ISRAELE: E’ morta la rivoluzione sionista


AVRAHAM BURG*

Il sionismo è morto, e i suoi aggressori sono seduti sulle poltrone del governo a Gerusalemme. Non perdono un’occasione per far scomparire tutto ciò che c’era di bello nella rinascita nazionale. La rivoluzione sionista poggiava su due pilastri: la sete di giustizia e una leadership sottomessa alla morale civica. L’una e l’altra sono scomparse. La nazione israeliana ormai non è altro che un ammasso informe di corruzione, oppressione e ingiustizia. La fine dell’avventura sionista è vicina. Sì, è ormai probabile che la nostra generazione sia l’ultima del sionismo. Quello che resterà dopo sarà uno stato ebraico irriconoscibile e detestabile. Chi di noi vorrà essere patriota di tale stato? L’opposizione è scomparsa, la coalizione resta muta, Ariel Sharon si è trincerato dietro un muro di silenzio. Questa società di instancabili chiacchieroni è diventata afona. Semplicemente non c’è più nulla da dire: i nostri fallimenti sono evidenti. Certo, abbiamo resuscitato la lingua ebraica, il nostro teatro è eccellente, la nostra moneta abbastanza stabile, nel nostro popolo ci sono talenti stupefacenti e siamo quotati al Nasdaq. Ma è per questo che abbiamo creato uno stato? No, non è per inventare armi sofisticate, strumenti di irrigazione efficacissimi, programmi di sicurezza informatica o missili antimissile che il popolo ebraico è sopravvissuto. La nostra vocazione è diventare un modello, la «luce delle nazioni», e abbiamo fallito.

La realtà, dopo duemila anni di lotte per la sopravvivenza, è uno stato che sviluppa delle colonie guidato da una cricca di corrotti incuranti della morale civica e della legge. Ma uno stato amministrato nel disprezzo della giustizia perde la sua forza di sopravvivenza. Chiedete ai vostri figli se sono sicuri di essere ancora in vita fra venticinque anni. Le risposte più lungimiranti rischiano di scioccarvi, perché il conto alla rovescia della società israeliana è già cominciato.

Non c’è nulla di più affascinante che essere sionista a Beth El o Ofra. Il paesaggio biblico è incantevole. Dalla finestra ornata di gerani e bougainville, non si vede l’occupazione. Sulla nuova strada che costeggia Gerusalemme da nord a sud, ad appena un chilometro dagli sbarramenti, si circola velocemente e senza problemi. Chi si preoccupa di ciò che subiscono gli arabi umiliati e disprezzati, obbligati a trascinarsi per ore su strade dissestate e continuamente interrotte da check point? Una strada per l’occupante, una strada per l’occupato. Per il sionista, il tempo è rapido, efficiente, moderno. Per l’arabo «primitivo», manodopera senza permesso in Israele, il tempo è di una lentezza esasperante.

Ma così non può durare. Anche se gli arabi piegassero la testa e ingoiassero la loro umiliazione, verrà un momento in cui nulla funzionerà più. Ogni edificio costruito sull’insensibilità alla sofferenza altrui è destinato a crollare fragorosamente. Attenti a voi! State ballando su un tetto che poggia su fondamenta barcollanti!

Poiché siamo indifferenti alla sofferenza delle donne arabe bloccate ai check point, non percepiamo più i lamenti delle donne picchiate dietro la porta dei nostri vicini, né quelli delle ragazze madri che lottano per la propria dignità. Abbiamo smesso di contare i cadaveri delle donne assassinate dal loro marito. Indifferenti alla sorte dei bambini palestinesi, come ci possiamo sorprendere quando, con un ghigno di odio sulla bocca, si fanno saltare per aria come martiri di Allah nei luoghi del nostro svago perché la loro vita è un tormento; nei nostri centri commerciali perché non hanno neanche la speranze di fare, come noi, degli acquisti? Fanno scorrere il sangue nei nostri ristoranti per farci passare l’appetito. A casa loro, figli e genitori soffrono la fame e l’umiliazione. Anche se uccidessimo 1000 terroristi al giorno, non cambierebbe nulla. I loro leader e i loro istigatori sono generati dall’odio, dalla collera e dalle misure insensate prese dalle nostre istituzioni moralmente corrotte. Fintanto che un Israele arrogante, terrorizzato e insensibile a se stesso e agli altri si troverà di fronte una Palestina umiliata e disperata, non potremo andare avanti. Se tutto ciò fosse inevitabile e frutto dei disegni di una forza soprannaturale, anche io starei zitto. Ma c’è un’altra opzione. Ed è per questo che bisogna urlare.

Ecco quello che il primo ministro deve dire al popolo: il tempo delle illusioni è finito. Non possiamo più rimandare le decisioni. Sì, amiamo il paese dei nostri antenati nella sua totalità. Sì, ci piacerebbe viverci da soli. Ma così non funziona, anche gli arabi hanno i loro sogni e le loro esigenze. Tra il Giordano e il mare, gli ebrei non sono più maggioranza. Conservare tutto gratuitamente, senza pagarne il prezzo, miei cari concittadini, è impossibile.

È impossibile che la maggioranza palestinese sia sottomessa al pugno di ferro dei militari israeliani. È impossibile credere che siamo la sola democrazia del Medioriente, perché non lo siamo. Senza l’uguaglianza completa degli arabi, non c’è democrazia. Conservare i territori e una maggioranza di ebrei solo nello stato ebraico, ripettando i valori dell’umanesimo e della morale ebraica, rappresenta un’equazione insolubile.

Volete la totalità del territorio del Grande Israele? Perfetto. Avete rinunciato alla democrazia. Realizzeremo allora un sistema efficace di segregazione etnica, di campi di internamento, di città-carceri: il ghetto Kalkilya e il gulag Jenin.

Volete una maggioranza ebraica? O ammasseremo tutti gli arabi in vagoni di treno, in autobus, su cammelli o asini per espellerli. Oppure dobbiamo separarci da loro in modo radicale. Non ci sono mezzi termini. Ciò implica lo smantellamento di tutti – dico bene: tutti – gli insediamenti e la determinazione di una frontiera internazionale riconosciuta tra lo stato nazionale ebraico e lo stato nazionale palestinese. La legge del ritorno ebraica sarà applicabile soltanto all’interno dello stato nazionale ebraico. Il diritto al ritorno arabo sarà applicabile esclusivamente all’interno dello stato nazionale arabo.

Se è la democrazia ciò che volete, avete due opzioni: o rinunciate al sogno del Grande Israele nella sua totalità, alle colonie e ai loro abitanti, oppure concedete a tutti, compresi gli arabi, la piena cittadinanza con diritto di voto alle elezioni politiche. In quest’ultimo caso, coloro che non volevano gli arabi nello stato palestinese vicino li avranno alle urne, a casa propria. E loro saranno maggioranza, noi minoranza.

Questo è il linguaggio che deve adottare il primo ministro. Spetta a lui presentare coraggiosamente le alternative. Bisogna scegliere tra la discriminazione etnica praticata da ebrei e la democrazia. Tra le colonie e la speranza per due popoli. Tra l’illusione di un muro di filo spinato, dei check point e dei kamikaze e una frontiera internazionale accettata dalle due parti con Gerusalemme capitale comune dei due stati.

Ma, purtroppo, non c’è alcun primo ministro a Gerusalemme. Il cancro che divora il corpo del sionismo ha già raggiunto la testa. Le metastasi fatali sono lassù. È accaduto in passato che Ben Gurion commettesse un errore, ma è rimasto comunque di una rettitudine irreprensibile. Quando Begin sbagliava, nessuno metteva in discussione la sua buona fede. E lo stesso succedeva quando Shamir non faceva nulla. Oggi, secondo un sondaggio recente, la maggioranza degli israeliani non crede nella rettitudine del primo ministro, anche se continua ad accordargli la propria fiducia sul piano politico. Detto in altri termini, la personalità dell’attuale primo ministro simboleggia le due facce della nostra disgrazia: un uomo di dubbia moralità, gaudente, incurante della legge e modello negativo di indentificazione. Il tutto combinato con la sua brutalità verso gli occupati, che rappresenta un ostacolo insuperabile alla pace. Da ciò deriva una conclusione indiscutibile: la rivoluzione sionista è morta.

E l’opposizione? Perché mantiene il silenzio? Forse perché siamo in estate? O perché è stanca? Perché, mi chiedo, una parte dei miei compagni vuole un governo a ogni costo, foss’anche quello dell’identificazione con la malattia piuttosto che della solidarietà con le vittime della malattia? Le forze del Bene perdono la speranza, fanno le valige e ci abbandonano, insieme al sionismo. Uno stato sciovinista e crudele in cui imperversa la discriminazione; uno stato dove i ricchi sono all’estero e i poveri deambulano nelle strade; uno stato in cui il potere è corrotto e la politica corruttrice; uno stato di poveri e di generali; uno stato di razziatori e di coloni: questo è in sunto il sionismo nella fase più critica della propria storia.

L’aternativa è una presa di posizione radicale: il bianco o il nero – tirarsi indietro equivarrebbe a essere complici dell’abiezione. Queste sono le componenti dell’opzione sionista autentica: una frontiera incontestata; un piano sociale globale per guarire la società israeliana dalla sua insensibilità e dalla sua assenza di solidarietà; la messa al bando del personale politico corrotto oggi al potere. Non si tratta più di laburisti contro il Likud, di destra contro sinistra. Al posto di tutto ciò, bisogna opporre ciò che è permesso a ciò che è proibito; il rispetto della legge alla delinquenza. Non possiamo più accontentarci di un’alternativa politica al governo Sharon. Ci vuole un’alternativa di speranza alla rovina del sionismo e dei suoi valori da parte di demolitori muti, ciechi e privi di ogni sensiblità.

Da Z-Net

Deputato del Partito laburista israeliano, ex presidente della Knesset (1999-2003), ex presidente dell’Agenzia ebraica


Integralisti nei secoli

Sono passati tre secoli dalla Guerra dei trent’anni e all’improvviso la religione torna a essere protagonista della lotta politica mondiale. Causa di stragi, e non solo nell’ambito della cosiddetta «guerra al terrorismo». Ma spesso i fondamentalismi più estremi sono solo l’«effetto specchio» della laicità occidentale


MARCO D’ERAMO

E così nell’anno 1424 dell’Egira e 2003 dopo Cristo, capita che la guerra santa sia invocata in nome di Allah e che un impero bombardi in nome della cristiana provvidenza. Nelle piazze di Baghdad, rivolte alla Mecca, le folle irachene s’inchinano in preghiera, aspettando la guerra; mentre a Washington, nelle quiete stanze della Casa Bianca, i sagaci strateghi statunitensi rinsaldano la loro fede nel dio degli eserciti leggendo ogni giorno i versetti della Bibbia. Non ultimo paradosso della situazione attuale è che – dall’11 settembre 2001 – a combattere l’integralismo wahabita di Osama bin Laden è il fondamentalismo texano di George W. Bush. Cento anni fa il grande sociologo tedesco Max Weber aveva profetizzato che il `900 sarebbe stato il secolo del disincantarsi del mondo, per il razionalizzarsi della conoscenza (tramite la scienza), della vita economica (tramite il capitalismo privato) e della struttura sociale (tramite la burocrazia statale). Allora sembrava che per la società moderna il pericolo fosse il razionalismo ateo e materialista.

E invece, all’alba del XXI secolo, molte sette religiose hanno (ognuna) più affiliati di tutti i partiti del movimento operaio messi insieme. Se i mullah integralisti invocano apertamente la Jihad, solo l’ipocrisia impedisce ai vari John Ashcroft e Silvio Berlusconi di bandire la Santa Crociata (lasciano questo compito a quell’invasata di Oriana Fallaci). In compenso, «Dio benedice l’America nella lotta contro l’asse del male».

Inaspettatamente – almeno a un primo sguardo -, dopo più di tre secoli, la religione si ripresenta così come protagonista della lotta politica mondiale. Fanno venire i brividi i trenta anni previsti dal vicepresidente Dick Cheney per la «guerra al terrorismo»: scoppiata come scontro di religione nel 1618, la Guerra dei Trent’anni fu il conflitto in proporzione più sanguinoso della storia (vi morì addirittura la metà della popolazione tedesca).

Impensabile un secolo fa, la religione riemerge come causa di stragi non solo nella cosiddetta «guerra al terrorismo», ma anche in altri scacchieri del mondo. Nelle Molucche (Indonesia) sono pogrom religiosi a causare roghi e distruzioni tra islamici e cristiani. Nel Gujarat sono i fondamentalisti hindu che scatenano la caccia al musulmano provocando migliaia di morti.

Un’occhiata superficiale può farci leggere quest’irrompere della religione nella sfera pubblica come una regressione, come un ritorno al passato: il premoderno che fa valere i suoi diritti sul moderno. In fondo, ci viene detto, la società borghese non aveva fatto altro che confinare nell’intimità e nell’ambito privato le convinzioni metafisiche, le fedi, e persino le superstizioni: confinare la trascendenza nel privato era il prezzo per far regnare la tolleranza nell’immanente.

Ma proprio il paragone con la Guerra dei Trent’anni ci toglie la consolatoria illusione che i fondamentalismi siano puro rigurgito delle «plebi rurali» (così si esprimeva l’antropologo Ernesto De Martino), siano esse di fellahin niloti o di cow-boys del Rio Grande.

Perché se fu il secolo del fondamentalismo cristiano, il Seicento segnò anche la nascita del capitalismo moderno, della democrazia parlamentare (la rivoluzione puritana di Cromwell) e – per quel che ci riguarda – dell’impero americano: non erano infatti altro che un gruppo di fanatici integralisti i Pellegrini «padri fondatori» che nel 1620 sbarcarono a Cape Cod dal Mayflower.

