Che cos’è l’antisemitismo?

Che cos’è l’antisemitismo?



Un articolo interessante e divertente di Michael Neumann, professore di filosofia alla Trent University, Ontario, Canada, uscito per la prima volta su Counterpunch il 4 giugno 2002.  


Ogni tanto, qualche intellettuale ebreo di sinistra tira un profondo respiro, spalanca il proprio grande cuore, e ci annuncia che la critica a Israele o al sionismo non è antisemitismo. In silenzio, queste persone si complimentano con se stesse per il proprio coraggio. Con un lieve sospiro, cancellano ogni ombra della preoccupazione che forse ai goyim – per non parlare degli arabi – non sia il caso di mettere in mano questa pericolosa informazione.

Qualche volta sono i gentili al loro seguito, il cui ethos, se non la cui identità, aspira all’ebraicità, a  sobbarcarsi questo compito. Per non sbilanciarsi troppo, si affrettano poi a ricordarci che l’antisemitismo resta comunque qualcosa da prendere molto sul serio. Il fatto che Israele, con l’approvazione di una nutrita maggioranza di ebrei, stia combattendo una guerra – una guerra razziale, contro i Palestinesi – è proprio la ragione principale per stare in guardia. Chi lo sa? Si potrebbe sempre sollevare qualche ombra di risentimento!

Io la penso diversamente. Ritengo che non si dovrebbe quasi mai prendere sul serio l’antisemitismo, e che qualche volta dovremmo perfino riderci sopra. Credo che l’antisemitismo sia sostanzialmente irrilevante a proposito del conflitto israelo-palestinese, se non forse come distrazione dai problemi reali. Io sostengo che certe affermazioni siano vere; sostengo anche la loro sensatezza. Non credo che farle sia una cattiveria gratuita come strappare la coda alle lucertole.

Antisemitismo, tecnicamente e strettamente parlando, non significa odio per i semiti: questo è confondere le definizioni con l’etimologia. Antisemitismo significa odio per gli ebrei. Ma su questo punto, immediatamente, ci troviamo a dover fare i conti con il secolare “gioco delle tre carte” dell’identità ebraica: “Ecco: la nostra è una religione! No: un’etnia! No: un’entità culturale! Cioè, scusate… una religione!” Appena ci stanchiamo di questo gioco, veniamo subito risucchiati nell’altro: “Antisionismo è antisemitismo!”, che prontamente si alterna con quello di: “Non confondiamo sionismo con ebraismo! Come osi, antisemita?!”

Bene, cerchiamo di essere sportivi. Cerchiamo di dare dell’antisemitismo un definizione tanto estesa quanto potrebbe mai desiderarlo un qualsiasi sostenitore di Israele: antisemitismo può essere l’odio per la razza ebraica, o per la cultura, o per la religione ebraica, oppure odio per il sionismo. Odio, ma anche disapprovazione, o opposizione, o lieve antipatia. Ma i sostenitori di Israele non troveranno questo gioco divertente come si aspettano. Gonfiare il significato di antisemitismo fino a includere qualunque cosa che possa danneggiare politicamente Israele è una spada a doppio taglio. Può essere comodo per colpire i propri nemici, ma il problema è che l’inflazione delle definizioni, come qualunque altra inflazione, svaluta la moneta. Più cose si definiscono antisemite, meno orribile suonerà il concetto di antisemitismo. Questo accade perché, mentre nessuno può impedirci di gonfiare le definizioni, continuiamo a non poter modificare i fatti. Nello specifico, nessuna definizione di antisemitismo potrà cancellare la versione dei fatti, sostanzialmente dalla parte dei palestinesi, che qui sostengo, come fanno la maggior parte degli europei, molti israeliani, e un numero crescente di nordamericani.

Che differenza fa questo? Supponiamo, per esempio, che un israeliano di destra dica che le colonie rappresentano la realizzazione di aspirazioni che sono fondamentali per il popolo ebraico, e che opporsi ad esse è antisemitismo. Possiamo accettare questa posizione, che certamente è difficile da confutare. Ma non possiamo nemmeno abbandonare la convinzione, ben fondata, che gli insediamenti israeliani stiano soffocando il popolo palestinese e spegnendo ogni speranza di pace.  Dunque, fare acrobazie sulle definizioni non serve a niente: possiamo solo dire: al diavolo le aspirazioni fondamentali del popolo ebraico, le colonie sono inaccettabili. Dobbiamo anche aggiungere che, dal momento che siamo moralmente obbligati a opporci alle colonie, siamo obbligati a essere antisemiti. Grazie all’inflazione delle definizioni, certe forme di “antisemitismo” sono diventate un obbligo morale. Diventa ancora peggio quando è l’antisionismo ad essere bollato come antisemita, perché le colonie, se anche non rappresentano le aspirazioni fondamentali del popolo ebraico, sono un’estensione del tutto plausibile del sionismo. Opporsi alle colonie vuol dire quindi opporsi al sionismo, e dunque, secondo la definizione allargata, è antisemita. Più il concetto di antisemitismo viene espanso fino a includere l’opposizione alle politiche di Israele, più esso sembra una cosa positiva. E, dati i crimini di cui deve rispondere il sionismo, c’è un altro semplice passaggio logico da fare: l’antisionismo è un obbligo morale, dunque se essere antisionisti è antisemitismo, l’antisemitismo stesso diventa un obbligo morale.

Foto ricordo di un safari – febbraio 2002

Quali sono questi crimini? Perfino gli apologeti di Israele, in maggioranza, hanno smesso di negarli, limitandosi a insinuare che farli notare è un po’ antisemita. Dopotutto, Israele non è peggio di altri. Primo: e allora? Impariamo all’età di sei anni che “lo fanno tutti” non è una scusa valida. Ce lo siamo dimenticato? Secondo, i crimini non diventano peggiori solo perché considerati indipendentemente dal loro scopo. È vero, altri popoli hanno massacrato dei civili, li hanno lasciati morire per mancanza di cure mediche, hanno demolito le loro case, distrutto i loro raccolti, e li hanno usati come scudi umani. Ma Israele lo fa per validare l’affermazione inesatta di Israel Zangwill del 1901, secondo cui “La Palestina è una terra senza un popolo; gli Ebrei sono un popolo senza terra”. Spera di creare una terra totalmente svuotata dai gentili, un’Arabia deserta in cui i bambini ebrei possano ridere e giocare in mezzo a un deserto chiamato pace.

Molto prima dell’era di Hitler, i sionisti arrivarono da luoghi lontani migliaia di chilometri per spogliare dei loro beni persone che non avevano mai fatto loro nulla di male, e di cui riuscirono a ignorare la stessa esistenza. Le atrocità dei sionisti non facevano parte del piano iniziale. Emersero man mano che il razzismo inconsapevole di un popolo perseguitato sfociava nell’ideologia di superiorità razziale di un popolo persecutore. Questa è la ragione per cui chi guidò le violenze, le mutilazioni e le uccisioni di bambini a Deir Yassin sarebbe poi diventato primo ministro di Israele. Ma questi omicidi non furono abbastanza. Oggi, quando Israele potrebbe avere la pace senza pagare alcun prezzo, continua a condurre un’altra campagna di spoliazione, rendendo lentamente, deliberatamente, la Palestina un luogo invivibile per i palestinesi, e vivibile per gli ebrei. Il suo obiettivo non è la difesa o l’ordine pubblico, ma l’estinzione di un popolo. In verità, Israele ha abbastanza abilità di pubbliche relazioni da farlo con un grado di violenza americano piuttosto che hitleriano. Si tratta di un genocidio più delicato, più gentile, che dipinge i suoi responsabili come vittime.

Israele sta costruendo uno stato razziale, non religioso. Io, come pure i miei genitori, sono sempre stato ateo. Eppure ho diritto, per la mia nascita biologica, alla cittadinanza israeliana; magari voi siete i più fervidi credenti nel Giudaismo, ma questo diritto non lo avete. I palestinesi vengono vessati e uccisi per me, non per voi. Sono spinti verso la Giordania, a morire in una guerra civile. E dunque no, sparare ai civili palestinesi non è la stessa cosa che sparare ai civili vietnamiti o ceceni. I palestinesi non sono un “danno collaterale” in una guerra contro comunisti ben armati o forze separatiste: gli si spara perché Israele pensa che tutti i palestinesi debbano dileguarsi o morire, così che le persone con un nonno ebreo possano tracciarsi le suddivisioni di proprietà sulle macerie delle loro case. Questo non è il tragico errore di una superpotenza arrogante e pasticciona, ma un male emergente, la strategia deliberata di uno stato concepito e impegnato in nome di un nazionalismo etnico sempre più aggressivo. Ha al suo attivo relativamente pochi cadaveri, ma le sue armi nucleari potrebbero uccidere probabilmente venticinque milioni di persone in poche ore. 

Intendiamo dire che è antisemitismo accusare non solo gli israeliani, ma gli ebrei in generale, di complicità in questi crimini contro l’umanità? Di nuovo, forse no, perché ci sono argomenti più che ragionevoli a sostegno di queste affermazioni. Paragoniamole, ad esempio, con l’affermare che i tedeschi in generale furono complici di certi crimini. Questo non ha mai voluto dire che tutti i tedeschi, fino all’ultimo uomo, donna, bambino e ritardato mentale, fossero colpevoli. Vuol dire che la maggior parte dei tedeschi lo fu. La loro colpa non fu, ovviamente, quella di aver spinto prigionieri nudi dentro le camere a gas. Fu quella di aver sostenuto gli individui che pianificarono quegli atti, oppure – come molta letteratura ebraica moralistica, sopra le righe, ci spiega – quella di aver negato l’orrore che si dispiegava attorno a loro, quella di aver rinunciato a parlare e a resistere, quella del consenso passivo. È da notare che, in questo caso, il fatto che ogni forma di resistenza attiva potesse essere estremamente pericolosa non è valido come scusante.

Bene, non c’è praticamente nessun ebreo che oggi possa correre dei rischi per il fatto di parlare chiaro. E il parlare chiaro è l’unica forma di resistenza che si richiede. Se molti ebrei parlassero chiaro, la cosa avrebbe un effetto enorme. Ma la stragrande maggioranza degli ebrei non lo fa; e, nella maggior parte dei casi, non lo fa perché sostiene Israele. A questo punto, la stessa nozione di responsabilità collettiva dovrebbe forse essere abbandonata; forse, qualche persona intelligente cercherà di convincerci che dobbiamo farlo. Ma al momento presente, l’evidenza per la complicità ebraica sembra molto più forte di quella per la responsabilità tedesca. Dunque, se non è razzista, ed è ragionevole, affermare che i tedeschi sono stati complici di crimini contro l’umanità, non è razzista, ed è ragionevole, dire lo stesso degli ebrei. E se anche il concetto di responsabilità collettiva fosse da abbandonare, il dire che la maggior parte delle persone ebree adulte sostiene uno Stato che commette crimini di guerra sarebbe sempre ragionevole, perché è semplicemente la verità. Quindi, se dire queste cose è antisemitismo, può apparire ragionevole essere antisemiti.

In altri termini, c’è da fare una scelta. O si usa la parola antisemitismo adattandola alle proprie intenzioni politiche, o la si usa come termine di condanna morale, ma non si possono fare entrambe le cose. Se si vuole evitare che l’antisemitismo finisca con il diventare qualcosa di ragionevole o di eticamente accettabile, esso deve essere univocamente definito, senza polemica. Saremmo al sicuro, se confinassimo l’idea di antisemitismo all’odio esplicitamente etnico per gli ebrei, a chi attacca qualcuno solo perché è nato ebreo. Ma saremmo inutilmente al sicuro: neppure i nazisti affermavano di odiare la gente solo perché era nata ebrea. Sostenevano di odiare gli ebrei perché essi aspiravano a dominare gli ariani. Chiaramente, una visione simile deve essere considerata comunque antisemita, sia che appartenga ai cinici razzisti che l’hanno concepita, sia agli stupidi che l’hanno mandata giù.

C’è un solo modo per essere sicuri che il termine antisemitismo includa tutti (e soltanto) le azioni o gli atteggiamenti negativi verso gli ebrei. Dobbiamo cominciare da quelli su cui siamo tutti d’accordo che lo siano, e assicurarci che il termine indichi tutti e solo quelli. Probabilmente, tutti noi condividiamo un senso morale comune abbastanza per poterlo fare.

Per esempio, condividiamo abbastanza senso morale per dire che tutti gli atti e le avversioni basate sulla discriminazione etnica sono inaccettabili, e di conseguenza possiamo classificarli senza dubbio come antisemiti. Ma non vuol dire che qualunque forma di ostilità verso gli ebrei, nemmeno nel caso che significhi ostilità verso una maggioranza schiacciante di ebrei, debba essere considerata antisemita. Né dovrebbe esserlo qualunque forma di ostilità verso la religione o la cultura ebraica.

Io, per esempio, sono cresciuto nella cultura ebraica, e come capita a molte persone che sono cresciute in una determinata cultura, essa ha finito con il non piacermi. Ma è insensato classificare il fatto che non mi piaccia come antisemita; e non perché io sono ebreo, ma perché la mia antipatia è innocua. Forse non è innocua in assoluto: potrebbe darsi che, in qualche debolissimo modo indiretto, essa un giorno incoraggi qualcuno degli atti o degli atteggiamenti pericolosi che abbiamo deciso di chiamare antisemiti. Ma allora? Il filosemitismo esagerato, quello che considera tutti gli ebrei come dei santi, brillanti, sensibili e intelligenti, potrebbe avere lo stesso effetto. I pericoli prospettati dalla mia disapprovazione per la cultura ebraica sono molto minori. Anche nei casi in cui è molto diffusa, l’antipatia collettiva per una cultura è normalmente innocua. La cultura francese, per esempio, sembra risultare largamente antipatica tra i nordamericani, ma nessuno, nemmeno i francesi, considera questo una sorta di crimine razzista.

Non è neppure vero che tutte le azioni o gli atteggiamenti che possano recare un danno agli ebrei siano da considerare antisemiti. Molte persone disapprovano la cultura americana; alcuni boicottano i prodotti americani. Sia l’atteggiamento, sia l’azione potrebbero in generale recare un danno agli americani, ma non c’è niente di moralmente condannabile nell’una o nell’altra cosa. Definirli come atti di antiamericanismo significherebbe solo affermare che alcune forme di antiamericanismo sono perfettamente accettabili. Se l’opposizione alla politica di Israele viene chiamata antisemita, in quanto potrebbe portare qualche danno agli ebrei in generale, questo significherà solo dire che alcune forme di antisemitismo sono ugualmente accettabili.

Se si vuole che antisemitismo rimanga un termine negativo, lo si può applicare anche al di là delle azioni, delle idee e dei sentimenti esplicitamente razzisti. Ma non lo si può applicare oltre gli esempi di ostilità grave e chiaramente ingiustificata contro gli ebrei. I nazisti si costruirono fantasie storiche per giustificare i propri attacchi; lo stesso fanno i moderni antisemiti che credono nei Protocolli dei Savi di Sion. Lo stesso fanno i razzisti striscianti, che si lamentano del dominio ebraico sull’economia. Questo è antisemitismo nel senso stretto e negativo della parola. Si tratta di azioni o di propaganda pianificate per fare del male agli ebrei, non per qualcosa che hanno fatto, ma per quello che sono. Lo stesso discorso può applicarsi agli atteggiamenti che questa propaganda punta a inculcare: benché non sia sempre esplicitamente razzista, essa si porta dietro motivazioni razziste, e l’intenzione di fare un danno realeUn’opposizione ragionevolmente fondata alle politiche di Israele, invece, non si adatta a questa descrizione, nemmeno quando offende tutti gli ebrei. Né vi si adatta la semplice e innocua antipatia per qualcosa di ebraico.

Istruttore della “Legione ebraica” composta in gran parte da cittadini degli Stati Uniti

In conclusione, quello che ho suggerito è che sarebbe meglio restringere la definizione di antisemitismo, in modo tale che nessun atto possa essere allo stesso tempo antisemita e accettabile. Ma possiamo andare oltre. Ora che abbiamo giocato abbastanza, poniamoci qualche domanda sul ruolo che ha il vero, deprecabile antisemitismo, nel conflitto israelo-palestinese e nel mondo in generale.

Indubbiamente esiste del genuino antisemitismo nel mondo arabo: la diffusione dei Protocolli dei Savi di Sion, le leggende sugli ebrei che nei loro rituali verserebbero il sangue dei bambini gentili. Questo è oggettivamente ingiustificabile. Ma lo è anche il fatto che si siamo dimenticati di nuovo di rispondere alla lettera della nonna. In altri termini, c’è un punto importante: dobbiamo semplicemente accettare il principio che l’antisemitismo è un male. Non farlo ci porrebbe al di fuori del consesso civile. Ma è una cosa molto diversa dall’avere qualcuno che ci ossessiona pretendendo che l’antisemitismo sia il Male di tutti i Mali. Non siamo bambini che stanno imparando la moralità: è responsabilità nostra  stablire le nostre priorità morali. Non possiamo farlo fondandoci su orribili immagini che risalgono al 1945, o sui lamenti angosciati di giornalisti sofferenti. Dobbiamo chiederci quanto male fa o può fare l’antisemitismo, non nel passato, ma oggi. E dobbiamo chiederci dove questo male può manifestarsi, e perché.

Si ritiene che vi siano gravi pericoli nell’antisemitismo del mondo arabo. Ma l’antisemitismo arabo non è la causa dell’ostilità araba verso Israele, o magari verso gli ebrei. Ne è un effetto. Il progredire dell’antisemitismo arabo va di pari passo con il progredire dell’avanzata territoriale ebraica, e delle atrocità commesse da ebrei. Questo, non per giustificare il genuino antisemitismo, semmai, per banalizzarlo: esso è arrivato nel Medio Oriente con il sionismo, e scomparirà quando il sionismo cesserà di essere una minaccia espansionistica. Di fatto, la sua causa principale non è la propaganda antisemita, ma gli sforzi sistematici, decennali e senza posa che fa Israele per coinvolgere tutti gli ebrei nei propri crimini. Se l’antisemitismo arabo persistesse dopo il raggiungimento di un accordo di pace, potremmo discuterne, e deprecarlo. Ma comunque, non farebbe molto danno reale agli ebrei. I governi arabi avrebbero solo da perdere, permettendo attacchi contro i propri cittadini ebrei: significherebbe un invito per Israele a intervenire. E ci sono ben poche ragioni di aspettarsi che tali attacchi si verifichino: se tutti gli orrori delle recenti campagne israeliane non sono bastati a provocarli, è difficile immaginarsi cosa potrebbe riuscirci. Ci vorrebbe probabilmente qualche azione israeliana così orrenda e criminale da far scomparire gli attacchi stessi.

Se è verosimile che l’antisemitismo possa avere effetti terribili, è di gran lunga più probabile che li abbia nell’Europa occidentale. Là, i risvegli neofascisti sono del tutto reali. Ma sono un pericolo per gli ebrei? Non ci sono dubbi che Le Pen, per fare un esempio, sia antisemita. Ma non esiste alcun indizio che abbia intenzione di fare qualcosa a questo proposito. Al contrario, sta facendo ogni sforzo possibile per pacificarsi gli ebrei, e forse addirittura per assicurarsi il loro aiuto contro il suo vero obiettivo, gli “arabi”. Non sarebbe certo il primo politico ad allearsi con qualcuno che non gli piace. Ma se avesse davvero dei piani accuratamente dissimulati contro gli ebrei, allora sì che sarebbe insolito: Hitler e i russi antisemiti che avrebbero scatenato i pogrom erano straordinariamente  trasparenti sulle loro intenzioni, e non tentarono mai di accattivarsi il sostegno degli ebrei. E che alcuni ebrei francesi vedano Le Pen come uno sviluppo positivo, o addirittura un alleato, è un fatto (si veda, per esempio, Le Pen è un bene per noi, dicono sostenitori ebrei, Ha’aretz, 4 maggio 2002, e il commento di Goldenburg su France TV del 23 aprile). Certo, esistono ragioni storiche per temere un orrendo assalto contro gli ebrei. E tutto è possibile: potrebbe esserci un massacro di ebrei a Parigi domani stesso, oppure di algerini. Quale dei due è pù probabile? Se si imparano lezioni dalla storia, le si dovrebbe applicare a circostanze che si somiglino. L’Europa di oggi assomiglia ben poco all’Europa del 1933. E ci sono anche possibilità positive: per quale motivo la probabilità di un pogrom dovrebbe essere maggiore di quella di vedere l’antisemitismo svanire in una malevolenza inconcludente? Qualunque legittima preoccupazione dovrebbe basarsi sul fatto che c’è effettivamente una minaccia.

