GEOPOLITICA: OSSERVATE CON ATTENZIONE LE CARTE GEOGRAFICHE PUBBLICATE DI SEGUITO E METTETELE IN RELAZIONE CON LE GUERRE USA IN GIRO PER IL MONDO

Roberto Renzetti

Le carte geografiche che seguono intendono rendere visibili le operazioni che successivamente hanno portato e porteranno avanti gli USA per estendere l’Impero su scala planetaria (Iraq, Afghanistan, Balcani – Cecenia, Jugoslavia, Macedonia, Kossovo, … -)

La prima è una carta dell’Asia. Sulla sinistra in basso, sopra l’India e quindi il Pakistan si vede l’Afghanistan. Quella miserabile striscia di terra impedisce che gli oleodotti e gasdotti provenienti dai ricchissimi giacimenti del Caspio, possano raggiungere il Mar Arabico. Se si fa attenzione, si scopre che i giacimenti sono in ex repubbliche sovietiche che si trovano al di sopra dell’Afghanistan. Tali repubbliche hanno concesso basi agli USA per attaccare l’Afghanistan con il beneplacito di Mosca. Ma l’accordo con la Russia prevedeva che, terminate le operazioni di guerra, le basi USA fossero smantellate. Così non è stato ed ora, forse troppo tardi, la Russia si accorge di essere accerchiata dagli USA (ad Est la Nato arriva fino ai suoi confini, al Sud ormai le basi americane incombono minacciosamente e ad Ovest e a Nord vi è il Pacifico e l’Artico che dividono la Russia dagli USA).

Non vi sono altri passaggi possibili nella geopolitica attuale. Da una parte vi è l’Iran che blocca ogni passaggio e dall’altra vi è la Cina. In compenso Russia e Cina stanno già costruendo i loro oleodotti e gasdotti come le figure 3 e 4 mostrano. Altri passaggi, ad Est del Mar Caspio sono impedite dalle piccole Repubbliche ex sovietiche facilmente destabilizzabili. Si pensi alla Cecenia ed alla Georgia.

Figura 1

Figura 2

Figura 3

Figura 4

Figura 5

Figura 5 bis

La figura 6 mostra il ruolo fondamentale dell’Iraq nella zona più ricca di petrolio del mondo. La carta fa prevedere le future guerre imperiali degli USA: con l’eliminazione di Iran e Siria si creerebbe una zona a completo controllo USA da cui si può partire per mettere a tacere i possibili nemici. Il primo è l’Europa che può essere strangolata con rifornimenti e prezzo del petrolio; quindi la Cina che deve essere fermata prima che la sua crescita possa iniziare a diventare un pericolo per l’Impero; l’ultima è la Russia che è già in un evidente declino, anche se vive dell’onda lunga dei suoi armamenti.

Con la sistemazione di questa parte del mondo si potrà anche sistemare definitivamente la questione palestinese. Immaginate con quali esiti.

Le altre carte sono per vedere in maggiore dettaglio le varie zone in oggetto.

Figura 6

Figura 7

Figura 8

Figura 9

La figura 10 offre una carta dell’Europa. L’ho riportata per far vedere che anche l’attacco alla Jugoslavia rispondeva alla strategia dell’Impero. I fini erano e restano duplici: da una parte si apre un corridoio, prima inesistente, che colleghi i giacimenti petroliferi della Romania con l’Adriatico; dall’altra si è costruita in Kossovo la più grande base militare USA in Europa.

Figura 10

Corridoi di guerra

Petrolio e gas: L’approvvigionamento energetico dell’occidente è stato
alle origini delle guerre balcaniche. La regia è statunitense

MICHEL COLLON*

Sinistra ripetizione? Dopo che i separatisti dell’Uck hanno attaccato i villaggi della Valle di Presevo nella Serbia del sud, dai quali per concessione della Nato si sono ritirati – forse – e dopo che per due anni sono stati uccisi in Kosovo civili serbi, moderati albanesi, rome persone di altra etnia, le milizie albanesi dell’Uck, ecco che hanno  portato la guerra nella vicina Macedonia. E, nuovamente, ecco che ricompaiono litanie di profughi lungo le strade. Finisce o ricomincia nei
Balcani? Comunque sia sono avvenimenti che permettono di capire meglio quanto è successo nel 1999.
1. Macedonia regione strategica?
Sì, lo spieghiamo su Solidaire e nel nostro libro Monopoli citando il Generale Michael Jackson, allora comandante delle truppe della Nato a Pristina: “Noi resteremo qui, certamente, molto tempo al fine di garantire la sicurezza dei corridoi energetici che attraversano la Macedonia”.
Corridoi energetici? Abbiamo presentato le carte geografiche che dimostrano i progetti dell’Europa (una rete completa di oleodotti e gasdotti che la uniscono, attraverso i Balcani, alle enormi fonti di petrolio e gas del Caucaso ex Sovietico) e quelli degli Stati Uniti (un oleodotto Bulgaria-Macedonia-Albania-Adriatico che assicurerebbe alle multinazionali petrolifere statunitensi il controllo di questa stessa via del petrolio e del gas). Progetti rivali, in effetti. Ecco perché tutte le grandi potenze cercano da dieci anni il controllo della Jugoslavia. La via del petrolio e del gas passa di là. Noi
sottolineiamo anche che, dal 1992, è in Macedonia – anche se molto lontano dalle zone di conflitto – e da nessuna altra parte che Washington aveva inviato un battaglione.
Siamo franchi: anche a sinistra, alcuni trovavano esagerato sospettare di Washington di disegni così neri… come il petrolio. Ma proprio recentemente, il rispettabilissimo quotidiano britannico Guardian ha confermato: “Un progetto chiamato “Trans-Balkan Pipeline” non è mai stato menzionato dalla stampa europea o americana. Questa linea partirà da Burgas (Mar Nero) per raggiungere l’Adriatico a Vlore (Valona), passando per la Bulgaria, la Macedonia e l’Albania. Per l’Occidente sarà probabilmente la principale via verso il petrolio ed il gas attualmente estratti in Asia centrale, 750.000 barili al giorno. Un progetto necessario, secondo l’Agenzia americana del Commercio e dello Sviluppo, perché “fornirà una fonte costante di greggio alle raffinerie americane, attribuirà un ruolo chiave alle compagnie americane nello sviluppo di questo corridoio vitale est-ovest e farà progredire nella regione la volontà di privatizzazione del governo americano. Chiaro, no?
Inoltre, il segretario americano all’energia Bill Richardson ha dichiarato nel 1998, quindi prima della guerra: “Si tratta della sicurezza energetica dell’America”. Un discorso radicalmente copiato, indurito e approfondito dalla nuova amministrazione Bush. Quando gli Stati uniti parlano di “sicurezza energetica”, bisogna sapere cosa vuol dire: preservare il dominio mondiale e i superprofitti delle loro multinazionali petrolifere. E Richardson prosegue: “Vorremmo vedere questi paesi nuovamente indipendenti appoggiarsi su interessi commerciali e politici dell’Ovest, piuttosto che rivolgersi in un’altra direzione. Noi abbiamo effettuato un’importante investimento politico nella regione del Caspio ed è importante per noi che sia il tracciato degli oleodotti che la politica siano corretti”.
E il Guardian aggiunge questo, essenziale: “Il 9 dicembre ’98 (prima della guerra, ndr) il presidente dell’Albania ha assistito ad una riunione su questo argomento a Sofia: “A mio parere personale, nessuna soluzione che si trovi in seno alle frontiere serbe porterà una pace durevole”. Il messaggio poteva difficilmente essere più chiaro: se voi volete l’accordo con gli albanesi per l’oleodotto Trans-Balcanico, dovete togliere il Kosovo ai serbi.
2. L’offensiva dell’Uck è una sorpresa?
Gli Stati uniti si sono messi in combutta con il diavolo allora. Perché numerosi rapporti diplomatici americani attestavano: l’Uck separatista assassinava non soltanto i poliziotti e i civili serbi, ma anche albanesi sposati a serbe o semplicemente per aver accettato di vivere nello stato jugoslavo. E l’inviato speciale di Washington nei Balcani, Robert Gelbard, aveva lui stesso affermato in tre riprese alla stampa internazionale, all’inizio del ’98: “Vi dico che questi dell’Uck sono terroristi”. Ma tre mesi più tardi questi terroristi si erano trasformati miracolosamente in “combattenti per la libertà” e la Nato sarebbe ben presto diventata la loro forza aerea.

Oggi, gli Stati Uniti fingono sorpresa davanti alla “violenza  estremista” che attacca la Macedonia. Bella ipocrisia! Dal giugno ’98, l’Uck diffondeva fra i suoi simpatizzanti europei una carta della “Grande Albania”. In Monopoli (pag.69), riproduciamo questa carta con il commento: “Oltre al Kosovo questa Grande Albania toglierebbe vasti territori alla Macedonia, al Montenegro e alla Grecia. Le guerre sono quindi inevitabili se l’Uck riesce a realizzare i suoi piani”.
Questa Albania implica non soltanto l’espansionismo, ma anche la puliziaetnica. Oggi, sotto gli occhi e con il tacito accordo della Nato, 350.000 non Albanesi sono già stati espulsi dal Kosovo: serbi, ma anche rom, goranci, turchi eccetera. Il Kosovo è quasi “puro”.
Una sorpresa? Veramente no, poiché già il 12 luglio 1982 il New York Times intervistava un responsabile jugoslavo del Kosovo, d’origine albanese: “I nazionalisti albanesi hanno un programma di due punti: inizialmente creare una repubblica albanese etnicamente pura, e in seguito la fusione con l’Albania per formare una Grande Albania”. D’altra parte, al tempo della insurrezione anti-jugoslava del 1981, i nazionalisti albanesi avevano già stabilito una stretta collaborazione fra le loro unità di Macedonia, Serbia e Montenegro.
Tutto questo non ha impedito all’influente senatore americano Joseph Lieberman di dichiarare nell’aprile ’99: “Gli Stati uniti e l’Armata di Liberazione del Kosovo difendono gli stessi valori umani, gli stessi principi. Battersi per l’Uck, è battersi per i diritti umani e i valori americani”. In breve: Usa-Uck, stesso combattimento. D’altra parte, chiunque viaggi in Kosovo può vedere un po’ dappertutto, per esempio sopra le stazioni di benzina, le bandiere albanese e americane strettamente associate.
3. La versione della Nato sta in piedi?
Cosa ci diceva la Nato per giustificare i suoi bombardamenti mortali?
Che la sua guerra era umanitaria. Falso: era per il petrolio e per spezzare un’economia che resisteva alle multinazionali occidentali e al Fmi. Che aveva tentato tutto per trovare una soluzione negoziata. Ugualmente falso: sappiamo adesso che non c’è mai stato un negoziato a Rambouillet, soltanto una commedia per giustificare una guerra già decisa. Che era una guerra pulita. Falso ancora: 2000 civili jugoslavi uccisi, innumerevoli fabbriche e infrastrutture distrutte. Più l’uso di armi proibite e criminali come bombe a frammentazione (cluster bomb) o munizioni all’uranio. Con più vittime di quelle addebitate al perfido Milosevic.
Al momento, si sta sciogliendo anche il poco che rimane della versione ufficiale. Ci avevano detto: “I problemi del Kosovo provengono da Milosevic”. Il Kosovo non funziona meglio con Kostunica.
Ci dicevano che bisognava intervenire per fermare un genocidio serbo e stabilire un Kosovo multietnico. Ma il generale tedesco Heinz Loquai ha dimostrato che il preteso documento “Piano ferro-di-cavallo”, presentato dal ministro tedesco Scharping per giustificare l’intervento armato, era un falso, e che il genocidio era una menzogna mediatica. Ciò rende la guerra ingiustificata e rende la Nato colpevole di aver provocato due catastrofi umanitarie: un esodo massiccio di albanesi, poi un altro di serbi. E il generale Michael Rose, che comandava le forze Onu in Bosnia, rimprovera alla Nato “di aver introdotto una cultura di violenza”. Infine, per tentare di scusare l’attuale pulizia etnica in Kosovo, i sostenitori della Nato e dell’Uck hanno preteso di descriverla come una sequenza di “vendette per ciò che hanno fatto i Serbi”. E ora, nella Macedonia dove non è successo nulla, con quale pretesto giustificare l’aggressione dell’Uck? E’ tempo di riconoscere la sola spiegazione possibile: l’Uck mira a creare uno stato etnicamente puro e non può realizzare questo programma che con l’escalation dell’odio e con il terrorismo.
4. Washington fa il doppio gioco?
Gli Stati uniti fanno finta d’indignarsi per le attuali violenze dell’Uck.
Ma bisogna far rimarcare diverse cose. Non hanno alzato un dito quando l’Uck è uscita dal Kosovo per attaccare la regione di Presevo in Serbia centrale. Peggio: l’infiltrazione si è prodotta a partire dalla zona di occupazione americana del Kosovo. Washington e la Nato pretendono oggi “di cercare di fermare il flusso d’armi e di combattenti verso la Serbia del Sud e verso la Macedonia”. Ma chiunque si rechi in Kosovo può osservare barriere e controlli della Kfor ogni cinque chilometri. Soltanto, questa stessa Kfor lavora con interpreti e altro personale uscito dall’Uck. Che si è, d’altra parte, trasformato nel molto ufficiale “Corpo di Protezione del Kosovo”. In breve, chi non cerca le armi dell’Uck, non le troverà. D’altra parte, il maggiore Jim Marshall, portavoce della Kfor americana, ha dichiarato il 6 marzo scorso: “Abbiamo identificato fra 75 e 150 ribelli a Tanusevci (Macedonia), li abbiamo fatti entrare e uscire dal Kosovo, e sbarazzarsi del loro equipaggiamento e delle loro armi prima di passare la frontiera”. Una domandina stupida: cosa vi impediva di arrestarli? 45.000 soldati Nato occupano il Kosovo e non possono arrestare 150 terroristi? Ora quei pochi “fermati” stazionano nella grande base Usa di Bondsteel (Urosevac) costruita in dispregio degli accordi di Kumanovo (dove ora si combatte).
5. L’Uck scatenerà un’altra guerra?
Cosa succederà? Dopo aver giocato su diversi tavoli, gli Stati uniti possono trovarsi all’angolo. Da un lato, continuano a utilizzare l’Uck per ottenere maggiori concessioni in Serbia: la privatizzazione totale e l’eliminazione del principale partito di opposizione, il Sps (inviandone il presidente al tribunale dell’Aja). Ma, dall’altro lato, se lasciano che l’Uck vada troppo oltre, si metteranno contro alcuni alleati preziosi: il governo macedone e la Grecia, paesi ugualmente minacciati dalle rivendicazioni dell’Uck. E anche Kostunica, che non può presentare alla sua opinione pubblica alcun bilancio positivo sul Kosovo, anzi – tranne forse nella Valle di Presevo, nella Serbia del sud ora ricontrollata dalle truppe di Belgrado, ma settori dell’Uck(Ucpmb) non hanno intenzione di deporre le armi nemmeno lì. Ma se Washington mollasse l’Uck e rovesciasse le sue alleanze, potrebbe succedere che la sua alleata (in realtà rivale) Germania si metta nuovamente a sostenere clandestinamente l’Uck. La quale ha quindi interesse a spingere oltre le sue provocazioni.
Rovesciare le alleanze? Abbiamo già visto cose di questo tipo da parte degli Stati Uniti, per esempio fra Iran, Iraq e Siria. Ma lo scopo degli americani è di assicurarsi nei Balcani uno stato (o staterelli, o
stati-mafie) “portaerei”. Per fare ciò, la scelta numero uno resta uno stato fantoccio albanese che dovrebbe tutto a Washington. Solo le potenze europee rifiutano una modifica delle frontiere nei
Balcani. Queste provocherebbero nuove guerre tra i piedi dell’Europa e destabilizzerebbero i progetti di “corridoi” descritti più sopra. Una cosa è sicura: l’intervento della Nato, per interessi nascosti, non ha portato e non porterà la pace.