La dimensione integralista fa parte del moderno allo stesso titolo del capitalismo, e insieme a esso: un paese cattolico come l’Italia non ha mai capito davvero bene cosa intendesse dire Max Weber quando affermava che lo spirito del capitalismo è incarnato nell’etica protestante (e viceversa). Contro quel che diceva Benjamin Barber, il nostro mondo è caratterizzato non da Jihad contro McDonald’s (questo il titolo del suo libro), ma dalla McJihad, da una forma di fondamentalismo globalizzato, integrato nel capitalismo mondiale (Osama bin Laden è il rampollo di una dinastia capitalista saudita).

Ritenere che l’integralismo è un riaffiorare del passato nel presente, è perciò solo un pregiudizio su cui pesa anche un’immagine ingenua della tecnologia e del razionalismo scientifico. Si dà per assodato che i prodotti del pensiero razionalista siano necessariamente veicoli di razionalità. Ora, è vero che la macchina a vapore rappresenta la più bella realizzazione della termodinamica, che la tv è una meravigliosa applicazione delle equazioni elettromagnetiche di Maxwell e che Internet è l’esito di una catena logica che dalle algebre di Boole, attraverso la macchina di Turing, ci ha portato alla civiltà dei computer e dell’informatica.

Ma è anche vero che nell’800 furono i vaporetti a consentire ai musulmani giavanesi di fare in massa il pellegrinaggio alla Mecca e di mandare i loro rampolli a frequentare le scuole coraniche arabe: il risultato dei vaporetti (trionfo del razionalismo tecnologico industriale) fu il sorgere di un inedito integralismo musulmano a Giava: d’altronde il fenomeno si è replicato nella diffusione nel Terzo mondo delle sette protestanti Usa, chiamate appunto i cargo cults.

Dal canto suo, la tv non solo è il maggiore veicolo propagandistico dei telepredicatori americani, ma la sera ci ammanisce gli oroscopi. Quanto a Internet, le maglie della rete connettono sette sataniche e culti strampalati. Insomma, i prodotti tecnologici del razionalismo occidentale sono diventati veicoli di superstizioni, credenze integraliste, irrazionalismi. I prodotti del razionalismo sono cassa di risonanza dell’irrazionale.

Vi è infine l’«effetto specchio» della laicità. In India non c’era mai stato un fondamentalismo hindu prima dell’arrivo degli inglesi: solo guardandosi nello specchio inglese che rinviava loro la propria immagine riflessa, gli hindi hanno potuto costruire un proprio integralismo. È frequentando la laicità occidentale che i giovani studenti algerini di facoltà scientifiche hanno raffinato l’idea di una «modernità islamica». Gilles Keppel sostiene qualcosa di simile, quando in All’Ovest di Allah (trad. it. Sellerio), fa vedere come l’attuale integralismo islamico sia un frutto maturato in un viaggio di andata e ritorno in Occidente: gli immigrati musulmani vengono a contatto con un’esperienza religiosa puritana/calvinista, comunitaria; e quindi riplasmano in senso puritano/comunitario il proprio islamismo, ed è questo integralismo riveduto e corretto («riformato») che viene poi riportato nelle terre originarie dell’Islam.

Il riemergere della religione sulla scena pubblica rappresenta perciò non una sorpresa, ma una tappa di un lungo processo. Schematicamente, si può affermare che gli anni ’60 rappresentarono nello stesso tempo il culmine del «disincanto» e l’inizio del rovesciamento: da un lato l’apogeo delle socialdemocrazie nordiche come apice della società secolare e il Concilio Vaticano II come massimo sforzo di «laicizzazione della Chiesa»; dall’altro la Nation of Islam di Malcolm X e la teologia della liberazione come componenti religiose dell’emancipazione. Non si può dimenticare che l’eroe sessantottino Malcolm X è stato il primo «integralista islamico postmoderno» e che il Cristo di Camillo Torres impugnava il mitra.

Ma la vera inversione di tendenza avviene alla fine degli anni `70 ed è simultanea in tutte e tre le religioni del Verbo: per quanto riguarda il cristianesimo, a Roma sale sul soglio pontificio Karol Woytjla, un integralista polacco fautore dell’Opus Dei, mentre a Washington s’installa Ronald Reagan, portavoce della «moral majority» (gli integralisti protestanti) che dichiarerà guerra «all’impero del male»; nel mondo ebraico, in Israele tramonta definitivamente l’egemonia culturale del laicismo laburista, soppiantato dal Likud e dal peso crescente dei partiti religiosi; e nell’Islam scoppia in Iran la rivoluzione khomeinista, mentre esplode in Egitto il fenomeno dei Fratelli Musulmani.

Insomma, alla fine degli anni `70 i fondamentalisti prendono simultaneamente il potere in Vaticano, alla Casa bianca, a Gerusalemme e a Teheran. E negli anni `80 la Casa bianca finanzia gli integralisti musulmani che combattono in Afghanistan contro i sovietici, e consente alla dinastia di El Saud di far piovere dollari su tutti i fanatici dell’Islam, dall’Algeria all’Indonesia (e poi alla Bosnia, alla Cecenia).

Da quanto precede è però chiaro che, pur se è riemersa come protagonista nella lotta politica mondiale, la religione è ben lungi dal costituirne il movente e l’obiettivo principale. Essa costituisce la forma che assume il conflitto, l’armatura di cui esso si avvolge, lo strumento di propaganda che usa, ma non certo il movente né l’obiettivo principale. Proprio perché si può essere fondamentalisti e capitalisti, possiamo scommettere che Bush pensa sì di essere lo strumento della volontà divina nel rimettere in ordine il mondo, ma solo perché – e solo se – Dio sembra avere una particolare predilezione per l’impero americano e per i dividendi delle corporations Usa.

Può sembrare superfluo ricordarlo, ma un famoso saggio del `600 (scritto dopo la Guerra dei Trent’anni) attribuito alla scuola spinoziana (o addirittura allo stesso Baruch Spinoza), Il trattato dei tre impostori (e cioè Mosè, Gesù e Maometto) enumera i modi in cui «i legislatori e i politici si sono serviti della religione». La prima maniera, «che è anche la più comune e più usata, è stata quella di dare a intendere ai popoli di essere ispirati direttamente dagli dei per poter imporre più facilmente quello che volevano fosse eseguito»; un’altra maniera «si basa su voci false, rivelazioni e profezie che si spargono di proposito per spaventare, sbigottire, fiaccare il popolo, oppure renderlo ardito e coraggioso, secondo le esigenze…». C’è ancora un’altra maniera, molto più rapida e più sicura, «che consiste nell’avere al proprio seguito predicatori e nel servirsi di buoni parlatori» (oggi bisognerebbe aggiornare l’immagine con i professionisti dei media).

Ma la maniera, che più ci riguarda da vicino e che irresistibilmente ci ricorda il giovane Bush, è certo l’ultima evocata dal Trattato dei tre impostori: «l’invenzione che è sempre stata più in uso, e quella praticata con più astuzia, consentiva d’intraprendere col pretesto della religione, ciò che nessun altro pretesto avrebbe potuto rendere valido e legittimo».


Si comportano come i loro “confratelli” in Palestina: prima di tutto eliminare l’informazione, poi vai coi massacri.
http://www.controappunto.org/speciale%20Palestina/nazisionistiaroma.html 

Roma: Aggressione all’informazione

by IMC-Italy 4:50pm Tue Apr 2 ’02 (Modified on 4:53pm Tue Apr 2 ’02)

Roma 2 Aprile 2002

In questo momento decine di ebrei della comunità romana stanno letteralmente assediando la sede di Rinfondazione Comunista e del giornale Liberazione, almeno due operatori sono stati aggrediti e presi a calci e pugni, solo l’intervento della polizia a evitato il peggio, noi stessi cercando di filmare il sit-in improvviso siamo stati aggrediti, qualsiasi forma di comunicazionme è rapidamente naufragata, la polizia ha dovuto scortarci per un centinaio di metri tra le provocazioni dei manifestanti.
Slogan contro l’informazione, contro Santoro, contro Liberazionee i “pacifisti di una parte sola” la folla è al limite del fanatismo, macchine e moto vengono inseguite da dreppelli di gente, aggrediti gli occupanti dei mezzi con una violenza inaudita a colpi di casco, alcuni manifestanti hanno lanciano sassi, il clima è veramente pesante, vengono scanditi slogan pro israele e contro Arafat.
Già la sera del presidio a P.zza San Marco era esplosa una provocazione con l’aggressione al corteo, oggi questo clamoroso attacco all’informazione.

Contemporaneamente da P.zza Venezia è partito il corteo diretto a Palazzo Chigi, tra i partecipanti spicca lo striscione degli “Ebrei contro l’occupazione” a testimonianza per fortuna, delle varie anime della comunità ebraica romana.
Apre il corteo la comunità Palestinese, poi le Donne in nero i centri sociali e le tante associazioni che da anni si battono per l’autodeterminazione del popolo palestinese.
Un compagno che si recava al presidio passando da P.zza Argentina è stato aggredito da un gruppo di sionisti, invitiamo i tutti a muoversi con attenzione.


http://www.informationguerrilla.org/dossier_palestina.htm

Israele lava più bianco

Un esempio di come si organizza un piano di brain washing

Quella che segue é la traduzione di uno studio affidato dalla Wexner foundation, un’organizzazione ebrea americana che ha come obiettivo il rafforzamento della leadership ebrea negli USA e in Israele, alla The Luntz Research Companies e apparso in inglese sul sito dell’ American-Arab Anti-Discrimination Committee. Lo studio tratta le priorità della comunicazione israeliana nel 2003.


WEXNER ANALYSIS:
le priorità della comunicazione israeliana nel 2003

SOMMARIO

Il mondo è cambiato. Parole, argomenti e messaggi a favore di Israele ora devono contenere e comprendere la nuova realtà del mondo dopo Saddam.

In passato, abbiamo dovuto tenere un profilo più basso a favore di Israele per la paura che il popolo americano potesse incolpare Israele per quello che succedeva nel resto del Medio Oriente. Ora invece è giunto il momento di collegare il successo americano nel combattere il terrorismo e i dittatori da una posizione di forza, con gli sforzi in corso in Israele per sradicare il terrorismo dentro e fuori i suoi confini. In questa nuova situazione, c’è molto da guadagnare allineandosi con l’America e niente da perdere. Con tutto l’antiamericanismo che c’è nel mondo, proteste e dimostrazioni, noi stiamo cercando alleati che condividano il nostro impegno per la sicurezza e la fine del terrorismo e siamo preparati a dirlo. Israele è proprio un alleato di questo tipo.

IL PROSSIMO PASSO

Il fatto che Israele sia rimasto relativamente silenzioso nei tre mesi prima della guerra e nelle tre settimane della guerra stessa, è stata assolutamente la strategia corretta – e secondo tutti i sondaggi effettuati, ha funzionato. Ma ora che il conflitto sta finendo, è tempo che Israele prepari la sua “road map” per il futuro che include un sostegno incondizionato all’America e un impegno incondizionato alla guerra in corso contro il terrorismo.

Le percezioni di Israele e del conflitto israelo-palestinese è stata completamente deformata e oscurata dalla guerra in Iraq. Certo visioni di parte ancora esistono (i politici di sinistra restano il vostro problema) insieme alle lamentele sulla mano pesante di Israele.
I sostenitori di Israele hanno due settimane per mettere ordine nei loro messaggi prima che l’attenzione mondiale torni alla cosidetta “road map” e a come “risolvere” al meglio il conflitto israelo-palestinese. Sviluppare questo messaggio è lo scopo di questo memo.

Nota dell’autore: Questo non è un documento di politica. E’ solamente un manuale di comunicazione. E come tutti i memo che curiamo, abbiamo usato la stessa metodologia scientica per isolare specifiche parole, frasi, argomenti e messaggi che siano in risonanza con almeno il 70 % degli americani. Ci saranno sicuramente persone, specie quelle di sinistra, che non saranno d’accordo quali che siano i termini usati, ma il linguaggio che segue vi aiutare ad assicurvi il sostegno di un’ampia maggioranza degli americani.
Queste raccomandazioni sono basate su due sessioni di “test telefonici” fatte a Chicago e Los Angeles, durante i primi dieci giorni della guerra, per la Fondazione Wexner.

Conclusioni essenziali

Questo documento è piuttosto lungo perché non si riesce a comunicare tutto quello che è necessario con una sola e semplice frase ad effetto. Sì, noi abbiamo fornito queste nelle pagine che seguono, ma abbiamo utilizzato lo spazio necessario per spiegare perché il linguaggio è così importante e il contesto nel quale è necessario che sia utilizzato. Se leggete solamente le prossime due pagine, queste sono le conclusioni chiave:

1) L’Iraq altera tutto. Saddam è la vostra migliore difesa, anche se è morto. La visione del mondo americana è completamente dominata dagli sviluppi della questione irachena. Questa è un’occasione unica per gli israeliani per mandare un messaggio di sostegno e unità, in una fase di grande ansietà internazionale e di opposizione dei nostri “alleati” europei. Per un anno – un INTERO ANNO – dovrete evocare il nome di Saddam Hussein e come Israele ha sempre sostenuto gli sforzi americani per liberare il mondo e il popolo irakeno da questo spietato dittatore. Saddam resterà un potente simbolo del terrore per gli Americani per molti anni. Una espressione filoisraeliana di solidarietà con il popolo americano nel loro sforzo vittorioso di cacciare Saddam sarà molto apprezzata.