L’occorrenza di aggressioni antisemite potrebbe dimostrare questa minaccia. Ma queste prove sono notevolmente confuse: non viene fatta nessuna distinzione tra gli attacchi contro monumenti o simboli ebraici e le effettive aggressioni contro ebrei. Inoltre, si mette l’accento sull’aumentata frequenza degli attacchi, tanto da lasciar sfuggire all’attenzione il fatto che il loro livello sia veramente molto basso. Gli attacchi simbolici, in effetti, sono aumentati in assoluto, in modo significativo. Quelli alle persone no (*). Ancora più importante, la maggior parte di questi attacchi viene da residenti musulmani: in altre parole, da una minoranza largamente odiata, perseguitata, e soggetta a severo controllo poliziesco, che non ha la minima possibilità di intraprendere una seria campagna di violenza contro gli ebrei.

È certo molto spiacevole che una mezza dozzina di ebrei siano finiti in ospedale – nessuno ucciso – a causa di recenti aggressioni in vari luoghi d’Europa. Ma chiunque consideri questo come uno dei problemi più importanti del mondo, semplicemente non ha dato un’occhiata al mondo. Questi attacchi sono di competenza della polizia, non sono una ragione per cui noi tutti dobbiamo farci poliziotti di noi stessi e degli altri, per arginare qualche mortale malattia morale. Questo tipo di reazione è appropriato solo quando gli assalti razzisti avvengono in società ostili o indifferenti alla minoranza aggredita. Coloro che hanno realmente paura di un ritorno del nazismo, per esempio, dovrebbero riservare la loro angosciata preoccupazione alle aggressioni, di gran lunga più sanguinose, e di gran lunga più facilmente perdonate, contro gli zingari, la cui storia di persecuzioni è pienamente paragonabile al passato degli ebrei. La posizione degli ebrei è molto più vicina a quella dei bianchi americani, che sono anch’essi, ovviamente, vittime di aggressioni a sfondo etnico.

Non c’è dubbio che molte persone rifiutino questa sorta di ragionamento numerico a sangue freddo. Replicheranno che, con l’ombra del passato che incombe su di noi, anche una sola ingiuria antisemita è una cosa terribile, e che la bruttura non si può misurare dal numero di cadaveri. Ma se assumiamo un punto di vista più ampio sulla faccenda, l’antisemitismo diventa meno importante, non di più. Considerare qualunque spargimento di sangue ebraico come una calamità planetaria, che va al di là di ogni misura e paragone, è razzismo puro e semplice: significa dare al sangue di una razza un valore maggiore che a quello di tutte le altre. Il fatto che gli ebrei siano stati perseguitati per secoli, e che abbiano sofferto terribilmente mezzo secolo fa, non cancella il fatto che, nell’Europa di oggi, gli ebrei sono cittadini ben integrati, che hanno di gran lunga meno ragioni di soffrire e di temere di quante ne abbiano altri gruppi etnici. Certo, le aggressioni razziste contro una minoranza benestante sono tanto spregevoli quanto gli attacchi razzisti contro una minoranza povera e senza potere. Ma aggressori ugualmente spregevoli non vuol dire attacchi altrettanto preoccupanti.

Non sono gli ebrei, oggi, che vivono con l’incubo del campo di concentramento.  I “campi di transito” proposti da Le Pen sono per gli arabi, non per gli ebrei. E per quanto vi siano partiti politicamente rappresentativi che contengono molti antisemiti, non uno solo di questi partiti mostra alcun segno di articolare, e tanto meno di perseguire, un programma antisemita. Né esiste alcuna ragione di sospettare che, una volta al potere, cambieranno tono. L’Austria di Haider non è considerata pericolosa per gli ebrei; né lo era la Croazia di Tudjman. E sa anche ci fosse un tale pericolo, be’, abbiamo uno stato ebraico con tanto di armi nucleari pronto ad accogliere qualunque rifugiato, come pure farebbero gli Stati Uniti o il Canada. E dire che non ci sono pericoli reali adesso, non significa dire che bisogna ignorare ogni pericolo che potrebbe sorgere in futuro. Se in Francia, per esempio, il Front National cominciasse a invocare campi di transito per gli ebrei, dovremmo preoccuparci. Ma non è il caso di preoccuparci per ogni cosa allarmante che potrebbe appena ipoteticamente accadere: ci sono cose molto più allarmanti che accadono già!

Si potrebbe sempre replicare che, se le cose non sono diventate più allarmanti, è solo perché gli ebrei – e altri – sono sempre stati tanto vigili nel combattere l’antisemitismo. Ma questo non è plausibile. Per prima cosa, la vigilanza contro l’antisemitismo è una specie di visione a senso unico: come i neofascisti stanno ben imparando, possono sempre evitare di farsi notare rimanendosene zitti a proposito degli ebrei. Inoltre, non ci sono stati pericoli gravi per gli ebrei nemmeno in paesi tradizionalmente antisemiti sui quali il mondo non tiene gli occhi aperti, come l’Ucraina o la Croazia. Paesi ai quali si dedica pochissima attenzione non sembrano più pericolosi di quelli che ne hanno molta. Per quanto riguarda le vigorose reazioni contro Le Pen in Francia, esse sembrano avere molto più a che fare con la repulsione francese verso il neofascismo che con le rampogne della Anti-Defamation League. Supporre che le organizzazioni ebraiche e i coscienziosi giornalisti che insistono sul pericolo antisemita stiano salvando il mondo dalla catastrofe è come affermare che siano stati Bertrand Russell e i pacifisti quaccheri a salvarci da una guerra nucleare.

A questo punto, si potrebbe dire: quali che siano i reali pericoli, questi avvenimenti sono comunque atroci per gli ebrei, e si portano dietro insopportabili ricordi dolorosi. Questo può essere vero per quei pochi che ancora hanno questi ricordi, non per gli ebrei in generale. Io sono un ebreo tedesco, e avrei un’ottima opportunità di rivendicare il mio status di vittima di seconda o terza generazione. Invece, gli incidenti antisemiti e un clima di crescente antisemitismo non mi preoccupano così tanto. Ho molta più paura quando mi trovo in situazioni realmente pericolose, per esempio quando guido. E comunque, anche i ricordi dolorosi e gli stati d’ansia non rappresentano molto, paragonati alle reali sofferenze fisiche inflitte dalle discriminazioni a tanti non ebrei.

Tutto questo non vuole sminuire tutto l’antisemitismo, ovunque. Si sente spesso parlare di malevoli antisemiti in Polonia o in Russia, sia per le strade, sia al governo. Ma, per quanto ciò possa essere preoccupante, è anche immune da ogni influenza da parte dei conflitti israelo-palestinesi, ed è molto improbabile che quei conflitti possano influenzarlo in un modo o nell’altro. Per di più, per quanto ne so, in nessun luogo c’è tanta violenza contro gli ebrei quanta ce n’è contro gli “arabi”. Quindi, se anche l’antisemitismo è, da qualche parte, una questione catastroficamente seria, possiamo solo concluderne che il sentimento antiarabo è qualcosa di ancora, molto più serio. E siccome qualunque gruppo antisemita è anche, e in misura molto maggiore, contro l’immigrazione e contro gli arabi, questi gruppi si potrebbero combattere non in nome dell’antisemitismo, ma in difesa degli arabi e degli immigrati.

In breve, il vero scandalo oggi non è l’antisemitismo, ma l’importanza che gli si dà. Israele ha commesso dei crimini di guerra. Ha coinvolto gli ebrei in generale in questi crimini, e in generale gli ebrei si sono affrettati a lasciarvisi coinvolgere. Questo ha provocato astio contro gli ebrei. Perché non avrebbe dovuto? In qualche caso questo astio è razzista, in qualche altro caso no, ma cosa importa? Perché dovremmo dedicarvi tanta attenzione? Il fatto che la guerra etnica di Israele abbia provocato un’aspra rabbia è importante in confronto alla guerra stessa? La remota possibilità che da qualche parte, in qualche momento, in qualche modo, questo odio potrebbe forse, in teoria, uccidere degli ebrei è importante rispetto alla brutale, reale persecuzione fisica dei palestinesi, e rispetto alle centinaia di migliaia di voti a favore di chi vorrebbe internare gli arabi nei campi di transito? Oh, ma… dimenticavo. Come non detto, mi rimangio tutto: qualcuno con la bomboletta spray ha scritto degli slogan antisemiti sul muro di una sinagoga. 

(*) Nemmeno la ADL o il B’nai B’rith includono gli attacchi palestinesi contro Israele nel conto; parlano piuttosto di “Punti di vista insidiosi con cui viene visto il conflitto tra israeliani e palestinesi, usati dagli antisemiti” (http://www.adl.org/presrele/ASInt_13/4084_13.asp) E come molte altre persone, io non considero gli attacchi terroristici di organizzazioni come Al Qaeda come esempi di antisemitismo, ma piuttosto come una fallimentare campagna paramilitare contro gli USA e Israele. Perfino se li si include nel conto, non appare particolarmente pericoloso essere ebreo al di fuori di Israele.


http://www.shalom.it/3.03/H.html

Una riflessione sulle tesi di Moni Ovadia, Clotilde Pontecorvo e Paola Di Cori

Gli ebrei buoni e quelli cattivi

di Claudio Vercelli

C i sono gli ebrei buoni, che piacciono, e ci sono quelli considerati antipatici. I primi, in genere, sono coloro che appartengono alla onorata categoria degli intellettuali, preferibilmente pacifisti, progressisti, non più troppo giovani, spesso di buona estrazione socioeconomica. Sì, perché l’origine sociale non è di certo estranea nella determinazione delle idee che ognuno di noi coltiva rispetto a certi problemi che lo coinvolgono. I buoni piacciono perché parlano un linguaggio universalista, aperto alla comprensione e disposto al dialogo. Sono considerati gli interlocutori ideali per qualsivoglia intendimento di pace. Gli altri sono invece tra quanti risultano essere assai meno graditi, in virtù di una sorta di materialismo dei sentimenti che viene loro contestato e che li caratterizzerebbe perché “poveri di spirito”.

Oggi accade un fenomeno apparentemente curioso, ovvero che i benestanti dicano o credano d’identificarsi con la causa dell’innovazione e del cambiamento, mentre coloro che appartengono agli strati meno abbienti sembrino aver abbracciato le ragioni della conservazione. A ben guardare, nei fatti non è propriamente così, ma viviamo in una situazione dove le rappresentazioni contano molto più della realtà. Ai secondi (la plebe dei “bottegai” e della “piazza”, tanto per intendersi) spesso e volentieri i primi, i colti, contestano la loro stessa presunta essenza, che rivolge lo sguardo solo verso di sé, ai propri interessi materiali. In poche parole, confutano di non essere in grado di andare un centimetro al di là di quella quotidianità di fatti e cose che connotano la vita di tutti noi. Nel caso degli ebrei, poi, c’è chi contesta loro di essere a volte rigidamente ancorati ad uno schematismo culturale e ideologico, anacronistico e settario. Solamente uno spirito intellettuale libero e meticcio saprebbe, a detta di alcuni, rimediare a tale cristallizzazione.

Recentemente, in un articolo denso e accorato pubblicato sull’organo dell’antisionismo militante Il Manifesto, Clotilde Pontecorvo e Paola Di Cori contestavano a una parte consistente della Comunità di Roma l’assunzione di “posizioni di autodifesa aggressiva e miope”. Nel passato, ma ancor di più nel presente. Le parole usate dalle due autrici, ancorché improntate a grande cautela, sembrano ribadire luoghi comuni nei quali fatichiamo a riconoscerci. La pietra dello scandalo, ancora una volta, è Israele, assurto suo malgrado a cartina di tornasole di ogni problema, caricato di responsabilità che non ha, o che per altri paesi tali non sono, a partire dal fatto stesso di esistere. Lo spirito critico nei confronti del suo operato sarebbe coltivato, a caro prezzo, dall’intelligenza ebraica. Gli altri (i più, sembra di capire), rimarrebbero vincolati a cliché più o meno di comodo. La spaccatura tra una élite raffinata e colta ed una corposa parte della comunità, giudicata come frequentemente attardata su posizioni retrograde o comunque chiuse in sé, sarebbe così un dato costitutivo dello stesso modo di vivere due diverse identità ebraiche.

A questo punto si impone un supplemento di riflessione, che senza esacerbare gli animi ci permetta di trovare, nelle pur legittime differenze, temi e terreni di intesa. Ma anche, se necessario, di distinzione.

Al giorno d’oggi esiste tutta una vulgata di pensiero che enfatizza un certo modo di vedere le cose, apprezzando molto una determinata idea di ebraismo ma rivelando di gradire assai meno i semiti in carne ed ossa. Sussistono soprattutto molti equivoci, troppi, riguardo ai tanti aspetti del rapporto con le realizzazioni concrete di questi ultimi (a partire dal sionismo politico e da Israele) che risultano poco digeribili a parecchi. Insomma, piacciono le fantasie sugli ebrei, non la loro concreta presenza. La diffusione di un certo tipo di cultura semitica, di facile fruizione poiché completamente decontestualizzata, ha raccolto molti assensi: dai libri dei grandi narratori israeliani a tutta la ripresa della cultura yiddish, molte sono le occasioni per apprezzare le creazioni del “genio ebraico” novecentesco. Moni Ovadia, ad esempio, ne ha fatto il suo cavallo di battaglia, raccogliendo assensi di critica e pubblico. E’ bene, tuttavia, che stia attento a non esserne disarcionato, poiché le trappole che sono tese dalle circostanze sono tante, sopravanzano la malizia di colui che vorrebbe dominarle in virtù della sua intelligenza, e le note gaie potrebbero anche trasformarsi nella pantomima del giullare di corte, come appare dalla sua ultima intervista a l’Espresso.

Noi siamo consapevoli di un fatto, ovvero che oggi, per una collettività sempre più dipendente e condizionata dai mezzi di comunicazione di massa, una cosa non conta per come è bensì per come viene rappresentata e fruita. Sappiamo, in altre parole, che si possono apprezzare le opere disprezzando talvolta la concretezza dei loro autori e il contesto nel quale vengono pensate e costruite. In altri termini, si può leggere con diletto Yehoshua pensando poi che gli israeliani siano carnefici. Nelle università italiane è spesso così.

Buona parte della vicenda del conflitto israelo-palestinese sta dentro l’angosciante ridondanza e la devastante ripetitività di giudizio che i massmedia e l’opinione pubblica hanno fatto propri nel corso del tempo, consolidando una pessima immagine dello Stato ebraico e concorrendo a diffonderla sulla scorta di antichi pregiudizi: come se la sua essenza stesse tutta dentro la cattiva interpretazione che si dà del suo operato e della sua stessa esistenza. La spasmodica concentrazione sulle “colpe” d’Israele fa sì che esso sia divenuto colpevole a priori, e che possa essere giudicato anche solo in nome di responsabilità presunte, che sono tematizzate dagli intellettuali di cui sopra come un tradimento dell’immagine di “bontà” e una infrazione al destino di vittima che agli ebrei è costantemente ascritto. Nelle critiche rivolte a questi ultimi, al loro essere oramai irriducibili a tale subalternità, c’è come l’eco di un tradimento. Gli ebrei non stanno al loro posto, insomma.

Sappiamo che due sono i contenitori di pensiero, prima ancora che i contenuti, ad essere in crisi: l’antifascismo, almeno quello nella sua versione accademica, perbenista, museale e incartapecorita di una generazione stanca e perdente; ma anche la sinistra stessa, parola con la quale si definisce oramai una diaspora di soggetti e di pensieri privi di un centro di gravità. Non a caso di entrambi Asor Rosa, apocalittico cantore della contemporaneità, ne è sintesi, nella immensa contraddittorietà che il suo libro “La pace” concentra ed esprime. Il problema, allora, non è di giocare alla parte dell’ebreo seducente, ma di ragionare sulla priorità di una identità in trasformazione della quale, ancora una volta, le diverse generazioni, ma soprattutto le più giovani, dovrebbero essere parte attiva. Poiché ai linguaggi vecchi e corrosi dal tempo corrispondono sempre soggetti anziani, almeno nello spirito. E i cliché richiamano finzioni, non persone.

Oggi la nuova frontiera dell’ebraismo peninsulare sta nel sapersi dare questa mèta. Ben venga il richiamo al pensiero critico, ma che esso non sia giocato contro quanti ragionano fuori dalla “società che conta”, dai salotti buoni, cercando magari nel confronto con i propri pari le ragioni di una comune esistenza. La grandezza e la persistenza dell’ebraismo sta anche nella semplicità di gesti, parole e fatti. Quelli che ognuno di noi pone in essere quotidianamente, senza essere incapsulato dentro categorie tanto onnicomprensive quanto lontane dal vissuto.


L’articolo che segue è la prova lampante della sindrome di accerchiamento, della mala fede e dei luoghi comuni oltre che delle falsificazioni di una sionista militante.

Insomma tutto il mondo ce l’ ha con Israele! Caspita! E tutto il mondo è di sinistra? Caspita!

E quelli che hanno fatto la scritta contro Mieli sono di sinistra? Caz …!

E i professori universitari di Venezia e Bologna sono di sinistra? Arcicaz …!

E il sorvolare su quello Stato che nasce dal terrorismo? Invenzioni della sinistra!

E l’affermare che Israele nel 1967 fu attaccata? Verità storica!

Fiamma io sono contro di lei perché è persona che fomenta odio. Perché falsifica. Perché è cieca. E se questo vuol dire che sono antisemita, lo sono, come quell’ebreo recentemente scomparso, quello che viene dal campo di sterminio di Belsen , quello che è vissuto quarant’anni in Israele ed ha insegnato Chimica all’Università di Tel Aviv, come quell’Israel Shahak che dice esattamente ciò che lei imputa alla sinistra.

Continui ad andare a braccetto con fascisti più o meno pentiti. Vedrà, vedrà alla prossima fermata chi le sarà vicino e chi le correrà dietro con un’ascia!

R.R.

A pagina 69 di Liberal del 2003-10-27, Fiamma Nirenstein firma un articolo dal titolo 

«Il nuovo antisemitismo»

Riportiamo il testo integrale dell’articolo di Fiamma Nirenstein sul nuovo antisemitismo pubblicato sull’ultimo numero di Liberal.