* Giornalista belga esperto di Balcani

Petrolio e contraddizioni USA-UE dietro l’invasione NATO della Macedonia

Macedonia, l’oleodotto va alla guerra

Oro giallo e oro nero

MICHEL CHOSSUDOVSKY * – “Il Manifesto”, 22 e 24 Agosto 2001

http://digilander.libero.it/zastavatrieste/Documenti/dossier_set2001_8.html

Bulgaria, Macedonia, Albania.
Tra Mar Nero e Adriatico, il famoso “corridoio 8”, l’oleodotto petrolifero che fa gola alle compagnie americane. Che, alleate con la Gran Bretagna, intendono escludere il resto dell’Europa dalla joint venture che lo controllerà. Anche a costo – com’è già avvenuto nei Balcani, in Albania – di guerre sanguinose.
Ecco gli affari e gli affaristi che covano sotto il conflitto armato in Macedonia

Macedonia, l’oleodotto va alla guerra

MICHEL CHOSSUDOVSKY * (Il Manifesto, 22 agosto 2001, prima parte)

La guerra nascosta di Washington in Macedonia mira a consolidare la sfera di influenza americana nell’Europa sud-orientale. La posta in gioco è il “corridoio” strategico per i trasporti, le comunica-zioni e gli oleodotti che attraversa Bulgaria, Macedonia e Albania collegando il Mar Nero alla costa adriatica.
La Macedonia si trova a uno snodo strategico di tale corridoio.

Al fine di proteggere queste rotte petrolifere, l’obiettivo di Washington è installare un “patchwork di protettorati” lungo i corridoi strategici nei Balcani. La promessa della “Grande Albania” usata da Washington per fomentare il nazionalismo albanese fa parte della manovra militare e di intelligence. Questa manovra, come ampiamente documentato, consiste nel finanziare ed equipag-giare l’Esercito di liberazione (Uck) – prima del Kosovo, poi “nazionale” – e tutte le sue propaggini, incaricato di portare a termine offensive di destabilizzazione terroristica in Macedonia.

Lo sviluppo della sfera di influenza americana nell’Europa sud-orientale – complice la Gran Bretagna – favorisce gli interessi dei giganti petroliferi tra cui la BP-Amoco-ARCO, la Chevron e la Texaco. “Proteggere” le rotte degli oleodotti e assicurarne il controllo è fondamentale per il successo di queste ventures multimiliardarie.

Un regime petrolifero internazionale di successo è una combinazione di accordi economici, politici e militari per sostenere la produzione petrolifera e il trasporto ai mercati. (1. Robert V. Baryiski, The Caspian Oil Regime: military Dimensions, Caspian Crossroads Magazine, Volume 1, No. 2, Primavera 1995).
Il consorzio anglo-americano che controlla il progetto Ambo per un oleodotto trans-balcanico che colleghi il porto bulgaro di Burgas a Valona, sulla costa adriatica albanese, esclude in larga misura la partecipazione del gigante petrolifero europeo concorrente Total-Fina-Elf. (2. Il riferimento all’Unione Europea in questo articolo va interpretato come “l’Unione Europea meno la Gran Bretagna”).
In altre parole, il controllo strategico Usa sul corridoio dell’oleodotto è finalizzato a indebolire il ruolo dell’Unione Europea e a tenere a distanza gli interessi commerciali europei concorrenti.

Chi c’è dietro l’oleodotto

Il consorzio per l’oleodotto Ambo, con sede negli Stati Uniti, è direttamente collegato alla sede del potere politico e militare negli Stati Uniti e alla società del vice presidente Dick Cheney, Halliburton Energy.
(3. Vedi Agenzia telegrafica albanese, Tirana, 28 luglio 1998 e Milsnews, Skopje, 23 gennaio 1997, disponibile all’indirizzo http://www.freerepublic.com/forum/a379fb721329c.htm )
In base allo studio di fattibilità per l’oleodotto trans-balcanico Ambo, condotto dalla società internazionale di progettazione della Brown & Root Ltd. (consociata britannica della Halliburton), “questo oleodotto (…) diventerà parte della infrastruttura – comprendente autostrade, ferrovie, gasdotti e linee di telecomunicazione a fibre ottiche – del cruciale corridoio est-ovest.” (4. Milsnews, op. cit.)
Inoltre, completato lo studio di fattibilità da parte della Halliburton, un alto dirigente della Halliburton è stato nominato “chief executive officer” dell’Ambo.
La Halliburton ha anche ottenuto un contratto per rifornire le truppe americane nei Balcani e costruire in Kosovo “Bondsteel”, che oggi costituisce “la più grande base militare americana all’estero costruita dai tempi del Vietnam”. (5. Vedi l’incisiva analisi di Karen Talbot: “Former Yogoslavia: The Name of the Game is Oil”, People’s Weekly World, maggio 2001, http://www.ecadre.net/pages/news/stories/990197752.shtml; Vedi anche Marjorie Cohn, “Pacification for a pipeline: explaining the US Military presence in the Balkans”, The Jurist, Legal Education Network, giugno 2001, http://jurist.law.pitt.edu/forumnew22.htm).
Per inciso, la White and Case Llt – lo studio legale di New York in cui il presidente William J. Clinton è entrato quando ha lasciato la Casa Bianca – ha anch’essa degli interessi nell’affare dell’oleodotto Ambo.

Corridoi militarizzati

Il progetto per l’oleodotto trans-balcanico Ambo andrebbe a collegarsi agli oleodotti tra il Mar Nero e il bacino del Mar Caspio, che si trova al centro delle più grandi riserve petrolifere inesplorate del mondo.
(Vedi la mappa: http://www.bsrec.bg/taskforce/SYNERGY/oilprojects2.html).
La militarizzazione di questi vari corridoi costituisce parte integrante del disegno di Washington.

La politica Usa di “proteggere le rotte degli oleodotti” provenienti dal bacino del Mar Caspio (e che attraversano i Balcani) era stata espressa dal Segretario all’Energia di Clinton, Bill Richardson, appena pochi mesi prima dei bombardamenti sulla Jugoslavia del 1999:
“Qui si tratta della sicurezza energetica dell’America… Si tratta anche di prevenire incursioni strategiche da parte di coloro che non condividono i nostri valori. Stiamo cercando di spostare questi paesi, da poco indipendenti, verso l’occidente… Vorremmo vederli fare affidamento sugli interessi commerciali e politici occidentali, piuttosto che prendere un’altra strada. Nella regione del Mar Caspio abbiamo fatto un investimento politico consistente, ed è molto importante per noi che la mappa degli oleodotti e la politica abbiano esito positivo”. (6. George Monbiot, “A Discreet Deal in the Pipeline”, The Guardian, 15 febbraio 2001).

I giganti petroliferi anglo-americani, tra cui BP-Amoco-Arco, Texaco e Chevron – sostenuti dalla potenza militare statunitense – sono in competizione con il gigante petrolifero europeo Total-Fina-Elf (associati con l’italiana Eni), che è un importante attore nei ricchi giacimenti di Kashagan nella regione del Caspio nord-orientale in Kazakistan.
Gli interessi in gioco sono grandi: i giacimenti di Kashagan sarebbero “così grandi da superare perfino le dimensioni delle riserve petrolifere del Mare del Nord”. (7. Richard Giragosian, “Massive Kashagan Oil Strike Renews Geopolitical Offensive In Caspian”, The Analyst, Central Asia-Caucasus Institute, Johns Hopkins University-Paul H. Nitze School of Advanced International Studies, 7 giugno 2000, http://www.soros.org/caucasus/0059.html).

Il concorrente consorzio dell’Unione Europea, comunque, non controlla in modo significativo le principali rotte degli oleodotti dal bacino del Mar Caspio fino in Europa occidentale (attraverso il Mar Nero e i Balcani). I più importanti progetti di oleodotti – compreso il progetto Ambo e il progetto Baku-Cehyan che attraverserebbe la Turchia fino al Mediterraneo – sono ampiamente in mano ai loro rivali anglo-americani, che fanno fortemente affidamento sulla presenza politica e militare Usa nel bacino del Caspio e nei Balcani.
Il disegno di Washington è riuscire a distanziare tutti e tre i paesi Ambo – ossia Bulgaria, Macedonia e Albania – dall’influenza euro-tedesca attraverso l’installazione di protettorati Usa creati a bella posta. In altre parole, la militarizzazione e il controllo geopolitico da parte degli Usa sull’oleodotto che dovrebbe collegare Burgas in Bulgaria al porto adriatico di Valona in Albania mirano a minare l’influenza dell’Unione Europea e a indebolire gli interessi petroliferi contrapposti di Francia, Belgio e Italia.

Negoziazioni concernenti l’oleodotto Ambo hanno ricevuto l’appoggio di funzionari governativi americani attraverso la South Balkan Development Initiative (Sbdi) della Trade and Development Agency (Tda). La South Balkan Development Initiative è “finalizzata ad aiutare Albania, Bulgaria e Macedonia a sviluppare e integrare ulteriormente la loro infrastruttura di trasposti lungo il corridoio est-ovest che le connette”. (8. Vedi la Trade and Development Agency (Tda) per regione all’indirizzo http://www.tda.gov/region/sbdi.html).
La Trade and Development Agency esprime l’esigenza che i tre paesi “utilizzino sinergie regionali per ottenere nuovo capitale pubblico e privato [dalle compagnie statunitensi] sottolineando allo stesso tempo il ruolo del governo Usa “per avere implementato l’iniziativa”.

Per quanto riguarda l’oleodotto Ambo, apparirebbe che l’Ue sia stata ampiamente esclusa dalla programmazione e dalle negoziazioni. Con i governi di Albania, Bulgaria e Macedonia sono stati già firmati “Memorandum d’intesa” che spogliano quei paesi della sovranità nazionale sui corridoi dell’oleodotto e dei trasporti fornendo “diritti esclusivi” al consorzio anglo-americano:
“…Il memorandum afferma che l’Ambo sarà il solo soggetto autorizzato a costruire il programmato oleodotto Burgas-Valona. Più specificatamente, esso conferisce all’Ambo il diritto esclusivo di negoziare con gli investitori e i creditori del progetto. Esso impegna inoltre [i governi di Bulgaria, Macedonia e Albania] a non svelare certe informazioni confidenziali sul progetto dell’oleodotto”. (9. Alexander, Gas and Oil Connections, http://wwwgasandoil.com/goc/news/nte04224.htm, ottobre 2000)

Il corridoio est-ovest 8

Il progetto per l’oleodotto Ambo è collegato a un altro progetto strategico denominato “Corridoio 8”, inizialmente proposto dall’amministrazione Clinton nel contesto del “Patto di stabilità nei Balcani”. Di importanza strategica sia per gli Usa che per l’Unione Europea, il “Corridoio 8” include infrastrutture autostradali, ferroviarie, per l’elettricità e le telecomunicazioni. Dal canto loro, le infrastrutture esistenti in questi settori sono candidate alla deregulation e alla privatizzazione (a prezzi stracciati) sotto la supervisione del Fondo monetario internazionale-Banca mondiale.
Anche se approvato a occhi chiusi dai ministri dei trasporti dell’Unione europea come parte del processo dell’integrazione economica europea, gli studi di fattibilità del “Corridoio 8” sono stati condotti dalle compagnie Usa finanziate direttamente dalla Trade and Development Agency. In altre parole, Washington sembra aver preparato il terreno per prendere il sopravvento nell’infrastruttura dei trasporti e delle telecomunicazioni di questi paesi. Le corporation americane – tra cui Bechtel, Enron e General Electric (con il sostegno finanziario del governo Usa) – fanno concorrenza alle compagnie dell’Unione europea.
Il disegno di Washington è di aprire l’intero corridoio alle multinazionali americane in una regione situata nel “cortile dietro casa”, in termini economici, dell’Unione Europea, in cui il potere del marco tedesco tende a dominare su quello del dollaro Usa.

L’allargamento dell’Ue

All’inizio del 2000, la Commissione Europea ha avviato con la Macedonia, la Bulgaria e l’Albania le negoziazioni sull’ingresso nell’Eu. E nell’aprile 2001, nel pieno degli assalti terroristici, la Macedonia è diventata il primo paese nei Balcani a firmare un cosiddetto “accordo di stabilizzazione e associazione” che costituisce un passo importante verso la piena appartenenza all’Ue. L’accordo fornisce la base per la “liberalizzazione del commercio, la cooperazione politica, la riforma economica e istituzionale e il recepimento della legislazione Ue”. In base all'”accordo di stabilizzazione e associazione”, la Macedonia sarebbe (di fatto) integrata nel sistema monetario europeo, con libero accesso al mercato dell’Unione europea. (10. In base alle cosiddette “asymmetric trade preferences” con l’Ue).

Gli attentati terroristici hanno coinciso cronologicamente con il processo di “allargamento dell’Ue”, acquistando impeto appena poche settimane prima della firma dello storico “accordo di associazione” con la Macedonia. Come ampiamente documentato, gli Usa hanno consiglieri militari che lavorano con i terroristi.
Una mera coincidenza?

Inoltre Robert Frowick, “un ex diplomatico Usa”, è stato nominato capo della missione Osce in Macedonia a metà marzo, anche in questo caso appena poche settimane prima della firma dell'”accordo di associazione”. In stretto collegamento con Washington e l’ambasciata Usa a Skopje, Frowick ha avviato un “dialogo” con il leader ribelle dell’Uck in Macedonia, Ali Ahmeti.
Egli ha anche fatto da mediatore a un accordo fra Ahmeti e i leader dei partiti albanesi, che fanno parte della coalizione di governo. Questo accordo negoziato da Frowick ha ampiamente contribuito a destabilizzare le istituzioni politiche, mettendo allo stesso tempo a repentaglio il processo di allargamento dell’Ue. (11. Per ulteriori dettagli sul ruolo di Robert Frowick, vedi Michel Chossudovsky, Macedonia: Washington’s Military-Intelligence Ploy, giugno 2001).

Inoltre il deteriorarsi della situazione di sicurezza in Macedonia ha fornito un pretesto per l’accresciuta interferenza politica, “umanitaria” e militare da parte degli Usa, contribuendo allo stesso tempo a indebolire i legami economici e politici di Skopje con la Germania e la Ue.
Sotto questo aspetto, una delle “condizioni vincolanti” dell'”accordo di associazione” è che la Macedonia si conformi agli “standard dell’Ue sulla democrazia”. (12. Vedi Afp, 10 aprile 2001).
Non c’è bisogno di dire che, senza un “governo funzionante” in Macedonia, il processo di associazione all’Ue e a Bruxelles non può procedere.

I governi fantoccio installati a Tirana, Skopje e Sofia, mentre rispondono largamente ai diktat americani, vengono attualmente sospinti in direzione dell’Ue. L’intento ultimo di Washington è di tenere a freno il “Lebensraum” (“spazio vitale”, ndt) della Germania nell’Europa sudorientale.
Mentre, a parole, si dichiarano favorevoli all'”allargamento dell’Ue”, gli Usa favoriscono in modo consistente l'”allargamento della Nato” come mezzo per perseguire i loro interessi strategici nell’Europa orientale e nei Balcani, mentre la Germania e la Francia si sono opposte ad esso.
Mentre il tono della diplomazia internazionale rimane gentile ed educato, la politica estera americana sotto l’amministrazione Bush è diventata chiaramente “anti-europea”. Secondo un osservatore: “Nel cuore del team Bush, Colin Powell è (considerato) l’amico degli europei, mentre gli altri ministri e consiglieri sono considerati arroganti, duri e riluttanti ad ascoltare gli europei o a dare loro un posto”. (13. Secondo Pascal Boniface, direttore dell’Istituto per le relazioni internazionali e strategiche di Parigi, Upi, 11 aprile 2001).

(Fine parte 1)

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Le nuove alleanze mondiali attraversano il conflitto nei Balcani e lo fomentano.
Insieme al famigerato “Corridoio 8”, che consentirebbe il passaggio del mega oleodotto tra Mar Nero e Adriatico.

Oro giallo e nero nell’oleodotto

MICHEL CHOSSUDOVSKY * (Il Manifesto, 24 agosto 2001, seconda parte)

Come ampiamente documentato, c’è la Cia dietro i ribelli dell’Uck che stanno conducendo gli assalti terroristici contro le forze di sicurezza macedoni.
Mentre l’omologo tedesco della Cia – il Bundes Nachrichten Dienst (Bnd) – ha collaborato con la Cia nel sorvegliare e finanziare il Kla prima della guerra del 1999, sviluppi recenti suggeriscono che il Bundes Nachrichten Dienst non è coinvolto nella manovra militare e di intelligence di Washington in Macedonia. (14. Per ulteriori dettagli sull’appoggio da parte della Cia-Bnd all’Uck vedi Michael Chossudovsky, “Kosovo Freedom Fighters Financed by Organised Crime”, Covert Action Quarterly, autunno 1999, disponibile anche all’indirizzo: http://www.heise.de/tp/english/inhalt/co/2743/1.html).