2) Persistete nel messaggio ma non usate due volte le stesse parole. Lo abbiamo visto nel passato ma mai così chiaramente come in questo periodo. Gli americani guardano con molta attenzione agli sviluppi internazionali e sono particolarmente sensibili a ogni tipo di dogma apparente o presentazioni a scatola chiusa. Se vi sentono ripetere le stesse esatte parole più volte, non si fideranno del vostro messaggio. Se i vostri portavoce non sono capaci di trovare modi diversi per esprimere gli stessi principi, allontanateli.

3) NON AIUTA se elogiate il presidente Bush. Se volete identificarvi e allinearvi con l’America, basta che lo diciate. Non usate Bush come sinonimo per gli Usa. Nonostante la distruzione del regime di Saddam e la reazione positiva degli iracheni, circa il 20 % degli americani è contro la guerra. Sono per lo più democratici. Quindi restano metà dei democratici che sono a favore della guerra anche se non tengono per Bush. Quindi vi contrapponete senza necessità a quest’ultima metà ogni volta che elogiate il Presidente. Non lo fate.

4) Trasmettere sensibilità e senso dei valori è un must. La maggior parte delle frasi ad effetto più efficaci sono quelle che parlano di figli, famiglia e valori democratici. Non dite solo che Israele è moralmente allineata con gli Usa. Ditelo con le vostre parole. La componente dei bambini è molto importante. E’ fondamentale che voi parlate “del giorno, non lontano, in cui i bambini palestinesi e israeliani giocheranno insieme sotto gli sguardi di approvazione dei loro genitori”.

5) SECURITY vende. La sicurezza è diventata il principio chiave fondamentale di ogni americano. La sicurezza è il contesto nel quale potete spiegare la necessità israeliana di prestiti garantiti e di aiuti militari, e perché Israele non può rinunciare a un metro quadrato di terra. Gli insediamenti sono il nostro tallone d’Achille e la migliore risposta (che è ancora abbastanza debole) è la necessità di sicurezza che porta a creare queste zone cuscinetto.

6) Il linguaggio di questo documento funziona, ma funziona ancora meglio se lo accompagnate con passione e compassione. Troppi sostenitori di Israele parlano con rabbia e gridano quando si confrontano con gli oppositori. Chi vi ascolta accetterà molto meglio le vostre idee se gli piace il modo in cui le esprimete. Benediranno queste parole ma le accetteranno veramente solo se accettano voi.

7) Trovatevi una donna bella e brava come portavoce. Secondo i nostri test, le donne sono più credibili degli uomini. E se la donna ha dei figli, ancora meglio.

8) Legate la liberazione dell’Iraq con la condizione difficile del popolo palestinese. Gli argomenti più efficaci sono quelli che stabiliscono un legame tra il dirittto degli iracheni alla libertà con quello dei palestinesi ad essere governati da chi veramente li rappresenta. Se esprimete il vostro interesse per la situazione pesante dei palestinesi e come è iniquo, ingiusto e immorale che siano costretti ad accettare leader che rubano e uccidono in loro nome, avrete costruito una credibilità per il vostro sostegno al palestinese comune, togliendo invece credibilità alla loro leadership.

9) Un po’ di umiltà porta lontano. Lo avete visto con i vostri occhi. Avete bisogno di parlare in continuazione della vostra comprensione “della situazione pesante dei palestinesi” e del vostro impegno ad aiutarli. Sì, questo “È” un doppio standard (anche se nessuno si aspetta niente di pro-israeliano dai palestinesi) ma è proprio così che vanno le cose. Umiltà è una pillola amara da ingoiare, ma vi vaccinerà dalle critiche di non aver fatto abbastanza per la pace. Ammettete gli errori, ma poi mostrate come Israele è un partner che lavora indefessamente per la pace.

10) Naturalmente le domande retoriche funzionano sempre. Fate domande che abbiano una sola risposta. Avrete sicuramente successo. E’ importante che la vostra comunicazione contenga domande retoriche, che è il modo in cui gli Ebrei parlano nel modo megliore.

11) Mahmoud Abbas è ancora un punto interrogativo, ma lasciatelo fare. Adesso avete solo da perdere attaccandolo. Nello stesso tempo non merita nemmeno elogi. Parlate delle vostre speranze per il futuro, ma sottolineate i punti che vi aspettate realizzi: la fine delle violenze, il riconoscimento di Israele , le riforme del suo governo, etc
LE DUE PAROLE ANCORA PIU’ IMPORTANTI : SADDAM HUSSEIN

Questo documento tratta di linguaggio, quindi lasciatemi essere schietto: “Saddam Hussein” sono le due parole che legano Israele agli Usa e sono le più efficaci per ottenere il supporto nel Congresso. Al momento risultano due delle parole più odiate in Inglese.

Senza essere ripetitivi, gli Americani pensano che una democrazia fondamentalmente ha il diritto di proteggere il suo popolo e i suoi confini. Sfortunatamente, come democrazia, tendiamo a insistere sui nostri errori (Vietnam, Watergate, etc) invece che sui nostri successi. Invece è essenziale per portare avanti un conflitto di lunga durata con un impegno militare forte che si ricordi alla gente continuamente che ci sono situazioni in cui bisogna agire preventivamente e che l’azione militare è meglio dell’arrendevolezza (appeasement).

AVVERTENZA

Ci sono alcuni che sostengono che ormai anche Saddam Hussein ha fatto il suo tempo. Non capiscono la storia. Non capiscono la comunicazione. Non capiscono come integrare e influenzare la storia e la comunicazione a beneficio di Israele. Il giorno che permetteremo che Saddam prenda il suo eventuale posto nel mucchio di sciocchezze della storia, quel giorno avremo perduto la nostra arma migliore nella difesa linguistica di Israele.

I riferimenti al successo della guerra contro l’Iraq giovano a Israele. Siccome gli americani non vogliono aumentare gli aiuti agli stranieri in una fase di deficit interno e tagli dolorosi delle spese, c’è solo un argomento che può funzionare per convincerli che è bene continuare a foraggiare Israele (in quattro facili step):L’ALBERO DEL MESSAGGIO DEGLI AIUTI A ISRAELE

(1) Come democracia, Israele ha il diritto e la responsabilità di difendere i suoi confini e proteggere il suo popolo.

(2) La prevenzione funziona. Anche con la fine del regime di Saddam, le minacce terroristiche restano nella regione.

(3) Israele è l’unico vero alleato degli Usa nella regione. In questi tempi particolarmente instabili e pericolosi, Israele non deve essere costretto a reagire da solo.

(4) Con gli aiuti economici degli Usa, Israele può difendere i suoi confini, proteggere il suo popolo e dare una assistenza preziosa all’America nella guerra contro il terrorismo.

Questo è importante, perchÈ tutti gli argomenti su Israele che è una democrazia, che lascia votare gli arabi e li lascia sedere nel governo, proteggendo la libertà di religione, etc., non assicurano il sostegno pubblico necessario per ottenere prestiti garantiti e gli aiuti militari di cui Israele ha bisogno. Tutti i messaggi che abbiamo scritto nei memo passati non funzionano se si arriva a parlare di tasse negli USA. Bisogna inserire il punto di vista della sicurezza nazionale ñ che chiaramente lega gli interessi americani con quelli israeliani.


PAROLE CHE FUNZIONANO
PER VENDERE GLI AIUTI A ISRAELE (I)

“E’ stato Israele che ha rischiato con i suoi piloti e i suoi aerei nel distruggere i reattori nucleari di Saddam e cos” ha reso vana la sua ricerca di armi nucleari di distruzione di massa.

E’ stato Israele che ha fornito molta parte dell’intelligence che aiutò l’America a sconfiggere l’Iraq nel ’91.

E’ stato solo Israele, tra gli stati del Medio Oriente, a sostenere i vittoriosi sforzi americani per abbattere Saddam e liberare gli iracheni.

Siamo sempre stati con voi dall’inizio alla fine contro il regime di Saddam. Israele è stato un elemento chiave nella regione e un alleato militare degli Usa per più di 50 anni. Questa amicizia deve continuare, anche e specialmente nell’era del dopo Saddam. E’ un legame tra democrazie impegnate nella guerra al terrorismo e nella lotta per la libertà.”


Come abbiamo visto, il ciclo delle notizie durante e subito dopo una guerra, non è semplicemente una questione di futile curiosità, ma è una osservazione necessaria. Più che in Israele, dove purtroppo il conflitto è tragicamente quotidiano, la guerra ha rappresentato una nuova e reale minaccia alla sicurezza personale e familiare negli Usa. E Saddam Hussein, vivo o morto, rappresenta ancora questa minaccia.

Gli Americani hanno pensato e parlato della guerra al terrorismo da quasi un anno e mezzo e alla fine si sono convinti che Saddam ha sponsorizzato la guerra del terrore ed è una minaccia per le democrazie del mondo. Le rivelazioni scioccanti sulla brutalità del suo regime che sono venute fuori giorno dopo giorno, non hanno fatto che aumentare il sostegno dell’opinione pubblica americana all’azione militare. Ma il fatto che Saddam era una minaccia diretta a Israele è molto importante. Israele si è opposto alle sue ambizioni crudeli per decenni ñ almeno dieci anni prima degli Usa. Ricordate al vostro uditorio che Israele e Usa hanno valori comuni, ma poi sottolineate con forza che abbiamo anche comuni nemici.


Ma la deterrenza è solo la metà del messaggio. Bisogna anche enfatizzare il vostro sforzo storico per raggiungere compromessi e per sacrificarvi dalla parte dell’America. Questo magari non funziona con alcuni politici israeliani, ma va benissimo negli Usa.

PAROLE CHE FUNZIONANO

“Durante la guerra del Golfo, l’Iraq ha attaccato Israele con i missili Scud 30 volte. Israele non ha reagito, anche se non sapeva se il missile successivo avrebbe contenuto armi biologiche o chimiche. Israele ha scelto in contenimento piuttosto che fare la guera, perchÈ era quello che gli Usa chiedevano. Era il modo in cui Israele sosteneva il nostro alleato, gli USA e le sue truppe durante la guerra nel golfo Persico. Noi continuiamo a mettere le priorità americane sopra le nostre. Ma ora che la nostra sicurezza è in ballo, abbiamo bisogno dell’aiuto finanziario dell’America”.

PER RISPONDERE ALLE PRESSIONI PALESTINESI

Mentre le sessioni tenute a Chicago e Los Angeles producevano un nuovo linguaggio e numerosi nuovi “principi”di comunicazione, la maggior parte delle nostre precedenti osservazioni si rivelavano vere. Troppi nella comunità ebrea sono troppo ostili da un punto di vista linguistico, mentre il 97 % degli Americani vogliono una soluzione del conflitto. In particolare, non serve solo recriminare, anche se è giustificato, contro l’Autorità Palestinese e aspettarsi che le elite americane siano immediatamente convinte che voi siete nel giusto. Potete avere anche ragione, ma se percepiscono ostilità e negatività nelle vostre parole le rigetteranno come preconcette e di parte.

Un esempio specifico:

PAROLE CHE NON FUNZIONANO
“Non c’è equivalenza dal punto di vista morale. Da una parte avete politici regolarmente eletti e funzionari inaricati nell’ambito di una democrazia che sta operando da più di mezzo secolo. Dall’altra politici corrotti palestinesi che hanno detto bugie, ingannato e rubato al loro popolo. Israele non negozierà finchè non avrà qualcuno con cui farlo.

Anche see questa frase è accurata e giusta, tuttavia non funziona. Prese singolarmente, le parole sono buone, i fatti accurati e il messaggio corretto. Ma questo tipo di comunicazione fallisce miseramente perchÈ sembra che noi rigettiamo completamente i negoziati e la pace. E’ proprio quello che il vostro uditorio non vuole ascoltare e accettare, perchÈ legge queste parole come accuse e contestazioni. C’è un approccio migliore e più efficace, per dire in pratica le stesse cose ma in un modo più efficace:

PAROLE CHE FUNZIONANO BENE

“Quali che siano le cause alla radice della crisi tra Israele e Palestina, vi sono certe differenze e certi fatti culturali tragici che intralciano i negoziati di pace tra i due popoli. Nessun bambino israeliano ha mai legato una bomba alla sua schiena ed è uscito di casa per uccidere civili palestinesi e tuttavia l’amministrazione palestinese fa troppo poco per eliminare la convinzione tra i suoi cittadini più estremisti che uccidere gli israeliani con una bomba suicida è la strada più sicura per andare in paradiso.
Come fa Israele a trattare con una popolazione fatta di genitori che sostengono o incoraggiano i loro figli a diventare martiri?”

S”, queste espressioni sono più taglienti e più esplicite di quelle del paragrafo precedente, ma funzionano per molte ragioni:

(1) Il tocco umano. Parlare di genitori e figli umanizza e personalizza il terrore che Israele vive ogni giorno.

(2) La domanda retorica. Anche i pro-palestinesi faranno fatica a rispondere al quesito finale. E’ ora che gli israeliani che parlano in pubblico facciano un numero maggiore di domande retoriche, che non trovano risposta, come parte del loro sforzo di comunicazione.

(3) Ammettere che ci sono differenze culturali tra i due popoli è affermare una ovvietà e va bene. Anche gli americani che simpatizzano per le lotte dei Palestinesi hanno una maggiore disponibilità verso gli Israeliani per le analogie tra la cultura, le tradizioni e i valori degli Israeliani e degli Americani.
Con questo in mente, abbiamo individuato quattro specifici temi ed emozioni che vanno benissimo per influenzare l’opinione pubblica americana quando si parla del Medio Oriente:


OTTIMISTA

“Io spero che con la fine di questa guerra, i popoli del Medio Oriente godranno del dono della vita e della libertà. Io spero che le scene degli iracheni che si liberavano del giogo della tirannia e della paura servano come modello per tutti i popoli della regione. S”, io spero davvero che salendo alle stelle, possiamo portare qualcosa di buono giù sulla terra.”