Nel 1967 ero una giovane comunista, come la maggior parte dei ragazzi italiani. Stufa del mio comportamento ribelle, la mia famiglia mi mandò in un kibbutz dell’alta Galilea, Neot Mordechai. Laggiù mi sentivo piuttosto contenta: il kibbutz dava ogni mese una certa somma di denaro per sostenere la lotta dei vietcong. Quando scoppiò la guerra dei Sei Giorni, Moshe Dayan parlò alla radio per darne l’annuncio. Chiesi ai miei compagni di Neot Mordechai che cosa volessero dire le sue parole. Mi risposero: Shtuiot, sciocchezze. Durante la guerra accompagnavo i bambini nei rifugi, scavavo trincee e mi addestravo in alcune semplici operazioni di autodifesa. Continuavamo a lavorare nell’orto, ma eravamo svelti a identificare i Mig e i Mirage che si inseguivano nel cielo sopra le alture del Golan. Quando tornai in Italia, i miei compagni di scuola non mi accolsero bene: alcuni mi guardarono come se non fossi più la stessa di prima, ma un nemico, una persona malvagia che presto sarebbe diventata un’imperialista. La mia vita stava per cambiare: allora non lo sapevo ancora, perché pensavo semplicemente che Israele avesse giustamente vinto una guerra dopo essere stato assalito e aver subito un numero incredibile di provocazioni e maltrattamenti. Ma presto mi accorsi che avevo perso l’innocenza dell’ebreo buono, di quell’ebreo speciale fatto secondo i loro desideri. Ora, in quanto ebrea, ero messa insieme con gli ebrei dello Stato di Israele e lentamente, ma inesorabilmente, venivo esclusa da tutta quella nobile schiera di personaggi come Bob Dylan, Woody Allen, Isaac Bashevis Singer, Philip Roth e Sigmund Freud, che santificava il mio giudaismo agli occhi della sinistra. Ho cercato per molto tempo di riconquistare quella santificazione, e la sinistra ha cercato di ridarmela, perché gli ebrei e la sinistra hanno disperatamente bisogno gli uni dell’altra. Ma ora, dopo che l’odierno antisemitismo ha calpestato qualsiasi buona intenzione, le cose si sono fatte chiare. In tutti questi anni, anche persone che, come me, hanno firmato petizioni per il ritiro dell’esercito israeliano dal Libano, sono diventate dei «fascisti inconsapevoli», come mi ha scritto un lettore in una lettera piena di insulti. In un libro sono stata definita semplicemente «una donna appassionata che si è innamorata di Israele, confondendo Gerusalemme con Firenze». Un palestinese mi ha detto che, se io vedo le cose in modo così diverso dalla maggior parte della gente, significa che il mio cervello non funziona bene. Sono stata anche definita una persona crudele e insensibile, che nega i diritti umani e alla quale non importa nulla della vita dei bambini palestinesi. La ragione di questi e di molti altri insulti e critiche mi è stata spiegata da uno scrittore israeliano molto famoso. Un paio di mesi fa, mentre stavamo parlando al telefono, mi ha detto: «Sei davvero diventata una persona di destra». Cosa? Di destra? Io? Una vecchia femminista, attivista dei diritti umani, addirittura comunista in gioventù? Soltanto perché ho raccontato il conflitto arabo-israeliano nel modo più accurato che potevo e perché talvolta mi sono identificata con un Paese continuamente attaccato dal terrorismo? È un fatto davvero interessante. Perché nel mondo contemporaneo, il mondo dei diritti umani, se una persona viene definita di destra, è stato compiuto il primo passo verso la sua delegittimazione.
Ogni ebreo nato dopo l’Olocausto impara subito un messaggio molto chiaro: il male, per gli ebrei, è quasi sempre giunto dalla destra, in particolare dalla Chiesa, almeno per una buona parte della sua storia, e, naturalmente, dal nazismo e dal fascismo. L’Olocausto ha fatto ricadere il male sulla destra. E poiché gli ebrei sono il simbolo vivente di quanto possa essere malvagia la destra, legittimano la sinistra con la loro stessa semplice esistenza. Allo stesso tempo, la sinistra ha concesso la propria benedizione agli ebrei quali vittime par excellence, alleati sempre fedeli nella lotta per i diritti dei deboli contro i più forti. Quale ricompensa per il sostegno offertogli, come la possibilità di pubblicare libri e girare film, nonché per la reputazione di artisti, intellettuali e giudici morali che gli veniva riconosciuta, gli ebrei, persino durante le persecuzioni antisemite dell’Unione Sovietica, hanno dato alla sinistra il proprio appoggio morale, invitandola a unirsi a loro nel pianto di fronte ai monumenti dell’Olocausto. Oggi il gioco è inequivocabilmente finito. La sinistra si è dimostrata la vera culla dell’attuale antisemitismo. Quando parlo di antisemitismo, non mi riferisco alle legittime critiche rivolte contro lo Stato di Israele, bensì all’antisemitismo puro e semplice, talvolta accompagnato anche da critiche: criminalizzazione, stereotipi e menzogne specifiche o generiche, che da menzogne sugli ebrei (cospiratori, assetati di sangue, dominatori del mondo) hanno ampliato il loro raggio e sono diventate menzogne su Israele (Stato cospiratore e sfrenatamente violento), in modo addirittura brutale soprattutto a partire dalla seconda Intifada, nel settembre del 2000, e assumendo una ferocia sempre maggiore dall’inizio dell’operazione Chomat Magen, «Muro difensivo», quando l’esercito israeliano è rientrato nelle città palestinesi per rispondere agli attacchi terroristici. L’idea fondamentale dell’antisemitismo, oggi come sempre, è che gli ebrei abbiano un animo perverso che li rende diversi e inadatti, in quanto popolo moralmente inferiore, a diventare membri regolari della famiglia umana. Ora questa ideologia dell’Untermensch si è estesa a Israele in quanto Stato ebraico: un’entità straniera, separata, diversa, fondamentalmente malvagia, la cui esistenza nazionale viene lentamente ma inesorabilmente svuotata di significato e privata di giustificazione. Israele, proprio come il classico ebreo cattivo, non ha, secondo l’antisemitismo contemporaneo, diritto di nascita, ma è macchiato da un «peccato originale» commesso contro i palestinesi. La sua eroica storia è stata rovesciata e trasformata in una storia di arroganza. Oggi si parla molto più di Deir Yassin che della fondazione e della difesa del kibbutz Degania; molto più delle sofferenze dei profughi palestinesi che della sorpresa di vedere, nel 1948, cinque eserciti negare il diritto di esistenza appena decretato dalle Nazioni Unite; molto più del Lechi e dell’Irgun, le organizzazioni clandestine della resistenza ebraica, che dell’eroica battaglia combattuta sulla via di Gerusalemme. La caricatura dell’ebreo malvagio si è trasformata nella caricatura dello Stato malvagio. E ora il tradizionale ebreo col naso aquilino imbraccia un’arma e si diverte a uccidere i bambini arabi.
Sulle prime pagine dei giornali europei abbiamo visto vignette che, ripetendo i classici stereotipi antisemiti, mostrano Sharon mentre divora bambini palestinesi e i soldati israeliani impegnati a minacciare culle di piccoli Gesù. Tutto questo nuovo antisemitismo, che si è materializzato sotto forma di una violenza fisica senza precedenti contro persone e simboli ebraici, nasce nel seno di organizzazioni che si dedicano ufficialmente alla salvaguardia dei diritti umani, e ha raggiunto il proprio apice nel summit delle Nazioni Unite tenuto recentemente a Durban, quando l’antisemitismo è ufficialmente diventato lo stendardo della nuova religione secolare del nostro tempo, la religione dei diritti umani, facendo così di Israele e degli ebrei il suo nemico dichiarato. Ma gli ebrei e in generale la comunità internazionale sono stati presi del tutto di sorpresa e non hanno denunciato la nuova ondata di antisemitismo. Nessuno si scandalizza se Israele viene ogni giorno accusato, senza alcun motivo, di eccessiva violenza, di atrocità e di crudeltà. Ognuno è tormentato e turbato per la necessità di sferrare dolorosi attacchi contro i covi dei terroristi, spesso nascosti in mezzo a famiglie e bambini. Tuttavia, ogni Paese ha il diritto di difendersi. Nel corso della storia, soltanto agli ebrei è stato negato questo diritto, e così avviene ancora oggi. Perché la guerra al terrorismo è spesso considerata un problema fondamentale che il mondo deve ancora risolvere (si pensi soltanto agli Usa, e alla loro guerra contro l’Afghanistan e l’Iraq), mentre Israele viene trattato come un imputato considerato già colpevole proprio per il fatto che lo combatte? Non è forse un segno di antisemitismo mostrare apertamente di essere convinti che gli ebrei debbano morire in silenzio? Perché Israele è ufficialmente accusato di violare i diritti umani da una speciale commissione di Ginevra, mentre Cina, Libia e Sudan non sono mai stati fatti oggetto di alcuna accusa? Perché a Israele è stato negato un posto fisso in un gruppo regionale delle Nazioni Unite, mentre la Siria siede nel Consiglio di Sicurezza senza che nessuno alzi nemmeno un dito in segno di protesta? Perché tutti possono partecipare a una guerra contro l’Iraq, ma a Israele è invece proibito di farlo, anche se è sempre stata direttamente minacciata di totale distruzione da parte di Saddam Hussein? Perché, quando Stati sovrani e organizzazioni di vario genere rivolgono minacce di morte a Israele, nessuno solleva la questione all’Onu? Avete mai visto l’Italia minacciata dalla Francia o dalla Spagna nello stesso modo in cui gli iraniani minacciano Israele, come quando i loro leader proclamano che distruggeranno Israele con una sola bomba atomica? E chi apre mai bocca sul fatto che una gran parte dei giornali, delle televisioni, delle radio e dei libri scolastici di tutto il mondo invitano a cacciare gli ebrei fuori da Israele e a ucciderli in qualsiasi parte del mondo con attentati terroristici? Nessuno nella comunità internazionale sembra considerarlo un problema. Israele è un unterstate, uno Stato di seconda categoria, al quale è negato il diritto fondamentale a un’esistenza onorevole e pacifica, riconosciuto a tutti gli altri Stati. Lo Stato ebraico non è uno Stato come tutti gli altri.
Questo nuovo antisemitismo ha un volto che, come quello di Medusa, pietrifica chiunque lo osservi. La gente non vuole ammetterlo e neppure nominarlo perché in questo modo si svela sia l’identità dei suoi sostenitori sia il suo vero obiettivo. Persino gli stessi ebrei non vogliono chiamare un antisemita con il suo vero nome, temendo di frantumare vecchie alleanze. Perché la sinistra ha una propria idea molto precisa su cosa debba essere un ebreo, e se questi non segue le sue direttive, viene immediatamente rimproverato: come osi essere un ebreo diverso da come ti ho ordinato? Combattere il terrorismo? Eleggere Sharon? Ma sei pazzo? E qui la risposta degli ebrei e degli israeliani è sempre la stessa: siamo ancora molto timidi, molto desiderosi del vostro affetto. Perciò, invece di pretendere che Israele sia riconosciuta una nazione come tutte le altre e che gli ebrei diventino cittadini di pari gradi in tutto il mondo, preferiamo stare al vostro fianco, persino quando tirate fuori centinaia e centinaia di affermazioni antisemite. Preferiamo restare vicini a voi davanti a un monumento eretto in memoria dell’Olocausto, ascoltandovi deprecare il vecchio antisemitismo, mentre allo stesso tempo accusate Israele, e perciò gli ebrei, di essere dei killer razzisti. Facciamo un esempio che è diventato famoso in tutto il mondo e che risale a quando Paolo Mieli è stato nominato – seppur brevemente – presidente della Rai. Un incarico di grande importanza, perché la Rai è un impero che influenza profondamente l’opinione pubblica italiana e controlla miliardi di dollari. Mieli è un cognome ebraico e la stessa notte della sua nomina, la sede della Rai è stata imbrattata di graffiti. Sopra l’insegna «Rai» è stata scritta la parola raus, e attorno alla lettera «a» di Rai è stata disegnata una stella di David, trasformando il signifcato dell’acronimo «Rai» da «Radio televisione italiana» in «Radio televisione israeliana». Si tratta di un esempio perfetto di ciò di cui stiamo parlando: raus e la stella di David sono i simboli classici del tradizionale disprezzo e odio antisemitico, mentre la versione «Radio televisione israeliana», mettendo Israele al centro del quadro, è una chiara dimostrazione di come Israele sia il punto focale dell’odio antisemita di sinistra. Sorprendentemente, o forse prevedibilmente, una così sfacciata manifestazione di antisemitismo ha suscitato pochissime reazioni sia da parte delle autorità italiane sia da parte della comunità ebraica italiana.
Ecco un altro episodio significativo: un gruppo di professori della prestigiosa università di Ca’ Foscari a Venezia ha firmato una petizione per boicottare i professori e i ricercatori israeliani. Il testo di questa petizione è del tutto irrilevante, ma le reazioni che ha suscitato nella comunità ebraica sono molto interessanti. Un suo autorevole membro, quando gli è stata chiesta la sua opinione, ha detto: «Stanno facendo un grosso errore. Questi professori non si accorgono che, con il loro boicottaggio, stanno dando una mano alla politica di Sharon». Una reazione così assurda è la prova tangibile dell’incapacità, all’interno del mondo ebraico, di comprendere questo genere totalmente nuovo di antisemitismo, che ha come suo obiettivo principale lo Stato di Israele. Un altro esempio ancora è offerto da una lettera di un gruppo di professori dell’università di Bologna, indirizzata ai «loro amici ebrei» e pubblicata con un altissimo numero di firme a sottoscrizione. Eccone un passaggio: «Abbiamo sempre considerato il popolo ebraico come un popolo intelligente, sensibile, forte, forse, più di tanti altri perché selezionato nella sofferenza e nelle persecuzioni, nelle umiliazioni subite per secoli, nei pogrom e, per ultimo, nei campi di sterminio nazisti. Abbiamo avuto compagni di scuola e amici ebrei, colleghi di lavoro da noi stimati, e anche allievi israeliani a cui abbiamo trasmesso i nostri insegnamenti portandoli alla laurea, e che oggi esercitano la loro professione in Israele. Siamo spinti a scrivervi perché sentiamo purtroppo che la nostra stima e il nostro affetto per voi, per il popolo ebraico, si sta trasformando in dolorosa rabbia … tante altre persone, dentro e fuori la nostra università, che hanno stima per il vostro popolo oggi provano i nostri stessi sentimenti. È necessario che vi rendiate conto che oggi state facendo ai palestinesi quello che a voi è stato fatto nei secoli passati … possibile che non vi accorgiate che state fomentando contro voi stessi un odio immenso?». Questa lettera è un perfetto riassunto di tutte le caratteristiche del nuovo antisemitismo. C’è la definizione pre-sionista del popolo ebraico come di un popolo che soffre, anzi che deve soffrire per sua stessa natura; un popolo destinato a sopportare le più terribili persecuzioni senza nemmeno alzare un dito e che, perciò, è degno di compassione e solidarietà. È ovvio che uno Stato di Israele solido, democratico, militarmente forte ed economicamente prospero è l’antitesi di questo stereotipo. Il «nuovo ebreo», che cerca di non soffrire e che, soprattutto, può e vuole difendersi, perde immediatamente tutto il suo fascino agli occhi della sinistra.
Ma fino a quando la mappa del Medio Oriente non è stata colorata di rosso dalla guerra fredda e Israele non è stato dichiarato la longa manus dell’imperialismo americano, la situazione era diversa. Il nuovo Stato di Israele, fino alla guerra del 1967, era costruito sulla base di un’ideologia che permetteva o addirittura obbligava la sinistra a essere orgogliosa degli ebrei e gli ebrei a esserlo della sinistra, anche quando gli israeliani stavano combattendo e vincendo aspre guerre. Gli ebrei che erano sopravvissuti alla persecuzione nazifascista, la persecuzione della destra, avevano fondato uno Stato socialista ispirato ai valori della sinistra, il lavoro e il collettivismo, e in questo modo avevano nuovamente santificato la sinistra come il rifugio di tutte le vittime. In cambio, agli ebrei fu garantita la legittimazione. Ma, di fatto, gli ebrei erano straordinariamente importanti per la sinistra. Il popolo israeliano era un’accusa vivente contro l’antisemitismo che aveva scatenato la Shoah, l’antisemitismo nazi-fascista; e ora stava addirittura costruendo fattorie collettive e dando vita a un sindacato onnipotente! Questo, per certi aspetti, fece assolvere l’antisemitismo stalinista, o perlomeno gli diede un’importanza minore di quella che ebbe realmente. Gli ebrei divennero indispensabili alla sinistra: osservate il tono paternalistico e pieno di compassione dei professori bolognesi: «Perfavore, cari amici ebrei, tornate indietro. Mettetevi di nuovo insieme a noi. Malediciamo insieme Israele e celebriamo lo Shoah Day». Ma la contraddizione è diventata persino ontologicamente insopportabile: infatti, come si può piangere insieme ai sopravvissuti per l’uccisione degli ebrei da parte dei nazisti, quando gli ebrei di oggi sono accusati di essere loro stessi dei nazisti? In un programma radiofonico trasmesso in Europa, qualcuno ha detto che, dopo la diffusione delle immagini di Muhammed al-Dura, l’Europa ha potuto finalmente dimenticare la famosa fotografia del ragazzino con le mani in alto nel ghetto di Varsavia. Il significato di quest’affermazione, spesso ripetuta in altre forme, è la cancellazione della memoria dell’Olocausto per mezzo di un’identificazione tra Israele e il nazismo, vale a dire con il razzismo, il genocidio, la crudele eliminazione dei civili, delle donne e dei bambini, con un’esplosione assolutamente ingiustificata di violenza e degli istinti più bassi e brutali. Significa pretendere di credere ciecamente, senza fare alcuna indagine, alla versione palestinese di un episodio molto controverso, così come di molti altri fatti. Significa dare per scontate le «atrocità» di cui parlano sempre i portavoce palestinesi, e ignorare qualsiasi prova concreta che non avvalla la loro versione dei fatti. Certo, la gente può, e lo ha sempre fatto, prendere come oro colato i pregiudizi sugli ebrei: ognuno è libero di pensare ciò che vuole. Ma noi ebrei dobbiamo semplicemente riservarci il diritto morale di considerare responsabile delle sue parole chi la pensa in quel modo; ai nostri occhi, questa persona sarà un autentico antisemita. Perciò gli dovremo dire: se tu menti o ricorri a pregiudizi e stereotipi parlando di Israele sei un antisemita e noi ti combatteremo. Non dobbiamo farci intimidire dai professori che, nella loro lettera, ci dicono: «Vi abbiamo aiutato, voi poveri ebrei, privi di tutto, un popolo senza nazione, a rimanere in vita durante la Diaspora e la fondazione di Israele. Senza di noi non siete nulla. Perciò state attenti: se persistete nel vostro tradimento vi annienteremo. Se non sapete qual è il vostro posto non esistete; e il vostro posto non è da nessuna parte». Sostengono che la loro sia una legittima critica alla Stato di Israele; ma la verità è che buona parte di queste critiche sono soltanto delle menzogne, come quando Suha Arafat ha affermato che gli israeliani avevano avvelenato le acque palestinesi, o quando lo stesso Yasser Arafat ha detto che Israele impiegava uranio impoverito contro il popolo palestinese, e che le donne-soldato israeliane si mostravano nude davanti ai guerriglieri palestinesi per confonderli. Lo stesso vale quando si dice che l’esercito israeliano spara deliberatamente contro i bambini o i giornalisti.
Come giornalista, non posso passare sotto silenzio il grande aiuto dato dai mass media a questo nuovo antisemitismo. Fin dall’inizio dell’Intifada noi, giornalisti combattenti per la libertà cresciuti nei campi di Che Guevara e dei fedayin, abbiamo dato del conflitto israelo-palestinese un resoconto che è senza dubbio il più sbilanciato e prevenuto che si sia mai visto in tutta la storia del giornalismo. Ecco i principali fattori che rendono distorta l’informazione sull’Intifada:
1) Mancanza di profondità storica nell’attribuzione delle responsabilità del suo scoppio: in altre parole, l’incapacità di raccontare in modo adeguato la storia dell’offerta israeliana per uno Stato palestinese e del rifiuto di Arafat che, in sostanza, non è altro che il rifiuto di accettare l’esistenza di Israele come Stato ebraico, e si inserisce nella scia di ormai quasi settant’anni di rifiuti arabi alla ripartizione del territorio di Israele tra arabi ed ebrei, come consigliato dagli inglesi nel 1936, deciso dalle Nazioni Unite nel 1947 e sempre accettato dai rappresentanti ebrei.
2) Incapacità, fin dai primi scontri ai check point, di stabilire la responsabilità delle prime morti in conseguenza del fatto che, a differenza della prima Intifada, nella seconda l’esercito israeliano ha dovuto affrontare combattenti armati nascosti in mezzo a una folla disarmata.
3) Incapacità di riconoscere l’enorme influenza delle pressioni culturali esercitate sui palestinesi, a partire dal sistematico indottrinamento condotto dalle scuole e dai mass media palestinesi, con lo scopo di denigrare gli ebrei e gli israeliani e di idealizzare i più brutali atti terroristici.
4) La piatta descrizione della morte dei bambini palestinesi senza soffermarsi in alcun modo sulle circostanze in cui è avvenuta. L’equiparazione tra le vittime civili israeliane e palestinesi, come se il terrorismo e la guerra che lo combatte fossero la stessa cosa, e come se le uccisioni mirate equivalessero a una deplorevole e triste conseguenza di un nuovo e difficile genere di lotta.
5) L’uso delle fonti palestinesi per verificare la realtà dei fatti, come se le fonti palestinesi fossero le più affidabili. Sto pensando a Jenin, ai resoconti non confermati di episodi che sono passati sulla carta stampata o alla televisione come verità assoluta. Al contrario, le fonti israeliane, che sono molto spesso affidabili per la presenza nel Paese di un giornalismo aggressivo, libero e aperto, nonché per l’altrettanto determinata battaglia contro le politiche del governo cambattuta dai partiti d’opposizione, dagli obiettori di coscienza, dai commentatori televisivi e dai giornalisti, sono considerate servili, piene di pregiudizi e non degne di attenzione.
6) La manipolazione dell’ordine in cui vengono date le notizie e la manipolazione delle stesse notizie. I titoli forniscono il numero dei palestinesi uccisi o feriti e la maggior parte degli articoli, almeno in Europa, prima di raccontare gli scontri a fuoco e le loro cause, si dilungano sull’età e la storia famigliare dei terroristi. Motivazioni e scopi delle azioni condotte dall’esercito israeliano, come quella di catturare i terroristi, distruggere le fabbriche d’armi, i nascondigli e le basi d’attacco contro Israele, sono raramente menzionati. Al contrario, le operazioni israeliane sono spesso presentate come del tutto superflue, strane, crudeli e inutili.
7) La manipolazione del linguaggio, sfruttando il vantaggio della grande confusione che regna circa la definizione dei concetti di «terrorismo» e «terrorista». Anche questa è una vecchia questione, legata alla nozione di combattente per la libertà, così cara alla mia generazione. Tempo fa, stavo facendo alcune interviste presso un check point. Mi è stato presto chiaro che l’uso della parola «terrorista» suonava nelle orecchie di tutti i miei interlocutori palestinesi come un peccato politico e semantico di capitale gravità. La stampa lo sa benissimo: l’occupazione è la causa di tutto, il terrorismo è chiamato resistenza e, in se stesso, non esiste affatto. I terroristi che uccidono donne e bambini sono chiamati militanti o combattenti. Un atto di terrorismo è spesso definito uno «scontro a fuoco», anche quando si tratta soltanto di bambini e vecchie signore freddate a colpi di mitra dentro la loro macchina su un’autostrada. È pure interessante notare che un giovane shahid è motivo di profondo orgoglio per la lotta palestinese, ma se domandate come si fa a mandare a morire un bambino di dodici anni o per quale motivo questi ragazzini vengono indottrinati a compiere simili atti, la risposta è: «Ma andiamo, un bambino non può essere un terrorista. Come può un ragazzino di dodici anni essere un terrorista?». Questo è probabilmente il punto fondamentale: dato che è in atto un dibattito infuocato sulla definizione di terrorismo, si accetta comunemente che il terrorismo sia un modo di combattere. Questo è un regalo semantico e anche materiale del nuovo antisemitismo, secondo il quale è naturale che un ebreo sia morto. Detto più precisamente, la scelta intenzionale di obiettivi civili allo scopo di innescare la paura e distruggere il morale del nemico non viene considerato un peccato morale nei confronti di Israele. Non scatena l’indignazione del mondo, e anche quando lo fa, nasconde tra le sue pieghe un certa simpatia per gli aggressori terroristi. Ciò che la stampa europea non riesce a capire, o non vuole, è che il terrorismo è un mezzo di combattimento da condannare e da proibire, indipendentemente dagli specifici obiettivi politici che cerca di realizzare.
8) Infine, i media hanno diffuso il davvero stravagante concetto che i coloni, donne e bambini compresi, non siano dei veri e propri esseri umani. Sono presentati come delle pedine in un gioco pericoloso, al quale hanno volontariamente scelto di partecipare. La loro morte è un fatto praticamente naturale e del tutto logico. In un certo senso, se la sono voluta. Al contrario, quando viene ucciso un comandante di Hamas, sebbene pure lui, ovviamente, «se la sia voluta», si apre un dibattito morale e filosofico per condannare la perfidia con cui si eseguono sommarie condanne a morte. Sarebbe un dibattito certamente legittimo, se non fosse per uno scandaloso uso dei due pesi e delle due misure da parte della stampa mondiale.
9) Infine, non bisogna dimenticare che non si parla quasi mai della censura e della corruzione che regna all’interno dell’Autorità palestinese, così come dell’eliminazione fisica dei suoi nemici politici.