Appena poche settimane prima della firma dell'”accordo di associazione” con l’Unione Europea (metà marzo 2001), le truppe tedesche di stanza in Macedonia nella regione di Tetovo sono state “accidentalmente” bersagliate dall’Uck.
Mentre i media occidentali, echeggiando in coro le dichiarazioni ufficiali, sostengono che le truppe tedesche sono state “prese nel fuoco incrociato”, resoconti provenienti da Tetovo suggeriscono che il bombardamento da parte dell’Uck “è stato deliberato”. In ogni caso, l’incidente non sarebbe accaduto se il Bnd tedesco avesse lavorato con l’esercito ribelle:
“Fino a 600 militari tedeschi sono stati costretti a lasciare Tetovo durante la notte dopo che la loro caserma (…) era stata colpita dal fuoco incrociato (…) Erano armati in modo troppo leggero per difendersi dagli albanesi. I tedeschi rimpiazzeranno i militari in partenza con una squadra di tank Leopard [appartenente alla divisione panzer-artiglieria-batteria di stanza nel Nordrein-Westphalen]. (…) La nuova potenza di fuoco (tedesca) può essere usata per fare fuori le postazioni albanesi che ora si trovano intorno a Tetevo (…)” (15. Tom Walker, “Nato Troops caught in a Balkan Ulster”, Sunday Times, Londra, 18 marzo 2001).

Per una amara ironia, due dei comandanti responsabili degli attacchi terroristici nella regione di Tetovo erano stati addestrati dalle forze speciali britanniche:
“Tra l’imbarazzo della Kfor, è emerso che due dei comandanti di stanza in Kosovo che guidavano l’offensiva albanese (nella regione di Tetovo) erano stati addestrati da ex ufficiali del reggimento paracadutisti e della Sas britannici nei giorni in cui la Nato era più a suo agio con il nascente Uck. Un ex membro di una unità europea di forze speciali, che accompagnava l’Uck durante il conflitto in Kosovo, ha riferito che un comandante col nome di battaglia di Bilal organizzava il flusso di armi e uomini verso la Macedonia e che il comandante dell’Uck, il veterano Adem Bajrami, aiutava a coordinare l’assalto su Tetovo. Entrambi erano stati preparati dai soldati britannici nei campi di addestramento segreti che operavano sopra Bajram Curri, nel nord dell’Albania, durante il 1998 e il 1999” (16. ancora Tom Walker, “Nato Troops caught in a Balkan Ulster”).

Strane coincidenze

Questi stessi britannici hanno addestrato i comandanti ribelli a vedere la Germania come il “nemico”, perché le truppe della Bundeswehr stanziate in Macedonia e Kosovo – piuttosto che fornire “protezione” ai “combattenti per la libertà” dell’Uck allo stesso modo delle loro controparti Kfor britanniche e americane – detengono frequentemente “sospetti terroristi” al confine:
“Un portavoce dell’Esercito di liberazione nazionale albanese a Pristina ha messo in guardia la Bundeswehr che il suo coinvolgimento avrebbe costituito “una dichiarazione di guerra da parte della Repubblica Federale di Germania””. [17. ancora Tom Walker, “Nato Troops caught in a Balkan Ulster”).

In risposta alle minacce dell’Uck, la Bundeswehr ha inviato le sue Forze Speciali, i Fallschirmjäger (paracadutisti), a lavorare con la sua squadra panzer-artiglieria-batteria. (18. Vedi “Deutsche Fallschirmjäger nach Tetovo”, Spiegel Online, 24 marzo 2001. Vedi anche “Bundeswehr verlegt Soldaten ins Kosovo”, Spiegel Online, 23 marzo 2001).
Il ministro della difesa tedesco Rudolf Scharping ha confermato che era “pronto a inviare più tank e uomini per sostenere le forze della Bundeswehr”. (19. Deutsche Press Agentur, 19 marzo 2001).
Tuttavia, recentemente, Berlino ha deciso di ritirare la maggior parte delle sue truppe dalla regione di Tetovo senza sfidare in alcun modo la manovra militare e di intelligence americana in sostegno dei ribelli dell’Uck.
Alcune di queste truppe tedesche sono attualmente stanziate sul lato kosovaro del confine.

La Germania in Macedonia

Mentre l’Esercito di liberazione nazionale ha ricevuto una fornitura di armi nuove e avanzate “made in America”, la Germania (a metà giugno) ha donato alle forze di sicurezza macedoni tutti i veicoli di terra nonché armi “per sofisticati tracciati a raggi infrarossi nel campo di battaglia”.
Secondo un resoconto proveniente dalla Macedonia, il piccolo contingente di truppe tedesche che ancora resta nella regione di Tetovo “ha subìto pesanti attacchi dai terroristi che li bersagliavano con i mortai dai monti sopra Tetovo. Questa è probabilmente la risposta alla donazione, avvenuta il 14 giugno 2001, al nostro esercito fatta dal governo tedesco” (20. Informazione trasmessa all’autore da Skopje, giugno 2001).
Mentre le divisioni fra gli “alleati Nato” non vengono mai rese pubbliche, il ministro degli esteri tedesco Joschka Fisher – in una dichiarazione dai toni decisi al Bundestag diretta contro “gli estremisti albanesi in Macedonia” – ha auspicato un “accordo a lungo termine, finalizzato ad avvicinare l’intera regione all’Europa” (cioè a liberarla dalle violazioni degli Usa).

La posizione tedesca è fortemente in contrasto con quella degli Stati Uniti. Che invece richiedono che il governo di Skopje garantisca l’amnistia ai terroristi, modifichi la costituzione del paese e incorpori i ribelli dell’Uck nella vita politica civile:
“Il patto avrebbe previsto che i ribelli smettessero di combattere in cambio di garanzie sull’amnistia. I ribelli avrebbero anche avuto il diritto di porre il veto su future decisioni politiche riguardanti i diritti dei cittadini di etnia albanese. L’accordo sarebbe stato mediato da Robert Frowick, un ex diplomatico americano, che in quel momento prestava servizio come rappresentante dei Balcani per l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa”. (21. Facts on File, World News Digest, 30 maggio 2001).

L’asse anglo americano

Lo scontro fra Germania e America nei Balcani è parte di un processo molto più ampio che tocca il cuore del complesso militare-industriale occidentale e dell’establishment difensivo.

Dall’inizio degli anni ’90, gli Usa e la Germania hanno agito uniti in quanto partner della Nato nei Balcani, coordinando le loro rispettive iniziative militari, di intelligence e di politica estera.
Pur mantenendo nelle loro dichiarazioni pubbliche un sembiante di unità politica, serie divisioni sono cominciate a emergere dopo gli accordi di Dayton (1995), quando le banche tedesche si sono date da fare per imporre il marco tedesco e prendere il controllo del sistema monetario degli stati eredi della Jugoslavia.

Inoltre, dopo la guerra in Jugoslavia del 1999, gli Usa hanno rafforzato i loro legami strategici, militari e di intelligence con la Gran Bretagna, mentre quest’ultima ha tranciato molti dei suoi legami (particolarmente nell’area della produzione aerospaziale e della difesa) con la Germania e la Francia.
L’ex segretario alla Difesa americano William Cohen e il suo omologo britannico, Geoff Hoon, hanno firmato una “Dichiarazione di princìpi per l’equipaggiamento difensivo e la cooperazione industriale” lanciata all’inizio del 2000. (22. Reuters, 5 febbraio 2000).
L’obiettivo di Washington era incoraggiare la formazione di un “ponte transatlantico attraverso cui il Dipartimento della difesa americano potesse portare in Europa la sua politica di globalizzazione”. (23. L’accordo è stato firmato – secondo un funzionario del Pentagono citato in Muradian – poco dopo la creazione di British Aerospace Systems, risultata dalla fusione di Bae, British Aerospace, con Gec Marconi. British Aerospace era già saldamente alleata ai maggiori produttori del settore della difesa in America, Lockheed Martin e Boeing. Per ulteriori dettaglia vedi Vago Muradian, “Pentagon Sees Bridge to Europe”, Defense Daily, volume 204, n. 40, 1 dicembre 1999).

Armi, oro nero, conflitti armati

L’industria difensiva americana – che ora include British Aerospace Systems – è in competizione con il consorzio difensivo franco-tedesco Eads, un conglomerato composto da France’s Aerospatiale Matra, Deutsche Aerospace (che fa parte del potente gruppo Daimler), e la spagnola Casa. In altre parole, nel complesso militare-industriale occidentale è avvenuta una grossa frattura, con Usa e Gran Bretagna da una parte e Germania e Francia dall’altra.
Petrolio, armi e l’alleanza militare occidentale sono processi intimamente correlati. Washington mira ad assicurarsi, alla fine, il dominio del complesso militare-industriale in alleanza con i giganti petroliferi anglo-americani e i maggiori produttori di armi britannici.

Come è evidente, questi sviluppi hanno anche una relazione con il controllo sui corridoi strategici di oleodotti, trasporti e comunicazioni nei Balcani, nell’Europa orientale e nell’ex Unione Sovietica.
A sua volta, questo asse anglo-americano è accompagnato anche da una maggiore cooperazione tra la Cia e l’Mi5 britannico nella sfera dell’intelligence e delle operazioni coperte, come evidenziato dal ruolo svolto dalle Forze Speciali britanniche Sas nell’addestramento dei ribelli dell’Uck.

Il nuovo ordine mondiale

“Protezione” degli oleodotti, attività coperte e riciclaggio dei soldi provenienti dal narcotraffico in sostegno di insurrezioni armate, militarizzazione di corridoi strategici, approvvigionamento di armi ai paesi della “Partnership for Peace” sono tutti elementi integranti dell’asse anglo-americano e del suo tentativo di dominare le rotte degli oleodotti e dei gasdotti e i corridoi dei trasporti che dal bacino del Mar Caspio e dal Mar Nero attraversano i Balcani.

Più in generale, quanto sta accadendo nell’ampia regione che collega l’Europa orientale e i Balcani alle ex repubbliche sovietiche è un instancabile tentativo di controllare le economie nazionali mediante conglomerati d’affari. E dietro questo processo c’è il tentativo da parte dell’establishment finanziario di Wall Street – d’intesa con i giganti petroliferi e della difesa – di destabilizzare e screditare il marco tedesco (e l’Euro) con l’intenzione di imporre il dollaro Usa come unica valuta per la regione.

Controllare la “creazione di denaro” – imponendo il potere del Federal Reserve system americano in tutto il mondo – è diventato un obiettivo centrale dell’espansionismo americano.
Sotto questo aspetto, la manovra militare e di intelligence di Washington non consiste solo nel minare “l’allargamento dell’Ue”, ma è anche tesa a indebolire e spiazzare il dominio delle più grandi istituzioni bancarie tedesche (come Deutsche Bank, Commerzbank e WestDeutsche Landesbank) nei Balcani.

In altre parole, il Nuovo ordine mondiale è segnato dallo scontro fra Europa e America per il “controllo coloniale” sulle valute nazionali.
E questo conflitto tra “blocchi capitalistici in competizione” diventerà ancora più acuto quando molte centinaia di milioni di persone, dall’Europa orientale e i Balcani all’Asia centrale, cominceranno a usare l’Euro come loro valuta nazionale “di fatto” il 1 gennaio 2002.

* docente di economia, Università di Ottawa.

Traduzione di Marina Impallomeni (Fine parte 2 – fine)

La vera posta in gioco della guerra
Il “Grande Gioco” nei Balcani

Stati disgregati con la forza, corridoi strategici, investimenti massicci nelle nuove frontiere petrolifere, interventi militari della NATO : abbiamo davanti uno scenario neocoloniale del tutto simile al “Grande Gioco” che oppose il Regno Unito e la Russia zarista del secolo scorso. Obiettivo : il controllo strategico delle risorse dell’Eurasia. Per questo il Caucaso è di nuovo in fiamme e i Balcani vanno rigidamente controllati Anche a costo della guerra tra Stati Uniti, Europa e Russia. (1)

di Sergio Cararo

La guerra nei Balcani è indubbiamente un conflitto paradigmatico di una nuova epoca storica e di una nuova fase delle relazioni internazionali. E’una aggressione gestita direttamente dalla NATO che delinea così le sue competenze nel nuovo scenario emerso dalla fine della guerra fredda. Siamo passati dalla “guerra dei cinquanta anni” (la guerra fredda appunto) all’epoca “delle cinquanta guerre” ovvero ua fase caratterizzata da conflitti regionali più o meno intensi destinati a modificare la mappa geopolitica e la geografia economica di gran parte del mondo.Non a caso gli Stati Uniti si sono dotati di una nuova dottrina strategica che prevede la possibilità di “combattere due importanti conflitti regionali simultaneamente” (2).
In quella parte dell’Europa che comincia a Est della “frontiera di Gorizia”, nel 1989 vi erano 10 Stati (di cui la metà era appartenente al Patto di Varsavia e al Comecon). Dieci anni dopo questi Stati sono diventati 28 ma solo 11 di essi hanno una popolazione superiore ai dieci milioni di abitanti. Si tratta dunque in gran parte di piccoli Stati che hanno dato vita a secessioni dai vecchi stati-nazioni (soprattutto socialisti), in alcuni casi la secessione è stata “consensuale” in altri pesantemente conflittuale. In questo secondo caso l’ingerenza esterna (soprattutto della Germania nella fase iniziale) è stata determinante e non solo nel caso della Federazione Jugoslava. Nella dissoluzione della ex URSS il peso e le responsabilità degli Stati Uniti sono state notevoli e niente affatto casuali.
La disgregazione di tutti gli Stati non appartenenti ai tre “poli forti” dell’imperialismo moderno (USA,UE e Giappone) è un processo che sta marciando con forza dietro la tesi quasi religiosa della inevitabilità della globalizzazione che renderebbe superflui gli Stati-Nazione. In realtà, come abbiamo più volte sottolineato, questa tesi è falsa in quanto esistono Stati “disgreganti” e Stati “disgregati”. I Balcani e l’Eurasia (così come l’Africa e buona parte dell’Asia) appartengono a questa seconda categoria.
Questi nuovi Stati sono piccoli, deboli, subalterni agli organismi finanziari internazionali (FMI,BM,BERS), dipendenti dalla quantità di investimenti esteri che riescono ad attrarre e dalla quantità di export che riescono far arrivare sul mercato regionale e mondiale.
A tale scopo questi Stati devono essere “leggeri” nelle frontiere e nelle dogane, assai “indulgenti” nelle tasse e imposte per gli investitori esteri, obbedienti al FMI nella politica di privatizzazioni e liquidazione dell’economia statale, puntuali nel pagamento dei debiti accumulati con le banche e gli istituti internazionali, implacabili nel mantenere basso e disciplinato il salario dei lavoratori e il costo del lavoro più complessivamente. Infine, ma non per importanza, devono assicurare con ogni mezzo la”stabilità interna” per gli investitori esteri. Qualora la funzione coercitiva dei nuovi Stati non fosse sufficiente diventa automatico l’intervento della nuova NATO che si è riconvertita proprio con tale funzione.
La fortissima “dipendenza” dai poli forti, dagli investitori esteri e dagli istituti finanziari internazionai, spiega in buona parte perchè le popolazioni dei nuovi stati “indipendenti” hanno in realtà visto peggiorare le loro condizioni di vita dopo le secessioni. Quasi ovunque (con le sole eccezioni di Slovenia e Rep. Ceca) il reddito pro-capite si è ridotto significativamente.
In questo contesto il 1999 rischia di chiudersi con altri tre secessioni e forse altrettanti nuovi stati “indipendenti” : Kossovo, Montenegro e la lacerazione della Macedonia in due entità distinte : una albanese e l’altra slava.
Questa frantumazione della parte orientale dell’Eurasia non è affatto determinata da problemi interni, etnici o atavici : siamo in presenza di un progetto di controllo, spartizione, concertazione e competizione che vede protagonisti i due principali poli imperialisti (USA ed Unione Europea). Da qui occorre partire se vogliamo darci spiegazioni razionali per la guerra contro la Jugoslavia. Tutto questo è indicato piuttosto chiaramente da Zbizgnew Brzezinski in un recente libro che ci aiuterà a comprendere molte cose.