RISPETTOSO

“Noi speriamo che il popolo Palestinese riconosca che la leadership che hanno avuto fino ad ora ha programmi molto diversi da quelli del popolo palestinese realeÖ Noi non abbiamo certo il diritto di dire ai palestinesi chi devono eleggere per rappresentarli, ma speriamo che scelgano leader che li ascoltino e abbiano davvero cura del loro popolo”.

L’ELEMENTO UMANO

“E’ molto difficile per noi. Sappiamo che andare nelle città palestinesi crea forti sofferenze e situazioni imbarazzanti ai palestinesi. Ma è ancor più difficile guardare negli occhi i nostri figli sapendo che in queste città ci sono persone che pianificano atti di terrorismo e non andare l” e tentare di fermarli prima che uccidano”.

DEDICATO ALLA DEMOCRAZIA

“Noi tutti conosciamo l’importanza di portare una vera democrazia e diritti umani a tutte le nazioni e di sradicare l’ideologia del terrorismo. Questo è quel che cerchiamo di fare, e cercheremo sempre di realizzare”.


Abbiamo fatto un test di 75 minuti a Chicago e Los Angeles con questo nuovo lignuaggio. Per lo più non hanno scosso l’uditorio Ö o peggio. Ma abbiamo scoperto che alcuni messaggi hanno fatto passare qualcuno da una posizione neutrale a una posizione positiva. E di tutti i messaggi che parlano direttamente di Palestina, quelli che seguono funzionano meglio:

FRASI AD EFFETTO SUI PALESTINESI CHE FUNZIONANO

I sostenitori di Israele faranno bene se adotteranno il linguaggio che segue:

“I Palestinesi meritano una leadership migliore e una società migliore – con istituzioni che funzionano, la democrazia e le regole del diritto.

“Speriamo di trovare una leadership palestinesi che rifletta gli interessi migliori del suo popolo.”

“A livello di principio, Israele siederà, negozierà e accetterà compromessi con tutti quelli che desiderano una coesistenza pacifica tra i popoli del Medio Oriente. L’Egitto ha firmato la pace con Israele. La Giordania anche. E questi accordi sono oggi ancora validi.”


“Noi sappiamo che cosa vuol dire vivere ogni giorno nel terrore. Noi sappiamo che cosa significa mandare i nostri figli un giorno a scuola e seppellirli il giorno dopo. Per noi, il terrorismo non è qualcosa che leggiamo nei giornali. E’ qualche cosa che vediamo troppo spesso con i nostri occhi”.

“Noi non vogliamo firmare un accordo senza significato che vale la carta su cui è scritto. Noi desideriamo qualche cosa di effettivo. Se vi deve essere una pace giusta e durevole, abbiamo bisogno di un partner che rigetti ogni violenza e che dia più valore alla vita che alla morte”.

“A livello di principio, il mondo non dovrebbe forzare Israele a fare concessioni a quelli che pubblicamente hanno sempre negato il nostro diritto ad esistere o sostengono la nostra eliminazione”.

“Finora, oggi, vi sono ancora gruppi terroristici come Hamas, Islamic Jihad e i martiri di Al Aqsa che l’Autorità Palestinese è incapace o non vuole sciogliere – e gli Israeliani continuano a morire a causa loro.”


“Cos” come il governo americano cerca in ogni modo di assicurare la vostra vita, libertà e la possibilità di cercare la felicità, cos” il governo di Israele deve garantire che noi saremo sicuri e liberi”.


DEMOCRAZIA: CONNETTERE L’IRAQ E I PALESTINESI

“La mia sincera speranza è che con il cambiamento di regime in Iraq, la democrazia possa finalmente mettere solide radici in Medio Oriente. Se il popolo palestinese e gli altri popoli del Medio Oriente saranno capaci di cogliere l’esempio brillante di una democrazia araba funzionante, io sono sicuro che la marea rifluirà”.

Ovviamente non è giusto dire che le modalità utilizzate dagli americani per cambiare il regime iracheno, è completamente trasferibile al cambiamento della leadership palestinese. Gli americani li considerano due problemi separati, almeno fino ad ora. Ciò detto, il vostro sostegno agli sforzi americani nella liberazione del popolo iracheno può e deve collegato al nostro comune interesse nel garantire la libertà ai palestinesi.

Gli americani vogliono che la dmeocrazia si sviluppi in M.O. C’è una speranza sincera che gli iracheni possano creare un governo rappresentativo con vere libertà. In questo senso, ricordate alle persone che gli iracheni non hanno bisogno di guardare più lontano dei confini con Israele per trovare un esempio di questo tipo di governo.

La democrazia ama la compagnia. Finora, uno dei messaggi più efficaci è stato che Israele è la sola democrazia in M.O. Adesso bisogna che questo messaggio faccia un passo avanti. Dite enfaticamente che mentre siete orgogliosi della democrazia israeliana, voi sareste ancora di più orgogliosi di essere la PRIMA democrazia del MO piuttosto che la SOLA.
Considerate la struttura della seguente comunicazione che pone l’attenzione prima sull’Iraq e solo poi ai Palestinesi.

(1) L’importanza della democrazia. Mai nella storia del mondo due democrazie si sono dichiarata guerra.

(2) L’importanza della democrazia irachena. La transizione dell’Iraq verso la democrazia è un primo passo essenziale per la stabilità in MO.

(3) La democrazia può portare pace. La vera pace nella regione verrà solo quando i governi rappresenteranno veramente gli interessi dei loro popoli e garantiranno la loro libertà e sicurezza.

(4) E’ tempo per una vera democrazia per il popolo palestinese Non meritano di meno.

Tutto questo potrebbe sembrare semplicistico ma i messaggi funzionano se usati in questo modo e in questo ordine. Gli americani davvero sperano che l’Iraq, un ex avversario, possa diventare un partner di pace se nasce un governo liberalmente eletto. Quindi siccome anche i palestinesi desiderano la libertà e meritano una leadership eletta, non sono diversi. Questo è proprio quello che Israele chiede da tempo all’Autorità Palestinese: nominare un governo legittimo che diventerà un parner per la pace.PARLARE DI SPERANZA E DI FUTURO: QUATTRO FRASI CHIAVE

(1) Noi speriamo che possiamo una volta ancora fare la pace con i nostri vicini arabi.

(2) Noi speriamo che il terrore non sia più a lungo la sola cosa che separi i palestinesi dall’avere il proprio Stato e gli israeliani dal vivere in pace.

(3) Noi speriamo che il popolo palestinese non debba languire ancora a lungo sotto una leadership che rifiuta di essere un partner per la pace.

(4) Speriamo di negoziare con un governo democratico guidato dalle leggi.

Visto che gli americani sono cos” zelanti sulla loro democrazia, è utile ricordare loro perchÈ la difendono cos” fieramente. Questo ricordo diventa per voi un obbligo quando associate i valori democratici di Israele con quelli americani.

Usando la parola “democrazia”senza fare esemepi di che cosa rende questo sistema di governo cos” essenziale, è come parlare di pace senza dimostrare che voi state facendo di tutto per ottenerla. Gli americani desiderano prove che voi sapete il significato di queste parole che suonano cos” bene alle loro orecchie.

Quando sottolineate il nostro comune legame democratico, usate esempi specifici del perchÈ noi speriamo che un maggior numero di nazioni stabilisca garanzie democratiche di libertà.

-Le donne vengono trattare come pari

-C’è libertà di stampa

-Tutte le religioni sono rispettate

-Il popolo sceglie chi lo rappresenta in libere elezioni

-Le democrazie non si fanno la guerra tra loro

Alla fine, usate l’argomento che se queste libertà sono cos” care a Israele e agli americani, esse sono a caro prezzo assenti per il popolo palestinese. Tutti i popoli desiderano vivere liberi, e la loro attuale leadership nega loro questo diritto.

LA ROADMAP: UN APPROCCIO EQUILIBRATO

(Nota dell’autore: noi inseriamo questa sezione perchè il discorso del Presidente Bush ha funzionato cos” bene sia a Chicago che a Los Angeles e perchÈ questo punto sarà al centro degli sforzi di comunicazione ebrei e israeliani nei prossimi mesi. Avvertiamo i lettori che uno sforzo addizionale di ricerca è necessario per fornire una garanzia che le parole e i messaggi che seguono siano i migliori disponibili.)

Non appena si è posata la polvere dopo la guerra sul deserto iracheno, l’attenzione si è spostata sul processo di pace israelo-palestinese e sulla cosidetta “roadmap”di Bush. La buona notizia è che gli americani sono convinti che se i palestinesi vogliono davvero la pace, devono attenersi ai contenuti della roadmap che sarà presto rilasciata dal presidente. La notizia non altrettanto buona è che si aspettano che gli israeliani facciano altrettanto e subito.

Sia a Chicago che a Los Angeles, al di là delle posizioni politiche degli intervistati, gli americani sono a favore del Presidente per due ragioni: “un approccio equilibrato”e “responsabilità suddivise”. Tenete presenti questi termini in mentee usateli il più possibile.


PAROLE CHE FUNZIONANO: UN APPROCCIO BILANCIATO

“Io vedo un giorno in cui due stati, Israele e Palestina, vivranno l’uno accanto all’altro in pace e sicurezza. Io chiedo a tutti in MO di abbandonare i vecchi odi e di incontrarsi responsabilmente per la pace.

Lo stato palestinese deve essere uno stato democratico riformato e pacifico che abbandona per sempre il terrorismo. Il governo di Israele, non appena viene rimosso il pericolo del terrorismo e la sicurezza aumenta, deve fare passi concreti per la nascita di uno Stato palestinese affidabile e credibile e lavorare il più rapidamente per arrivare a un accordo finale …

Noi crediamo che tutti i popoli del MO – arabi e israeliani – meritano di vivere dignitosamente, sotto governi liberi e onesti. Noi pensiamo che è molto più probabile che popoli liberi rigettino asprezza, odio cieco e terrore e rivolgano le loro energie alla riconciliazione, allo sviluppo e alle riforme.”

– Il presidente George W. Bush


LE COMPLICAZIONI DELLA ROADMAP: MAHMOUD ABBAS (ABU MAZEN)

In una qualche misura,il vostro lavoro di sostenitori di Israele è stato facile. Sotto il regime di Arafat, non è difficile convincere il pubblico americano della corruzione della leadership palestinese in carica. Mentre molti simpatizzano con le sofferenze del popolo palestinese, nessuno ama ancora Arafat. E’ un terrorista e lo sanno. Ancora meglio, lui è la controparte.

L’emergere di Mahmoud Abbas come nuovo primo ministro palestinese arriva esattamente al momento sbagliato. La sua ascesa al potere sembra legittima. E’ un viso nuovo, e si rade anche la barba. Parla bene, si veste all’occidentale. Magari vuole anche sinceramente la pace.

Appena Bush ha cominciato a fare progressi nel parlare della necessità di una leadership palestinese riformata, i palestinesi i palestinesi ci hanno lanciato questo inganno. Che cosa farà il mondo di Abbas? E’ lui la nuova leadership che Israele chiede da anni? Oppure è solo un alter ego di Arafat (un Arafat in veste di pecora)?

Data la foschia che circonda questa figura, è indispensabile che non lanciate subito critiche contro Abbas. Questo è sbagliato per tre ragioni.

(1) Palese negatività. Se esce fuori che Abbas vuole davvero la pace e che rappresenta i veri interessi del popolo palestinese, l’attacco che lanciate oggi potrebbe far cambiare opinione alla gente contro Israele domani. Avrete perso ogni credibilità come partner che cerca davvero la pace se colpite il primo vero partner per la pace che i palestinesi hanno presentato. (Lo scenario è poco probabile, ma possibile.)

(2) IL fattore incognita. Abbas è quasi sconosciuto all’estero. Bisogna considerare la sua entrata in scena come se fosse parte di una campagna elettorale. Non è un candidato per sedere al tavolo dei lavori sinchè non varà provato di esserne degno. Anche se l’incertezza del momento può complicare la vostra strategia di comunicazione, non deve però necessariamente cambiare le vostre priorità. Più ne parlate e più se ne parlerà, che porta al punto successivo…

(3) Aspettate pazientemente un partner di pace. Abbas magari è un leader che vuole anche la pace, ma bisogna che dimostri di essere il partner di cui Israele ha bisogno per costruire la pace insieme. In qualunque modo sia stato eletto o ha raggiunto la sua posizione, deve ancora dimostrare tangibilmente di volere la pace. Il vostro obiettivo resta una soluzione pacifica del conflitto. Una volta che i palestinesi hanno dimostrato che è tutto a posto a casa loro, allora tu puoi essere pronto a cercare un accordo. E se loro non lo fanno, loro e non Israele saranno incolpati.

NOTA: Questo non equivale a dire che ad Abbas debba essere dato libero corso sulla stampa. Bisogna solo limitare le critiche a quel che fa per ostacolare il processo di pace come leader del popolo palestinese. Un breve esercizio di teoria dei giochi può meglio illustrare questo punto. Che cosa accade se …


Voi attaccate immediatamente Abbas e viene fuori che è un vero ed efficace sostenitore della pace?

Israele perde la sua credibilità come la parte che vuole sopra a ogni cosa la pce. Abbas guadagna popolarità nella comunità internazionale che ha già qualche dubbio sulla vostra retorica e sulla “mano forte”che usate, e guadagna le simpatie degli americani che simpatizzano con il popolo palestinese ma vi sostengono perchÈ non si fidano della precedente leadership palestinese corrotta. Questo è il peggio che possa capitare.
Voi attaccate immediatamente Abbas e viene fuori che è l’alter ego di Arafat?