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Tutto ciò di cui abbiamo parlato finora ci porta direttamente verso una precisa destinazione: Durban. Qui, i movimenti dei diritti umani, gli stessi che sono poi scesi nelle strade per manifestare contro la guerra in Iraq, hanno scelto Israele come nemico e obiettivo principale. Questa scelta rappresenta un grande successo per la propaganda palestinese, ma anche un grave segnale di debolezza da parte di questi stessi movimenti. L’immagine che risulta è quella di una sinistra ideologicamente e politicamente all’angolo, che ha scelto di adottare come universale una battaglia molto controversa e specifica, pesantemente contrassegnata dal terrorismo. Una sinistra che invece di affrontare il sistema di globalizzazione capitalistico, prende come suo principale obiettivo lo Stato di Israele. In parole povere, la sinistra ha deciso di far pagare a Israele ciò che a suo giudizio dovrebbe pagare l’America. Non è una cosa da veri codardi? Inoltre, ci vorrebbe un intero libro per raccontare con precisione la questione di come le Nazioni Unite, con la loro scandalosa politica, hanno contribuito a questo sviluppo, e di come l’Europa lo ha alimentato a causa del suo antico senso di colpa nei confronti di Israele e del suo odio per gli Stati Uniti. Denunciare questo nuovo antisemitismo dei diritti umani è un compito psicologicamente difficilissimo per Israele e per gli ebrei della Diaspora. E lo è tanto di più perché quello tra gli ebrei e la sinistra è un divorzio che quest’ultima non desidera affatto. La sinistra vuole continuare a essere considerata il paladino dei buoni ebrei. Pretende di piangere per gli ebrei uccisi nella Shoah, spalla a spalla con gli ebrei. E lo fa perché questo le dà l’autorizzazione morale per parlare delle «atrocità» di Israele. Dopo aver scritto qualche saggio sulle «atrocità» commesse da Israele, il bravo uomo di sinistra europeo tornerà indietro e ti parlerà con passione dell’affascinante cultura shtetl e della prelibatezza della cucina degli ebrei del Marocco. Fino a quando non romperemo il silenzio, noi ebrei daremo alla sinistra l’autorizzazione di negare il nostro diritto a una nazione, e a difendere il nostro popolo da un antisemitismo senza precedenti. Proprio nello stesso momento in cui maledice Israele, la sinistra dei diritti umani, del pacifismo, della protesta contro la pena di morte, la guerra e le discriminazioni razziali o sessuali, elogia anche i terroristi suicidi e si compiace per caricature di Sharon degne dello Sturmer. Ma nessuno dei suoi esponenti verrà mai in Israele per fare lo scudo umano seduto in un bar o a bordo di un bus. Tuttavia, questo nuovo antisemitismo ha una caratteristica singolare: permette la conversione. In altre parole, questo tipo di antisemitismo, a differenza dell’antisemitismo nazista e analogamente all’antisemitismo teologico, vi offre la possibilità di rinunciare al diavolo (ossia Israele, o talvolta Sharon). Chiunque proclami la sua indignata condanna sul comportamento di Israele può rimettere piede nella società civile, quella del common sense, della conversazioni amichevoli, dei gruppi di persone oneste, piene di buona volontà, che combattono in nome dei diritti umani.
Se vogliamo ottenere qualcosa, se decidiamo che è giunto il momento di combattere, dobbiamo sbarazzarci delle imposture e degli inganni del politicamente corretto. Dobbiamo saper dire che la libera stampa fallisce la sua missione quando mente, e che sta effettivamente mentendo. Dobbiamo dire che tutti i diritti umani sono violati quando a un popolo è negato il diritto all’autodifesa, e che questo diritto a Israele è effettivamente negato. I diritti umani sono calpestati anche quando una nazione viene sottoposta alla diffamazione sistematica e resa automaticamente un obiettivo legittimo per i terroristi. Non dobbiamo più accettare ciò che abbiamo accettato fin dal giorno in cui è nato il nostro Stato, vale a dire che debba essere considerato come uno Stato diverso e a sé stante all’interno della comunità internazionale. Un altro punto importante: tra le varie forme di antisemitismo oggi in voga, una riguarda la confusione tra «israeliano» ed «ebreo». Apparentemente, è sbagliato insinuare che gli ebrei agiscano nell’interesse dello Stato di Israele e non in quello dello Stato in cui vivono. Più un Paese confonde i due termini, più è considerato antisemita, e quindi ci si immaginerebbe che gli ebrei combattano questo pregiudizio. Ma è un grave errore. Poiché lo Stato di Israele, e insieme a esso gli ebrei, sono stati vittime del peggior genere di pregiudizi, gli ebrei dovrebbero considerare apertamente il loro essere identificati con Israele come un prestigio e un onore. Dovrebbero dichiarare con orgoglio questa identificazione. Se è vero che Israele è l’obiettivo principale degli attacchi antisemiti, è proprio qui che dobbiamo concentrare la nostra attenzione. Dobbiamo giudicare il carattere morale della persona con la quale stiamo parlando in base a questo test: se menti su Israele, se lo ricopri di pregiudizi, sei un antisemita. Se sei prevenuto nei confronti di Israele, sei contro gli ebrei. Naturalmente questo non significa che sia proibito criticare Israele e le sue politiche. Ben poco, tuttavia, di quello che si sente dire su Israele ha qualcosa a che fare con una lucida critica. Pregiudizi e partiti presi, e non la figura di Sharon, sono la ragione principale delle critiche. Questi autoproclamatisi critici non sono affatto quei devoti intercessori a favore degli ebrei che pretendono di essere. Perciò dobbiamo dire loro: da ora in poi non potete più usare liberamente il lasciapassare dei diritti umani; non potete più sfruttare falsi stereotipi. Dovete dimostrare concretamente quello che affermate: che l’esercito assalta senza pietà poveri villaggi arabi che non hanno niente a che fare con il terrorismo; che uccide di proposito i bambini, e che si diverte a far fuori i giornalisti. Non ci riuscite? Avete definito gli eventi di Jenin un massacro? Allora siete degli antisemiti, proprio come i vecchi antisemiti che fate finta di odiare. Dovete ancora convincermi di non esser antisemiti, ora che sappiamo che non condannate il terrorismo, e che non avete mai detto una parola contro le caricature degli ebrei dal naso ricurvo, con una borsa piena di dollari in una mano e una mitragliatrice nell’altra.
Israele è rimasto scioccato dalla nuova ondata di antisemitismo. Tutte le teorie secondo le quali l’antisemitismo classico sarebbe diminuito con la creazione di Israele, e infine scomparso del tutto, sono state smentite. Per di più, Israele è diventato, di fatto, la somma di tutto il male, la prova che «i protocolli dei Savi Sion» avevano ragione e che le accuse di omicidio rituale dei bambini erano vere. I palestinesi sono trasformati in un nuovo Gesù messo in croce, e la guerra in Iraq o in Afghanistan scatenata dagli Stati Uniti fa parte del piano ebraico per il dominio del pianeta. Gli ebrei di tutto il mondo sono minacciati, picchiati e persino uccisi per fargli pagare il prezzo dell’esistenza di Israele. Israele e gli ebrei oggi hanno una sola certezza: ora che dispongono di propri mezzi di difesa, una nuova Shoah non è più possibile. Tuttavia, dobbiamo passare dall’idea di una possibile eliminazione fisica degli ebrei a quella di una loro possibile eliminazione morale. L’unico modo per affrontare questa minaccia è combattere senza paura, sul nostro stesso terreno, usando tutte le armi storiche ed etiche che Israele possiede. Nessuna vergogna, nessun timore e nessun senso di colpa. Israele ha la possibilità di dimostrare ciò che è veramente: l’avamposto nella lotta al terrorismo e il baluardo della democrazia. Non è una cosa da poco. Ma noi ebrei ci comportiamo come vittime e non cogliamo questa possibilità perchè significherebbe metterci in conflitto con i nostri vecchi alleati, rinunciando alla loro legittimazione. Dobbiamo renderci conto che questa legittimazione si trova nelle nostre mani, anche se non l’abbiamo mai fatta valere. La parola d’ordine degli ebrei dovrebbe essere «orgoglio ebraico», nel senso di orgoglio per la nostra storia e per la nostra identità nazionale, ovunque ci troviamo. Orgoglio ebraico significa che dobbiamo reclamare l’esclusiva identità del popolo ebraico e il suo diritto di esistere. Dobbiamo comportarci come se questo diritto non ci fosse mai stato riconosciuto perchè oggi, ancora una volta, non lo è più. Nel difendere quest’identità dobbiamo essere, come dice Hillel Halkin, i più tenaci e i più resistenti di tutti, e allo stesso tempo i più liberali. Nessuna sinistra e nessuna destra. Non daremo alla sinistra il potere di decidere dove dobbiamo stare. Decideremo le nostre alleanze da soli, in base alla situazione concreta dei nostri potenziali partner.


[ Archivio Trotsky ]

http://www.marxists.org/italiano/trotsky/1937/2/22-termidoro.htm#topp

Termidoro e antisemitismo

Trotsky (1937)


Scritto il 22 febbraio 1937.
Tradotto, dalla versione in inglese presente sul MIA, e trascritto da
Dario Romeo, Settembre 2000


Ai tempi dell’ultimo processo di Mosca io ho osservato in una delle mie affermazioni che Stalin, nella battaglia contro l’Opposizione, ha sfruttato le tendenze antisemite presenti nel paese. Su quest’argomento ho ricevuto una serie di lettere e domande che erano, nel complesso – non c’è ragione di nascondere la verità – piuttosto ingenue. “Come si può accusare l’Unione Sovietica di antisemitismo?”, “Se l’URSS è un paese antisemita, esiste qualcosa che ancora si salvi?”. Tale era il tema dominante di queste lettere. Queste persone sollevano obiezioni e sono perplesse poiché sono abituate a contrapporre all’antisemitismo fascista l’emancipazione degli ebrei realizzata dalla Rivoluzione d’Ottobre. A queste persone sembra ora che io stia strappando loro di mano un magico talismano. Tale modo di ragionare è tipico di coloro i quali sono abituati a pensare in modo volgare, non dialettico. Essi vivono in un mondo di immutabili astrazioni. Riconoscono soltanto ciò che li soddisfa: la Germania di Hitler è il regno assolutista dell’antisemitismo; l’URSS, al contrario, è il regno dell’armonia nazionale. Contraddizioni di importanza vitale, cambiamenti, transizioni da una condizione all’altra, in una parola, il processo storico reale, sfugge dalla loro fiacca attenzione.

Non ci si è ancora scordati, spero, che l’antisemitismo era piuttosto esteso nella Russia zarista tra i contadini, la piccola borghesia cittadina, l’intellighenzia e lo strato più arretrato della classe operaia. La “madre” Russia era rinomata non solo per i suoi periodici pogrom, ma anche per l’esistenza di un considerevole numero di pubblicazioni antisemite che, a quell’epoca, godevano di una vasta circolazione. La Rivoluzione d’Ottobre abolì lo status da esiliati degli ebrei. Ciò, tuttavia, non vuol dire affatto che in un sol colpo essa si sia sbarazzata dell’antisemitismo. Una lunga e persistente battaglia contro la religione ha fallito ad impedire che, ancora oggi, migliaia e migliaia di chiese, moschee e sinagoghe venissero affollate da gente supplichevole. La stessa situazione prevale nella sfera dei pregiudizi nazionali. La legislazione da sola non cambia le persone. I loro pensieri, emozioni e concezioni dipendono dalla tradizione, dalle condizioni materiali di vita, dal loro livello culturale, ecc. Il regime sovietico non ha ancora venti anni. La parte più anziana della popolazione è stata educata sotto lo zarismo. La generazione più giovane ha ereditato molto dalla vecchia. Queste condizioni storiche generali dovrebbero di per sé render chiaro a qualsiasi persona pensante che, malgrado il modello legislativo della Rivoluzione d’Ottobre, è impossibile che i pregiudizi sciovinisti e nazionalisti, e specialmente l’antisemitismo, possano non essere persistiti con forza tra lo strato più arretrato della popolazione.

Ma ciò non è affatto tutto. Il regime sovietico, in realtà, ha visto nascere una serie di nuovi fenomeni che, a causa della povertà e del basso livello culturale della popolazione, erano capaci di creare, come di fatto è accaduto, un rinnovato sentimento antisemita. Gli ebrei sono una popolazione tipicamente cittadina. Essi comprendono una considerevole percentuale della popolazione cittadina in Ucraina, nella Russia Bianca e persino nella Grande Russia. Il regime sovietico, più di qualsiasi altro nel mondo, ha bisogno di un numero assai vasto di funzionari pubblici. Questi sono reclutati fra la parte di popolazione cittadina più acculturata. Com’è logico gli ebrei risultano occupare un posto sproporzionatamente largo tra la burocrazia, specialmente tra i livelli medi e bassi. Noi potremmo di certo chiudere i nostri occhi innanzi a questo fatto e limitarci a vaghe generalizzazioni riguardo l’uguaglianza e la fratellanza di tutte le razze. Ma una politica da struzzi non ci permetterebbe di avanzare di un singolo passo avanti. L’odio dei contadini e degli operai per la burocrazia è un tratto fondamentale della vita sovietica. Il dispotismo del regime, la persecuzione di ogni critica, il soffocamento di ogni vivo pensiero ed infine la cornice giudiziaria, non sono altro che un mero riflesso di questo fatto basilare. Anche per mezzo di un ragionamento aprioristico sarebbe impossibile non concludere che l’odio per la burocrazia assuma una coloritura antisemita, almeno in quei posti in cui i funzionari ebrei sono una percentuale significante e sono posti innanzi ad un vasto esercito di masse contadine. Nel 1923 io proposi alla conferenza del partito bolscevico ucraino di assumere come funzionari individui capaci di parlare e di scrivere nella lingua delle popolazioni circostanti. Quanti ironici commenti vennero fatti a proposito di questa proposta, specialmente da parte dell’intellighenzia ebraica che parlava e scriveva russo e non aveva intenzioni di imparare la lingua ucraina! Bisogna ammettere che a questo riguardo la situazione è cambiata considerevolmente per il meglio. Ma la composizione nazionale della burocrazia è mutata di poco e, ciò che è assai più importante, l’antagonismo tra la popolazione e la burocrazia è cresciuto in modo mostruoso durante gli ultimi dieci-dodici anni. Tutti i seri ed onesti osservatori, specialmente coloro che hanno vissuto a lungo tra le masse di persone che lavorano assai duramente, portano testimonianza dell’esistenza dell’antisemitismo, non solo di quello vecchio ed ereditario, ma anche della nuova, sovietica, varietà.