Quali sono le “colpe” della Jugoslavia ?
Tra i molti luoghi comuni e le mistificazioni distribuite a piene mani nella guerra in Jugoslavia, c’è ne sono alcune che meritano di essere smantellate. Una di queste è quella secondo cui “le guerre iniziano sempre nei Balcani” quasi a dire che le popolazioni che abitano questa regione periferica dell’Europa, siano particolarmente rissose, bellicose, violente, inclini alla guerra e al massacro.
Altri, cercando di spiegare le ragioni della guerra scatenata dalla NATO contro la Jugoslavia, sembrano omettere proprio i fattori che invece vogliamo dimostrare con la nostra ipotesi. Emblematico in tal senso è un osservatore – solitamente acuto – come Ugo Tramballi : ” Nei Balcani non c’è alcun petrolio nè passano vitali oleodotti di altre regioni petrolifere, non ci sono mercati di consumatori da conquistare per le multinazionali americane; non ci sono crocevia geostrategici da presidiare. L’Adriatico, ammesso che sia importante, è già un mare americano; il Medio Oriente, il Caucaso e la penisola italiana sono di gran lunga più importanti della Serbia, del Montenegro, del Kossovo” (3).
Uno sguardo alla storia e una riflessione sul presente, ci dicono invece che le guerre europee scoppiano nei Balcani perchè questa regione paga il prezzo di essere la “Porta d’Oriente” ovvero una regione obbligatoria per il passaggio di merci, materie prime ed investimenti tra il “polo sviluppato” dell’Europa e l’immensa regione asiatica collocata a Est dell’Europa, ovvero quella regione che i geopolitici definiscono Eurasia. E’ stato così per la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. Lo è propabilmente anche per questa guerra.

Dietro i Balcani le ricchezze dell’Asia centrale
Zbignew Brzeziski, spende almeno la metà delle pagine del suo recente libro (“La Grande Scacchiera”) per spiegare l’importanza strategica dell’Eurasia e ribadire la necessità per gli Stati Uniti di conquistare e mantenere in ogni modo il controllo di quest’area ed impedire il nascere di altre potenze in grado di estromettere o condizionare questa egemonia statunitense nella regione.” E’ ormai tempo che gli Stati Uniti perseguano un coerente disegno geostrategico d’ampio respiro per l’intera Eurasia. Questa necessità sorge dall’interazione fra due realtà basilari: gli USA sono oggi l’unica superpotenza globale e l’Eurasia è il terreno sul quale si giocherà il futuro del mondo. L’equilibrio di forze che prevarrà su questo continente deciderà dunque il destino della supremazia americana e della sua missione storica. La durata e la stabilità di tale supremazia dipenderanno soprattutto da come gli Stati Uniti muoveranno le principali pedine del gioco su questa scacchiera, controllandone le zone cardine dal punto di vista geopolitico”.(4)
Da almeno cinque anni, studi, ricerche e investimenti economici, ci hanno rivelato che l’area compresa tra il Mar Nero e il Mar Caspio è diventata la “nuova frontiera dell’energia”.
In Kazachistan, Azerbaijan, Turkmenistan, Uzbekistan, si concentrano enormi riserve di petrolio e gas che fino a dieci anni erano monopolio dell’URSS e che oggi sono invece “disponibili” sul mercato mondiale.
Questa nuova frontiera del petrolio e del gas sta producendo due conseguenze rilevanti nelle relazioni economiche e politiche internazionali :
1) I massicci investimenti da parte di tutte le maggiori multinazionali petrolifere occidentali (da quelle USA all’ENI italiana alla Total francese alla BP inglese etc.) per accaparrarsi giacimenti, concessioni, diritti di sfruttamento etc.
2) Lo scatenamento di una guerra “coperta” tra i maggiori Stati dell’area (una guerra che produce però conflitti locali sanguinosi in Daghestan, Georgia, Cecenia, Kurdistan, Uzbekistan, Tagikistan, Afganistan) che vede contrasti violenti sulle rotte che dovranno seguire gli oleodotti e i gasdotti per portare gas e petrolio dall’Asia ai porti ed ai terminali sul Mediterraneo.

La guerra nei Balcani e le guerre in Eurasia
L’Eurasia è da alcuni teatro di uno scontro feroce tra gli Stati Uniti e la Russia. Gli USA (e Brzezisnki lo conferma quasi in ogni pagina del suo libro) hanno il chiaro obiettivo di eliminare qualsiasi residuo di legame o collegamento tra la Russia e le repubbliche dell’ex URSS. Ancora oggi, infatti, tutte le strade, i collegamenti, gli oleodotti che dall’Europa arrivano in Asia (e viceversa) passano attraverso la Russia che ne ricava una posizione preminente di controllo sulle repubbliche ex sovietiche. Ciò consente alla Russia (nonostante la dissoluzione dell’URSS) di mantenere una certa influenza economica, politica e militare sull’area.Gli USA puntano quindi a liquidare con ogni mezzo questa influenza. A tale scopo da tempo attizzano Azerbaijan, Georgia e Turchia in funzione antirussa.
Particolarmente violento è diventato lo scontro tra Russia e Turchia (appoggiata dagli USA) sulla direzione delle pipelines.

a) La Turchia e gli Stati Uniti (vincendo le rimostranze delle stesse multinazionali americane) vogliono costruire un oleodotto che da Baku (Azerbaijan) sfoci nel porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo (attraversando il territorio dei kurdi che viene quindi pacificato con la repressione totale). Per rendere più “convincente” questa rotta, la Turchia minaccia sistematicamente di limitare o chiudere il traffico delle petroliere nello stretto dei Dardanelli, anche violando il Trattato di Montreaux che regola internazionalmente il diritto di passaggio negli stretti che portano dal Mar Nero al Mediterraneo;

b) La Russia, al contrario, vuole che la rotta delle pipelines provenienti dalle repubbliche asiatiche della ex URSS sfoci nel porto russo di Novorossik sul Mar Nero. da lì o attraverso navi petroliere e gasiere o attraverso un oleodotto sottomarino, il greggio arriverebbe direttamente nel Mediterraneo o nel porto rumeno di Costanza (sempre sul Mar Nero) e da lì distribuirsi attraverso i Balcani verso i terminali europei.

Ecco quindi che rientra in ballo la natura di “Porta d’Oriente” della regione balcanica.
I terminali petroliferi che dovranno gestire i flussi che arrivano dall’Asia, devono necessariamente connettersi ai mercati ricchi dell’Europa.A loro volta, dal “cuore” sviluppato dell’Eurasia doranno veicolare i flussi di investimenti destinati ai “nuovi mercati dell’Est” oggi ancora poco sfruttati.
Da questa esigenza sono nati “I corridoi” veri e propri assi strategici che dovranno collegare questa immensa area che Brzezisnki (ed anche l’amministrazione USA) ritengono vitale per mantenere la propria egemonia mondiale, ma che viene ritenuta tale anche dalle ambizioni del nascente polo imperialista europeo.Si calcola che l’Unione Europea abbia previsto investimenti per 90 miliardi di ECU in infrastrutture relative ai corridoi balcanici. Ciò significa strade, ferrovie, aereporti, 13 porti marittimi e ben 49 porti fluviali (il che conferma il ruolo del Danubio come corridoio naturale data la sua navigabilità).
Si badi bene infatti, che questi corridoi non sono costituiti solo da pipelines per i prodotti energetici ma sono un percorso integrato di strade, ferrovie, oleodotti che richiedono forti investimenti di capitale pubblico e privato, diritti di concessione (su strade e ferrovie) e diritti di passaggio : solo per dare un dato emblematico, le royalti previste per gli oleodotti rappresentano quasi 20 milioni di dollari al giorno. Attualmente la Georgia – che è l’unico paese in cui esistono pipelines dirette a occidente – incassa solo 22.000 dollari al giorno di diritti di passaggio. La posta in gioco dunque è alta.

Crescono le ambizioni dell’Italia
I Balcani sono decisivi per il passaggio di questi corridoi. Ne vengono attraversati da Nord a Sud e da Est a Ovest, convergendo guarda caso, soprattutto in Germania (ovvero nel cuore del polo imperialista europeo) e nei porti balcanici dell’Adriatico dunque affidando all’Italia un ruolo strategico non certo secondario.
Questo ruolo dell’Italia si evince dalla attivissima Ost-Politik lanciata dal governo Prodi. Piero Fassino che in quell’esecutivo era Viceministro degli Esteri ed oggi è non casualmente Ministro del Commercio Estero dice su questo cose illuminanti : “Troppi nel nostro paese – soprattutto nella classe politica – sottovalutano che l’Europa centrale e sud-orientale è per l’Italia un’area strategica di interesse vitale….Sono queste le ragioni per cui il governo Prodi ha individuato nell’Europa centrale e orientale e nei Balcani una priorità fondamentale della politica estera italiana, sviluppando una vera e propria “Ost-Politik” italiana che non solo corrisponde agli interessi del nostro paese, ma consente all’Italia di svolgere un’essenziale e riconosciuta funzione nella costruzione della nuova Europa….Il forte radicamento della nostra Ostpolitik nell’Europa centrale e sud-orientale si proietta poi in una dimensione ancora più ampia verso la Russia, l’Ucraina e la Moldavia, erso l’area caucasica fino a giungere ai paesi dell’Asia centrale” (5).
Di questa crescente ambizione dell’Italia e al suo manifestarsi come media potenza integrata nel più ampio polo imperialista europeo, avevamo cercato di fornire una prima analisi e documentazione già un paio d’anni fa. In uno studio dedicato proprio alle relazioni tra l’Italia e i Balcani, abbiamo sostenuto che la “conquista dell’Est” (quella che Fassino definisce Ostpolitik italiana), sta ormai nel cromosoma della politica estera dell’Italia degli anni ’90 e non sarà affatto un imperialismo diverso dagli altri negli obiettivi, nei progetti e, se necessario, nelle forme….Cinquanta anni dopo la Seconda Guerra Mondiale, la crisi balcanica e il Mediterraneo si presentano come un terreno di sperimentazione dei nuovi rapporti di forza tra le varie potenze e dunque sollecita le ambizioni anche di una media potenza come l’Italia”. (6)

“Ricostruzione” o “spartizione” ?
Comprensibilmente, dopo le distruzioni provocati dai bombardamenti dalla NATO e dai combattimenti tra esercito jugoslavo e UCK, si pone il problema della ricostruzione della Serbia e del Kossovo.
I parametri di questa “ricostruzione” sembrano essere definiti dalle baionette dei vari contingenti militari della NATO e della Russia che sono intervenuti in Kossovo. Chi vuole “ricostruire” deve mostrare la bandiera tramite i propri soldati, esattamente come accadeva nella Cina dopo le spedizioni militari occidentali che soffocavano le rivolte popolari contro i “diavoli bianchi” (dai Taiping ai Boxer). In tal senso, la ricostruzione impone una “spartizione” delle aree di influenza nella regione e la questione dei corridoi assume un valore strategico.
I flussi di investimenti che anticiperanno, accompagneranno e seguiranno la ricostruzione, vengono presentati alle opinioni pubbliche dei paesi della NATO coinvolti nella guerra, come una “importante occasione per le imprese” che avrà ricadute positive nelle indebolite economie europee, tra queste quella italiana.
Ci permettiamo di contestare questo scenario idilliaco posto a metà tra il neocolonialismo e i richiami alla “grande proletaria che si è mossa”.
Tra il 1990 e il 1998, le imprese italiane hanno portato all’estero circa 330.000 posti di lavoro (su un totale di circa 700.000 addetti complessivi di aziende italiane all’estero calcolati tra il 1985 e il 1998). Di questi circa 120.000 sono andati nell’Europa dell’Est (Europa centro-orientale e balcanica).
Gli effetti di questa delocalizzazione che alcuni definiscono impetuosa sono facilmente leggibili.
In primo luogo nel “mitico Nordest” ad esempio, i laboratori contoterzisti che lavoravano in subappalto per Benetton e Stefanel sono stati sostituiti da aziende situate nell’Europa dell’Est (soprattutto in Romania).
In secondo luogo nel “mitico Sudest”, uno dei maggiori calzaturifici pugliesi, la nota Filanto, ha dichiarato che chiuderà il suo impianto salentino. Vogliamo qui ricordare, che la Filanto è stata una delle prime aziende italiane a delocalizzare in Albania ottenendo un notevole aumento di fatturato, capitale e profitti (ma non di posti di lavoro in Italia) E’ emblematico che di questo boom aziendale non abbia benificiato nessuno se non la proprietà dell’azienda.
In terzo luogo, questo boom di investimenti delle imprese italiane all’estero, ha coinciso largamente con il boom della esportazione di capitali italiani in altri paesi. E’ dal 1993 infatti che la bilancia dei pagamenti italiana denuncia la “fuga di capitali all’estero”. Qualche mese fa, l’allora Ministro dell’Economia Ciampi denunciava che nel solo 1998 questa “fuga” era pari a 80.000 miliardi di lire.
Ciò significa che le imprese italiane che vanno all’estero non portano via solo il lavoro ma non fano rientrare nel paese neanche i profitti che ottengono con l’investimento estero. Questi profitti prendono la via dei paradisi fiscali, dei fondi pensione, dei fondi di investimento in altri paesi.
Dunque è del tutto illusorio attendersi una “socializzazione” dei benefici della partecipazione delle imprese italiane alla ricostruzione della Jugoslavia distrutta dalla guerra. Del resto non può che essere illusorio attendersi qualcosa di diverso dalla speculazione finanziaria ormai dominante in una economia imperialista come quella europea in cui l’Italia è ormai perfettamente integrata. E’ per questa ragione che appare più realistico parlare di “spartizione” piuttosto che di “ricostruzione” nei Balcani.

I “Corridoi strategici” che attraversano i Balcani
Una chiave di lettura della guerra scatenata dalla NATO in Jugoslavia e del ruolo vitale della regione balcanica nella nuova spartizione dei mercati e degli snodi strategici, emerge con sufficiente chiarezza dalla “questione dei corridoi”. (7)
Questi assi strutturali di collegamento attraversano tutta l’area connettendo i terminali sul Mar Nero all’Europa. Vediamoli nel concreto :
1) Il Corridoio nr. 4 : collega il porto rumeno di Costanza sul Mar Nero, attraversa Bucarest, Budapest, Austria e Germania. Questo corridoio ovviamente è sostenuto dalla Germania e dall’Austria;
2) Il Corridoio nr.5 :collega Trieste, Lubiana, Budapest e Kiev e prevede due diramazioni : una verso Zagabria e l’altra verso Bratislava. Italia e Russia sono molto interessate allo sviluppo di questo corridoio.Ma anche la Germania (che dopo la secessione della Slovenia è il primo paese per investimenti in quel paese) è molto interessata.
3) Il Corridoio nr.8 : è il corridodio trasversale Est/Ovest che collega il porto bulgaro di Burgas (sul Mar Nero e in competizione con Costanza), con Skopje (in Macedonia) e il porto albanese di Durazzo.Questo corridoio affida un ruolo particolare ai porti italiani di Bari e Brindisi.Ovvio che tale progetto trovi il sostegno dell’Italia ma anche degli Stati Uniti e della Francia.
4) Infine il Corridoio nr.10 : questo corridoio si connette al nr.8 a Skopje (Macedonia), attraversa il Kossovo, Belgrado, Zagabria, Lubiana e Germania. Questo corridoio è sostenuto da Grecia, Serbia, Russia ed ancora Germania (che anche in economia come nella politica estera gioca dunque su più tavoli).