Che cosa ci guadagna veramente Israele? Avete mostrato la sua vera faccia, prima che lo abbia fatto lui stesso, ma rischiate lo stesso una reazione. Alla fine è meglio rimanere agganciati alla pace almeno pubblicamente, lasciando che la leadership palestinese imploda sul fronte delle relazioni pubbliche ñ una strategia che ha sempre funzionato efficacemente.

Aspettate che Abbas faccia i primi passi e dimostri di essere un sostenitore vero ed efficace della pace?

La roadmap si mette in funzione e porta ad una soluzione pacifica dopo decenni di guerra, da ora al prossimo anno. Questo è il miglior risultato possibile.
Aspettate che Abbas faccia i primi passi e si dimostra l’alter ego di Arafat?

Lasciate che tenga la pelle falsa di pecora. Ne avrete un beneficio incommensurabile. Tutto il vostro messaggio sulla necessità di un partner credibile e affidabile che vuole la pace suonerà sempre più vero, e la prossima volta un nuovo leader non potrà essere scelto da Arafat.

Allora quando qualcuno chiede opinioni o reazioni su Abbas, mettetela in termini di un “esplorazione in corso”con le seguenti due frasi:

(1) E’ stato scelto da Arafat e quindi è sospetto.
(2) Ha negato l’Olocausto che come minimo confonde le idee e peggio risulta offensivo.

Se è un Arafat che veste abiti occidentali, non ci si metterà molto a identificarlo per quel che è. Gli americani lo riconosceranno dalle azioni e dalle domande che porrà. Insomma si caccerà nei guai da solo.

Ha importanza che sia un negazionista dell’Olocausto? Certamente. Questo convincerà gli americani che non può rappresentare il popolo palestinese in una ricerca onesta della pace? Difficilmente. Gli americani non hanno più voglia di sentire discorsi sull’Olocausto e non vogliono in particolare sentirli da parte della comunità ebrea.


In ogni caso, avete bisogno di maggiori argomenti su Abbas prima di dire al popolo americano che voi mettete in dubbio il suo impegno per la pace.
Gli americani sono convinti che la pace deve cominciare in qualche posto ma non Arafat. Se Abbas è presentato come quell’alternativa, lo vedranno subito come simbolo di “speranza”. L’incarico di primo ministro (un titolo democratico e molto occidentale) è quello di cui gli americani hanno bisogno per credere che il processo di pace è alle porte. Quindi si aspettano che voi fate lo stesso e vi sediate al tavolo dei negoziati. Inoltre, molti pensano che gli Stati Uniti debbano essere un onesto mediatore tra le due parti. Ai loro occhi, questi sono tutti gli ingredienti necessari per cominicare un processo di pace.

E’ essenziale dunque che usiate parole positive quando vi chiedono di Abbaas. Ma questo non significa che dovete comunque elogiarlo. Buttarlo giù ora non vi serve nel lungo termine mentre è controproducente osannarlo. Quindi dovete mostrarvi a favore del processo di pace e indifferenti su Abbas finchè non definisce il suo ruolo. Intanto precisate che prima deve finire il terrorismo e quindi inizieranno i negoziati.


PAROLE CHE FUNZIONANO

“Si, noi speriamo che questo potenziale cambio di leadership indichi reali opportunità di pace per la regione. Israele sogna da tanto un partner che vuole la pace come la vogliamo noi. Ma Israele riafferma che prima di ogni negoziato sulla pace, deve finire il terrorismo. Non possiamo negoziare con qualsiasi leadership che permette al suo popolo di uccidere i nostri civili”.


A questo messaggio aggiungete la vostra compassione per il popolo palestinese. Molti americani simpatizzano con la loro sofferenza. Cos” dovete fare anche voi. Gli americani vogliono sentirvelo dire. Una frase sul fatto che i palestinesi meritano una situazione migliore, deve seguire ogni frase di recriminazione su un leader palestinese e sul terrorismo.

PAROLE CHE FUNZIONANO

“Sappiamo che i Palestinesi meritano cose migliori. Vogliamo per loro quello che abbiamo in Israele: la libertà di dire quello che vuoi, credere in quel che vuoi e vivere nell’uguaglianza. Dovrebbero anche avere il diritto di scegliere chi parla in loro vece. Il popolo palestinese merita e desidera leader che operino per la pace e non per il terrorismo. Sappiamo che il terrorismo è doloroso per tutti quelli che ne sono coinvolti. Per questo vogliamo lavorare per la pace non appena ci sarà un partner che la voglia veramente”.


IL VALORE DELLE DOMANDE RETORICHE

Una tecnica di comunicazione davvero efficace per continuare la pressione sulla leadership palestinese senza mostrare che voi ignorate le responsabilità di Israele, è quella di porre delle domande retoriche. Queste domande hanno una sola risposta: la pace non si può fare finchÈ non ci sono vere riforme e il terrorismo deve finire prima.

LE DOMANDE RETORICHE DA PORRE AGLI OPPOSITORI DI ISRAELE
“Come può la attuale leadership palestinese onestamente dire di perseguire la pace se gli stessi leader hanno rifiutato l’offerta di creare uno Stato palestinese due anni e mezzo fa?”

“Come può Yasser Arafat, che secondo Forbes Magazine ha una ricchezza di oltre trecento milioni di dollari, dire di essere il leader che capisce e rappresenta un popolo impoverito visto che si è arricchito a sue spese?”

“E’ troppo chiedere che la leadership palestinese non fomenti il terrorismo? Siamo irragionevoli se insistiamo a chiedere loro di smettere di uccidere bambini innocenti prima che noi riduciamo la nostra sicurezza e facciamo concessioni per la pace?”

“Come si può far la pace con un leader che non crede e non permette elezioni libere?”

“PerchÈ nelle scuole palestinesi ci sono le foto dei kamikaze, appese nei corridoi o celebrati come martiri? PerchÈ nella West Bank chiamano le squadre sportive con i nomi dei kamikaze? Come possiamo fare la pace con il popolo palestinese quando i loro leader continuano a instillare la cultura del terrorismo contro il nostro popolo?”

“Come può il popolo palestinese mettere fine al suo impoverimento se i suoi leaders continuano a rubare loro preziose risorse per sostenere il terrorismo?”

PerchÈ Arafat è stato al potere cos” tanto e i processi di pace hanno fatto passi cos” piccoli? Se volesse veramente la pace, perchÈ non ha fatto fino ad ora sforzi effettivi per raggiungerla?

Quando il popolo palestinese stesso avrà una sua voce al tavolo della pace?


La risposta alle domande retoriche è sempre la stessa: la pace verrà quando la leadership palestinese sarà completamente riformata e sarà finito il terrorismo.

CONCLUSIONE: UN PO’ DI UMILTA’ PER FAVORE

Presentare una valutazione equanime del vostro passato vi permette di presentare una visione del vostro futuro positiva e credibile.

Voi avete il vostro lavoro pronto per voi. Voi uscite da una situazione delicata nelle pubbliche relazioni ñ la guerra in Iraq ñ per entrare in una ancor più rischiosa ñ la cooperazione “nella road map” con una controparte sconosciuta, Mahmoud Abbas. Per fortuna la prima vi può fornire qualche attimo di tegua e coprirvi per la seconda.

La conclusione essenziale è di rimanere da questo momento in avanti focalizzati sulle vostre priorità di comunicazione. Prima deve finire il terrorismo. Secondo deve venir fuori un partner che vuole la pace. La road map sarà messa in atto alla fine. E soprattutto, mostrate umiltà e affermate che il popolo palestinese merita di più.

Questo memo ha identificato il linguaggio che con efficacia spiega come e perchÈ la leadership palestinese deve cambiare. Criticare la controparte, è sempre la parte più facile della comunicazione pubblica, ma è solo la metà del linguaggio efficace.

L’opinione delle elites in America non riterrà credibile le critiche ripetute alla leadership palestinese a meno che siano collegate a responsabilità simili del governo israeliano di disponibilità alla pace e di riconoscimento delle violazioni passate. Affermazioni che Israele ha una storia senza colpe sono respinte severamente. Non sarà recepito bene da tutti ma è essenziale che i vostri portavoce riconoscano che Israele ha commesso degli errori in passato. Questo contribuisce a costruire credibilità ma dà lo spunto per spiegare e sottolineare la storia dei tentativi di pace di Israele.

Segue come meglio sviluppare questo messaggio:

AMMETTERE IL PASSATO, SIA BUONO CHE CATTIVO

(1) Noi sappiamo che la storia del nostro conflitto è stato marcato dalla frustrazione e incomprensione sia per Israele che per i Palestinesi e Israele è pronto a riconoscrre alcune colpe per quel che è avvenuto nel passato.

(2) Tuttavia, attraverso la nostra storia abbiamo dimostrato che teniamo alla pace, sopra ad ogni altra cosa. Nella nostra speranza di pace, abbiamo superato differenze e trovato accordi con gli arabi vicini dell’Egitto e della Giordania.

(3) Noi siamo impegnati per la pace. Noi abbiamo offerto al popolo palestinese uno Stato che includeva più del 97 % della West Bank. I loro capi hanno rifiutato questa proposta, mostrando ancora una volta che continueremo a non avere un partner per la pace finché l’Autorità palestinese resta la voce del popolo palestinese è tempo per cambiare e non solo per noi ma anche per i cugini palestinesi.


http://hermes.mfn.unipmn.it/~fantom/Docs/matrix.htm

COME SCATENARE UNA RIVOLTA
di Jeff Halper


Primo, crei grandi aspettative. Strette di mano sul prato della Casa Bianca. Una retorica di pace (‘Basta guerre. Basta bagni di sangue’). Elezioni, dandogli una bandiera tutta per loro. Poi incontri segreti, summit segreti, cene, ritiri, trattati di pace, accordi intermedi, promesse, allettanti benefici prefigurati davanti ad occhi affamati. Ulteriori strette di mano, ulteriori ‘gesti’.

Poi crei una struttura di pace che ti garantisca una superiorità negoziale. Sottoscrivi leggi internazionali, convenzioni sui diritti umani, risoluzioni ONU, e, a scanso di equivoci, nomini il tuo alleato strategico, la più grande potenza al mondo, colei che ti fornisce tutte le armi, come ‘mediatrice’.

Poi, mentre parli di pace ad Oslo, Washington, Parigi, Cairo, Piantagione Wye, Stoccolma, Amman, Camp David, Sharm, crei ‘fatti’ sul territorio che ti assicurino il controllo continuo e che pregiudichino di per sé i negoziati. Sfrutti gli ultimi 7 anni dalla firma degli accordi di Oslo per:

1. Smembrare la West Bank in ‘Zone A, B e C,’ conferendo all’Autorità Palestinese controllo pieno solo sul 18% della terra mentre tu mantieni il controllo su oltre il 61%; dividere la piccola Gaza in ‘zona gialla, bianca, blu e verde’, dando a 6000 coloni il controllo del 40% del territorio e confinando 1 milione di Palestinesi nello spazio restante; isolare completamente Gerusalemme Est dal resto della società palestinese;

2. Espropriare 200 Km quadrati di terra da coltura e pascolo ai suoi proprietari palestinesi per i tuoi insediamenti, autostrade ed infrastrutture;

3. Sradicare circa 80.000 olivi ed alberi da frutta che ostacolano i tuoi progetti di costruzione, impoverendo così i loro proprietari e facendone braccianti precari nel tuo mercato del lavoro – ammesso che riescano ad accedervi;

4. Aggiungere 30 nuovi insediamenti, incluse intere città come Kiryat Sefer e Tel Zion, alle dozzine di insediamenti già esistenti nei Territori Occupati, intorno ai quali si stanno svolgendo dei negoziati, e costruire 90.000 nuove unità abitative a Gerusalemme Est esclusivamente per la tua popolazione;

5. Demolire più di 1200 case di proprietà della stessa gente con cui stai negoziando la pace;

6. Raddoppiare la tua popolazione di coloni attorno ai confini del 1967, portandola a 400.000, il 90% dei quali ha già deciso che rimarrà sotto la tua sovranità, anche se ciò non è stato ancora negoziato con la controparte;

7. Iniziare la costruzione di 480 Km di autostrade e raccordi per collegare i tuoi coloni, dissezionando il futuro territorio del tuo interlocutore di pace in piccole isole scollegate, prevenendo in tal modo l’emergere di un’economia competitiva dall’altra parte;

8. Imporre una ‘chiusura’ permanente per prevenire che coloro ai quali hai preso la terra possano trovare impiego nella tua economia, perché hai scoperto che i lavoratori dalla Romania e dalla Tailandia sono più economici e docili. Dato che ci sei, gli precludi l’ingresso a Gerusalemme, sede dei loro luoghi più sacri;

9. Sfruttare le loro risorse naturali unilateralmente ed illegalmente, prendendo, ad esempio, il 25% dell’acqua del tuo paese dalle falde acquifere del tuo vicino, lasciandolo senz’acqua per mesi;

10. Vandalizzare il suo ambiente e la sua campagna, seppellendo il suo fragile paesaggio storico sotto il peso dei tuoi massicci insediamenti ed autostrade, e trasformandolo in discarica per i tuoi rifiuti urbani ed industriali;

Poi, aspetti finché la tua occupazione non sia diventata irreversibile ed omnicomprensiva, finché non hai integrato le due economie sotto il tuo controllo, la rete elettrica, le autostrade e le infrastrutture urbane, finché non hai assorbito l’economia e la società del tuo partner nella tua. Poi annunci che il tuo concetto di pace deve essere inteso come ‘separazione’, e rinchiudi i tuoi vicini in poche piccole isole, privandoli di ogni speranza in un futuro migliore, in una patria e identità propri. Tieni sempre più stretto il tuo controllo, limitando il loro spazio vitale, umiliandoli e molestandoli – finché alla fine la rivolta non esplode.

