshall: subito dopo la fragorosa esplosione, una fitta coltre di polvere radioattiva si è infatti mossa rapida nell’atmosfera raggiungendo gli atolli vicini, che non erano stati preventivamente evacuati. Avvolti dalla nube tossica, gli abitanti dell’isola di Rongelap (a circa 125 miglia di distanza) hanno immediatamente cominciato a provare sulla propria pelle gli effetti dell’esposizione alle radiazioni: attacchi di nausea e diarrea, perdita repentina di capelli, dilatamento delle pupille. Hanno trascorso due giorni d’inferno, in preda al panico, finché la marina militare statunitense si è decisa a venirli a cercare e a trasferirli su un altro atollo per fornire loro cure mediche.

«Il vento aveva soffiato dalla parte sbagliata e l’esplosione era stata di cinque volte più potente del previsto», hanno detto i responsabili americani agli isolani attoniti e impauriti che si accingevano a lasciare le proprie case. Ma la spiegazione dell’errore di calcolo non sembra del tutto convincente. «I militari americani sapevano che il vento quella mattina stava soffiando verso gli altri atolli, ma hanno deciso di procedere lo stesso», racconta Jack Niedenthal, 46anne della Pennsylvania che si è trasferito sulle Marshall, ha sposato una bikinese e da anni si batte per far conoscere questa vicenda dimenticata. «Non a caso tutte le barche nell’area con personale statunitense a bordo ricevettero l’ordine di tenere gli uomini al riparo». Niedenthal non lo dice esplicitamente, ma sono in molti a credere plausibile un’orribile ipotesi: gli abitanti degli atolli vicini a Bikini sarebbero stati usati come cavie da laboratorio, esposti scientemente alle conseguenze delle radiazioni «a scopo sperimentale». Un sospetto che si è rafforzato negli ultimi anni, quando, durante l’amministrazione Clinton, sono stati declassificate decine di documenti che alludevano a un certo progetto 4.1, lanciato proprio nel 1953 per studiare gli effetti di un’esplosione nucleare sull’organismo umano.

Gli effetti, da parte loro, ancora oggi si fanno sentire in modo evidente sulla popolazione locale. La percentuale di situazioni tumorali è nelle isole Marshall molto più elevata della norma: casi di cancri alla tiroide e al sistema linfatico sono diffusi in ogni famiglia. «Ma la cosa più devastante – continua Niedenthal – sono le conseguenze psicologiche. Ogni volta che qualcuno ha una malattia, anche un comune raffreddore, pensa che sia colpa della bomba. Si è sviluppata una vera e propria cultura del vittimismo, che coinvolge tutta la società delle Marshall».

I bikinesi – che nel frattempo sono diventati, in seguito a un trend demografico positivo, più di 3000 – continuano a vivere sparpagliati sull’arcipelago, così come i 4000 abitanti di Rongelap; i discendenti di re Juda aspettano da più di mezzo secolo che il loro atollo sia bonificato e, in un miscuglio di messianesimo e recriminazione, indossano spesso a mo’ di divisa una maglietta con la frase pronunciata dal loro leader prima dell’esodo: «Continueremo a credere che ogni cosa sia nelle mani di dio».

Troppo legati a Washington – da cui dipendono economicamente, dopo aver avuto accesso all’indipendenza nel 1986 – gli abitanti delle Marshall difficilmente otterranno giustizia. Gli Stati uniti prendono in scarsissima considerazione le loro richieste di risarcimento e considerano di fatto chiusa la partita con gli indennizzi versati in passato e con gli aiuti che continuano a corrispondere all’arcipelago nell’ambito del «trattato di libera associazione». Fino ad oggi, a fronte della richiesta di 2 miliardi di dollari da parte dei bikinesi, il congresso americano ha versato loro come indennizzo appena 191 milioni di dollari. «Una cifra del tutto inadeguata – tuona Niedenthal – soprattutto a confronto con i miliardi stanziati da Washington per ripulire i siti nucleari sul proprio territorio, segnatamente nel Nevada».

Colonialismo Usa

Questo è il punto cruciale: poiché gli abitanti delle isole Marshall non sono cittadini statunitensi, sono votati a subire un trattamento di serie B. Vittime di un sottile ma feroce colonialismo, sperduti reietti di un paradiso trasformato in inferno, gli indigeni del Pacifico sembrano condannati a un futuro di rassegnazione. La loro situazione non offre molti punti di appiglio: privi di una lobby forte che li sostenga al Congresso, legati per la propria sopravvivenza agli Usa e situati in una posizione non particolarmente strategica, non hanno alcun asso nella manica. L’unica arma di cui possono dotarsi è la perseveranza. «Siamo sopravvissuti al più potente ordigno bellico che l’uomo abbia mai usato. Sopravviveremo a qualsiasi altra cosa e non ci daremo pace finché non otterremo giustizia. Questa è la nostra promessa. Questo il nostro obiettivo», ha avuto modo di dire il sindaco di Rongelap James Matyoshi alla cerimonia di commemorazione per il cinquantennale del «Test Bravo». Al momento, tutto lascia pensare che il suo grido di giustizia sia destinato a rimanere inascoltato.

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LE ISOLE MARSHALL
Nel 1947 le Isole Marshall sono state definite territorio delle Nazioni unite, sottoposto all’amministrazione fiduciaria degli Stati uniti d’America. Nel 1978 è nata, con una propria Costituzione, la Repubblica delle Isole Marshall (Rmi) che, nel 1986, ha sottoscritto un trattato di Libera Associazione («Compact of Free Association») con gli Usa. Tale patto affida alle Isole Marshall esclusiva responsabilità per la propria politica estera, mentre gli Stati uniti provvedono alla sicurezza ed alla difesa del paese, nonché a sostanziosi aiuti a lunga scadenza. Membro dell’Assemblea generale dell’Onu, la Repubblica delle Isole Marshall vota sempre in modo compatto con gli Stati uniti, anche in quei casi (come la recente risoluzione di condanna del muro israeliano) in cui Washington si ritrova isolata sullo scenario internazionale.



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