Bombardamenti “intelligenti” sui nodi strategici dei Corridoi
I bombardamenti della NATO sulla Jugoslavia, sembrano essere un passaggio brutale della guerra tra Stati Uniti ed Europa per la spartizione dei mercati dell’Est.Da un lato l’aperto ostracismo degli USA contro la Serbia ha ottenuto anche il risultato di interdire i progetti europei, dall’altro l’asse anglo-americano dentro la NATO non fa mistero delle sue ambizioni al controllo strategico dei punti vitali della regione balcanica.
Gli USA hanno sabotato il progetto originario del Corridoio nr.10 ponendo il veto sull’attraversamento della Serbia. A tale scopo hanno pagato 100 milioni di dollari alla Romania per convincerla a far passare gli oleodotti più a nord (in Ungheria) invece che sul territorio jugoslavo da dove sarebbero arrivati a Zagabria, in Slovenia e poi in Germania.L’obiettivo è duplice : tagliare fuori la Jugoslavia dalle nuove rotte dell’economia e ostacolare qualasiasi interesse della Russia nei Balcani del Sud.
In secondo luogo, l’ENI aveva previsto una pipeline da Pitesti (Romania) alla raffineria di Pancevo (Jugoslavia) per la raffinazione del greggio per farlo poi arrivare con un oleodotto di 250 chilometri al terminale di Trieste. L’accanimento con cui la NATO (e gli aerei inglesi e americani) hanno distrutto la raffineria di Pancevo, confermano l’obiettivo statunitense di sabotare in ogni modo la funzione strategica di questo corridoio.
A chiarire gli obiettivi della NATO nell’area balcanica, è l’illuminante intervista rilasciata da Sir Mike Jackson, il generale inglese che comanda la Forza di Reazione Rapida della NATO installata prima in Macedonia ed ora nel Kossovo.
Intervistato dopo tre settimane di guerra dal Sole 24 Ore, il gen. Jackson ha affermato testualmente : “Sono cambiate le circostanze che ci hanno portato qui. Oggi è pressante la necessità di garantire la stabilità della Macedonia e il suo ingresso nella NATO. Ma resteremo sicuramente a lungo anche per tutelare la sicurezza dei corridoi energetici che passeranno attraverso questo paese”. Il quotidiano economico italiano precisa ulteriormente : “E’ chiaro il riferimento di Sir Jackson all’Ottavo Corridoio, cioè all’asse Est-Ovest che dovrà convogliarecon le pipeline le risorse energetiche dell’Asia centrale dai terminali del Mar Nero all’Adriatico, saldando l’Europa all’Asia. Questo spiega perchè grandi e medie potenze, in primo luogo la Russia, non vogliono essere escluse dal regolamento dei conti nei prossimi mesi nei Balcani. E’ evidente anche l’interesse della Turchia” (8).
L’analisi di Brzezinski e le esplicitazioni del gen. Jackson offrono dunque una solida conferma ad una chiave di lettura estremamente “concreta” ed assai poco ideologica o “umanitaria” della guerra della NATO contro la Federazione Jugoslava.

NOTE :
(1) Una analisi più ampia dei temi trattati in questo articolo (soprattutto sulle nuove guerre del petrolio nel Caucaso e nell’area del Mar Caspio) è stata pubblicato a luglio ’99 sul terzo numero dei “Quaderni Cestes” curati dall’omonimo centro studi Cestes-Proteo.

(2) Sulla nuova dottrina strategica degli Stati Uniti, è molto interessante l’articolo di M.Klare su “Le Monde Diplomatique” del novembre 1997.
(3) Ugo Tramballi su Sole 24 Ore del 6 aprile 1999
(4) Zbignew Brzezinski : “La Grande Scacchiera”, Longanesi 1998

(5) Prefazione di Piero Fassino su “Annuario 1998 dell’Europa centrale, orientale e balcanica”. A cura di Stefano Bianchini e Marta Dassù, edizioni Cespi e Cespeco)

(6) Sulla questione dell’imperialismo italiano vedi il rapporto “Alla conquista dell’Est. L’imperialismo italiano nei Balcani” a cura di Contropiano, pubblicato su”L’Italia s’è desta”, testo collettivo di Cararo, Gattei, Pala, Donato edito da Laboratorio Politico, Napoli 1997

(7) Sulla guerra dei Corridoi e delle pipelines, la documentazione più interessante finora nota sono una serie di articoli di Alberto Negri usciti sul Sole 24 Ore tra il dicembre 1998 e l’aprile 1999.
(8) vedi articolo sul Sole 24 Ore del 13 aprile 1999.


Gas, petrolio e controllo delle aree strategiche : la vera posta in gioco
Se gli effetti dei bombardamenti sulla Jugoslavia sembrano per ora congelati, a molti è sfuggito che un’altra guerra era già in corso da tempo. E’ la guerra – per ora economica anche se le armi si sono fatte sentire in Daghestan, Cecenia, Iraq, Afganistan, Georgia, Kurdistan etc. – per l’accaparramento e la spartizione dei giacimenti di gas e petrolio nell’area del Mar Caspio e il mantenimento del controllo sul Golfo Persico. Ma conflitti sempre più violenti dilaniano anche l’Africa ridotta ormai a mero serbatoio di materie prime.
Se i primi mesi del 1999 hanno riportato la guerra nella vicina periferia dell’Europa, occorre rammentare come il 1998 non sia stato solo l’anno delle tre crisi tra USA e Iraq conclusosi con i bombardamenti su Bagdad. E’ stato anche l’anno del prezzo del petrolio ai minimi storici dagli anni ’70 a oggi e del boom delle concentrazioni monopoliste tra le grandi multinazionali petrolifere.
Come mai questa escalation globale in un settore che – nonostante il ribasso dei prezzi e le nuove tecnologie – mantiene una funzione strategica per lo sviluppo economico ? Il mercato petrolifero ristagna, l’offerta di petrolio è diventata superiore alla domanda e il cartello dell’OPEC (protagonista dello shock petrolifero del ’73) rappresenta oggi solo meno della metà dei paesi produttori di petrolio. I paesi produttori sono ormai un’ottantina e il cartello dell’OPEC ne riunisce solo 13 che rappresentano meno della metà dell’offerta mondiale.
” La realtà è semplice : le scorte sono troppo alte e la domanda globale è debole” sintetizza il Center for Global Energy Study di Londra (6). Manuchear Takin analista del CGES aggiunge“L’OPEC diventerà irrilevante se non riuscirà ad impostare politiche di tagli e farle rispettare. La Nigeria, per esempio, esporta 2,4 milioni di barili, il 70% in più di quanto dovrebbe” (7).
Epppure, secondo gli esperti delle principali multinazionali, i consumi energetici si manterranno stabili fino al 2005, ma poi ricominceranno a crescere vertiginosamente alimentando la domanda mondiale di petrolio e gas.

Domanda e offerta mondiale di petrolio (in milioni di barili al giorno)

 19971998
 DOMANDA
Paesi dell’OCSE46,646,5
Paesi non OCSE27,127,1
TOTALE73,773,6
 OFFERTA
Paesi dell’OPEC30,030,2
Paesi non OPEC44,444,1
TOTALE74,474,3

(Fonte : Agenzia Internazionale dell’Energia)

La banca d’affari Merryl Linch, calcola che i profitti nel ’97 delle prime dieci multinazionali del mondo, abbiano raggiunto i 35 miliardi di dollari (circa 60.000 miliardi di lire). Ciò significa che le multinazionali petrolifere hanno saputo ricavare profitti anche con il petrolio a 10 dollari il barile. Se il prezzo raggiungesse i 20 dollari i margini di profitto sarebbero dunque ancora più ampi, ragione per cui avvenimenti come il rientro dell’Iraq nel mercato petrolifero o una guerra in Medio Oriente vanno dosati e calcolati con estrema precisione.
Le previsioni sul mercato del petrolio sono però discordanti. Secondo alcuni analisti, fino alla prima metà degli anni ’90, i consumi di petrolio crescevano stabilmente intorno all’1% annuo. Da tre anni a questa parte la domanda sta aumentando al ritmo del 2%. Dopo il Duemila, molte compagnie prevedono una crescita anche superiore al 3%. . Altri invece sono più prudenti e sottolineano come il calo della domanda – dovuto soprattutto alla crisi asiatica – stia riducendo il consumo mondiale di petrolio.(8)
A novembre del 1998, a Londra, l’International Herald Tribune , ha organizzato il suo consueto incontro annuale di esperti petroliferi. Una settimana dopo si sarebbe riunito il vertice dell’OPEC. Il direttore dell’International Energy Agency (l’affiliata all’OCSE per i problemi energetici) ha sostenuto che “il 1999 sarà un altro anno duro per il petrolio”. Ma ciò non significa che sarà un anno duro per le multinazionali petrolifere. Franco Bernabè che in quell’incontro era ancora amministratore delegato dell’ENI (oggi è passato alla Telecom), analizzando le ricadute della debolezza dei prezzi petroliferi, tracciava una scenario abbastanza veritiero : ” Le compagnie che sono entrate nell’attuale crisi con una forte posizione finanziaria e di riserve, unita ad una solida base tecnologica, possono sfruttare questo periodo per nuove opportunità di sviluppo e creazione di valore. Altre invece scompariranno, saranno acquisite, si fonderanno o cambieranno la natura della propria attività”. Il terremoto di fusioni, acquisizioni, scambi azionari tra le multinazionali petrolifere – e dunque di concentrazione monopolista – conferma questa valutazione. (9).


La nuova mappa delle multinazionali del petrolio

Le sette sorelle nel 1973
(dati in miliardi di dollari USA)
Le principali società nel 1998
(dati in miliardi di dollari USA)
SocietàFatturatoSocietàFatturato
Exxon25,7Exxon-Mobil178,7
Royal Dutch Shell13,7Royal Dutch Shell128,7
Texaco11,4B.P. – Amoco103,7
Mobil11,4Total-Fina52,96
Gulf8,4Texaco45,2
Socal7,7ELF Aquitaine42,2
B.P.7,2ENI35,1
  Chevron34,7
  Petroles venezuela33,2
  Conoco25,3

Questo processo di concentrazione monopolistica nel mercato petrolifero, sta già provocando due problemi, uno sul mercato statunitense, l’altro all’ENI ovvero ad una delle maggiore multinazionali italiane :
a) Sul mercato statunitense la fusione tra Exxon e Mobil ha di fatto ricostituito quella che fu la Standard Oil di Rockfeller e che fu costretta a dividersi nel 1911 in base alle leggi antitrust introdotte negli Stati Uniti. Il problema della concentrazione monopolistica si ripropone, dunque, come quasi novanta anni fa.
b) Per l’ENI si pone il serissimo problema di crescere per reggere la competizione. Secondo alcune fonti, l’ENI vorrebbe allearsi con una compagnia più piccola per mantere il pacchetto di controllo della nuova società. Si fanno i nomi della russa Gazprom, delle inglesi Enterpreise Oil (già socia dell’Eni nei giacimenti della Val d’Agri) e Lasmo, delle americane Conoco, Unocal e Marathon Oil, della norvegese Saga, della malese Petronas (presente in Iran dove l’Eni è già ben piazzata) ed infine della spagnola Repsol (10).
Ma la situazione critica nel mercato petrolifero sta innescando anche altre preoccupazioni, in questo caso più preoccupanti per noi che per i profitti aziendali.

Non c’era il sexigate dietro i raid USA su Bagdad
Paul Wolfowitz (autore nel marzo del 1992 di un famoso rapporto del Pentagono che minacciava esplicitamente gli alleati e li “dissuadeva” dal tentare di mettere in discussione la supremazia americana) nelle settimane precedenti ai bombardamenti contro l’Iraq, aveva presentato un rapporto in cui si indicava chiaramente la necessità di “intervenire” nel Golfo Persico per quattro motivi :
a) il prezzo del petrolio era troppo basso;
b) questo fattore comporta il rischio di una destabilizzazione di un paese strategico come l’Arabia Saudita;
c) bisogna costringere i paesi arabi a vendere i loro pozzi e le loro compagnie alle multinazionali petrolifere statunitensi;
d) occorre rilanciare il dialogo con l’Iran.
Nel controllo del mercato petrolifero dunque le multinazionali vogliono tornare ad una situazione pre-shock del ’73. In questi ultimi venticinque anni le compagnie hanno di fatto comprato il greggio dai paesi arabi e lo hanno lavorato – spiega ancora Takin – “ma adesso si tornerà all’antico, quando le compagnie controllavano l’intero ciclo del petrolio, dal giacimeto alla pompa di benzina” sottolinea Pasquale De Vita, presidente dell’Unione Petrolifera.
Se poi confrontiamo le “indicazioni” di Wolfowitz con tre “fattori sul campo” ovvero : a) il boom di concentrazioni monopoliste tra le multinazionali petrolifere (Mobil-Exxon; B.P.-Amoco; Total-Fina); b) l’aggressione all’Iraq e il progetto di smembramento del paese attraverso i protettorati kurdo nel nord e sciita nel sud con l’istaurazione di un governo-fantoccio alleato di USA, Israele, Turchia; c) la minaccia di alcune compagnie petrolifere russe, arabe, francesi, italiane di utilizzare l’Euro e non più il dollaro come valuta di quotazione dei barili di petrolio – possiamo verificare quanto la decisione di bombardare Bagdad sia dipesa poco o nulla dai guai di Clinton sull’impeachment. (11)


Dal petrolio al gas : il business del Duemila ?
Ma la frenesia delle multinazionali europee e statunitensi, non si gioca solo intorno al petrolio del Golfo. Colossali investimenti per miliardi di dollari si vanno concentrando anche nelle repubbliche asiatiche dell’ex URSS e non solo intorno ai pozzi petroliferi.
L’oscuro oggetto del desiderio delle grandi multinazionali dell’energia, sta diventando il gas. Alcuni si sentono legittimati in questa corsa allo sfruttamento dei giacimenti dall’immagine di “energia pulita” del gas come risorsa alternativa al petrolio. Ma è soprattutto la maggiore redditività e la domanda crescente a muovere concretamente le cose. Alcuni dati sono emblematici.
Secondo il centro di consulenze d’affari DRI McGraw/Hill, si prevede che i consumi mondiali di metano raggiungeranno i 3.700 miliardi di metri cubi entro il 2015, con un aumento dell’80% rispetto al 1990. Le regioni che cresceranno di più saranno l’America Latina e quella asiatico-pacifica. Una delle principali ragioni della domanda di gas è la crescente competitività dei suoi prezzi rispetto ad altre fonti energetiche. In secondo luogo i “vincoli ecologici” vedono il gas offrire dei vantaggi ambientali superiori agli altri combustibili fossili, esso emette infatti minore CO2 e SO2 per unità di energia. Il 70% delle riserve mondiali di gas metano sono concentrate nella ex URSS e in Medio Oriente (12) .
Il tasso di consumi del gas è ormai pari al doppio di quelli petroliferi ossia il 5% all’anno. Ragione per cui le multinazionali si sono adeguate. (13)
Le riserve della Total, ad esempio, hanno invertito il rapporto tra petrolio e gas. Oggi il gas rappresenta già il 60% delle riserve Total che in questo ha battuto sul tempo le altre multinazionali.
Ma anche l’Agip (gruppo ENI) sta seguendo la stessa strada. Le riserve della multinazionale italiana sono ormai per il 47% in gas e per il 53% in petrolio ma la tendenza è quella ad invertire la proporzione.
E’ per questo che l’ENI (condizionando ad hoc le politica estera del governo italiano) sta curando particolarmente i rapporti con due repubbliche asiatiche come Uzbekistan e Turkmenistan che sono rispettivamente il quarto e il quinto produttore mondiale di gas.