Poi dici la tua storia al mondo, di come hai provato a negoziare, di quanto sei stato ‘generoso’, di quanto volevi la pace, di quanto sei deluso del fatto che ‘loro’ ti hanno abbandonato. Di come ‘loro’ hanno affrontato le tue buone intenzioni a suon di pietre, di come ‘loro’ non siano dei partners di pace, di come ‘loro’ non siano pronti a fare la pace. Così, sino a quando non si dichiareranno d’accordo a porre termine alla loro violenza contro di te e ritornare allo stesso tavolo dei negoziati che ti ha permesso di costruire la tua struttura di controllo, tu ti risolvi ad usare la forza – forza difensiva, si intende, dato che ‘loro’ sono gli aggressori. Le più aggiornate armi americane, cecchini, segregazione sino alla fame, migliaia di acri di suolo agricolo requisiti, centinaia di case distrutte…sino a quando non recepiscono il messaggio.


* Jeff Halper insegna antropologia all’Università Ben Gurion in Israele. E’ coordinatore del Comitato Israeliano Contro la Demolizione delle Case (ICAHD) ed è curatore della rivista critica Israelo-Palestinese NEWS FROM WITHIN, pubblicata dal Centro d’Informazione Alternativa.


http://www.ecn.org/reds/etnica/palestina/palestina0106ragnatela.html

Palestina. Smantellare la ragnatela di controllo.
Traduzione di un articolo di Jeff Halper (direttore del Comitato israeliano contro la demolizione di case e responsabile dell’Alternative Information Center per il progetto Gerusalemme) che spiega dettagliatamente la strategia adottata da Israele per paralizzare la popolazione palestinese. Giugno 2001.Gli Asiatici dell’est hanno un gioco chiamato “Vai”. Diversamente dal gioco occidentale degli scacchi, dove uno dei due sfidanti tenta di sconfiggere l’altro togliendogli i pezzi, lo scopo di “Vai” è completamente diverso. Vinci non sconfiggendo l’altro, ma immobilizzandolo controllando i punti chiavi sulla “matrice”(ragnatela). Questa strategia è stata effettivamente usata in Vietnam, dove alcune piccole squadre di Viet Cong sono riuscite a bloccare e a paralizzare virtualmente circa mezzo milione di soldati americani che possedevano una schiacciante potenza militare.In effetti Israele ha fatto la stessa cosa con i Palestinesi nel West Bank, a Gaza e a Gerusalemme Est. Dal 1967 ha creato una “matrice” (ragnatela), simile alla tavola di “Vai”, che ha virtualmente paralizzato la popolazione palestinese. La “matrice” (ragnatela) è composta di diversi livelli che si sovrappongono.Il primo livello consiste nell’attuale controllo fisico dei legami e dei punti chiave che creano la “matrice”(ragnatela) di controllo – gli insediamenti e i loro piani di controllo; un sistema massiccio di autostrade e di strade tangenziali (inclusi ampi margini sanitari); basi militari e zone industriali nei punti chiavi; aree militari chiuse; “riserve naturali”; controllo di acquedotti e altre risorse naturali; checkpoint interni e controllo di tutti i passaggi di frontiera; le aree A, B, C, D, H-1, H-2; i luoghi sacri controllati da Israele nei punti chiave; e altro ancora. Questo definisce i confini della “matrice”(ragnatela) delle zone dove sono costretti a vivere i Palestinesi e di fatto li divide gli uni dagli altri. Israele ha anche il controllo dei punti chiave.Il secondo livello della “matrice”(ragnatela) è burocratico e legale: tutti i progetti, i permessi e le politiche che intrappolano i Palestinesi in una fitta rete di restrizioni. Queste includono la creazione di zone politiche come quelle “agricole” per congelare lo sviluppo naturale di città e villaggi; un sistema politicamente motivato di permessi di costruzione edile, rafforzato dalla demolizione delle case e progettato per confinare la popolazione in zone di costrizione; l’espropriazione delle terre per “scopi pubblici” (solo di Israele); la restrizione delle zone coltivate e l’intera distruzione dei raccolti palestinesi; l’autorizzazione e l’ispezione delle attività commerciali palestinesi; le chiusure (veri e propri stati di assedio degli abitati palestinesi); restrizioni sui movimenti e sui viaggi; e altro. Israele sta attenta a definire la sua politica come “legale”, dal momento che di fatto non lo è.
Il fallimento nel garantire ai Palestinesi i diritti umani basilari come stabilito dalla convenzione di Ginevra e da altre convenzioni internazionali – che Israele ha sottoscritto – è di fatto illegale. L’ampio uso del sistema giudiziario israeliano, che in effetti è contro i Palestinesi, come mezzo per controllare la popolazione locale, si fa beffa del legame tra legge e giustizia. Tutto questo confina i Palestinesi in zone isolate, controlla i loro movimenti e mantiene l’egemonia di Israele.Il terzo livello della “matrice”(ragnatela) comporta l’uso della violenza per mantenere il controllo sulla “matrice”(ragnatela) , l’occupazione militare, compresi le massicce carcerazioni e torture; l’ampio uso di collaboratori per controllare la popolazione locale; le pressioni esercitate sulle famiglie per costringerle a vendere le loro terre; il governo antidemocratico, arbitrario e violento del Comando Militare nel West Bank e dell’Amministrazione Civile.
Israele giustifica il proprio sistema in termini di “sicurezza”.La maggior parte degli Israeliani non ha idea di questa “matrice”(ragnatela) e per molti di loro la pace significa semplicemente concedere il minimo dei territori che possono soddisfare i Palestinesi e farla finita con il terrorismo. I Palestinesi sono consapevoli di questa “matrice”(ragnatela), dal momento che ci si scontrano ogni volta che si muovono, ma devono capire che è un sistema integrato di controllo, se sperano di smantellarla.
Netanyahu spesso ha giustificato il suo mercanteggiare su questa o quella percentuale di terra, sostenendo che l’1% del West Bank equivale al valore di Tel Aviv.
E’ cruciale che i Palestinesi realizzino tutto questo, poiché possono strappare anche il 99% dei Territori Occupati ad Israele e non smantellare la “matrice”(ragnatela) di controllo. Un’area della misura di Tel Aviv divisa in dieci o venti piccoli punti di controllo, ruberebbe allo stato dei Palestinesi la sua viabilità. Non è il territorio di per sé che è importante, sebbene i territori contigui siano essenziali per la viabilità di uno stato. Eliminare i nodi chiave di controllo non è meno importante.In ogni caso, la struttura e il funzionamento della “matrice”(ragnatela) sono estremamente sottili, e sapere come smantellarli richiede un’attenta analisi. Alcuni punti di controllo sono ovvi. L’insediamento
di Ma’aleh Adumim riveste un ruolo chiave nella creazione della “Gerusalemme più grande” e nell’impedire la contiguità territoriale.
L’area “E-1” di 13.000 dunums che Israele ha annesso dopo le elezioni porta Ma’aleh Adumim in ogni direzione verso Gerusalemme. Tra tutti i cambiamenti che Israele sta progettando per quel “buco” cruciale, ci sono dieci hotel, attrezzature per turisti, un centro giochi e sportivo, edifici per uffici, l’ampliamento dell’Università Ebraica, zone industriali, un parcheggio regionale, un servizio di smaltimento rifiuti, un cimitero e 1.500 unità abitative per gli Israeliani. Tutto questo è connesso a Gerusalemme, Mod’in e Givat Ze’ ev attraverso le maggiori autostrade. “La “Gerusalemme più grande” (che si estende da Mod’in e Givat Ze’ ev nella parte ovest e quasi fino al fiume Giordano nella parte est), di fatto taglia il West bank in due parti. Inoltre il sistema stradale di Israele nel West bank converge a Ma’aleh Adumim.
Israele deve solo dichiarare che Ma’aleh Adumim è un’ “area militare chiusa”, come ha fatto in passato e questo può paralizzare il movimento attraverso il West Bank e a Gerusalemme. Anche se i Palestinesi ottengono il controllo della regione circostante, lasciare solo quell’insediamento, impedisce totalmente il controllo della “matrice”(ragnatela).
Gli insediamenti sono fondamentali per impedire il controllo della “matrice”(ragnatela), e non tanto a causa del territorio che occupano, ma per i meccanismi di controllo che li circondano. Solo l’1,5% del West bank è occupato da insediamenti, ma i loro piani di controllo occupano più del 6% del territorio (15-20% se aggiungiamo la Gerusalemme più grande e – ecco un nuovo concetto – la Gerusalemme metropolitana). Ma ogni insediamento porta con sé altri meccanismi di controllo: una forte infrastruttura di strade, aree industriali, installazioni militari, sistemi di “sicurezza” come checkpoint e molto altro. Sia che gli insediamenti siano consolidati in blocchi, sia che siano in piccole aree strategicamente sistemate, l’effetto è sempre lo stesso: la neutralizzazione di ogni conquista territoriale raggiunta dai Palestinesi.Altri punti di controllo sono, comunque, meno ovvi. La stretta striscia dell’area “C” sulla strada tra Ramallah e Bir Zeit larga giusto per una jeep militare israeliana, è sufficiente a controllare i movimenti in quella zona. Una stretta striscia israeliana tra Betlemme e Beit Sahour, così come pezzi di terra simili in tutto il West Bank, mantengono in modo simile la “matrice”(ragnatela) del controllo.
Persino le strade di accesso sono fondamentali. La strada israeliana costruita attorno ad Anata bloccherà effettivamente la crescita di quella comunità se non verrà fatto un accesso. Se verrà costruita una strada di accesso, Anata sarà libera di espandersi verso est e verso sud (bloccando, così, potenzialmente l’accerchiamento della parte sud-ovest di Gerusalemme attraverso Pisgat Ze’ev e Ma’aleh Adumim, essenzialmente isolando Gerusalemme est dal West Bank).Il solo modo per smantellare la “matrice”(ragnatela) è eliminarla completamente – sebbene un “orario di sicurezza” potrebbe essere concordato tra le parti.
Alla fine, ciò significa rimuovere dai territori palestinesi tutti gli insediamenti, le strade di circonvallazione, i checkpoint e altre barriere per la contiguità territoriale e la libertà di movimento.
Ciò significa ottenere il completo controllo dei confini con gli stati arabi e sostituire le chiusure e i checkpoint di Israele con normali (e minime) sistemi di frontiera concordati da entrambe le parti.
Capire la “matrice”(ragnatela) e il suo funzionamento è una cosa critica, per non rendere la Palestina un bantustan.
I Palestinesi devono diventare attivi nei loro negoziati, stabilendo il proprio programma, le proprie mappe, i propri parametri di negoziazione, la propria visione – tutto questo deve essere unito ad una sofisticata analisi della matrice di controllo e a come smantellarla.
Solo tutto questo porterà a quella pace giusta e fattibile che tutti ci auguriamo.

No, l’anti-sionismo non è anti-semitismo



Sia il «focolare ebraico» sia lo «stato ebraico» sono realtà controverse e ripeterlo non è necessariamente anti-semita


BRIAN KLUG *(Su questo argomento vedi anche:http://www.kelebekler.com/occ/neum.htmehttp://www.kelebekler.com/occ/fiammy.htm, n.d.r.). Sin dall’inizio, il sionismo politico è stato un movimento controverso persino tra gli ebrei. L’opposizione, in nome dell’ebraismo, dei rabbini ortodossi e riformati tedeschi all’idea sionista era così forte da spingere Theodor Herzl a spostare il luogo del primo congresso sionista nel 1897 da Monaco a Basilea, in Svizzera. Venti anni dopo, quando il ministro degli esteri britannico Arthur Balfour (nel 1905 sponsor dell’Alien Act per limitare l’immigrazione ebraica nel Regno unito) voleva che il governo si impegnasse per una patria ebraica in Palestina, la sua dichiarazione venne rimandata non a causa degli antisemiti ma degli esponenti della comunità ebraica. Tra cui un esponente ebreo del governo che disse che il filo-sionismo di Balfour avrebbe «finito per rivelarsi anti-semita». La creazione dello stato di Israele nel 1948 non ha posto fine al dibattito anche se il problema è cambiato. Oggi si tratta del futuro di Israele. Israele dovrà divenire uno stato «post-sionista», uno stato che si definisce nei termini dei suoi abitanti attuali o si vede come appartenente all’intero popolo ebraico? Si tratta di una domanda del tutto legittima e certo non anti-semita. Quando qualcuno sostiene il contrario – come ha fatto Emanuele Ottolenghi sul Guardian di sabato scorso- finisce per aumentare ancor più il livello di confusione. Ottolenghi sostiene che «il sionismo comprende anche la credenza che gli ebrei sono una nazione, e come tali hanno diritto all’autodeterminazione come tutte le altre nazioni». Ciò è doppiamente sconcertante. Innanzitutto l’ideologia del nazionalismo ebraico era del tutto irrilevante per molti ebrei così come per molti simpatizzanti non ebrei, che vennero attratti dall’obiettivo sionista di creare uno stato ebraico in Palestina. Essi vedevano Israele in termini umanitari o pratici: un rifugio sicuro dove gli ebrei potessero vivere come tali dopo secoli di emarginazione e di persecuzioni. Questa motivazione venne rafforzata dall’uccisione da parte dei nazisti di un terzo della popolazione ebraica del mondo, l’intera distruzione delle comunità ebraiche in Europa e la sorte delle masse di rifugiati ebrei che non avevano alcun posto dove andare. In secondo luogo non bisogna certo essere anti-semiti per respingere l’idea che gli ebrei costituiscano una nazione a parte nel senso moderno della parola o che Israele è lo stato nazione ebraico. Ironia della storia il fatto che gli ebrei sono un popolo a parte che formano «uno stato nello stato» è uno degli ingredienti base del discorso anti-semita. Ed è anche per questo che alcuni anti-semiti europei pensano che la soluzione della «questione ebraica» possa essere per gli ebrei uno stato per loro conto. Herzl di certo pensò che avrebbe potuto fare affidamento sul sostegno di alcuni settori anti-semiti. Ma cos’è l’anti-semitismo?