Il burocrate sovietico si sente moralmente in un campo assediato. Egli cerca con tutta la sua forza di rompere questo suo isolamento. La politica di Stalin, almeno per il 50 percento, è dettata da questa situazione. Cioè: (1) la demagogia pseudo-socialista (“Il socialismo è già compiuto”, “Stalin ha dato, dà e darà una vita felice al popolo”, ecc.); (2) misure politiche ed economiche designate per costruire attorno alla burocrazia un largo strato di nuova aristocrazia (le paghe sproporzionatamente alte concesse agli stacanovisti, ai militari, agli ordini onorari, alla nuova “nobiltà”, ecc.); (3) sostenere i sentimenti nazionalisti ed i pregiudizi dello strato più arretrato della popolazione.

Il burocrate ucraino, se è egli stesso un indigeno ucraino, tenterà inevitabilmente, al momento critico, di enfatizzare il fatto che egli è un fratello del muzhik e del contadino – non una sorta di straniero ed in nessuna circostanza un ebreo. Ovviamente non c’è in tale attitudine – ahimè!- neppure una goccia di “socialismo” o almeno di elementare democrazia. Ma è precisamente questo il nocciolo del problema. La burocrazia privilegiata, paurosa di perdere i suoi stessi privilegi, e conseguentemente completamente demoralizzata, rappresenta allo stato attuale lo strato più antisocialista ed antidemocratico della società sovietica. Nella lotta per la propria auto-conservazione essa sfrutta i pregiudizi più radicati e gli istinti più arretrati. Se a Mosca Stalin allestisce processi per accusare i trotskysti di gettar veleno sugli operai, allora non è difficile immaginare che folle sentiero possa seguire la burocrazia in alcune stamberghe ucraine e dell’Asia centrale!

Colui che osserva attentamente la vita sovietica, anche se solo attraverso le pubblicazioni ufficiali, scorgerà di tanto in tanto in varie parti del paese spaventosi ascessi burocratici: bustarelle, corruzione, appropriazioni indebite, uccisione di persone la cui esistenza è imbarazzante per la burocrazia, stupri di donne e cose simili. Se noi potessimo tagliare verticalmente all’interno, vedremmo come tali ascessi risultano dallo strato burocratico. Qualche volta Mosca è costretta a ricorrere a processi dimostrativi. In tutti questi processi gli ebrei ricoprono inevitabilmente una vasta percentuale, in parte perché, come abbiamo già detto, essi compongono una grande parte della burocrazia e sono marchiati del biasimo verso di essa, in parte perché, spinto dall’istinto auto conservazione, il quadro dirigente della burocrazia, al centro e nelle provincie, si sforza di deviare l’indignazione delle classi operaie da se stesso sugli ebrei. Questo fatto era noto ad ogni osservatore critico dell’URSS già da dieci anni or sono, quando il regime di Stalin aveva rivelato a mala pena le sue caratteristiche basilari.

La Battaglia contro l’Opposizione rappresentava per la cricca dominante una questione di vita o di morte. Il suo programma, i principi, i suoi collegamenti con le masse, tutto venne sradicato e messo in disparte a causa della bramosia di auto-conservazione della cricca dominante. Queste persone non si fermano innanzi a nulla pur di proteggere il proprio potere ed i propri privilegi. Recentemente è stato rilasciato un annuncio al mondo intero che il mio figlio più giovane, Sergei Sedov, era sotto accusa per aver tramato contro gli operai. Qualsiasi persona normale concluderà: persone capaci di avanzare tali accuse, hanno raggiunto l’ultimo stadio di degradazione morale. È possibile in questo caso dubitare anche per un solo istante che questi medesimi accusatori siano capaci di incoraggiare i pregiudizi antisemiti delle masse? Precisamente nel caso di mio figlio entrambe queste depravazioni sono unite. Dal giorno della loro nascita, i miei figli portano il nome della loro madre (Sedov). Essi non hanno mai usato nessun altro nome – né alle scuole elementari, né all’università, né nella loro vita matura. Per quanto riguarda me, negli ultimi trentaquattro anni ho portato il nome di Trotsky. Durante il periodo sovietico nessuno mi ha mai chiamato col nome di mio padre (Bronstein), così come nessuno ha mai chiamato Stalin, Dzhugashvili. In modo da non costringere i miei figli a cambiar nome, io, per necessità di “cittadinanza”, ho preso il nome di mia moglie (cosa che, per la legislazione sovietica, è perfettamente legale). Però, dopo che mio figlio, Sergei Sedov, è stato accusato di tramare contro gli operai, il GPU ha comunicato alla stampa sovietica ed estera che il nome “reale” (!) di mio figlio non è Sedov ma Bronstein. Se questi accusatori avessero voluto enfatizzare la connessione dell’accusato con me, essi lo avrebbero chiamato Trotsky, poiché politicamente il nome Bronstein non significa niente per nessuno. Ma essi stavano giocando un’altra partita; ovvero, essi desideravano enfatizzare la mia origine ebrea e quella semi ebrea di mio figlio. Mi sono soffermato su quest’episodio poiché esso ha un carattere vitale, seppur affatto eccezionale.

Tra il 1923 e il 1926, quando Stalin, con Zinov’ev e Kamenev, era ancora un membro della “Troika”, le corde dell’antisemitismo venivano suonate con estrema cauzione ed in modo mascherato. Oratori assai istruiti (Stalin già allora tramava furtive battaglie contro i suoi soci) dicevano che i seguaci di Trotsky erano piccoli borghesi delle “piccole città”, senza nessuna definizione della loro razza. In realtà ciò era falso. La percentuale di ebrei nelle file dell’Opposizione non era affatto più grande di quella presente nel partito e nella burocrazia. È sufficiente elencare i nomi dei leader dell’Opposizione per gli anni 1923-25. I. N. Smirnov, Serebryakov, Rakovsky, Piatakov, Preobrazhensky, Krestinsky, Muralov, Beloborodov, Mrachkovsky, V. Yakovlev, Sapronov, V. M. Smirnov, Ishtchenko – russi a tutti gli effetti. Radek all’epoca era solo un mezzo simpatizzante. Ma, così come nei processi dei funzionari corrotti e di altri farabutti, così anche al tempo dell’espulsione dell’Opposizione dal partito, la burocrazia ha volutamente enfatizzato i nomi dei membri ebrei di secondaria importanza. Ciò fu discusso piuttosto apertamente all’interno del partito, e, indietro sino al 1925, l’Opposizione vide in questa situazione un lampante sintomo del decadimento della cricca dominante.

Dopo che Zinov’ev e Kamenev si sono uniti all’Opposizione, la situazione è cambiata radicalmente in peggio. A questo punto si è creata una grande e perfetta occasione per dire ai lavoratori che a capo dell’Opposizione stavano tre “insoddisfatti intellettuali ebrei”. Sotto la direzione di Stalin, Uglanov a Mosca e Kirov a Leningrado hanno portato avanti sistematicamente e quasi completamente allo scoperto questa linea. In modo da dimostrare più nettamente agli operai le differenze tra il “vecchio” corso ed il “nuovo”, gli ebrei, anche quando incondizionatamente devoti alla linea generale, furono rimossi dai posti di responsabilità che ricoprivano all’interno del partito e dei Soviet. Non solo nelle campagne, ma anche nelle industrie di Mosca l’accanimento contro l’Opposizione a partire dal 1926 assume spesso un completamente ovvio carattere antisemita. Molti agitatori parlavano sfacciatamente: “Gli ebrei sono nulla”. Io ho ricevuto centinaia di lettere che deploravano i metodi antisemiti utilizzati nella lotta contro l’Opposizione. Ad una delle sessioni del Politburo, io scrissi un appunto a Bucharin: “Tu non puoi non sapere che nella battaglia contro l’Opposizione vengono utilizzati metodi demagoghi da Cento Neri (antisemitismo, ecc.)”. Bucharin mi rispose evasivamente sullo stesso pezzo di carta: “Esempi personali sono certamente possibili”. Io scrissi nuovamente: “Io non sto pensando ad esempi individuali, ma ad una sistematica agitazione portata avanti nelle grandi imprese moscovite. Sarai d’accordo a venire con me per investigare su un esempio di ciò alla fabbrica di ‘Skorokhod’ (ne conosco altri di tali esempi)”. Bucharin rispose: “Va bene, possiamo andarci”. Invano ho tentato di fargli mantenere questa promessa. Stalin gli ha categoricamente vietato di farlo. Nei mesi della preparazione dell’espulsione dell’Opposizione, degli arresti, degli esili (avvenuti nella seconda metà del 1927), l’agitazione antisemita assunse un carattere completamente sfrenato. Lo slogan, “Battere l’Opposizione”, spesso ha preso l’aspetto del vecchio slogan “Battere gli ebrei e salvare la Russia”. La faccenda andò così lontano da costringere Stalin a pubblicare una dichiarazione scritta che affermava: “Noi lottiamo contro Trotsky, Zinov’ev e Kamenev non perché essi sono ebrei ma perché sono Oppositori”, ecc. Ad ogni persona politicamente pensante fu completamente chiaro che questa dichiarazione volontariamente equivoca, diretta contro gli “eccessi” di antisemitismo, allo stesso tempo nutriva con completa premeditazione questo sentimento. “Non scordate che i leader dell’Opposizione sono – ebrei”. Questo fu il significato della dichiarazione di Stalin, pubblicata in tutti i giornali sovietici.

Quando l’Opposizione, per affrontare direttamente la repressione, procedette in una più decisiva ed aperta battaglia, Stalin, nella forma di una “burla” assai significativa, disse a Piatakov e Preobrazhensky: “Voi almeno state lottando contro il CE brandendo pubblicamente le vostre asce. Questo prova ‘l’ortodossia’ delle vostre azioni. Trotsky invece lavora astutamente e senza accetta”. Preobrazhensky e Piatakov mi riferirono di questa conversazione con sommo disgusto. Dozzine di volte Stalin ha tentato di contrapporre a me il cuore “ortodosso” dell’Opposizione.

Il ben noto giornalista radicale tedesco, ex-editore di Aktion, Franz Pfemfert, ora in esilio, mi scrisse nell’agosto 1936:

“Forse ricordi che molti anni fa io dichiarai su Aktion che molte azioni di Stalin possono trovar spiegazione nelle sue tendenze antisemite. Il fatto che in questo mostruoso processo lui, per mezzo di Tass, è stato capace di ‘correggere’ i nomi di Zinov’ev e Kamenev rappresenta, di per sé, un gesto di stile tipicamente Streicheriano. In questo modo Stalin ha dato il segnale di ‘Via’ a tutti i senza scrupoli elementi antisemiti”.

Di fatto i nomi Zinov’ev e Kamenev, sembrerebbe, sono più famosi dei nomi Radomislyski e Rozenfeld. Quali altri motivi potrebbe aver avuto Stalin di far conoscere il “vero” nome delle sue vittime, eccetto quello di far leva sugli umori antisemiti? Tale atto, privo della minima giustificazione legale, fu, come abbiamo visto, similmente compiuto sul nome di mio figlio. Ma, indubbiamente, la cosa più sorprendente è il fatto che tutti e quattro i “terroristi” secondo quanto si dice mandati da me dall’estero, risultano essere tutti ebrei e – allo stesso tempo – agenti dell’antisemita Gestapo! Giacché io non ho mai visto nessuno di questi sfortunati, è chiaro che il GPU ha deliberatamente scelto loro a causa delle loro origini razziali. E il GPU non agisce di sua propria iniziativa!

Ancora: se tali metodi sono utilizzati nelle alte sfere, laddove la responsabilità di Stalin è assolutamente inquestionabile, allora non è difficile immaginare ciò che accade nel resto della società, nelle fabbriche e specialmente nei kolkhoz. E come potrebbe essere altrimenti? Lo sterminio fisico della vecchia generazione bolscevica è, per qualsiasi individuo pensante, un’incontrovertibile espressione della reazione termidoriana, e nel suo stadio più avanzato. La storia non ha mai visto alcun esempio in cui la reazione che ha seguito l’ondata rivoluzionaria non sia stata accompagnata dalle più sfrenate passioni scioviniste, antisemite su tutte.

Nell’opinione di alcuni “amici dell’URSS”, i miei riferimenti allo sfruttamento di tendenze antisemite da parte di una fetta considerevole della presente burocrazia, rappresentano una maliziosa invenzione costruita allo scopo di lottare contro Stalin. È difficile discutere con “amici” di professione della burocrazia. Queste persone negano l’esistenza della reazione termidoriana. Essi accettano persino i processi di Mosca nel loro valore di facciata. Non esistono “amici” che visitano l’URSS con l’intenzione di trovarvi macchie. Non pochi di essi ricevono speciali pagamenti per la loro solerzia nel guardare solo ciò che viene loro indicato dal dito della burocrazia. Ma disgrazia a quei lavoratori, rivoluzionari, socialisti e democratici che, nelle parole di Pushkin, preferiscono “un’illusione che ci esalti” all’amara verità. Uno deve prendere la vita così come è. È necessario trovare nella realtà medesima la forza per sconfiggere le sue caratteristiche reazionarie e barbariche. Questo è ciò che il marxismo ci insegna.

Alcuni aspiranti “eruditi” hanno perfino accusato me d’avere “improvvisamente” sollevato la “questione ebraica” e di voler creare qualche sorta di ghetto per gli ebrei. Io posso solo scrollarmi le spalle per compassione. Ho vissuto la mia vita intera al di fuori dei circoli ebraici. Ho sempre lavorato nel movimento proletario russo. Sfortunatamente non ho neppure imparato a leggere la lingua ebraica. La questione ebraica non ha mai occupato il centro della mia attenzione. Ma ciò non significa ch’io ho il diritto di chiudere gli occhi di fronte al problema ebraico che esiste e che richiede una soluzione. “Gli Amici dell’URSS” si sentono soddisfatti con la creazione di Birobidjan. Io non mi soffermerò a questo punto su considerazioni sul fatto se esso sia stato o meno costruito su solide basi, o su che tipo di regime lì esista. (Birobidjan non può far altro che riflettere i vizi del dispotismo burocratico). Ma neppure un singolo individuo pensante e progressista si opporrà al fatto che l’URSS ha designato uno speciale territorio per quei cittadini che si sentono ebrei, che usano la lingua ebraica preferendola a tutte le altre e che desiderano vivere come una massa compatta. È o non è questo un ghetto? Durante il periodo della democrazia sovietica, di migrazioni completamente volontarie, non si sarebbe potuto parlare di ghetti. Ma la questione ebraica, per la maniera in cui la sistemazione degli ebrei è stata portata avanti, assume un aspetto internazionale. Non abbiamo forse ragione nel dire che una federazione socialista mondiale avrebbe reso possibile la creazione di una “Birobidjan” per quegli ebrei che avessero desiderato avere una propria autonoma repubblica come arena della propria cultura? Si può assumere che una democrazia socialista non farebbe ricorso all’assimilazione forzata. Potrebbe tranquillamente darsi che entro due o tre generazioni i confini di una repubblica ebrea indipendente, come di molte altre regioni nazionali, vengano cancellati. Non ho né il tempo né il desiderio di meditare su questo fatto. I nostri discendenti sapranno meglio di noi cosa occorre fare. Io sto pensando ad un periodo storico di transizione nel quale la questione ebraica, come tale, è ancora acuta e richiede adeguate misure da parte della federazione mondiale degli stati proletari. Gli identici metodi usati per risolvere la questione ebraica, che sotto il decadente capitalismo hanno carattere utopico e reazionario (Sionismo), prenderanno, sotto un regime di socialista federato, un significato reale e salutare. Questo è ciò che io volevo evidenziare. Potrebbe un qualsiasi marxista, o persino un qualsiasi coerente democratico, obiettare a ciò?


Antisemitismo e altri demoni

http://www.gazzettapolitica.it/index.php?idArticolo=1239


Le polemiche sul sondaggio della commissione della Ue riportano comunque alla ribalta un problema che da qualche tempo sembra riapparire. Luci e ombre sull’argomento nel Vecchio Continente

C’è qualcosa che sta succedendo alle complesse relazioni tra Israele e l’Unione Europea. Il sondaggio indetto dalla Commissione Ue, che ha rilevato come il 59% degli europei considerano Israele il paese più pericoloso per la pace nel mondo, ha turbato fortemente questi rapporti, che navigavano comunque in acque molte agitate negli ultimi anni.
I risultati del sondaggio hanno risvegliato un vecchio demone, acquattato nell’ombra, sempre presente – assente nei rapporti tra il mondo ebraico e l’Europa: l’antisemitismo. Il Presidente della Commissione, Prodi ha subito preso le distanze, dicendo che “nella misura in cui il risultato possa essere la spia di un pregiudizio più profondo e generico verso il mondo ebraico, la nostra ripulsa è ancora più radicale. In Europa […] non c’è posto per l’antisemitismo”. Fassino e Berlusconi, uniti volontariamente o no intorno alla questione, hanno espresso il loro timore per una rinascita dell’antisemitismo. Il periodico on-line Ebraismo e Dintorni scrive: “Il sondaggio è vero e fotografa realisticamente la situazione. L’antisemitismo non è mai morto e sta riaffacciandosi dietro le quinte del politically correct”.
Ugualmente, la reazione del governo Sharon in Israele, benché confortato dall’inequivocabile appoggio dell’Italia (“È la nostra unica amica” diceva un giornale in primo piano), è stata un contrattacco: Sharon: “Questa è l’Europa, con il suo antisemitismo”; il portavoce del Ministero degli esteri: “Gli europei sono ciechi alla sofferenza delle vittime del terrore e la colpa è dei loro governi”; il Ministro delle relazioni con la diaspora, Nathan Charansky, ha dichiarato che “l’Unione europea dovrebbe cessare il lavaggio dei cervelli che mira a demonizzare Israele, per evitare che l’Europa ripiombi nei periodi più oscuri del proprio passato”; il Ministro degli esteri Shalom, ha assunto una posizione meno estrema, affermando che “il sondaggio non indica sentimenti antisemiti da parte dei cittadini dell’Ue, ma il fatto che Israele è presente, più di tutti gli altri paesi, sui media”. Il quotidiano Haaretz riteneva che si trattasse di un risultato di un’inefficacia  “Hasbara” del governo israeliano nel mondo, rispetto a quella palestinese (il termine Hasbara è usato in Israele per descrivere gli sforzi delle autorità per spiegare la propria posizione).
La polemica intorno al sondaggio ha sollevato una questione più ampia: come parlare d’Israele? In un articolo titolato esattamente così, scritto per il New York Times Sunday Magazine nello scorso agosto, Ian Buruma cerca di capire se è possibile criticare Israele senza essere considerati antisemiti. Buruma scrive: “È perfettamente possibile, ovviamente, avere una posizione critica nei confronti delle politiche d’Israele […] senza essere un antisemita. È ugualmente possibile criticare le politiche degli Usa senza essere un anti-americano […], proprio come uno può opporsi al capitalismo o alla “globalizzazione” senza desiderare o approvare un attacco suicidio su Manhattan. La cosa disturbante è, invece, il modo in cui queste posizioni si mischiano sempre di più in un cocktail di ostilità”.
È possibile, quindi, secondo Buruma, criticare Israele senza essere considerati antisemiti; proprio come è possibile criticare le politiche di Mugabe in Zimbabwe o dell’ex Presidente della Malesia, Mahatir, senza essere considerati anti-neri o anti-musulmani. In altre parole, Israele non è un paese al di sopra delle norme universali o immune alle critiche internazionali; ma è possibile non cadere nella trappola di questo “cocktail”?