Le pipelines della discordia
” L’area compresa tra Oceano Artico, Mar Caspio e Lago d’Aral è diventato il nuovo teatro di scontro e di cooperazione tra gli Stati. Sull’asse tra Occidente e Oriente si combatte una battaglia a colpi di pipeline, gasdotti, autostrade e ferrovie” così un quotidiano economico italiano descrive lo scenario di quell’area del mondo che i geopolitici definiscono come “Eurasia” (14).
Il problema di come e dove far arrivare le risorse energetiche sui mercati, sta provocando una frenetica attività di alleanze, contratti e progetti nell’area del Mar Caspio. Le riserve petrolifere di quattro repubbliche (Kazachistan, Azerbaigian, Turkmenistan, Uzbekistan) sono state valutate in 15 miliardi di barili a fronte dei 13,5 del Mare del Nord; quelle di gas sono di 9.000 miliardi di metri cubi a fronte dei 2.900 del Mare del Nord. Queste stime sono state riviste al ribasso nel giugno del ’98 dall’Istituto Internazionale per gli Studi Strategici di Londra, ma il centro ricerche della British Petroleum è andato più vicino alla verità affermando che ad essere cambiate non sono le stime sulle riserve di gas e petrolio dell’area quanto le previsioni di spesa per le perforzazioni rese oggi “meno convenienti” dal ribasso del prezzo del petrolio. Infatti estrarre un barile di petrolio nell’area del Caspio costa oggi tra i 4 e i 5 dollari contro il costo di 1 dollaro a barile in Kuwait. “Se l’oro nero del Caspio diventasse troppo costoso e rischioso, i contratti di investimento già firmati rischierebbero di subire alcuni ritardi e di finire in un cassetto” sostiene Vicken Cheterian su Le Monde Diplomatique (15). .
In questa area – che corrisponde alle repubbliche asiatiche dell’ex URSS – si vanno concentrando grandi investimenti e crescenti fattori di competizione . Le enormi risorse energetiche (petrolio e gas) di questa regione stanno alimentando una gigantesca corsa all’accaparramento delle concessioni da parte delle principali società petrolifere transnazionali (Chevron, Exxon, British Petroleum, Amoco ma è in corsa anche l’ENI). (16) .
Lo scenario sembra quello della conquista coloniale del secolo scorso.“Con il sostegno della Gran Bretagna, Washington spinge centroasiatici e Azerbaigian a considerarsi importanti potenze petrolifere concorrenti della Russia e dell’Iran” sottolinea un quotidiano economico. Alcuni osservatori riesumano il concetto di “Grande Gioco” coniato nell’epoca del colonialismo da Rudyard Kypling per indicare lo scontro tra Russia e Gran Bretagna per il controllo dell’Asia Centrale.
Tra le società petrolifere e le varie potenze si fanno e disfanno accordi e alleanze cercando di corrompere le borghesie compradore delle varie repubbliche.
Le multinazionali petrolifere e i governi occidentali (ma soprattutto gli USA) stanno cercando in ogni modo di spezzare ogni legame tra la Russia e le repubbliche asiatiche dell’ex URSS. Il punto nevralgico di questo legame sono i corridoi delle comunicazioni e i tracciati degli oleodotti/gasdotti che ancora oggi transitano sul territorio russo.” Il 5 gennaio scorso (1998 NdR), i dirigenti di cinque repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale, Uzbekistan, Kazachistan, Turkmenistan, Kirghisistan e Tagikistan, si sono riuniti a Askhabad, la capitale turkmena” racconta Julie Kerleroux “alla fine del summit è emersa una dichiarazione comune che esprime l’intenzione di riunire le loro forze per far marciare dal Mar Caspio verso l’Europa e il Mediterraneo le risorse energetiche del Kazachistan e del Turkmenistan. Ciò sottintende che le rotte del petrolio e del gas non sono più condannate a passare attraverso la Russia” (17). L’obiettivo delle ingerenze statunitensi non è dunque solo quello di tracciare nuove rotte per il petrolio ma è anche di frantumare ogni residuo legame tra le repubbliche che avevano dato alla vita alla Confederazione degli Stati Indipendenti dopo la dissoluzione dell’URSS, una confederazione che obiettivamente affidava alla Russia un ruolo tuttora centrale.
“Il governo USA marcia alla testa delle compagnie americane perchè il Caspio offre l’occasione di ridurre la dipendenza energetica dal Medio Oriente e di sottrarre al controllo russo gli Stati dell’ex URSS” ha scritto un quotidiano economico italiano inquadrando bene la strategia statunitense. (18) . ” Eltsin negli ultimi mesi non ha perso occasione per ricordare che Mosca non accetterà mai di mettersi da parte. Ma gli americani invece sono ansiosi di togliere il petrolio del Caspio da sotto le zampe dell’orso russo” conferma un’altro osservatore. (19) .

Gli Stati Uniti puntano a mantenere l’egemonia su tutta l’area
Per realizzare questa strategia, gli Stati Uniti hanno puntato soprattutto ad uno stretto coordinamento con la Turchia e alla “cooptazione” dell’Azerbajian – importante paese petrolifero – nella strategia anti-russa. A ottobre del ’98 è stato siglato l’accordo che porterà il petrolio da Baku (Azerbaijan) a Ceyhan (Turchia) sotto la supervisione degli Stati Uniti. “Un Azerbaijan indipendente e di lingua turca con gasdotti che arrivano fino in Turchia – etnicamente affine e politicamente amica – impedirebbe alla Russia di esercitare un controllo esclusivo sull’accesso alla regione privandola di uno strumento politico decisivo per condizionare la strategia dei nuovi stati dell’Asia centrale” sottolinea un esperto come Zbignew Brzezinski in una sua analisi dei problemi strategici della regione del Caspio (20).
L’altro fattore di scontro nell’area sono le direttrici geografiche (e dunque economiche) su cui dovranno passare i nuovi oleodotti e gasdotti che porteranno petrolio e gas sui “mercati”. La tensione tra Stati Uniti, Russia, Turchia, Iran cresce di giorno in giorno nel tentativo di imporre il “Tracciato del Caspio settentrionale” che sfocerebbe nel porto russo di Novorossik sul Mar Nero (investimenti per 1,5 miliardi di dollari) o il “Tracciato del Caspio meridionale” che sfocerebbe a Cehyan in Turchia e direttamente sul Mediterraneo, senza transitare nel Bosforo a bordo delle petroliere e delle navi gasiere (investimenti per 1,7 miliardi di dollari). La Turchia infatti ha minacciato di “contingentare per motivi ecologici” il traffico navale nello stretto del Bosforo limitando così pesantemente l’opzione della Russia.
In occasione dell’attentato contro il presidente della Georgia (ed ex ministro degli esteri di Gorbaciov) Eduard Shevardnadze, le accuse alla Russia sono state esplicite. Shevardnadze ha puntato l’indice “contro quelle potenze che sono interessate ad una soluzione diversa per quanto riguarda l’oleodotto”.
Ma non c’è solo l’ambizione di tagliare fuori la Russia dietro la politica statunitense nell’area. Il Dipartimento di Stato USA – a meno che non si riapra il dialogo con Teheran auspicato da Wolfowitz e Brezinski – vuole impedire ogni vantaggio anche all’altro “nemico” cioè l’Iran.“Lo spauracchio iraniano ha contribuito al voltafaccia di Washington a favore del progetto Baku-Ceyhan notificato al governo turco dall’ambasciatore americano ad Ankara il 31 gennaio 1995” segnala Nur Dolay (21).
Secondo Pierre Terzian, direttore della rivista francese “Petrostràtègie”, i progetti di “vie del petrolio” dall’area del Caspio agli snodi portuali attrezzati per esportarlo in tutto il mondo, sono cinque e tutti altamente “conflittuali”.
– Il primo passa per la Russia (e per la Cecenia), ma gli Stati Uniti sono contrari per evitare qualsiasi dipendenza da Mosca ;
– Il secondo attraversa la Georgia e sbocca sul Mar Nero, ma è una soluzione condizionata dalla Turchia che controlla il flusso delle petroliere negli stretti del Bosforo e dei Dardanelli;
– Il terzo passa attraverso l’Armenia per poi giungere in Turchia e poi nel Mediterraneo ma è condizionato dal conflitto tra Armenia e l’Azerbajian (forte paese petrolifero) sulla questione del Nagorno-Karabah;
– Il quarto dovrebbe attraversare l’Iran ma su questo – fino ad ora – esiste il veto assoluto degli Stati Uniti;
– Infine il quinto – il più aleatorio – è quello che dovrebbe attraversare l’Afganistan e sfociare nei porti del Pakistan. E’ un progetto sostenuto dalla compagia USA Unocal e da una compagnia saudita.
Allo stato attuale esistono solo due oleodotti – con capacità ridotta – quello che lega Baku (in Azerbaijan) al porto russo di Novorossik sul Mar Nero e quello che da Baku passa per la Georgia e sfocia nel porto di Supsa, anch’esso sul Mar Nero.
Ma su questa realtà sta pesando sempre di più lo strumentale veto della Turchia che, con le parole del suo ministro degli Esteri Ismail Cem “non permetterà che gli stretti si trasformino in un oleodotto”
 sottolinea Pierre Terzian (22).
Dopo anni di tensione tra Russia e Turchia sembra che sia stata raggiunta una prima fragile mediazione. I tracciati che seguiranno le pipelines per arrivare nei porti del Mediterraneo saranno infine due. (23)
Una, gestita dal “Caspian Pipeline Consortium” formato da tre governi – russo, kazacho e omanita – e da otto compagnie petrolifere – tra cui Agip, Chevron e Lukoil – giungerà nel porto russo di Novorossik nel Mar Nero e da lì partirà con le petroliere.
L’altra partirà dal Baku (Azerbajian) e finirà al terminal turco di Ceyhan sul Mediterraneo. Ma proprio le compagnie del consorzio AIOC (BP, Statoil, Amoco, Exxon, Lukoil) che gestisce le estrazioni petrolifere in Azerbaijan non sono affatto entusiaste di questa soluzione perchè più costosa rispetto alla prima. E infatti sulle compagnie stanno crescendo sia le pressioni “politiche” del Dipartimento di Stato USA che gli incentivi fiscali promessi a piene mani sia dal governo americano che dalla Turchia. (24) .
Esiste poi una terza opzione, quella sostenuta dalla compagnia Unocal con un gasdotto che dal Turkmenistan attraversi Afganistan, Pakistan al quale affiancare anche – per un tratto – un oleodotto da far sfociare sul Golfo Persico. (25). Oltre all’americana Unocal, nel progetto sono coinvolte anche la compagnia saudita Delta Oil e quella argentina Bridas Energy. Esso prevedeva un gasdotto di 1.400 chilometri e un oledotto di 1.600 chilometri.
Il conflitto scatenato dai Talebani con l’aperto sostegno del Pakistan, doveva servire proprio a “stabilizzare” il territorio previsto per il passaggio di questo oleodotto-gasdotto (26).
Esisteva poi un’altra opzione anch’essa bloccata dal veto americano (questa volta sulla Serbia). Infatti il tracciato settentrionale avrebbe dovuto potuto evitare il blocco della Turchia sugli stretti del Bosforo e dei Dardanelli facendo arrivare il petrolio del Kazachistan nel porto di Costanza (Romania) sul Mar Nero. Da lì attraverso un sistema di oleodotti sarebbe stato distribuito in Europa. “Su questa pipeline scatta però il divieto americano sull’attraversamento della Serbia, vista da Washington come l’avamposto slavo della Russia” segnala il Sole 24 Ore.
Gli USA hanno così erogato un finanziamento di 100 milioni di dollari alla Romania per studiare una rotta alternativa che evitando Belgrado passi dall’Ungheria (27).

Le “guerre” del petrolio
Questi investimenti significano materialmente profitti per le multinazionali e soldi per le royalties per i paesi attraversati dalle pipeline. Gli investimenti previsti per i prossimi anni nella regione del Mar Caspio sono pari a quasi 90.000 miliardi di lire. Se tutti i progetti venissero realizzati, i profitti dovuti alle royalties per i paesi attraversati sarebbero più o meno pari a 20 milioni di dollari al giorno. Oggi, un paese come la Georgia ne incassa quotidianamente solo 22mila e si comprende perchè vorrebbe estendere la rete di pipelines sul proprio territorio. Ma la stessa ambizione investe Russia, Iran, Armenia, Turchia, Pakistan, Afganistan e all’interno di queste le varie nazionalità (vedi Cecenia, Kurdistan, Ossezia, Inguscezia, Nagorno-Karabah etc.). Questi paesi corrispondono pienamente a quell’Eurasia di cui gli USA – secondo Brzezisnki – non possono assolutamente perdere il controllo, ma corrispondono anche a quei conflitti locali che il Peace Index ci ripropone ormai come costante da anni.
Ma la questione della corsa all’accaparramento del petrolio da parte delle multinazionali (e di quella alle royalties da parte dei governi locali) sta trasformando anche l’area occidentale dell’Africa in un campo di battaglia. Dalla crisi interna del gigante nigeriano alla guerra in corso nella regione dei Grandi Laghi, è leggibile lo zampino delle compagnie petrolifere in molti dei conflitti scatenatisi in questi anni e che hanno messo fine all’illusione della “Rinascita africana”. (28)
In Africa la competizione tra Stati Uniti e Francia si è trasformata in più di qualche occasione in scontro aperto per l’egemonia nelle aree strategiche di questo continente ridotto a serbatoio di materie prime e collocato – secondo una definizione definitiva ma realistica dell’africanista Claudio Moffa – “alla periferia della storia”. Se per “rinascita africana” si intendeva solo l’obbedienza e la subalternità ai diktat del FMI, questa rinascita è avvenuta e si è esaurita nel giro di pochissimi anni. Le esigenze del neo-colonialismo e i fattori di competizione interimperialista hanno imposto un ritmo di marcia più veloce che ha costretto le nuove classi dominanti africane ad un ritorno al passato.
La spartizione delle fonti di energia e delle materie prime è tornata con violenza ad imporsi nelle relazioni internazionali ed anche fra gli ex partner.
In Africa, le prospezioni e le previsioni delle multinazionali petrolifere, lasciano trapelare le immense possibilità di sfruttamento delle materie prime del continente “Le riserve di petrolio ( definite favolose ) non sono stimate con sufficente precisione. La fascia più ricca va dalla Nigeria alla Namibia, ma non mancano rilevamenti importanti in Sudan e al largo delle coste eritree e somale.” segnala l’inserto economico del Corriere della Sera ” Nella sola Angola le ultime prospezioni hanno portato alla scoperta di depositi per 5 miliardi di barili”. (29)
Così mentre la Nigeria è costretta ad importare benzina, l’Angola è diventata in questi anni meta di businessmen di tutte le principali compagnie petrolifere. Ogni mese vengono concesse nuove concessioni per la prospezione, la perforazione e l’estrazione di nuovi giacimenti. L’Angola non nasconde che la sua ambizione è di superare entro il 2010 la produzione della Nigeria. (30) La ripresa degli attacchi dell’Unita nell’enclave di Cabinda vuole propabilmente compromettere e condizionare questa possibilità.
Nella Repubblica Democratica del Congo (quella di Laurent Kabila) esisteva solo una raffineria a Moanda (sulla costa atlantica) di proprietà dell’AGIP ed ora affidata al gruppo sudafricano Jovane. L’ENI e l’AGIP si stanno inserendo nella regione in concertazione con la Tamoil, la compagnia petrolifera libica e puntano a sfruttare le potenzialità dell’area. La RD del Congo al centro di un potenziale conflitto regionale che investe Congo, Uganda, Ruanda, Zimbabwe, Angola, dopo avere spodestato Mobutu, ha rotto con gli americani, guarda con meno ostilità alla Francia ma cerca anche – e giustamente – di allargare i suoi interlocutori economici.
Il problema dell’Africa resta infatti quello della “sicurezza degli investimenti”, per cui gran parte dei pozzi sono off-shore cioè collocati nelle acque territoriali della fascia atlantica intorno alle coste dell’Angola, Congo, Gabon, Camerun.
La Nigeria, il colosso petrolifero dell’Africa subsahariana, oltre che con la crisi interna deve fare i conti con il conflitto che la oppone al Camerun per il controllo della penisola di Bakassi ricca di petrolio.
Contemporaneamente Elf, Shell, Exxon stanno aprendo 300 nuovi pozzi per una produzione prevista di 225.000 barili al giorno in Ciad e intendono costruire (con i soldi della Banca Mondiale) un oleodotto che attraversi il Camerun e porti il petrolio nel porto di Kribi sull’Atlantico . Per questo progetto, le tre multinazionali, riceveranno ad interessi zero prestiti per 370 milioni di dollari dalla Banca Mondiale e dall’International Financial Inistitution in quanto “progetti di lotta contro la povertà”. (31).
Ovviamente le royalties che verrano pagate al Ciad e al Camerun per il passaggio dell’oleodotto verranno vincolate al pagamento del debito estero di questi due paesi. La caccia al tesoro che insanguina l’Africa, dunque, può proseguire.

Questo scenario apertamente neocoloniale spiega, in buona parte, cosa è accaduto ed accade quotidianamente in Kurdistan, Cecenia, Afganistan, nell’Africa Occidentale, ma spiega anche le cause concrete della crescente conflittualità tra i vari poli imperialisti che si vanno spartendo materialmente le regioni strategiche del mondo. Il XXI Secolo si aprirà con un ritorno al passato più prossimo ?