Anche se questo termine risale agli anni `70 del XIX secolo, l’anti-semitismo è un antico pregiudizio europeo sugli ebrei. Il compositore Richard Wagner l’ha epresso assai bene quando disse: «Ritengo che la razza ebraica sia il nemico della pura umanità e tutto quel che di nobile vi è in essa». E’ così che gli anti-semiti vedono gli ebrei: si tratta di una presenza aliena, parassiti che vivono sulle spalle dell’umanità e vogliono dominare il mondo. In tutto il mondo la loro mano invisibile controllerebbe le banche, i mercati e i media. Persino i governi sarebbero sotto il loro dominio. E quando ci sono delle rivoluzioni o quando delle nazioni vanno in guerra sarebbero sempre gli ebrei a muovere i fili – astuti, spietati, compatti- e a trarne vantaggio. Quando questo pregiudizio viene proiettato su Israele in quanto stato ebraico, allora possiamo dire che l’anti-sionismo è anti-semita. E quando zelanti critici di Israele, senza essere anti-semiti, usano distrattamente frasi come «l’influenza ebraica», evocando quelle fantasie, essi alimentano una corrente anti-semita nel mondo della cultura. Ma l’occupazione israeliana della West Bank e della striscia di Gaza non è una fantasia. Il diffondersi degli insediamenti ebraici in quei territori non è una fantasia. Non è una fantasia il diverso, ineguale, trattamento riservato ai colonizzatori ebrei e agli abitanti palestinesi. Non è fantasia le discriminazioni istituzionalizzate in varie sfere della vita sociale ai danni dei cittadini arabi in Israele. Queste sono realtà. E’ cosa ben diversa opporsi a Israele o al sionismo sulla base di una fantasia anti-semita o farlo sulla base della realtà. In questo secondo caso non si può parlare di anti-semitismo. Ma una critica eccessiva ad Israele o al sionismo non è forse testimonianza di un pregiudizio anti-semita? Nel suo libro «The Case for Israel» Alan Dershowitz sostiene che quando le critiche ad Israele «passano il confine tra il corretto e lo scorretto passano dall’essere accettabili all’essere anti-semite». Coloro che sostengono questa linea sostengono che essa viene passata quando i critici rivolgono le loro critiche ad Israele, isolando il suo caso, in modo scorretto; quando applicano due pesi e due misure e giudicano Israele sulla base di criteri più duri di quelli usati nei confronti di altri stati; quando riportano i fatti in modo distorto in modo da presentare Israele sotto una cattiva luce; quando denigrano lo stato ebraico; e così via. Tutto ciò è indubbiamente scorretto ma si tratta necessariamente di anti-semitismo? No penso proprio di no. Il conflitto israelo-palestinese è un’amara lotta politica . I problemi sono molto complessi, le passioni brucianti e grandi sono le sofferenze. In queste circostanze i membri dei due schieramenti possono essere di parte e «passare la linea tra il corretto e lo scorretto». Quando coloro che si sono schierati con Israele passano quella linea non è detto che siano anti-musulmaniE quando altri, in sostegno della causa palestinese fanno lo stesso questo non li trasforma in anti-ebrei. Ciò vale per entrambi. Ma c’è anche qualche altra cosa che vale per entrambi: il razzismo. Sentimenti anti-ebraici e sentimenti anti-musulmani sembrano in crescita. Ciascuno ha le sue peculiarità ma antrambi sono esacerbati dal conflitto israelo-palestinese, l’invasione dell’Iraq, la «guerra contro il terrorismo» e altri conflitti.

Dovremmo unirci tutti per respingere il razzismo in ogni sua forma: l’islamofobia che demonizza i musulmani così come i discorsi anti-semiti che possono infettare l’anti-sionismo e avvelenare il dibattito politico. Tuttavia uomini di buona volontà possono non essere d’accordo tra di loro a livello politico – sino al punto discutere del futuro di Israele come stato ebraico. Senza dimenticare che anche l’equiparazione dell’anti-sionismo con l’anti-semitismo può avvelenare, a suo modo, il dibattito politico.

Brian Klug è ricercatore anziano di filosofia al Sr. Benet’s Hall di Oxford ed è membro fondatore del «Jewish Forum for Justice and Human Rights». Questo intervento è uscito sul Guardian di ieri.


http://www.ilmanifesto.it

04/12/2003

http://www.lernesto.it/strutture/articolo.asp?codart=983

Fabbricare l’antisemitismo 

ISRAELE E LE COMUNITÀ EBRAICHE NEL MONDO 

Ariel Sharon, i media, e la «fabbrica» dell’antisemitismo

di Uri Avnery 

(Il Manifesto del 16/11/2003)La prima vittima israeliana di Saddam Hussein e’ il mito sionista con cui siamo cresciuti. Questo mito ci raccontava che la creazione di Israele era necessaria per fornire un “porto sicuro” agli ebrei di tutto il mondo, in cui rifugiarsi in tempi di pericolo. Improvvisamente Saddam viene e ci dimostra il contrario. Gli ebrei vivono sicuri in tutto il mondo eccetto che in Israele. Qui si stanno prendendo (patetiche) misure contro armi chimiche e biologiche. Molti stanno addirittura pensando di ritornare presso le comunita’ mondiali da cui sono venuti. Fine di un mito. Un altro mito sionista era gia’ morto prima. E’ la diaspora, avevamo imparato in gioventu’, a creare l’antisemitismo. Gli ebrei sono dovunque una minoranza, e la minoranza viene sempre odiata dalla maggioranza, ci veniva detto. L’unica soluzione era radunarsi in una terra in cui gli antenati avevano vissuto, e diventare una maggioranza. Solo cosi’ l’antisemitismo sparira’. Ecco cosa diceva Hertzl, il fondatore del sionismo. Adesso quel mito ha restituito la sua anima benedetta. Infatti sta avvenendo proprio il contrario: lo stato d’Israele sta causando la riesumazione dell’antisemitismo in tutto il mondo, mettendo in pericolo gli ebrei dovunque. Il governo Sharon e’ un gigantesco laboratorio per la proliferazione del virus dell’antisemitismo. Lo esporta in tutto il mondo. Organizzazioni antisemite, vissute per anni ai margini della societa’, stanno ricevendo nuova linfa vitale e l’antisemitismo cavalca comodamente l’onda della condanna popolare alla politica di oppressione di Sharon. Gli agenti della propaganda di Sharon gettano olio sulle fiamme. Accusando di antisemitismo tutti coloro che condannano questa politica, essi marchiano con questo appellativo intere e vaste comunita’. Chiunque detesti la persecuzione dei palestinesi viene definito antisemita. Tutto cio’ finisce per garantire rispettabilita’ a questo termine. Considerazione pratica: non solo, dunque, Israele non protegge gli ebrei dall’antisemitismo ma, al contrario, Israele lo fabbrica e lo esporta in tutto il mondo. L’immagine di Israele e’ diventata quella di uno stato crudele, brutale e colonialista, che opprime un piccolo popolo indifeso. Il perseguitato e’ diventato il persecutore, Davide si e’ trasformato in un mostruoso Golia. Noi israeliani, vivendo in una bolla di auto-lavaggio del cervello, ci meravigliamo di come ci vede il mondo. Spesso le televisioni ed i giornali mostrano le immagini di bambini palestinesi che lanciano pietre a terrificanti carriarmati, di soldati che tormentano ed insultano le donne ai checkpoints, di vecchi disperati seduti sulle rovine delle loro case demolite, di militari che prendono la mira per centrare i ragazzini. Questi soldati non sembrano esseri umani in uniforme, ma sono robot senza volto, armati fino ai denti, la testa nascosta negli elmetti, i giubbotti antiproiettile che ne mutano le proporzioni. Chi ha visto queste immagini per decine e centinaia di volte vede Israele cosi’. Per gli ebrei, cio’ crea un circolo vizioso. Le azioni di Sharon provocano repulsione a molta gente nel mondo. Cio’ rafforza l’antisemitismo. Le organizzazioni ebraiche supportano ancora di piu’, ed acriticamente, il governo Sharon e cosi’ via. In Europa gia’ si avverte la pressione. Ma negli USA, gli ebrei si sentono ancora supremamente a loro agio. In Europa, gli ebrei hanno imparato, nel corso dei secoli, che non e’ saggio mostrare apertamente la loro ricchezza ed influenza. Ma in America accade l’esatto contrario: l’establishment ebraico sta facendo il massimo sforzo per dimostrare di controllare il paese intero. Di tanto in tanto, la lobby ebraica “elimina” qualche politico americano che non supporti incondizionatamente il governo israeliano. Cio’ non viene fatto segretamente, dietro le quinte, ma diventa una “pubblica esecuzione”. E’ quello che e’ accaduto alla parlamentare nera Cynthia McKinney, una donna giovane, attiva, intelligente e molto simpatetica. Cynthia ha osato criticare il governo Sharon, sostenere i palestinesi e (peggio ancora) i gruppi pacifisti ebraici. L’establishment ebraico ha scovato una contro-candidata, una donna praticamente sconosciuta, ha finanziato con dollari sonanti la sua campagna elettorale, e Cynthia e’ stata sconfitta. E tutto cio’ e’ avvenuto apertamente, con suoni di fanfare, a mo’ di esempio pubblico, sicche’ ogni senatore ed ogni parlamentare comprenda che criticare Sharon equivale ad un suicidio politico. Ora cio’ si sta ripetendo in grande stile. La lobby filo-israeliana sta spingendo l’amministrazione americana verso un’altra guerra. Anche questo avviene apertamente, di fronte al pubblico americano. E cosa accadrebbe se la guerra dovesse, per ipotesi, andare male? Se molti giovani americani morissero? Se il pubblico americano gli si rivoltasse contro, come per la guerra in Vietnam? Si potrebbe facilmente immaginare una sussurrata campagna che inizia con “Gli ebrei ci hanno spinto a fare questo”, “Gli ebrei di questo paese sostengono Israele piu’ degli Stati Uniti”, e, infine “Gli ebrei controllano il nostro paese”. Inoltre, presto o tardi, Sharon suscitera’ una rivoluzione nel mondo arabo, e cio’ sara’ disastroso per gli interessi americani. La colpa sara’ data agli ebrei americani, che si identificano completamente con Israele. C’e’ gente, in Israele, che segretamente spera che l’antisemitismo vinca ovunque. Cio’ confermerebbe un altro mito sionista, e cioe’ che l’antisemitismo e’ sempre pronto a riesplodere. Se mi fosse concesso di dare un consiglio, direi alle comunita’ ebraiche in tutto il mondo di rompere questo circolo vizioso. Disarmate l’antisemitismo. Rompete l’abitudine nefasta di identificarvi con qualsiasi cosa facciano i governi israeliani. Fate in modo che sia la vostra coscienza a parlare. Ritornate agli antichi valori dell’ebraismo, identificatevi con l’Altro Israele… In tutto il mondo, si stanno moltiplicando gruppi ebraici che seguono questa strada. E facendo cio’, rompono un altro mito fasullo, e cioe’ che dovere di ogni ebreo sia quello di supportare gli editti del governo israeliano.


https://www.inventati.org/mailman/public/forumbergamo/2003-March/000749.html

Proibita la vendita di terreni a chi non è ebreoDal quotidiano della Sinistra indipendentista basca GARA (www.gara.net) Tel Aviv Il Governo Israeliano ha approvato una proposta di legge che per ragioni di sicurezza riserva la vendita di terreni del pubblico demanio agli ebrei. In attesa dalla sua approvazione da parte del Parlamento(Knesset), il decreto è stato approvato da 17 ministri ed è stato respinto dai membri laburisti del governo di Ariel Sharon. Questa iniziativa, presentata dal rabbino e deputato del Partito Religioso Haim Druckman, neutralizza una recente sentenza del Tribunale supremo che, nel marzo 2000, dava ragione alla denuncia per discriminazione presentata da un Palestinese con passaporto Israeliano al quale era stata impedita l’acquisizione di un terreno edificabile a Katzir. Con circa un milione di membri, la cosiddetta “comunità araba” d’Israele rappresenta circa il 20% dei suoi 6.500.000 abitanti. I suoi portavoce denunciano il trattamento da cittadini di serie B loro riservato, senza diritti per quanto riguarda la terra necessaria in seguito all’incremento demografico. Secondo l’associazione per i Diritti Umani di Israele, ACRI, le terre del pubblico demanio rappresentano il 93%dell’intero territorio in mani israeliane. L’ex ministro della Giustizia e Ministro della Cooperazione Regionale, Dan Meridor, ha motivato il suo voto negativo sulla proposta affermando che: “le sue conseguenze saranno molto gravi, sia per la nostra coscienza, sia per l’immagine del sionismo, che i nemici tacciano di nazismo”. (11 Mar 2003)


http://www.filiarmonici.org/1391-030903.html

“I giorni più bui mai vissuti da Israele”
Michele Giorgio
il manifesto 3 settembre 2003“Di fronte all’acuirsi del conflitto palestinese molti intellettuali chiudono gli occhi e credono che tutto sia lecito, ma non è così”. Parla Aviv Lavie, il giornalista di Haaretz che ha svelato l’esistenza del carcere 1391, la Guantanamo israeliana in cui, senza alcun rispetto per i diritti umani, vengono segregati i palestinesi.