Il caso della Germania
Prima di approfondire questo argomento va detto che l’antisemitismo è, in effetti, un fenomeno non ancora completamente sradicato. Un esempio sorprendente (o forse no?) viene  dalla Germania, dove il Capo delle forze speciali è stato rimosso la settimana scorsa dal suo incarico dopo aver scritto una lettera d’appoggio ad un deputato conservatore (a sua volta espulso dal gruppo parlamentare della Cdu e in odore di cacciata anche dal partito) a proposito di un suo intervento in cui diceva che gli ebrei avevano un ruolo chiave nella rivoluzione russa del ’17 e che perciò sono responsabili dei numerosi morti di allora, paragonandoli esplicitamente ai nazisti. Il generale ha scritto: “Le sue parole sono espressione di grande coraggio, che non si trova più nel nostro paese”.Sempre in Germania, inoltre, un sondaggio del 2002 ha rilevato che il 60% degli intervistati erano parzialmente o completamente d’accordo con l’affermazione che gli Ebrei esercitano troppa influenza nel paese. In altre parole, sembra che il tabù o la vergogna di esprimere opinioni del genere stia scomparendo.
Tuttavia, quasi a cercare di sminuire le polemiche, secondo un’indagine del ministero degli esteri israeliano dietro il 95% degli incidenti antisemiti in occidente ci sono immigrati musulmani che “si vendicano delle ingiustizie dell’occupazione israeliana nei territori palestinesi”. Risultati simili sono stati ottenuti da un’indagine dell’Università di Tel Aviv, che ha stabilito che il riaffermarsi dell’antisemitismo in Europa coincide con l’inizio della seconda Intifada e con la pesante rappresaglia d’Israele agli attacchi suicidi. E va detto che la maggior parte degli attacchi erano limitati ad atti di vandalismo in sinagoghe e cimiteri ebrei. Tali atti sono chiaramente ingiustificabili, ma la visibile correlazione tra il livello della violenza nel Medio Oriente e il numero degli incidenti antisemiti in Europa non va ignorata. Inoltre, negli ultimi anni, sembra che Israele ricorra sempre più spesso all’accusa di antisemitismo nelle sue reazioni alle critiche esterne. A questo riguardo Abraham Foxman, dalla “Anti Defamation League” (una delle più grandi organizzazioni ebraiche negli Usa), ha notato che la credibilità della lotta contro l’antisemitismo può essere messa a dura prova in due modi: quando si smentisce l’esistenza dei motivi antisemiti o quando “ogni torto compiuto contro una persona ebrea viene etichettata come antisemitismo”.
Secondo Akiva Eldar, di Haaretz l’utilizzo frequente dell’accusa di antisemitismo non è soltanto inappropriato, ma anche poco utile e controproducente. “Dire che il mondo intero ce l’ha con noi –  scrive Eldar –  è molto più facile che ammettere che Israele, ideata come un rifugio e una fonte d’orgoglio per gli Ebrei, si è trasformata non solo in un paese meno ebraico e meno sicuro per i suoi cittadini, ma anche in una vera fonte di pericolo e di vergogna per quegli ebrei che vivono fuori dei suoi confini. Sostenere che si è antisemita quando si definisce la recente politica del governo israeliano un pericolo per la pace nel mondo è uno spregevole svilimento del termine antisemitismo”.
Ma perché, allora, gli Ebrei nel mondo ed in Israele hanno reagito in questo modo al sondaggio? Secondo Meron Benvenisti, sempre su Haaretz, nel contesto di un conflitto etnico-nazionale-religioso che coinvolge dei profondi elementi ideologici e sentimentali, la legittimazione internazionale è un fattore cruciale, e la sua assenza provoca un forte senso di angoscia che gli israeliani cercano di togliersi di dosso invocando addirittura lo spettro dell’antisemitismo.

Consigli per essere ascoltati
Guy Izhak Austrian e Ella Goldman, due ebrei israelo-americani attivisti per la pace, in un articolo pubblicato nel marzo scorso hanno teso una mano a chi, critico nei confronti di Israele, non voglia cadere nella trappola dell’antisemitismo, offrendo una serie di consigli su come essere ascoltati dagli ebrei e dagli israeliani. Gli autori sottolineano l’importanza di accettare e ammettere che esistono dei sentimenti e pregiudizi anti-ebrei nel movimento solidale palestinese: la frase “non sono un antisemita” non è confortante se viene accompagnata dalla negazione dell’esistenza di antisemitismo.
Essi notano ancora che le ferite della persecuzione, e soprattutto dell’Olocausto, non sono guarite. Perciò, entrare nei dettagli tecnici su cosa significa il termine antisemitismo (escludendo o no gli arabi) o sul fatto che non solo gli ebrei sono vittime di guerre e oppressione è inutile e controproducente. Austrian e Goldman, inoltre, consigliano di accettare l’esistenza di un’identità ebraica che va oltre il sentimento religioso. Il significato di questi consigli è in sostanza che la dimensione psicologica della reazione degli Ebrei non deve essere sottovalutata. 
In ultima analisi, possiamo dedurre che i 7.515 cittadini europei interpellati nel sondaggio sono antisemiti? A livello individuale, la risposta è molto probabilmente “no”. L’antisemitismo “classico” in Europa ha raggiunto dei livelli molto bassi (in aprile 2003, un sondaggio compiuto in Francia ha rilevato che l’85% dei francesi simpatizzano con gli Ebrei, rispetto al 82% nel 2002 ed il 72% nel 1990). Inoltre, la paura degli Europei per quello che sta succedendo nel Medio Oriente non è irrazionale; essa è basata sulla prossimità geografica e sulle notizie che riempiono quotidianamente i media. A questo riguardo, sarebbe stato forse più corretto associare questa paura per la pace mondiale con la persistenza del conflitto, piuttosto che con un Paese. La risposta degli europei si basa, molto probabilmente, anche sulla loro “riscoperta” del mondo ebraico: non più “una vittima che soffre persecuzioni e discriminazione”, associati soprattutto con lo stesso continente europeo, ma “un aggressore opprimente che crea nuove vittime”.

Evitare dichiarazioni pesanti
Ciò detto, il sondaggio potrebbe mettere in atto dei meccanismi indesiderati e reintrodurre la vecchia percezione secondo cui gli ebrei (personificati nello Stato d’Israele) sono i principali responsabili per i problemi nel mondo. Bisogna evitare dichiarazioni che insinuino l’immagine di un Israele “mostruoso” o “criminale”, che non meriti di far parte della collettività internazionale. A questo proposito va notato come tante occupazioni militari, pur essendo non meno cruente (come quella della Cina nel Tibet, ad esempio), non suscitano lo stesso sdegno internazionale.
E allora, come nell’eterno dilemma dell’uovo e della gallina, chi viene prima: le politiche del governo israeliano o l’antisemitismo? La risposta, chiaramente, non è semplice. Il legame tra il livello di violenza nel Medio Oriente ed il risveglio dell’antisemitismo rende le cose ancora più complicate in quanto crea una situazione antitetica alla visione di Hertzel, il padre del Sionismo, che voleva, attraverso la creazione di uno stato tutto ebraico, risolvere una volta e per sempre la “Questione ebraica”. Secondo Naomi Klein, una dei più famosi esponenti del movimento New Global (tra l’altro, d’origine ebraica), per risolvere questo dilemma bisogna, nello stesso tempo, criticare la politica israeliana e condannare vigorosamente l’ascesa dell’antisemitismo, evitandosi di “pensare in termini di una semplice dicotomia di palestinesi buoni – israeliani cattivi”. Queste sottigliezze sono importanti perché in realtà, dietro tante dichiarazioni, reazioni e accuse c’è ancora una grande paura (fondata o no) di un altro Olocausto. Pare proprio che in questo caso, contraddicendo le più banali regole biologiche, la gallina e l’uovo non siano legati da un nesso di causa-effetto ma rappresentino piuttosto due facce di una stessa medaglia.

Yael Meroz


Il viaggio di Fini in Israele. Intervista allo storico Angelo d’Orsi

L’antisemitismo abita a destra

http://www.liberazione.it/giornale/031126/LB12D681.asp

Il viaggio di Fini in Israele apre interrogativi sul rapporto tra fascismo, destra attuale e antisemitismo che non possono essere confinati nello spazio dei media. Basta un’operazione simbolica per rimuovere la cultura fascista dalla destra italiana? E l’antisemitismo sarà ora utilizzato come arma contro la sinistra?

Sulla “Stampa” di ieri lo storico Giovanni De Luna prendeva atto che le condanne di Fini del fascismo delle leggi razziali colpisce – di fatto – il filone del revisionismo: quella corrente storiografica che riabilita Salò per legittimare un nuovo assetto politico sulle ceneri della Prima Repubblica. «Temo che sia un po’ troppo ottimistico – risponde a “Liberazione” lo storico Angelo d’Orsi – ma del resto, tutti noi facciamo analisi affrettate in corso d’opera».


Fini è diventato un sincero democratico?

E’ chiaro che c’è stato un percorso a partire dalle sacre acque di Fiuggi. Ma in questo viaggio verso la democrazia non sempre i fatti hanno corrisposto alle parole. Non era un atteggiamento nazista quando, ad esempio, Fini affermò che gli insegnanti omosessuali andavano cacciati dalla scuola italiana?


Basta la denuncia delle leggi razziali del ’38 per prendere le distanze dal retaggio storico del fascismo?

Da un po’ di tempo è invalso l’uso nel dibattito pubblico dell’equazione fascismo uguale leggi razziali. Ma il fascismo nasce nel ’19, va al potere dopo quattro anni di attacco armato, non solo alle organizzazioni del movimento operaio, ma alle stesse strutture dello Stato liberale. E’ un colpo di stato garantito dalla monarchia e dai ceti dominanti borghesi – agrari e urbani. Dopo il ’22 il fascismo mette in atto una serie di aggressioni, eliminazioni fisiche e politiche di avversari, carcerazioni, esili forzati, confino di polizia – che non era certo una “villeggiatura” come ha sostenuto recentemente il nostro ineffabile presidente del consiglio. Poi ci sono le politiche imperialiste e di guerra, come la riconquista della Libia – dove vengono usate per la prima volta i gas asfissianti – e la conquista dell’Etiopia. Infine, l’ingresso nella Seconda guerra mondiale. Il fascismo, quindi, non può essere ridotto alle leggi razziali come se queste fossero l’unico atto nefasto del regime fascista, l’unico neo, un incidente di percorso! E’ una sciocchezza.


L’antisemitismo c’era da molto prima del ’38?

L’antisemitismo è una componente storica dell’ideologia e della pratica politica della destra estrema fin dal secondo Ottocento. Si parla di un nuovo antisemitismo non più genericamente religioso, ma politico e razziale, che nasce in Francia e poi in Germania per espandersi in Europa a partire dagli anni Settanta dell’800. Il fascismo italiano recepisce questo antisemitismo attraverso l’eredità del nazionalismo – ricordiamo Francesco Coppola oppure, Giovanni Preziosi, direttore per trent’anni, dal ’13 al ’43, della rivista “Una vita italiana”, uno dei peggiori veicoli delle ideologie razziste in Italia, non solo antisemite. Alla base c’è la dottrina della divisione dell’umanità in razze inferiori e razze superiori. Tutto questo assume una valenza ideologica quando si comincerà a identificare il comunismo e il bolscevismo con lo spirito asiatico, quindi con una cultura non europea, contaminata dall’ebraismo e, quindi, da eliminare.


Non è riduttivo identificare tout court il fascismo con la sua manifestazione storica del ventennio? Non è cultura fascista quella che oggi permea le leggi sull’immigrazione, sulle droghe, sulle questioni culturali e sociali?

C’è non soltanto una faccia esteriore, ma anche un’abitudine, un corpo di ideologie del fascismo radicato profondamente. Fini che va in Israele dimostra non che è diventato antifascista e democratico, ma che lo Stato di Israele è governato da governi di destra. Il significato politico di fondo non è che gli ex missini sono diventati democratici, ma che il governo italiano fa un’ulteriore passo contro l’Europa in direzione di Usa e Israele. E c’è anche un altro aspetto. Mentre in passato la comunità ebraica italiana lodevolmente hanno sempre teso a separare l’ebraismo dalle politiche dello Stato di Israele, oggi noto che andiamo nella direzione opposta. C’è un progressivo appiattimento.


Non c’è il rischio, in questa saldatura, di smarrire la tradizione cosmopolita e universalistica dell’ebraismo?

Certo. Lo stesso sionismo ha una componente laica e di sinistra che oggi viene completamente obliterata e cancellata.


La tendenza a identificare la critica a Sharon con l’antisemitismo è diventato negli ultimi tempi un argomento accusatorio contro la sinistra. Con il risultato di spingere ai margini la questione palestinese. O no?

E’ l’accusa strisciante di antisemitismo o di fiancheggiamento del terrorismo lanciata a chiunque critichi la politica del governo israeliano. Secondo me questa linea sta passando. Il popolo palestinese sta perdendo sostegno anche in una parte dell’opinione democratica e di sinistra. La capacità di pressione nei media dell’altra parte è molto forte nel giocare questo ricatto morale dell’antisemitismo nei confronti della sinistra. Questo non è accettabile e va detto in tutti i modi, senza paure. Il nostro presente e il nostro passato è tutto all’insegna di una lotta al razzismo in tutte le sue forme e giustificazioni. Questo non impedisce di criticare la linea politica del governo israeliano o le scelte delle comunità ebraiche quando si appiattiscono su Sharon.


C’è anche chi ritiene che l’antisemitismo pervada il pensiero marxista fin dalla “Questione ebraica” del giovane Marx…

E’ una lettura infondata. A me non pare che, in quanto tale, nella sinistra ci sia mai stata una componente antisemita, né tantomeno sul piano ideologico e teorico. E’ proprio il valore dell’uguaglianza che distingue la sinistra dalla destra. Tra l’altro, la nascita dello Stato d’Israele fu avallata dalla sinistra. Non dimentichiamo la matrice egualitaria e socialisteggiante del sionismo. Andare nei kibbutz negli anni ’50 era un’esperienza di socialismo vissuto, senza costrizione.


C’è stato antisemitismo nei paesi dell’Est?

C’è stata persecuzione in forme più o meno soft. Ma risale a una tradizione di pogrom ed esclusione in paesi come Ungheria e Polonia dove c’era un antisemitismo di matrice cattolica e religiosa. La persecuzione si spiega non in base al fatto che quelli erano governi comunisti, ma per l’esistenza di una componente cattolica antigiudaica fortissima in quelle società. E secondo me c’è ancora. Una simile tradizione c’è anche nella Russia e risale al falso storico dei Protocolli di Sion fabbricati a fine ‘800 dalla polizia segreta zarista.

Tonino Bucci 


Antisemitismo, l’arma da togliere a Sharon

di Naomi Klein

Sapevo da notizie giuntemi per posta elettronica che qualcosa di nuovo stava succedendo a Washington. Una dimostrazione contro la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale si è incrociata, sabato 20 aprile, con una marcia contro la guerra, e anche con una dimostrazione contro l’occupazione israeliana del territorio palestinese. Alla fine, tutte le marce si sono fuse insieme in quella che gli organizzatori hanno descritto come la più grande manifestazione di solidarietà con la Palestina nella storia degli Stati Uniti. Secondo i calcoli della polizia, c’erano 75 mila persone.
Domenica 21, di sera, ho acceso il televisore nella speranza di cogliere un barlume di questa protesta di portata storica. Mi sono imbattuta invece in qualcosa di diverso: un trionfante Jean-Marie Le Pen che celebrava il suo nuovo status di secondo leader politico francese nella gerarchia della popolarità. E da quel momento mi chiedo se la nuova alleanza che ha preso forma nelle strade sia in grado di far fronte anche a quest’ultima minaccia. A me, che critico tanto l’occupazione israeliana quanto la globalizzazione sotto il segno delle corporations, sembra che la convergenza verificatasi a Washington sia venuta incontro a un bisogno antico.

Malgrado le facili etichette tipo «antiglobalizzazione», le proteste legate al commercio mondiale degli ultimi tre anni hanno riguardato tutte l’autodeterminazione: ossia il diritto degli esseri umani, ovunque nel mondo, di scegliere da sé la maniera migliore di organizzare le loro società e le loro economie, si tratti di introdurre la riforma agraria in Brasile o di produrre farmaci anti-Aids generici in India, o magari di resistere a una forza di occupazione in Palestina. Quando centinaia di attivisti antiglobalizzazione cominciarono ad affluire a Ramallah per fare da «scudi umani» tra i carri armati israeliani e i palestinesi, la teoria che era andata sviluppandosi in opposizione ai vertici sul commercio mondiale si è trasformata in azione concreta. Riportare questo spirito coraggioso a Washington, il luogo dove si fa tanta parte della politica mediorientale, era il logico passo successivo. Ma quando ho visto in tv Le Pen raggiante, le braccia levate in trionfo, una parte del mio entusiasmo è svanito. Non c’è nessun legame tra il fascismo francese e i dimostranti di Washington che gridavano «Palestina libera!» (in effetti, se c’è qualcuno che i sostenitori di Le Pen sembrano detestare più degli ebrei, sono gli arabi). Eppure, non potevo fare a meno di pensare a tutti gli eventi recenti cui ho partecipato nei quali si condannava – giustamente – la violenza antimusulmana, si flagellava – doverosamente – Ariel Sharon, ma non si diceva una parola sugli attacchi alle sinagoghe, ai cimiteri e ai centri comunitari ebraici. Né potevo scacciare il pensiero che ogniqualvolta visito siti di attivisti come indymedia.org, che praticano l’open publishing, mi trovo davanti a una sfilza di teorie sull’11 settembre come prodotto di una cospirazione ebraica e a stralci dei “Protocolli degli savi anziani di Sion”. Il movimento antiglobalizzazione non è antisemita; è solo che non ha fatto i conti con tutte le implicazioni dell’intervenire nel conflitto mediorientale. A sinistra ci si limita in genere a fare una scelta di campo, e nel Medio Oriente, dove uno dei contendenti è sotto occupazione e l’altro ha l’appoggio militare Usa, la scelta sembra chiara.
Ma è possibile criticare Israele e insieme condannare vigorosamente l’ascesa dell’antisemitismo. Ed è egualmente possibile essere favorevoli all’indipendenza palestinese senza per questo pensare nei termini di una semplicistica dicotomia «palestinesi buoni/israeliani cattivi», che è l’immagine speculare di formule tipo «il bene contro il male» tanto care al presidente George W. Bush. Perché preoccuparsi di sottigliezze del genere? Perché chiunque sia interessato a combattere il fascismo stile Le Pen o la brutalità stile Sharon deve guardare in faccia la realtà dell’antisemitismo.
L’odio antiebraico è una potente arma politica nelle mani della destra sia europea sia israeliana. Per Le Pen l’antisemitismo è un vero regalo, che ha contribuito a far impennare i suoi consensi dal 10 al 17% in una settimana. Quanto a Ariel Sharon, il suo vero asso nella manica è la paura dell’antisemitismo, non importa se reale o immaginario. Sharon ama dire che combatte i terroristi per dimostrare che non ha paura. In realtà, dietro le sue scelte politiche sta proprio la paura. Il suo grande talento consiste nel comprendere pienamente la profondità della paura ebraica di un altro Olocausto. Egli sa come tracciare paralleli tra le angosce ebraiche riguardo all’antisemitismo e le paure americane del terrorismo. Ed è un esperto nello sfruttare tutto questo per i suoi fini politici.