Sergio Cararo


(6) (“L’OPEC al capezzale del greggio”. Sole 24 Ore del 25 novembre 1998)
(7) (” La guerra e il barile pieno”. Affari e Finanza del 21 dicembre 1998)
(8) (“Oil : a new scenario”. In Business Week, settembre 1997)
(9) (Petrolio ai minimi. Crisi in vista”. Sole 24 Ore del 18 novembre 1998)
(10) (“Per l’ENI è urgente trovare alleati”. CorrierEconomia del 7 dicembre ’98).
(11) (“Gli ultimi fuochi del Golfo”. CorrierEconomia del 14 dicembre ’98).

(12) (” Verso il Duemila a tutto metano”. Il rapporto della DRI è su comparso
Mondo Economico del 24.4.1995)
(13) (” Gas e petrolio : guerra mondiale” Dossier del “Mondo”del 18 ottobre 1997).
(14) (” La guerra di strade e pipeline”. Sole 24 Ore del 23 dicembre 1998)
(15) “Il Grande Gioco del Petrolio “Le Monde Diplomatique, ottobre 1997)
(16) (“Caspian black gold”. Reportage del Time, 29 giugno 1998)
(17) “La CEI dans tous ses ètats”. Alternatives Economiques, luglio-agosto’98)
(18) (” Il Grande Gioco dell’oro nero di Baku”. Sole 24 Ore del 3.6.98)
(19) (“La battaglia dell’oleodotto”. CorrierEconomia del 16.2.1998)

(20) Z. Brzezisnki in “La Grande Scacchiera”, è interssante notare che. Brzezinski come
altri ex consiglieri della sicurezza del Dipartimento di Stato USA, è oggi
consulente della multinazionale petrolifera Conoco con interessi nel Caspio.

(21) (“Grandi manovre intorno al petrolio del Caucaso”. Nur Dolay in Le Monde
Diplomatique luglio1995)
(22) (” Le pètrol au coer de la stratègie americaine”. Croissance,Francia, del marzo 1998).
(23) (“Mar Caspio : il nuovo Medio Oriente”. Affari e Finanza”, 15 settembre 1997)
(24) (“Il Caspio si allea a USA e Turchia”. Sole 24 Ore del 30.10.1998)
(25) (“L’Asia tesse la rete dei gasdotti”. Mondo Economico” , 2 giugno 1997)
(26) (” Petrolio : maledizione di Kabul”.Corriere della Sera del 22 novembre 1998)
(27) (“Sull’asse del Danubio la battaglia dei Corridoi”. Sole 24 Ore del 12.12.1998)
(28) (La Nigeria è l’unico paese africano tra i primi 15 produttori mondiali di
petrolio ed è membro dell’OPEC).
(29) (“La ricchezza è il vero guaio dell’Africa”. CorrierEconomia del 1 febbraio ’98)
(30) (“La caccia al tesoro insanguina l’Africa”. CorrierEconomia del 15 giugno ’98)
(31) (“Petrolio in Ciad e Camerun. Ai poveri le briciole”.Altrafinanza gennaio ’98)


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From: Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia <jugocoord@tiscali.it>

To: crj-mailinglist@yahoogroups.com ; jugoinfo@domeus.it ; press@amnesty.it

Sent: Wednesday, April 30, 2003 10:36 AM

Subject: [JUGOINFO] 

Amnesty International… con qualche anno di ritardo



(for the english text see:
Kosovo: Minorities are prisoners in their home
http://web.amnesty.org/library/print/ENGEUR700142003 )

* Un nostro commento segue in fondo *


===


Subject: Rapporto di Amnesty International sul Kosovo/Kosova:
“Minoranze prigioniere a casa propria”
   Date: Tue, 29 Apr 2003 22:32:48 +0200
   From: “Ufficio Stampa Amnesty ” <press@amnesty.it>
     To: balcani@peacelink.itnews@peacelink.it


Gent.mi tutti,

vi trasmettiamo il comunicato stampa della Sezione Italiana di
Amnesty International:


Rapporto di Amnesty International sul Kosovo/Kosova: “Minoranze
prigioniere a casa propria”



Grazie per la cortese attenzione

Per ulteriori informazioni, approfondimenti ed interviste:

Ufficio Stampa
Amnesty International
Tel. 06 44.90.224
cell. 348-6974361
e-mail: press@amnesty.it




ALLA CORTESE ATTENZIONE DEL CAPO-REDATTORE ESTERI


COMUNICATO STAMPA
CS 67-2003




RAPPORTO DI AMNESTY INTERNATIONAL SUL KOSOVO/KOSOVA: “MINORANZE
PRIGIONIERE IN CASA PROPRIA”




A quasi quattro anni dalla fine della guerra, le minoranze del
Kosovo/Kosova (*) sono ancora a rischio di subire uccisioni ed
attacchi a sfondo etnico: è quanto ha denunciato oggi Amnesty
International, presentando un nuovo rapporto dal titolo “Prigionieri
nelle nostre case”.

Il rapporto descrive come le minoranze in Kosovo/Kosova non abbiano
modo di ottenere giustizia per gli atti di violenza e le minacce alla
propria integrità fisica e psicologica da loro subiti. L’impunità per
questi abusi dei diritti umani costituisce un effettivo impedimento
alla libertà di movimento e una limitazione al godimento dei diritti
fondamentali, come quelli al lavoro, alla salute e all’istruzione.

“Fino a quando questi diritti non potranno essere garantiti, i
rifugiati e i profughi interni che si trovano all’estero o in altre
zone della Serbia-Montenegro non saranno in grado di rientrare nelle
proprie terre” – ha osservato Amnesty International. “Ora che si sta
discutendo sul futuro dell’Iraq, la comunità internazionale deve tener
presente le lezioni del passato e assicurare l’adozione di misure
efficaci per proteggere i diritti umani dei gruppi vulnerabili e
assicurare che non vi sarà alcuna impunità per gli autori degli abusi
dei diritti umani”.

Nel suo rapporto, Amnesty International afferma che l’amministrazione
internazionale del Kosovo/Kosova si è trovata impreparata ai massicci
abusi dei diritti umani contro le minoranze, seguiti al rapido rientro
della comunità albanese. Sebbene gli atti di violenza contro le
minoranze siano sensibilmente diminuiti rispetto ai mesi
immediatamente successivi alla fine della guerra, essi continuano
tuttavia ad avere luogo.

Il fatto che in larga parte i reati a sfondo etnico restino impuniti
rafforza la sensazione che i loro autori rimarranno liberi di compiere
ulteriori attacchi e contribuisce ad alimentare un clima di paura.
L’impunità per gli abusi presenti e passati nega alle minoranze del
Kosovo/Kosova i diritti fondamentali garantiti dalle leggi nazionali e
dalle norme del diritto internazionale applicabili in questo
territorio.

“Le quotidiane intimidazioni subite da serbi, bosniaci, gorani, rom,
ashkali ed egiziani (**) limitano la loro libertà di movimento. Il
timore di avventurarsi fuori dalle enclavi monoetniche rafforza la
percezione di prigionia e di esclusione e nega alle minoranze il
godimento dei fondamentali diritti umani” – ha aggiunto Amnesty
International.
“L’impossibilità di avere accesso a cure mediche adeguate ha
determinato un aumento dei tassi di mortalità e delle malattie
all’interno dei gruppi minoritari. In alcune zone, questi non hanno
accesso alle medicine di base”.

Nei casi di emergenza, i pazienti devono rivolgersi alla Kfor (la
forza multinazionale a guida Nato presente in Kosovo/Kosova) o recarsi
a un posto di blocco della Kfor e attendere di essere scortati a un
ospedale: spesso questi ritardi hanno conseguenze fatali.

All’interno delle enclavi monoetniche vi è una grande difficoltà di
reperire insegnanti qualificati. Per i bambini che vivono al di fuori
di queste enclavi, andare a scuola spesso significa un viaggio di
diversi chilometri sotto scorta della Kfor. Ad esempio, venti bambini
serbi di Pristina/PrishtinÞ devono recarsi sotto scorta della Kfor a
una scuola elementare di Llapje Selo/LlaplasellÞ, a otto chilometri di
distanza.
Un’insegnante delle elementari di Prizren viene presa ogni lunedì
mattina dalla Kfor e accompagnata nel villaggio in cui lavora, dove
rimane fino al venerdì, quando sempre sotto scorta viene
riaccompagnata a casa.

L’impiego è a sua volta sottoposto a forti restrizioni. Si calcola che
fino al 90% dei serbi e dei rom siano ufficialmente disoccupati. Nel
giugno 1999 tutti i serbi sono stati licenziati dalle industrie
statali e dai servizi pubblici.

In base alla risoluzione 1244/99 del Consiglio di Sicurezza, la Unmik
(la polizia civile delle Nazioni Unite) ha la responsabilità di
proteggere e promuovere i diritti umani. Amnesty International chiede
alla Unmik e all’Istituzione provvisoria di autogoverno di affrontare
seriamente il problema dell’impunità e prendere misure adeguate a
proteggere i diritti delle minoranze che già vivono in Kosovo/Kosova.
Queste misure serviranno a garantire alle minoranze che vivono
all’estero o in altre zone della Serbia-Montenegro l’esercizio del
proprio diritto a tornare in Kosovo/Kosova in condizioni di sicurezza
e dignità.

Mentre la possibilità di rientrare continua a dipendere dalla presenza
della Kfor, Amnesty International chiede alla comunità internazionale
di assicurare che nessun membro dei gruppi minoritari sia fatto
rientrare con la forza in Kosovo/Kosova.

(*) Tutti i nomi di luogo contenuti in questo comunicato sono scritti
in lingua serba e in lingua albanese.
(**) I gorani sono slavi musulmani. Gli ashkari e gli egiziani sono
albanofoni musulmani e si considerano gruppi distinti dai rom

FINE DEL COMUNICATO
Roma, 29 aprile 2003


Il rapporto in lingua inglese, Kosovo/Kosova – “Prisoners on our own
homes”, è reperibile sul sito http://www.amnesty.org

Per ulteriori informazioni, approfondimenti ed interviste:
Amnesty International – Ufficio stampa
Tel. 06 44.90.224, cell. 348-6974361, e-mail: press@amnesty.it


===


Nostro commento:

Riceviamo e restiamo sconcertati alla lettura di questo comunicato di
Amnesty International. Per svariati motivi.
Il motivo principale risiede nel fatto che il comunicato giunge
veramente fuori tempo massimo, quando “tutti i polli sono scappati dal
pollaio”, per dirla con un proverbio. Letteralmente, sono piu’ di tre
anni che la stragrande maggioranza dei cittadini appartenenti alle
cosiddette “minoranze etniche” sono scappati dal Kosovo-Metohija (oggi
protettorato NATO) trasferendosi soprattutto in altre zone della
Serbia. Il comunicato non fa menzione dell’entita’ di questo flusso di
profughi (almeno 300mila persone!) ne’ chiarisce quale debba essere il
loro futuro.
Nel comunicato si dice pero’: “Amnesty International chiede alla
comunità internazionale di assicurare che nessun membro dei gruppi
minoritari sia fatto rientrare con la forza in Kosovo/Kosova”… “Con
la forza” sono scappati, e “con la forza” gli estremisti pan-albanesi
ne impediscono il rientro – dunque che cosa sta effettivamente
chiedendo Amnesty International alla “comunita’ internazionale”?

E chi e’ la “comunita’ internazionale”? Quella che alleandosi con
l’UCK ha trasformato il Kosovo-Metohija in un inferno, da almeno
cinque anni, alimentando l’esplosione del terrorismo secessionista?

Per avere una idea di quell’inferno suggeriamo caldamente di non
fermarsi al comunicato di Amnesty International, e di visionare
piuttosto il documentario “I dannati del Kosovo” (piu’ sotto le
indicazioni su come procurarselo). Dal canto nostro, non ci rimane che
ricordare che pochi anni fa in Kosovo-Metohija ed in tutta la
Jugoslavia non c’erano “minoranze etniche” ma solamente cittadini con
gli stessi diritti e doveri, appartenenti semmai a diversi gruppi
nazionali garantiti dal punto di vista linguistico e culturale. La
“comunita’ internazionale” ha voluto distruggere tutto cio’, facendo
leva sui secessionismi. Dunque, chiamare essa a proteggere oggi gli
abitanti significa chiamare la volpe a fare la guardia al pollaio.

(a cura di AM per il CNJ)


—– Original Message —–

From: Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia <jugocoord@tiscali.it>

To: crj-mailinglist@yahoogroups.com ; jugoinfo@domeus.it

Sent: Thursday, May 01, 2003 12:05 AM

Subject: [JUGOINFO] La Croazia e la Chiesa Cattolica / Hrvatska i Katolicka Crkva


Iz “Hrvatske ljevice”, Zagreb, ozujak/mart 2003.
e.mail: hrljevica@srp.hr

Kako stvari stoje
EUROPA, HRVATSKA I KATOLICKA CRKVA, od Dr Dusana Zubrinica

1) Sekularizacija drustva i obnova religije
2) Ugovori izmedju Svete Stolice [zar nije sluzbeni naziv
Stato Città di Vaticano?! o.p.] i Republike  Hrvatske
3) Prava katolicke crkve i posebne obaveze hrvatske drzave
4) Religijski programi na HRT
5) Dva kriticka pogleda


Da “Hrvatska ljevica” (Sinistra croata), Zagabria, aprile 2003

Come stanno le cose.



L’EUROPA, LA CROAZIA E LA CHIESA CATTOLICA
di Dusan Zabrinic

1) La secolarizzazione della società ed il rinnovamento della
religione.

(…)

2) Gli accordi tra la S. Sede [ma non è ufficialmente Stato
Città del Vaticano?!] e la Repubblica di Croazia.

Tra la S.Sede e la R. di Croazia sono stati firmati 4 accordi. Gli
schemi di tali accordi sono stati presentati da mons. Nikola
Eterovic, consigliere della Nunziatura presso la sezione per le
relazioni tra la S. Sede e gli Stati. Mons. N. Eterovic ha redatto
dei vasti commenti, inseriti nello stesso testo.
Il primo accordo sulle questioni giuridiche è stato firmato nel
1996. E’ stato firmato, come anche gli altri tre accordi, da Giulio
Einaudi e dal dott. Jure Radic.
Il secondo accordo concerne il settore dell’educazione e la cultura.
E’ stato approvato l’allargamento dell’insegnamento della religione
nelle scuole pubbliche e negli asili nido pubblici.
Il terzo accordo riguarda la questione dell’assistenza religiosa ai
dipendenti delle forze armate e della polizia della R. di Croazia,
ampliato dal regolamento organizzativo e attivo dell’Ordinariato
militare nella R. di Croazia.
Il quarto accordo è stato firmato nel 1998 e concerne le questioni
economiche.
Sono stati approvati ancora due documenti: l’intesa sulle modalità
esecutive degli obblighi finanziari e l’intesa tra la TV croata e
la Conferenza episcopale croata.

Esporremo innanzitutto i pareri di mons. Eterovic, e poi i doveri
dello Stato croato e la RTV croata, perché si comprendano le posizioni
di partenza del Vaticano nelle trattative e si ravvisino gli obblighi
essenziali verso la Chiesa cattolica che lo Stato croato ha assunto.
Mons. Eterovic scrive che la Chiesa cattolica nel passato aveva, ed
ha anche oggi, un ruolo insostituibile nell’educazione del popolo
croato.
Convertendo la plebe croata la Chiesa cattolica ha “portato” il popolo
croato “nell’Europa occidentale”.
La Chiesa e lo Stato sono due soggetti indipendenti. L’obiettivo
della Chiesa è la vita eterna, mentre l’obiettivo dello Stato è
promuovere il bene generale dei cittadini. La Chiesa cattolica è
“la società perfetta divina”, e nel dominio spirituale ha il potere
indiretto sulla società.
Mons. Eterovic si richiama al principio della sussidiarietà (in
latino supsidiarius), il che significa che il potere statale e la
sfera politica sono di seconda importanza.
Le deleghe sussidiarie sono la norma generale del diritto naturale
fondante ogni costituzione della società.
Dagli innumerevoli commenti di mons. Eterovic si deduce il ruolo
indivisibile della Chiesa cattolica nella vita sociale, educativa,
morale, culturale, caritativa, della società croata e del popolo
croato.
Secondo questi accordi la Chiesa cattolica ha il diritto legale di
agire in tutti gli enti educativi e di istruzione, asili nido,
scuole elementari, medie superiori, fino all’università, nella
polizia e nell’esercito, in prigioni, ospedali, cliniche, ospizi,
in tutti gli enti di interesse sanitario e sociale, nei mezzi di
comunicazione di massa, e particolarmente alla radio e in TV.