È spartana la sede di Haaretz, il piú autorevole dei quotidiani israeliani. L’editore, la ben nota famiglia Schoken, che vanta la proprietá di testate giornalistiche anche in altri paesi, non ha certo ecceduto nell’arredamento e nelle rifiniture di stanze e corridoi. Ma forse é questo lo stile che piú di addice ad un giornale progressista (ma solo fino ad un certo punto), che spesso va controcorrente quando si parla di palestinesi e processo di pace. Non è poco in un momento in cui gran parte della stampa israeliana non mette in dubbio la linea del governo di Ariel Sharon. Aviv Lavie, inviato speciale del giornale, ci accoglie nel suo piccolo ufficio. Il computer è in funzione, sta ancora lavorando all’inchiesta sull’esistenza in Israele di un carcere segreto di cui ha riferito nei giorni scorsi. “È stata sino ad oggi una indagine giornalistica molto impegnativa, ma anche ricca di risultati”, ci dice Lavie con tono soddisfatto. “Aver portato alla luce l’esistenza di questa prigione é stato importante e spero che si faccia il possibile per impedire che possa esserci ancora segreti del genere”.

In ogni caso è sorprendente che l’esistenza di un carcere possa rimanere oscura per oltre venti anni in un paese che, ad ogni occasione, afferma di essere “l’unica democrazia del Medio Oriente”.
Si, é vero. Anche perché questo paese ufficialmente ha avuto molti segreti ma poi è sempre venuto tutto alla luce in breve tempo. Tutti sanno, non solo in Israele ma anche all’estero, del fatto che questo paese possiede armi atomiche, delle localitá dove sono state costruite determinate basi dell’esercito. Soprattutto quando parliamo di questioni militari è impossibile tenere tutto segreto. Ció dipende dal fatto che in Israele tutti o quasi prestano servizio militare, gli uomini per ben tre anni. Nell’esercito accanto ai nazionalisti piú accesi ci sono coloro che credono nella democrazia e nel rispetto dei diritti umani. Quindi, per quanti sforzi le autoritá facciano per tenere all’oscuro l’opinione pubblica di determinate cose, le persone con una coscienza democratica sentono il dovere di dover rivelare i fatti piú inquietanti, piú preoccupanti, ai quali hanno assistito durante il servizio militare.

Ció che dice ha un fondamento, tuttavia per una ventina di anni l’esistenza di questo carcere speciale, dove vengono sistematicamente violati i diritti umani, é rimasta segreta. Inoltre il fatto che la prigione 1391 sia gestita dall’esercito contraddice, almeno in parte, ciò che lei dice rispetto a coloro che fanno il servizio militare.
Nel caso della prigione 1391 parliamo di una vicenda davvero eccezionale. Credo che sia rimasta segreta per cosí tanto tempo a causa del fatto che per gran parte della sua esistenza abbia ospitato cittadini di altri paesi e non palestinesi o israeliani. Chi è stato tenuto in questo carcere di fatto è scomparso, di lui non si è saputo più nulla. Le famiglie, ad esempio, di libanesi, siriani o iraniani catturati lungo i confini o rapiti nei loro paesi da unità israeliane come lo sceicco Obeid e Mustafa Dirani, sapevano che erano tenuti prigionieri in Israele ma non si sono rivolti, nella maggioranza dei casi, alle organizzazioni umanitarie internazionali per ottenere informazioni precise sulla loro detenzione o per chiedere la scarcerazione immediata dei loro congiunti. Quei casi sono stati gestiti più politicamente che nell’ambito della tutela dei diritti umani. Nel caso dei palestinesi invece non sarebbe stato possibile tenere le cose segrete per tanto tempo perché gli avvocati, le famiglie si attivano subito per seguire la sorte dei detenuti, sono solleciti nel presentare richieste e petizioni. E non caso della prigione 1391 si è saputo la scorsa primavera, dopo quasi venti anni, proprio perché aveva cominciato ad ospitare anche palestinesi. La loro scomparsa ha messo in allerta i familiari che si sono rivolti ai centri per i diritti umani e il segreto alla fine è stato svelato.

In quale occasione lei ha appreso della esistenza del carcere 1391?
Sembra incredibile ma è stato durante una udienza della Corte suprema aperta al pubblico. I giudici stavano esaminando la petizione presentata dal centro Hamoked e dall’avvocato Lea Tsemel che rappresentavano alcune famiglie palestinesi che avevano denunciato la scomparsa di congiunti arrestati dall’esercito durante la rioccupazione dei territori autonomi palestinesi nel 2002 e le incursioni più recenti avvenute nelle città della Cisgiordania. Di solito di un palestinese arrestato si perdono le tracce solo per qualche giorno, soprattutto durante i duri interrogatori ai quali vengono sottoposti, poi i servizi di sicurezza comunicano ai loro avvocati le prigioni in cui sono stati trasferiti. Invece di un certo numero di arrestati ad un certo punto non si era saputo più nulla, erano svaniti nel nulla. L’avvocato dello stato, messo sotto pressione dai giudici, ad un certo punto ha rivelato l’esistenza di una prigione segreta in cui vengono rinchiusi palestinesi e cittadini arabi ritenuti a conoscenza di informazioni di primaria importanza per la sicurezza di Israele. In pratica, l’esercito, di fronte alle molte migliaia di arrestati durante i raid e le rioccupazioni delle cittá autonome, è stato costretto a trasferire nella 1391 alcuni palestinesi eccellenti, si dice persino il segretario di Al-Fatah Marwan Barghuti. Dal loro punto di vista però è stato un errore poiché questa decisione di fatto ha poi portato nel giro di qualche mese alla luce questo carcere speciale.

E cosa è accaduto dopo?
Molto poco. I mezzi d’informazione israeliani hanno finto di non aver sentito. Anche quelli stranieri in veritá. Ricordo solo una notizia dell’agenzia di stampa americana AP in cui si riferiva delle ammissioni fatte dall’avvocato dello Stato. Poi si è messa in movimento la rete televisiva Canale 10 che non è andata oltre la messa in onda di una immagine, girata a molta distanza, del carcere segreto. Io invece per due mesi ho cercato i militari che avevano prestato servizio in quella prigione, li ho intervistati e in questo modo ho potuto riferire nel mio servizio di ció che accade nella 1391, dei nomi di alcuni dei prigionieri che vi sono stati rinchiusi, delle violazioni dei diritti umani.

Il suo servizio giornalistico è ricco di informazioni e ha portato alla luce un caso di importanza internazionale. Eppure non mi pare che in Israele questa vicenda abbia scosso l’opinione pubblica o messo in movimento le forze progressiste. Perché è mancata la reazione che era legittimo attendersi?
Qualcosa si è mosso. Alcuni parlamentari hanno chiesto chiarimenti, in particolare Zahava Gal-On del Meretz che ha presentato una richiesta alle autorità militari per entrare nel carcere speciale. Anche la radio militare è intervenuta sul caso e mi ha intervistato. Mi rendo conto però che non è molto. Purtroppo non solo l’opinione pubblica ma anche i mezzi d’informazione che dovrebbero porsi interrogativi e svelare fatti inquietanti, si sono allineati, appiattiti sulle posizioni espresse dall’establishment politico. Di fronte all’acuirsi del conflitto con i palestinesi, un po’ tutti, e con maggiori colpe giornalisti e intellettuali, preferiscono chiudere un occhio, anzi tutti e due, e credere che tutto sia lecito, che tutto sia consentito. È un momento difficile, forse il più difficile dal 1948 ad oggi, per la democrazia in questo paese. E purtroppo imprimere una svolta e mettere fine a questo periodo nero non sarà facile.


http://www.ebraismoedintorni.it/

[Altro esempio di fino a che punto può portare il razzismo sionista. n.d.r.]

Attualità
Articolo di: November/2003


Raiot e la Guzzanti: che Razza (ebraica) di programma?

di Emanuele Calò

Sabina Guzzanti, nel programma “comico” “Raiot”, andato in onda Domenica 16 novembre 2003, ha dedicato una battuta al famigerato sondaggio d’opinione commissionato dall’Unione Europea, dal quale risultava che per la maggioranza degli europei, Israele sarebbe il maggior pericolo per la pace: “Perché si è parlato di antisemitismo a proposito del sondaggio commissionato dalla UE? La risposta al sondaggio diceva Israele, mica diceva: razza ebraica”.

La Guzzanti ha così replicato: “Il significato ovvio della mia battuta è: se la risposta al sondaggio fosse stata “razza ebraica” sarebbe stata evidentemente una risposta razzista da parte dei cittadini europei, visto che la risposta è stata invece “Israele”, non si è trattato di una risposta razzista, quindi non ha senso parlare di antisemitismo.Non capisco come si possa fraintendere il senso di questa battuta, tanto più che il discorso nel suo complesso era senza ombra di dubbio di condanna all’antisemitismo facendo riferimento alla recente infelice dichiarazione di Berlusconi su Mussolini (…) Non trovando un fondamento logico all’osservazione della comunità ebraica di Milano – conclude la Guzzanti – mi domando se dietro questa protesta, non ci sia l’intento di mettere a tacere qualsiasi critica alla politica di Israele che invece è più che legittima.”

Sennonché, qui il nostro problema non è il sondaggio, bensì la Guzzanti stessa, ed il suo inserimento della “razza ebraica” in una sceneggiatura destinata a far ridere. Qualche sia l’opinione sulle vicende mediorientali, non troviamo nulla da ridere sui riferimenti alla “razza ebraica” e meno che meno sembra rispettoso il suo uso in un contesto destinato alla risata. La signorina Guzzanti, poi, non trova di meglio che rifugiarsi nella dietrologia, visto che tutto quel che le riesce di fare è formulare questa geniale ipotesi: vuoi vedere che gli ebrei milanesi criticano il mio show per difendere Sharon? Come giunga a una simile conclusione non è dato di sapere, a noi resta solo da pensare che se le meningi le dovessero far male, non sarebbe certo per lo sforzo che ha fatto per arrivare a così geniali conclusioni. Sta di fatto che se le osservazioni della Guzzanti fossero accolte, d’ora in poi i lazzi sulla “razza ebraica” potrebbero legittimamente far parte del repertorio di ciascun comico. Pazienza, poi, se il tutto si risolve in una ennesima umiliazione per gli ebrei: cosa volete che sia, a confronto con i calci in culo e i giri nella botte imposti a suo tempo dal Papa Re?

Per caso, il 17 novembre Massimo D’Alema a “Otto e mezzo” aveva detto che non bisogna dire che tutto è antisemitismo: d’accordo, ma non ci sembra nemmeno che questa giusta osservazione renda legittima qualsiasi scorribanda, specie se ci si esercita nello scherzare con la “razza ebraica”.

Sul Corriere della Sera del 18 novembre, un critico avveduto come Aldo Grasso, ne discorre quale “tremenda caduta di stile, la battuta sulla “razza ebraica”, sintomo di un’inclinazione molto diffusa nella sinistra con la kefiah”. Forse per la Guzzanti anche Aldo Grasso vuole, sotto sotto, difendere Sharon?

Fa piacere sentir riparlare di razza, se ne sentiva il bisogno. Possiamo pure difendere il concetto, visto che fra le testate italiane vi era una intitolata proprio alla “Difesa della razza”. E, visto che ci siamo, possiamo anche produrci in battute sulla “razza negra”, tanto gli africani capiranno che siamo solo dei buontemponi, eppoi, vi risulta che qualcuno abbia mai schiavizzato i neri e ucciso gli ebrei?

Ma sì, scherziamoci su. In Cina il governo comunista fa pagare ai congiunti dei fucilati le pallottole che li hanno trafitti, mentre qui la Rai si limita a farci pagare il canone per sbeffeggiarci in quanto ebrei.

Diciamocelo poi: questi ebrei hanno stufato! Hanno stufato in Israele e anche in Turchia, da Einstein a Gesù, passando per Paul Newman fino a Franco Modigliani. Essere ebrei, fra l’altro, non è una bella cosa, ché altrimenti non si userebbe sempre e soltanto l’espressione “di famiglia ebraica”, “di origine ebraica”, e così via, al posto dell’orribile “ebreo”, anzi “di razza ebraica”.

Non sarebbe male rammentare che non siamo più in pausa: dal 1555 al 1870 siamo stati chiusi nel Ghetto di Roma. Indi, vi è stata una pausa dal 1870 al 1938 (anno di emanazione delle leggi razziali). Dal 1945 fino al 1982, nuova pausa, fino all’uccisione dei fedeli all’uscita dal Tempio di Roma. La pausa, la ricreazione, è finita dal 1982. Viviamo blindati. E, visto che rischiamo di scordare la nostra condizione, è bene che ci siano lazzi e freddure sulla razza ebraica. Tanto volte ce ne fossimo dimenticati. Debbo dire, però, che era troppo fresco il sangue delle stragi delle sinagoghe di Istanbul perché ce ne scordassimo, tanto valeva riprendere più tardi i lazzi e le freddure.

Un pensiero, infine, per il senatore Antonio Falomi, della Commissione di vigilanza sulla Rai, che si era prodotto in una difesa del programma prima di questa uscita sulla “razza ebraica”. Che ne pensa, Senatore? Gli ho inviato una e mail ed ho parlato con un suo collaboratore. Sarebbe veramente gradita una sua presa di posizione, visto che si tratta di un argomento che non gli è certamente indifferente.



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