La prima, fondamentale e diffusa paura su cui Sharon fa leva, quella che gli permette di affermare che tutte le sue mosse aggressive hanno in realtà un carattere difensivo, è la paura che i vicini di Israele vogliano ricacciare in mare gli ebrei.
La seconda paura oggetto delle manipolazioni di Sharon riguarda gli ebrei della Diaspora, ed è la paura che alla fine essi si troveranno a dover cercare un rifugio sicuro in Israele. Questa paura fa sì che milioni di ebrei in tutto il mondo, molti dei quali sono disgustati dall’aggressione israeliana, tacciano e firmino assegni: un acconto sulla protezione futura. L’equazione è semplice: quanto maggiore è la paura degli ebrei, tanto più potente è Sharon. Giunto al potere sulla base di un programma di «pace e sicurezza», il governo Sharon è riuscito a stento a celare il compiacimento per l’avanzata di Le Pen, chiedendo senza indugio agli ebrei francesi di fare i bagagli e trasferirsi nella Terra Promessa. Per Sharon, la paura ebraica è la garanzia che può continuare incontrastato per la sua strada, perché ne ricava l’impunità necessaria per fare l’impensabile: mandare i soldati nel ministero dell’Istruzione dell’Autorità palestinese a rubare e distruggere gli archivi; seppellire vivi i bambini nelle loro case; bloccare le ambulanze, impedendo il soccorso ai moribondi.

Gli ebrei fuori di Israele si trovano oggi presi in una trappola: le azioni del paese che si suppone garantisca la loro salvezza futura mettono in pericolo la loro sicurezza presente. Sharon sta deliberatamente cancellando le distinzioni tra i termini «ebreo» e «israeliano», pretendendo di battersi non per il territorio d’Israele, ma la per la sopravvivenza del popolo ebraico. E quando, a causa almeno in parte delle sue azioni, l’antisemitismo cresce, è sempre lui, Sharon, che è destinato a incassare i dividendi politici. Funziona. La maggioranza degli ebrei è oggi talmente spaventata da essere disposta a qualunque cosa per difendere le politiche israeliane. Così nella sinagoga del mio quartiere, la cui modesta facciata era stata appena sfregiata da un incendio di origine sospetta, il cartello sulla porta non dice: «Tante grazie, Sharon». Dice invece «Appoggia Israele… Oggi più che mai».
Eppure una via d’uscita esiste. Niente cancellerà l’antisemitismo, ma gli ebrei dentro e fuori Israele sarebbero probabilmente un po’ più sicuri se ci s’impegnasse a distinguere tra le varie posizioni ebraiche e le azioni dello Stato israeliano. E qui un movimento internazionale può svolgere un ruolo cruciale. Già vanno prendendo forma le alleanze tra gli attivisti antiglobalizzazione e i refuznik israeliani, ossia i soldati che si rifiutano di servire nei territori occupati. E le immagini più potenti nelle dimostrazioni di Washington erano i rabbini che marciavano al fianco dei palestinesi. Ma bisogna fare di più. È facile per gli attivisti impegnati nella battaglia per la giustizia sociale dire che, siccome gli ebrei hanno già difensori così potenti a Washington e a Gerusalemme, l’antisemitismo è un nemico che non spetta a loro combattere. Si tratta di un errore fatale. Proprio perché l’antisemitismo è utilizzato da gente come Sharon, è necessario lottare contro di esso. Quando l’antisemitismo non sarà più considerato come una faccenda che interessa soltanto gli ebrei, come qualcosa di cui debbono occuparsi soltanto Israele e la lobby sionista, Sharon si troverà privo della sua arma più efficace nell’indifendibile e sempre più brutale politica di occupazione. E c’è un vantaggio supplementare: ogniqualvolta l’odio antiebraico diminuisce, diminuisce anche il numero di coloro che la pensano come Jean-Marie Le Pen.

dalla Stampa 1 maggio 2002

Autrice di “No logo” – http://www.nologo.org
( Traduzione del Gruppo Logos)


Il dato in un’indagine della commissione dell’Unione europea
Lo Stato ebraico al primo posto per il 59% degli intervistati


Sondaggio Ue: è Israele la principale minaccia alla pace

 
Gerusalemme: “Domande tendenziose, inchiesta scandalosa”
Al secondo posto Corea del Nord e Iran, sesti gli Stati Uniti

ROMA – La principale minaccia alla pace nel mondo viene da Israele. Questa, almeno, la percezione dei cittadini europei secondo i risultati di un sondaggio voluto dalla commissione dell’Unione europea. I dati verranno presentati ufficialmente domani ma, com’era prevedibile, di fronte alle prime anticipazioni, lo Stato ebraico non è rimasto indifferente. Fonti del ministero degli Esteri israeliano hanno definito “scandaloso” il sondaggio, sottolineando che la domanda su Israele è stata formulata “in modo tendenzioso”.

L’indagine è stata realizzata attraverso quindici domande, che spaziano dalla legittimità dell’intervento americano in Iraq, alla gestione della ricostruzione del Paese, fino alla valutazione della minaccia del terrorismo e della situazione in Medio Oriente. I quesiti sono stati posti ad un campione di oltre 7.500 cittadini dell’Unione europea (circa 500 gli italiani) tra l’8 e il 16 ottobre scorsi.

Una delle domande invitava gli intervistati a scegliere tra quattro gradi di minaccia per la pace (da “molto forte” a “nessuna”), in una lista di dodici Paesi tra i quali figurano, tra gli altri, gli Stati Uniti, l’Unione europea, la Russia, la Corea del Nord, l’Iran, l’Iraq, l’Afghanistan, Israele, il Pakistan e l’India.

Ebbene, al primo posto tra i Paesi che rappresentano una minaccia per la pace è risultato Israele, indicato dal 59 per cento degli intervistati. Di seguito, con il 54 per cento, la Corea del Nord e l’Iran, al quarto posto l’Iraq, al quinto l’Afghanistan e al sesto gli Stati Uniti.

Un sondaggio “scandaloso”. Così ha reagito israele, secondo quanto riferito da fonti del ministero degli Esteri. Soprattutto, la domanda su Israele sarebbe stata formulata “in modo tendenzioso”. E i risultati, sempre secondo le medesime fonti, sarebbero stati influenzati dal fatto stesso di formulare una lista di Stati, e dal loro ordine di presentazione.

In sostanza il sondaggio, osservano le fonti, indica che in Europa l’opinione pubblica è assai poco solidale con Israele; il che sarebbe da attribuire, forse, alla risonanza data, proprio nei giorni in cui veniva effettuata l’indagine, alla costruzione della cosiddetta “barriera di sicurezza” in Cisgiordania (più nota come “il muro”), al rifiuto da parte del governo israeliano del “patto di pace” israelo-palestinese stretto da parte dei due schieramenti, e alla scarsa considerazione ostentata da Israele per le posizioni dell’Unione europea sul Medio Oriente.

Assai più drastico il giudizio del ministro per le Comunità ebraiche nella Diaspora, Nathan Sharansky: “Il fatto che la maggioranza degli europei veda Israele come il pericolo maggiore per la pace nel mondo, e non gli Stati che finanziano il terrorismo, o dittatori che minacciano di usare armi di distruzione di massa, è un’altra prova che dietro le critiche ‘politiche’ a Israele c’è solo puro antisemitismo”.

“Come in passato – ha continuato Sharansky – gli ebrei venivano considerati come il ‘diavolo’ responsabile dei mali del mondo, così oggi il mondo ‘civilizzato’ incolpa lo stato ebraico, Israele, dei problemi del mondo”.

Dal sondaggio risulta che gli europei che più ritengono Israele un pericolo sono gli olandesi (70 per cento circa), mentre gli italiani si collocano, insieme agli spagnoli, al di sotto della media Ue. Quanto al ruolo dell’Europa, ben pochi la ritengono un fattore di pericolo per la pace. La maggioranza assoluta dei cittadini intervistati (81 per cento) ritiene invece che l’Unione dovrebbe giocare un ruolo più importante nella soluzione del conflitto israelo-palestinese. Nella stessa classifica, gli italiani, con l’89 per cento, sono secondi solo ai greci (90 per cento).

( 2 novembre 2003 )


Il sondaggio europeo e Israele
Akiva Eldar, «Ha’aretz», Israele, «Internazionale» nr. 513, novembre 2003

Erano prevedibili le reazioni ufficiali israeliane al sondaggio da cui è emerso che circa il 59 per cento dei cittadini di 15 paesi dell’Unione europea considera Israele come il principale pericolo per la pace mondiale. Il ministro per Gerusalemme e per gli affari della diaspora, Natan Sharansky, ha accusato gli europei di «incolpare gli ebrei dei guai del mondo» e ha detto che i risultati dimostrano che dietro le critiche politiche a Israele si nasconde l’antisemitismo. Secondo Sharansky e i suoi colleghi di governo, bisogna essere europei razzisti per sollevare obiezioni a quello che il piccolo stato ebraico fa per difendere i suoi cittadini, circondati da nemici e nel mirino dei terroristi.
Più complessa la diagnosi dei funzionari del ministero degli esteri, che seguono con ansia crescente l’aumento tendenziale dell’antisemitismo. Secondo loro, i responsabili del 95 per cento degli episodi di antisemitismo che si sono verificati in Europa nell’ultimo anno erano immigrati musulmani. Gli attacchi erano soprattutto proteste contro l’iniquità dell’occupazione israeliana dei Territori. Sempre secondo gli analisti esiste un rapporto diretto fra il netto aumento dell’antisemitismo e la frequenza delle immagini di militari israeliani che sparano a bambini palestinesi. Anche le foto di coloni che erigono avamposti nel cuore del territorio palestinese evidenziano, agli occhi dei non ebrei, l’identità ebraica degli occupanti.

Non è antisemita chi critica Sharon

L’antisemitismo europeo è nato molto tempo prima dello stato di Israele, e quindi prima che gli ebrei neoconservatori entrassero nelle stanze de bottoni a Washington. Molti di coloro che odiano Israele non hanno certo bisogno delle foto dei piloti ebrei che bombardano le case dei musulmani per alimentare la propria ostilità.
Purtroppo in Israele ci sono uomini politici le cui dichiarazioni presentano questo conflitto locale e nazionale come religioso e globale: costoro sono responsabili dell’incolumità degli ebrei in quanto ebrei in tutto il mondo. Lo stesso ministro Sharansky, ultimamente, ha scritto che la spianata delle moschee è più importante della pace. Altri ministri non fanno mistero della propria convinzione che le truppe israeliane stiano nei Territori in base alla credenza religiosa secondo cui la terra d’Israele apparterrebbe solo al popolo d’Israele.
Invece quando i governi israeliani hanno manifestato la seria intenzione di mettere fine all’occupazione, l’antisemitismo si è affievolito, cedendo il passo – in Europa e persino nei paesi islamici – a simpatia e appoggio per lo stato ebraico.
Dire «il mondo intero ce l’ha con noi» è molto più facile che ammettere che lo stato d’Israele, nato come rifugio e fonte d’orgoglio per gli ebrei, si è trasformato non solo in un paese meno ebraico e meno sicuro per i suoi cittadini, ma anche in una vera fonte di pericolo e di penoso imbarazzo per gli ebrei che scelgono di vivere al di fuori dei suoi confini. Sostenere che si è antisemiti quando si definisce la politica del governo israeliano un pericolo per la pace mondiale è uno spregevole svilimento del termine «antisemita».
(…)

www.disinformazione.it


Non c’entra


LUIGI PINTOR

L’antisemitismo che ho respirato nell’aria da ragazzo e che ho visto in azione con i miei occhi è una cosa che oggi non esiste. Se ci fosse lo sentirei a naso, perché ha una puzza nauseabonda. Era fatto di deportazioni, emarginazione, pogrom, annientamento. Con i miei occhi in realtà non l’ho mai visto, perché non ero polacco o tedesco. Ma le fotografie dei campi di concentramento non sono mai uscite dalla memoria della mia generazione e hanno determinato le nostre scelte di vita. Qui da noi c’è gente che specula sull’antisemitismo, con disonestà intellettuale, magari per mettersi in mostra e farne uso commerciale o elettorale. Non meritano attenzione. Ma ci sono molti, ebrei o non ebrei, che invece avvertono un pericolo e reagiscono con veemenza e passione. Credo però che danneggino la loro causa.

Israele e la sua esistenza come stato non corrono alcun rischio. E’ un paese forte e ricco come pochi ed è garantito come nessun altro su scala internazionale. Solo uno sconvolgimento mondiale potrebbe metterlo a repentaglio così come solo uno sconvolgimento mondiale lo ha fatto nascere.

Ieri c’è stata a Gerusalemme un’altra strage suicida e quindi non è un giorno adatto per fare questo discorso. Ma invece sì, perché se la vita in quella terra, in Israele e in Palestina ancor più, è certamente invivibile l’antisemitismo non c’entra niente o quasi.

Lì c’è un conflitto territoriale e nazionale come in tutto il medio oriente c’è un conflitto regionale. E’ carico di storia, di incompatibilità etniche e religiose e di molte altre cose, ma vederlo in questa luce anziché nella sua materialità non porta da nessuna parte. Più è complesso, più va affrontato nei suoi tratti essenziali.

Un tratto essenziale è il dilemma annientamento-convivenza. Non è per antisemitismo che il mondo arabo non riconosce Israele ma perché lo considera un intruso e lo teme. E non è occupando territori non suoi che Israele garantirà meglio la propria sicurezza e felicità, l’identità e la memoria del suo popolo.

Non è per partigianeria che ammiro gli ebrei che in patria e fuori, anche a Washington, si espongono a persecuzione per difendere l’immagine di Israele dai danni che la guerra le infligge. Custodiscono una giusta memoria di sé e della propria storia e dànno alla bestia antisemita la risposta più alta.

Così come i ragazzi palestinesi che lanciavano sassi contro i carri armati hanno praticato una delle più alte forme di lotta di liberazione del nostro tempo, di cui gli attentati suicidi sono un disperato e tristissimo esito.

Non siamo equanimi? E’ solo che non dimentichiamo che tra i contendenti gli uni sono molti forti e ricchi e gli altri molto deboli e poveri. Pensate che non conti? E neanche dimentichiamo che il razzismo ha oggi per bersaglio nuove vittime totalmente indifese e miserabili. Voi lo dimenticate?


http://www.arcipelago.org/palestina/la_sinistra_e_il_ricatto_dell2.htm

LA SINISTRA E IL RICATTO DELL’ANTISEMITISMO

Gli Ebrei della Diaspora sanno e sentono che un nuovo e bestiale antisemitismo è cresciuto e va rafforzandosi di giorno in giorno fra coloro che dalla violenza della politica israeliana (unita alla potente macchina ideologica della sua propaganda, che la Diaspora amplifica) si sentono stoltamente autorizzati a deridere i sentimenti di eguaglianza e le persuasioni di fraternità. Per i nuovi antisemiti gli ebrei della Diaspora non sono che agenti dello Stato di Israele. E questo è anche l’esito di un ventennio di politica israeliana. (…)

Onoriamo dunque chi resiste nella ragione e continua a distinguere fra politica israeliana ed ebraismo. Va detto anzi che proprio la tradizione della sinistra italiana (da alcuni filoisraeliani sconsideratamente accusata di fomentare sentimenti razzisti) è quella che nei nostri anni ha più aiutato, quella distinzione, a mantenerla.

Franco Lattes Fortini – Lettera agli ebrei italiani – Il Manifesto, 24.5.1989

Si può essere comunisti, internazionalisti, antifascisti, antimperialisti, democratici, antirazzisti e, contemporaneamente, antisemiti? Evidentemente, no.

Si può essere sostenitori del diritto alla vita, alla terra e alla libertà di un popolo martoriato da una feroce occupazione militare e coloniale, che dura da oltre mezzo secolo, e non nominare i responsabili e i complici di quell’occupazione? Altrettanto evidentemente, no.

Il paradosso dell’attuale dibattito sulla presunta “deriva antisemita” di una “certa sinistra” è tutto qui: a leggere certi interventi, sembra che l’occupazione delle terre palestinesi, i crimini quotidiani contro i civili, la pulizia etnica perseguita scientificamente da decenni nei territori dell’ex mandato britannico siano tutte attività perseguite da un’entità metafisica, innominabile. Puntualmente, quando qualcuno nomina i responsabili e i complici dell’occupazione militare e coloniale di quei territori dai nomi antichi e suggestivi – ma abitati da persone in carne ed ossa – scatta la madre di tutte le accuse, quella di antisemitismo.

Francamente, non se ne può più. E’ avvilente dover rispondere ad un’accusa infamante assolutamente campata in aria, inconsistente nei suoi presupposti e sostenuta solo da menzogne più o meno abilmente architettate.

Leggete queste poche righe: “ A Roma e a Milano in alcuni grandi magazzini i giovani in kefiah, con atteggiamento minaccioso, toglievano dai carrelli della spesa delle massaie i prodotti israeliani e distribuivano volantini (…)”.

Uno scenario da notte dei cristalli, proposto dal mensile Shalom, che tende esplicitamente ad assimilare il boicottaggio dell’economia di guerra israeliana alle persecuzioni sofferte dagli Ebrei per mano nazista e fascista (le mani, sia detto per inciso, degli antenati politici degli attuali referenti di alcune comunità ebraiche italiane, da Fini a Urso e Gasparri). Poco importa che si tratti di uno scenario inesistente come i cani del Sinai, per dirla ancora con Franco Fortini: ciò che conta è l’operazione mediatica, l’iniezione nel sentire comune del veleno della mistificazione, non meno letale di quello dell’antisemitismo.

Poco importa anche che alcuni bersagli della madre di tutte le accuse siano obiettivamente improponibili, come – tanto per fare un esempio – Norman J. Finkelstein, Ebreo figlio di deportati, implacabile nella sua denuncia delle strumentalizzazioni a scopo di lucro della tragedia dell’Olocausto degli Ebrei compiute da organizzazioni sioniste e dallo stesso Stato di Israele.  

Poco importa che il primo, accorato appello a boicottare lo Stato di Israele sia venuto da cittadini israeliani e che intellettuali e pacifisti israeliani siano fra i più lucidi e determinati avversari della politica criminale del loro Paese verso i Palestinesi e gli altri popoli della regione.

Di fronte a tanta falsità, non stupisce il fatto che nel girone infernale degli antisemiti vengano fatti confluire, con grande disinvoltura, intellettuali come Asor Rosa, politici come Luisa Morgantini e Mauro Bulgarelli, circoli ARCI come l’Agorà di Pisa e intere associazioni democratiche e di sinistra.

L’egemonia esercitata dalle lobby israeliane nel mondo – tutte rigorosamente schierate a fianco dei governi di Tel Aviv e Washington – soffoca anche la voce di quella parte della società israeliana che vuole raggiungere una pace giusta, attraverso il riconoscimento dei diritti del popolo palestinese e la trasformazione dello Stato ebraico da realtà confessionale e segregazionista ad entità laica e democratica. Questa egemonia non si basa su una reale rappresentanza dei cittadini ebrei (particolarmente in Italia, dove a votare per gli organismi dirigenti delle comunità ebraiche si è recato a malapena il 25% degli aventi diritto), ma sulla potenza economica, politica e mediatica che gli deriva dalla stretta interdipendenza con gli U.S.A. Non parliamo, infatti, di lobby ebraica in senso stretto, ma di lobby israeliana, in quanto l’oggetto d’interesse è Israele e non l’ebraismo e perché è composta anche da non-ebrei.

E’ comprensibile, dunque, la scarsa incisività delle reti ebraiche progressiste, prive dei grandi mezzi a disposizione delle lobby israeliane e spesso – almeno in Italia – a loro volta sensibili a quello che lo storico Angelo D’Orsi ha correttamente definito “il ricatto dell’antisemitismo”.

*****

La nostra convinzione è che non esista alcuna tendenza reale verso l’antisemitismo in una sinistra che, semmai, deve interrogarsi sulla propria afasia verso la Resistenza palestinese. Nell’ultimo drammatico anno di occupazione israeliana, il testimone della solidarietà con le vittime dell’occupazione è stato raccolto da movimenti di base, associazioni, ONG, nel silenzio e spesso nell’avversione della sinistra parlamentare e di buona parte di quella “di movimento”.

Il ricatto dell’antisemitismo e, diciamolo, una buona dose di opportunismo hanno fatto si che venisse amplificato a dismisura un inesistente antisemitismo mentre veniva messa la mordacchia alla denuncia dell’aggressività sionista anche nel nostro Paese. E’ difficile non constatare la sottovalutazione dei numerosi episodi di violenza ad opera dell’estremismo sionista, mai sconfessato dalle comunità ebraiche ufficiali: le aggressioni contro la manifestazione del 9 marzo e il presidio di Piazza S. Marco, l’assalto alla Direzione di Rifondazione Comunista, l’agguato a Luisa Morgantini e Mauro Bulgarelli all’uscita della trasmissione Sciuscià, il linciaggio di Vittorio Agnoletto, la distruzione della mostra fotografica di Medici Senza Frontiere, le intimidazioni contro il parlamentare verde Paolo Cento e la consigliera romana del PRC Adriana Spera, contro Alberto Asor Rosa e il circolo ARCI Agorà, sono tutti episodi ben concreti che dovrebbero far riflettere.

Senza iattanza, avanziamo alcune semplici considerazioni, sottoponendole al vaglio di una critica materialista e razionale, scevra (ci auguriamo) da ideologismi religiosi e misticheggianti: la rapina della terra e delle risorse del territorio dell’ex mandato britannico della Palestina, la negazione dei diritti e financo dell’identità del popolo palestinese, la pulizia etnica nei suoi confronti e la colonizzazione sionista sono tutti elementi che concorrono a determinare lo stato di guerra permanente nella regione, una regione in cui si incrociano formidabili intereressi economico-finanziari (il petrolio) e suggestioni millenarie, legate alla storia delle grandi religioni monoteiste. Se, come tutti razionalmente pensiamo, in quelle poche migliaia di chilometri quadrati hanno diritto di cittadinanza donne e uomini aldilà delle convinzioni religiose, non vi è soluzione al dramma medio orientale che non sia la fine del colonialismo sionista e la costruzione di un’entità laica e democratica, attraverso il riconoscimento dei diritti nazionali e umani del popolo palestinese e del diritto dei cittadini israeliani di vivere in pace e sicurezza. Nelle condizioni date, questa soluzione passa obbligatoriamente per la costituzione di uno Stato sovrano palestinese nei territori della West Bank e della Striscia di Gaza con Gerusalemme araba capitale, cioè per la restituzione del 22% della Palestina mandataria ai legittimi proprietari.

Si tratta, in tutta evidenza, di una soluzione all’insegna della provvisorietà, perché non vi sarà pace in Medio Oriente e nel Mediterraneo fino a quando non sarà mutata la natura confessionale, messianica e coloniale dello Stato di Israele, cioè fino a quando non si riconoscerà il diritto al ritorno dei profughi e non si realizzeranno le condizioni per una convivenza laica ed egualitaria, come avviene in tutte le democrazie, fra cittadini musulmani, ebrei, cristiani di tutte le confessioni e – se permettete – atei convinti come i sottoscritti.

Noi lavoriamo per quella pace.

Roma, 27.2.2003


Sergio Cararo e Germano Monti – Forum Palestina

http://www.carta.org/agenzia/palestina/020410siamo.htm

SIAMO

Siamo quelle/i che accompagnano le loro classi al Ghetto, alla Sinagoga, a via Tasso, alle Fosse Ardeatine
Siamo quelle/i che discutono con i propri alunni del razzismo e dell’antisemitismo negli stadi [dei buuuu, curva di ebrei, ecc.] e fuori [barzellette sugli ebrei, per es. e altro]
Siamo quelle/i che spiegano e rispiegano ai propri alunni perché non è bello disegnare le svastiche e gliele fanno cancellare
Siamo quelle/i che leggono in classe Il Diario di Anna Frank, Se questo è un uomo, Shemà; che fanno vedere Gli ultimi giorni, Jona che visse, Schindler’s List
Siamo quelle/i che organizzano attività didattiche sulla cultura ebraica
Siamo quelle/i che credono nell’educazione alla pace, nel ripudio della guerra, nella convivenza tra i popoli, nel rispetto tra diversi
Siamo quelle/i che trovano entusiasmante lavorare nelle nuove classi multietniche della scuola italiana, mentre i governanti “smemorati” fanno leggi contro gli immigrati,
Siamo quelle/i che “tengono memoria” della nostra storia patria con i suoi alti e bassi [l’emigrazione, il colonialismo, la dittatura fascista, la Resistenza, la Costituzione]
Siamo quelle/i che pensano che il popolo palestinese abbia diritto a vivere in un suo stato, così come gli Israeliani, due stati due popoli
Siamo quelle/i che ritengono Sharon un criminale, sia per quello che sta facendo che per quello che ha fatto [Sabra e Chatila]
Siamo quelle/i che sanno che in Israele, oltre ai sostenitori di Sharon esistono gruppi, organizzazioni, militari obiettori, individui che si oppongono alla sua politica e si battono per la pace, per la propria sicurezza, contro l’occupazione dei territori e le colonie, per i diritti del popolo palestinese
Siamo quelle/i che non amano la cultura della morte per sé e per gli altri, perché non si è testimoni [cioè martiri] quando ci si fa esplodere insieme ad altri come te, alla fermata di un autobus o in un ristorante
Siamo quelle/i che sono fieri ed ammirati dei nuovi profeti disarmati, dei nostri figli e dei giovani che a Ramallah, Betlemme, Deheishe, in un mondo di Pilati, rischiano la propria vita per testimoniare che un altro mondo è possibile.

Remo Marcone, Donatella Artese De Lollis, Dina Capozio, Bruna Sferra, Stefania Santuccio, Michele Arcangelo Firinu, Alessandro Anniballi

[Insegnanti di scuola elementare e media, Cobas, Roma]


Azienda israeliana assume cinesi, «ma niente sesso con le israeliane»
MI. GIO.


GERUSALEMME

Chi non lavora non fa l’amore, avvertiva minacciosamente il ritornello di un celebre brano di un po’ di anni fa. In Israele invece anche chi lavora non fa l’amore, almeno se è di nazionalità cinese. Una società israeliana infatti ha richiesto a migliaia di manovali cinesi di firmare un contratto di lavoro in cui accettano di non fare sesso con le israeliane e di non convertirle ad altre religioni. Il documento afferma che i manovali cinesi maschi non potranno entrare in «contatto» con donne israeliane, prostitute comprese, o diventare loro amanti e, ancora meno, sposarle. In poche parole i cinesi, che notoriamente non mancano di inventiva in ogni campo, per tutto il periodo che rimarranno in Israele dovranno «arrangiarsi» per quanto riguarda il sesso, perché le donne israeliane al massimo potranno guardarle da lontano. Non solo ma dovranno astenersi (ancora una volta) anche dal discutere in pubblico di tematiche religiose o, peggio ancora, dal tentare di convertire i cittadini israeliani. In caso contrario verranno immediatamente fatti rimpatriare, peraltro a loro spese. Condizioni che ricordano il clima sociale di quei paesi arabi islamici che pure Israele, che non manca occasione per definirsi l’unica democrazia del Medio Oriente, critica e condanna ripetutamente. Il portavoce della polizia, Rafi Yaffe, ha confermato l’esistenza del contratto «particolare» ma ha anche detto che la società in questione non ha violato la legge e che pertanto non è stata avviata alcuna indagine. Sono circa 260.000 i lavoratori stranieri in Israele, in gran parte orientali, rumeni e di altri paesi dell’Europa dell’est. Hanno sostituito in molti casi i pendolari palestinesi di Cisgiordania e Gaza ai quali Israele, dall’inizio dell’Intifada, non consente più di entrare nel suo territorio. Quando il governo alla fine degli anni Novanta decise di aprire le frontiere ai manovali stranieri, molti ministri misero in guardia il paese dalla «bomba sociale ad orologeria» che sarebbe scoppiata. A causa soprattutto della assimilazione degli stranieri con gli israeliani. Almeno metà dei manovali provenienti dall’estero risiedono ora illegalmente nel paese e la polizia, su istruzione del ministero dell’interno, ha intensificato i controlli ed espulso migliaia di clandestini. Una misura presa anche a causa della crescita della disoccupazione in Israele, all’11%. «Medici per i diritti umani» ha denunciato in passato pesanti abusi a danno dei manovali stranieri, anche quelli «regolari», ai quali i datori di lavoro spesso confiscano il passaporto per renderli più ricattabili o non versano lo stipendio come stabilito dal contratto.


ANALISI a cura di Barbara Spinelli

Non si fa politica con i testi sacri



11 febbraio 2001
http://www.lastampa.it/_web/_p_vista/spinelli/archivio2/110201.stm

Nella Bibbia si trova di tutto, e però nulla è completamente chiaro: è promessa una terra su cui gli ebrei regneranno sovrani, e al tempo stesso è sottolineata la fragilità dei territori assegnati. Il popolo fuggito dall’Egitto riceve in dono la Palestina, ma in cambio deve obbedire a rigidi codici morali, e «praticare il diritto e la giustizia». L’abitante di Israele non può fare qualsiasi cosa, con la scusa che Dio è al suo fianco. E’ incitato a difendersi con le armi, ma i testi sacri insegnano anche la non ingerenza negli affari altrui, la limitazione del potere quando il mondo circostante si rivela ostile.Secondo lo studioso Vittorio Dan Segre, nella Bibbia si prescrive anche la neutralità: «Guai a quanti scendono in Egitto per cercare aiuti, e pongono la speranza nei cavalli: confidano nei carri perché numerosi e sulla cavalleria perché molto potente, senza guardare al Santo di Israele e senza cercare il Signore» (Isaia, 31-1). Forse la terra non è vera terra ma è metafora del dono, dell’esistenza vissuta come prestito: leggendo la Bibbia non si può dire, perché i Testamenti non sono una Costituzione. Cercare di far politica manipolando i testi sacri può esaltare gli animi, ma può anche condurli a inimicizie eterne e soprattutto a fatali presunzioni. Quando pretendono di parlare in nome di Dio, gli individui come le collettività immaginano di possedere anch’essi l’immortalità, e corrono verso la propria rovina. Lo Stato di Israele è giunto a questo punto di divaricazione: deve decidere se proseguire il proprio cammino contando sull’ineffabile dettame divino, o far politica con mezzi umani. Deve dire se il suo è un destino soprannaturale oppure terreno: dunque vulnerabile e mortale. La vittoria di Ariel Sharon alle elezioni di martedì mette la nazione davanti a questo bivio esistenziale, che difficilmente potrà essere eluso con ennesime chiusure e guerre. Se la rivoluzione pacifica di Ehud Barak è stata respinta con tanto risentimento, vuol dire che gli israeliani l’hanno interiorizzata, sentono di dover fare i conti con le sue conseguenze, e in cuor loro lo sanno: il paese intero è sull’orlo di un abisso, e non c’è molto tempo per tergiversare, aspettare. Barak ha avuto l’ingrato compito di rompere il tabù dell’invulnerabilità, e il popolo israeliano è alle prese con l’esperienza di uno storico scacco. L’ideologia sionista si era proposta di eliminare l’odio degli ebrei dando loro una terra, e lo scopo a distanza di più di cinquant’anni è fallito. Possedere terre fortificate non è più garanzia di sopravvivenza, non è un’assicurazione contro la morte, e il sionismo ne esce spezzato. Su questi frantumi va rifondata la patria degli ebrei, se non si vuole che Arafat e le intifade decidano ogni cosa a venire: le elezioni dei primi ministri e le loro cadute funeste, le fortune dei partiti e i loro disastri. Dan Segre è convinto che l’arma sionista, così come era stata concepita, ha perso la sua punta. Doveva metter fine all’odio dei gentili e ha ingigantito la giudeofobia, doveva sormontare la tendenza ebraica all’esclusivismo, e l’ha accentuata (Vittorio Dan Segre, Mediterranean Quarterly, autunno 2000). Israele e Palestina tornano al punto di partenza: tornano al ghetto, e alla mentalità del ghetto. Sharon sembra esser cosciente di questo fallimento, come delle tracce profonde lasciate dalla politica trasgressiva di Barak, e non a caso insiste con forza sull’opportunità di una grande coalizione fra Likud e laburismo, ai fini di nuovi negoziati con i palestinesi. I suoi primi discorsi non sono infiammati da fede integralista: sono permeati di cautela, e contengono un appello a Simon Peres e Ehud Barak perché entrino in un governo di unità nazionale per guidarne la politica estera e la difesa. Lui stesso, al giornalista americano William Safire, ha confidato di voler rialzare la bandiera del sionismo: bandiera che evidentemente ritiene periclitante se non strappata. Un’impresa di tale mole – se Sharon vuol compierla – non può esser compiuta con integralisti e ortodossi ebraici che hanno sempre avversato i padri fondatori di Israele. Rifondare il sionismo non significa soltanto restituire orgoglio alla nazione offesa. Significa lottare contro il fatalismo ebraico, attenuare le tentazioni autolesioniste, mettersi in questione. Una volta fallito l’obiettivo primordiale – eliminare le ragioni dell’antisemitismo – non è più sufficiente dire a se stessi: mi chiudo in una fortezza blindata e solo su questa base, solo quando l’avversario avrà riconosciuto i miei divini diritti territoriali, negozierò. Occorre trattare con l’avversario senza ausili ultraterreni, e solo in una seconda fase negoziare la sicurezza delle terre. Occorre disgiungere il profano dal sacro, le istituzioni civili dalla Bibbia, la storia dei fatti dalla storia dei simboli, e inventare infine la laicità: solo i promotori del sionismo possono accingersi a tale compito. Dicono che Arafat e il suo radicalismo impolitico hanno determinato la vittoria di Sharon, ma questo è vero solo parzialmente, e in fondo non è la sfida essenziale. Ambedue le nazioni sono in realtà prigioniere delle proprie sette estremiste, integraliste, e i demoni ebraici non sono meno paralizzanti di quelli palestinesi. Se per questi ultimi è così difficile prender congedo dai tabù territoriali, se Israele risponde al coraggio di Barak lasciandosi tentare dal ghetto, è perché il suo animo ospita un’ostilità religiosa alla politica simile a quella palestinese, e un analogo rifiuto di imparare lezioni dalla storia: da una storia normale, di popolo non eletto né superiore. Perché la sua incoscienza è diffusa, e per decenni è stata alimentata da vocazioni apocalittiche, da pretese all’invulnerabilità. Barak ha aperto gli occhi degli israeliani, ha fatto loro vedere il fallimento, e ha pagato l’empio gesto. Ma il gesto non scompare: agisce ancora negli animi israeliani, più o meno costruttivamente, e nessun politico potrà ignorarne la portata. Il guaio è che l’incoscienza è favorita, in Israele, dai vizi della sua organizzazione democratica. E’ una organizzazione all’italiana, con un Parlamento troppo potente e una guida troppo vulnerabile. La democrazia israeliana è, come la nostra, malata di instabilità: sembra concepita per tempi morti, privi di eventi, non per le grandi rifondazioni, le scelte di pace e di guerra. Anche per questo sarebbe necessaria una vasta alleanza, che riscriva le regole del gioco e semplifichi il sistema politico. Chi voglia immaginare la situazione israeliana pensi all’Italia: il primo ministro è dal ’96 eletto direttamente dal popolo, senza tuttavia poter disporre di salde maggioranze. Mentre l’elezione del Parlamento continua a svolgersi con lo scrutinio proporzionale, favorendo una miriade di formazioni minoritarie il cui potere costitutivo è quello di nuocere e ricattare, più che di costruire. Questo ha trasformato Israele in una democrazia ingovernabile, i cui premier sono costantemente tenuti a bada dai piccoli partiti religiosi e ortodossi che puntellano le rispettive coalizioni. Invocando un patto con i laburisti, Sharon tenta di sottrarsi al giogo dei distruttori di maggioranze: non vuol esser comandato da partiti che nulla vogliono sapere di Stato laico, e di sionismo riformato. Le più feroci guerre di religione sono finite così: con questa consapevolezza che la politica non è di spettanza religiosa, e con questa scoperta della propria fragilità nazionale, che ferisce ataviche certezze di elezione e che occorre riparare nell’emergenza. La scoperta viene sempre fatta sull’orlo di abissi, come insegnano le guerre di religione europee e quelle odierne del Medio Oriente. Non si sfugge alla necessità dei trattati di Westfalia, se si vuol entrare finalmente nella storia e ricominciare la politica. E precisamente di questo hanno bisogno oggi Israele e la Palestina: di un trattato che definisca frontiere, ridistribuisca territori, e che chiarisca dove sono i poteri e chi li detiene.Che introduca una democrazia rappresentativa in Palestina, ma che corregga anche il disordine democratico che logora Israele. Per salvare se stessi, gli europei giudicarono più importante la fedeltà ai sovrani nazionali che la fedeltà alla religione dell’impero. L’universalismo ne risentì e gli Stati-nazione videro dilatati i propri poteri assoluti, ma la guerra fu fermata e il riconoscimento reciproco di sovranità attenuò, col tempo, il peso delle Chiese sulla politica. Israele e Palestina sono oggi davanti a analoghi crocevia, dovendosi reciprocamente accettare, e come per gli europei del Seicento ne va della loro esistenza. Barak ha tentato questa via, senza successo ma dando il via a una prima rivoluzione delle menti.Se Sharon ha bisogno di lui, vuol dire che non tutti i suoi sforzi son stati vani. E’ quello che spinge lo scrittore Abraham Yehoshua a dire che il falco Sharon potrà forse portare la pace. Malgrado abbia iniziato la guerra nel Libano, e sia responsabile del terribile massacro di Sabra e Shatila, Sharon «non è un fascista, non è Milosevic». E’ stato l’artefice degli accordi di pace di Begin con l’Egitto, e fu lui a assumersi la responsabilità di evacuare le colonie israeliane insediate nel Sinai dai laburisti. La maggior parte degli israeliani, compresi gli elettori di Sharon, «desidera stabilire confini riconosciuti e difendibili entro i quali esercitare la propria sovranità, e si oppone al ritorno dei profughi palestinesi nello Stato ebraico, auspicando un loro inserimento nel futuro Stato di Palestina» (La Stampa, 8 febbraio 2001).Si potrebbe forse aggiungere che non pochi israeliani sono stanchi di guerra, e auspicano confini difendibili e chiari anche tra politica e religione. Solo se Sharon – con l’aiuto di Peres e Barak – saprà stipulare con la Palestina un trattato di Westfalia, il sionismo, mutando forma, potrà rivivere ancora una volta. Per il futuro toccherà immaginare istituzioni sovranazionali che smorzino i poteri assoluti dei due Stati, ma nell’immediato sarà stata arrestata l’infamia delle odierne guerre di religione.


BIBLIOGRAFIA

Oltre ai riferimenti riportati vi è un sito web, non esplicitamente citato, in cui ho ricavato altre notizie:

http://www.ifrance.com/amipalazzi/palazzi_it.htm



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