3. I diritti della Chiesa cattolica e gli obblighi particolari dello
Stato croato

Secondo l’art. 2 dell’Accordo sulle questioni economiche, La Croazia
restituirà alla Chiesa quello che le è stato confiscato durante il
governo socialista. Per quello che sarà possibile. Per quei beni che
non sarà possibile restituire si troverà una sostituzione adeguata,
cioé si pagherà un adeguato compenso pecunario in 4 rate annuali
(art.5).
Secondo lo stesso Accordo (art.6) la R. di Croazia elargirà
mensilmente dal bilancio statale una cifra che corrisponde alla
media di due mensilità salariali lorde, moltiplicate per il numero
di parrocchie nella Croazia.
In Croazia nel 1999 c’erano 1420 parrocchie [su meno di 4.500.000 
abitanti, N.d.t.] e dal bilancio statale sono state versate
190.000.000 di kune (2.900.000 c.ca di euro) come sussidio per i
salari, la ricostruzione delle Chiese cattoliche, azioni caritative,
e cosi via. Dei membri del clero, preti e suore che hanno compiuto
i 65 anni e non hanno sistemato la loro pensione hanno ottenuto così
il diritto alla pensione (art.9), mentre i giovani hanno ora i
contributi assicurativi. Per questo fine la R. di Croazia sborserà
la somma aumentata del 20%.
Mons. Eterovic scrive che la somma della pensione non viene decisa dal
Fondo della previdenza sociale, ma dalla Conferenza episcopale croata.
Ciò per quanto riguarda anche i salari del clero. Secondo gli
art. 11 e 12 dell’Accordo sulle questioni economiche, è obbligo della
R. di Croazia partecipare alla ricostruzione delle chiese già
esistenti
e alla costruzione di nuove chiese, cappelle, case parrocchiali,
scuole
cattoliche, ospizi, case per i preti e le suore.
Finora sono state ricostruite molte chiese, e costruite delle nuove,
come anche edifici ecclesiastici, dal Fondo del bilancio statale.
(…)
Il vescovo diocesano decide la costruzione di un edificio
ecclesiastico
e sceglie la locazione in accordo con le istituzioni competenti dello
Stato.
Secondo l’art. 10 di questo Accordo, le persone giuridiche della
Chiesa
cattolica riguardo al sistema tributario sono istituzioni senza
scopo di lucro. Con ciò si è pensato a varie facilitazioni tributarie.
Nella loro azione interna, scrive mons. Eterovic, le persone
giuridiche ecclesiali non applicheranno le seguenti normative: la
legge
sulla contabilità del 1992, il decreto sulla contabilità delle
organizzazioni no-profit del 1993, il Regolamento sulla contabilità e
il piano contabile delle organizzazioni no-profit del 1994. Ciò
significa,
osserva mons. Eterovic, che l’art. 1 del Decreto sulla contabilità
delle organizzazioni no-profit non riguarda le persone giuridiche
della
Chiesa cattolica, le quali non terrano la contabilità dei libri
particolari ne’ presenteranno relazioni finanziarie secondo i decreti
statali, ne’ tantomeno i loro soldi e i risultati delle loro attività
saranno sottoposti alla revisione di persone competenti indipendenti.

4. Programmi religiosi sulla TV croata
   
(…) In base all’accordo sulle questioni giuridiche in materia di
istruzione e cultura, la Chiesa cattolica ha diritto allo spazio
nei media pubblici, come anche a formare e gestire proprie stazioni
radio e TV. (…)
Secondo l’art. 1 dello stesso accordo tra la RTV croata e la
Conferenza
episcopale, la radiodiffusione pubblica informerà professionalmente e
obiettivamente sulla vita della Chiesa cattolica in Croazia e nel
mondo,
e i programmi accordati verrano realizzati tramite le redazioni dei
programmi religiosi della TV croata e della Radio croata. I redattori
verranno nominati dal direttore della RTV croata in accordo con la
Conferenza episcopale croata. Nel Consiglio amministrativo si trova
anche un rappresentante della Chiesa cattolica croata. [sic!
E prosegue…]
In base all’art.2 dello stesso accordo, la TV croata trasmetterà
regolarmente la messa in diretta ogni domenica e per Natale; per la
durata di 25 minuti la trasmissione interconfessionale di notizie,
reportage e commenti, la domenica pomeriggio; poi sette minuti di
commento evangelico nelle trasmissioni serali domenicali; una volta
alla settimana mezz’ora di programma educativo e caritativo di
carattere sociale, rispettivi programmi su avvenimenti ecclesiastici
in Croazia e nel mondo. Gli stessi obblighi valgono anche per le
trasmissioni radio.
La TV croata acquisterà dall’offerta internazionale [!] e trasmetterà
vari servizi di notizie legate alla Chiesa cattolica e alla cultura
cristiana (art. 4) [s’intende qui solo quella cattolica e non quella
ortodossa!, N.d.t.].
L’art. 11 prevede che la RTC si obbliga a rispettare le trasmissioni
religiose, senza interruzioni, senza nessuna pubblicità.
In conclusione possiamo constatare che questi accordi tra la S. Sede
e la R. di Croazia hanno trasformato la Croazia in uno Stato
cattolico, mentre la maggior parte degli Stati europei sono  ancora
laici e “Stati dei cittadini”.
[Si diceva che la Croazia è “figlia spirituale” del Vaticano! N.d.t.]

5. Due posizioni critiche

Esponiamo brevemente le posizioni critiche sugli Accordi di due nostri
stimati intellettuali.

1. Il dott. Srdjan Vrcan, sociologo della religione, sostiene la
posizione che lo Stato moderno dovrebbe essere neutrale per quanto
concerne le diversità religiose dei propri cittadini. All’interno
della sfera pubblica in una democrazia plurale si forma una subsfera
religiosa. Nell’interno di questo campo sociale diversi attori
religiosi agiscono liberamente sul mercato dei beni religiosi e
servizi. I rispettivi organi statali possono intervenire soltanto
nel caso che debbano proteggere le regole del gioco esistente. Lo
Stato moderno “dei cittadini” ha rinunciato al diritto di
determinare quello che la religione è, e quello che non è. Le
comunità religiose dominanti dallo Stato nazionale richiedono
privilegi, a discapito delle concorrenti più deboli, richiamandosi
al loro ruolo storico nella formazione della cultura ed identità
nazionale. Così la Chiesa cattolica in Croazia in base all’Accordo
tra la S.Sede e la Croazia è diventata la comunità religiosa
privilegiata. Ora lo Stato croato non può essere più religiosamente
neutrale, perchè differenzia sostanzialmente tra la “nostra” e la
“loro” religione. Così il  Governo croato sa meglio dei propri
cittadini a quale religione essi devono appartenere e quale
devono evitare.
Perciò il dott. Vrcan conclude dicendo che una omogenizzazione
professionale della Croazia si e’ potuta installare soltanto in
modo autoritario.
Il secondo problema indicato dal dott. Vrcan è che la Legge sulle
comunità religiose stabilisce il diritto degli organi statali di
decidere a quali comunità religiose si può riconoscere lo status
di  comunità religiosa e a quali no. Si tratta della difesa della
pubblica morale, e dell’ordine giuridico gestito dal Ministero di
giustizia, come anche di quello autogestito locale, che può
iscrivere ma anche rifiutare l’iscrizione di una determinata
comunità religiosa.
Nell’Accordo tra la S.Sede e la R. di Croazia sulla collaborazione
nell’educazione e nella cultura, al par.2, art. 1, si dice:
“Il sistema educativo-istruttivo nelle istituzioni prescolastiche
e nelle scuole, incluse le istituzioni superiori, terra’ presenti
i valori dell’etica cristiana”.
Con questa decisione la Chiesa cattolica è privilegiata in confronto a
quelle comunità religiose non cristiane, ma anche a quelle cristiane
che intendono diversamente l’etica cristiana. Sono discriminati
anche quegli insegnanti e professori che nella loro attività
di insegnamento rappresentano la laicità nell’etica.
Lo Stato ha inserito relazioni non eque tra i propri cittadini in
base alla fede o non fede. Così i cittadini non sono soggetti
autonomi, responsabili di se stessi nella distinzione delle verità
alle quali credono.

2. Il dott. Ivan Padjen, professore di diritto pubblico, durante
il dibattito sulla Legge delle comunità religiose ha invece posto
questa domanda:
“Perché la Legge sulla posizione giuridica delle comunità
religiose è impossibile?”. E nel contempo riflette: la legge che
assegna determinati diritti e doveri ai croati – e distinti a
serbi, rom, ebrei -; questo atto, che privilegia gli uni mentre
discrimina gli altri, è un abuso di diritto ed è
anticostituzionale. La R. di Croazia non può emanare una legge
giuridicamente e costituzionalmente valida sulla situazione
giuridica delle comunità religiose perché la Chiesa cattolica
è già stata privilegiata dagli Accordi tra la S.S. e la Croazia.
Dopodiché, con nessuna legge la Croazia può annullarli o
allargarli ad altre comunità religiose. Gli Accordi tra la
S.Sede e la Croazia sono in contrasto con gli art.14 e 41, p.1
della Costituzione della R. di Croazia. Gli accordi non si
possono estendere ad altre comunità religiose perché nessuna
delle altre comunità  ha la capacità di essere parte di accordo
internazionale. Questo vale anche per i diversi accordi esecutivi
tra la R. di Croazia e la Conferenza episcopale croata, come è,
per es., l’accordo tra la RTV croata e la Conf. Episcopale Croata.
Il prof Padjen ha proposto che il Governo croato inviti la Chiesa
cattolica ad accettare la modifica dell’Accordo tra la S.Sede e
la Croazia prima di proporre al Sabor [Parlamento] la Legge
sulla posizione giuridica delle comunità religiose in Croazia.
Naturalmente i consigli giuridici allo Stato croato sono superflui
perchè lo stato di diritto in Croazia ancora non funziona e
perciò il Sabor della R. di Croazia ha adottato la legge sulla
situazione giuridica delle comunita religiose al di fuori di
queste osservazioni.

L’ateismo è diventato un anacronismo?

Nel periodo dell’avversione e della satanizzazione ai danni
dell’ateismo, il dott. Srdjan Vrcan aveva la forza e il
coraggio intellettuale di analizzare scientificamente la
posizione di teisti ed ateisti nella società contemporanea,
la loro ideologia alterata e l’abuso politico del nazionalismo,
del clericalismo e del socialismo burocratico. Nella discussione
sull’ateismo nelle condizioni contemporanee, il dott. S.
Vrcan constata che negli anni ’80 del XX secolo si è arrestato
il treno universale della secolarizzazione della vita sociale,
particolamente nell’Est Europa. Si è arrivati alla “reconquista”
della società contemporanea, particolarmente nei paesi di
transizione. Grazie al crepuscolo dell’ideologia socialista ed
ateista si starebbe formando un nuovo clima spirituale in Europa,
perché il cristianesimo rinnovato porterà ora alla gente la pace,
l’amore, il dialogo e tolleranza.
La revitalizzazione della religione è stata salutata nella
forma di filosofia morale dai significati politici. L’effetto
sociale della secolarizzazione occidentale ha portato verso
queste visioni la società moderna in uno Stato anemico. Non è
soltanto la religione un fenomeno sociale, ma è la stessa società
un fenomeno religioso, perciò esso si può costituire soltanto su
basi religiose transcendentali.
La crisi della religione mondiale ed il dispiegamento dell’ateismo
conferma il pensiero cristiano dell’uomo-prometeo, che si innalza
contro gli dei terrestri e celesti e che vuole riprendere nelle
sue mani il proprio destino, ma in verità sarà condannato alla
sconfitta. Quello che e’ successo nell’Occidente dopo l’Illuminismo
e il Rinascimento è stato, per i teologi, la strada sbagliata.

Il dott. S. Vrcan si chiede se non sia forse la proclamazione della
vittoria di Dio invero una vittoria di Pirro. Inoltre, questa
vittoria del Dio cristiano ha portato anche qui, a milioni di
persone, l’amore, la felicità, la pace, la tolleranza e il vero
senso della vita?
L’ateismo statale dominava nei paesi del cosiddetto socialismo
reale ed era locato nella sfera della società politica e dello
Stato. Così, l’ateismo della coscienza critica e del libero pensiero
si è trasformato nell’ateismo statale. Questo ripiegamento spiega
come l’ateismo antidogmatico si sia trasformato in dogmatico, quello
che metteva radicalmente in questione tutti gli dei celesti e
terrestri nel creatore dei nuovi dei terrestri della classe dominante.
L’ateismo è stato per secoli segno di anticonformismo, di coraggio
morale ed intellettuale di uomini liberi in confronto agli ideologi
e mitologi che raccontavano storielle e seminavano illusioni
propagandando dei miti.
L’ateismo moderno si è formato quale antidogma del pensiero sociale
critico e la sua affermazione è stata la conferma della modernità
che si fonda sulla teoria razionale e mondialista.
Esso contrastava quella fondazione della società e significava la
dissacrazione di ogni potere.  Ma come ateismo di stato, esso si è
tramutato in strumento di potere, cosi che la sacralità della sfera
della religione e’ stata trasportata nella sfera politica.  Questo
ateismo di Stato, scrive il dott. Vrcan, è diventato questione
del passato, perciò dobbiamo rigettarlo.
Che cos’è la base per lo sviluppo della società moderna? Hanno la
religione e la Chiesa la funzione chiave integrativa nella società
moderna? Hanno l’ideologia nazionale, il governo autocratico e la
religione politicizzata questa funzione?
E’ difficile aspettarsi un ulteriore sviluppo della società
moderna senza la contemporanea de-tradizionalizzazione,
de-collettivizzazione, secolarizzazione e de-sacralizzazione
della sfera pubblica nel mondo, in Europa e in Croazia.
Oggi l’uomo, come essere libero, come essere sociale e culturale
deve decidere autonomamente su tutte le questioni della propria
vita, insieme agli altri cittadini coscienti.
Non c’è religione senza il non-credere, non c’e’ teismo senza
ateismo. L’uomo e’ anche homo areligiosus: fintantoché c’e’ la
Storia e ci sono gli uomini ci sarà anche la religione e l’ateismo.
E i credenti e i non credenti. Infine, l’ateismo greco-europeo è più
antico del Cristianesimo e le chiese cristiane in Europa non sono
riuscite sradicare l’ateismo durante più di mille anni.
Secondo Max Weber, esistono religiosamente uomini musicali, ma ci
sono anche quelli religiosamente non musicali, senza che perciò
perdano niente della propria libertà e umanità


[Traduzione di Ivan per “Voce jugoslava”]






UN BEL “CASO MITROKHIN” ANCHE IN SLOVENIA: 

WWW.UDBA.NET



Problemi politici? Necessita’ di mettere i bastoni fra le ruote a
qualcuno? Bisogno di dimostrare assoluto zelo filoamericano? Creati
anche tu il tuo “caso Mitrokhin”, personalizzato a seconda delle tue
proprie esigenze e/o di quelle del tuo padrone d’oltreoceano!

La ricetta viene applicata oggi con successo anche in Slovenia, dove
il mondo politico e’ scosso da “veleni” incrociati dopo la
pubblicazione (sul sito internet http://www.udba.net) di un elenco di
centinaia di migliaia di persone che sarebbero state collaboratrici
del servizio segreto della Jugoslavia socialista (UDBA). L’iniziativa
parte da un console onorario della Slovenia residente in Australia,
che avrebbe ripescato elenchi spariti dalla circolazione da piu’ di
dieci anni.

Certo l’elenco dei nomi – che include anche personalita’ dell’attuale
establishment secessionista, a partire dal presidente Drnovsek – e’
credibile, tenuto conto che il servizio segreto jugoslavo si fondava
sul contributo diffuso dei cittadini in difesa dello Stato, e non
sulla appartenenza mafiosa-criminale come avviene di regola nei paesi
capitalisti. Una difesa dello Stato *purtroppo* fallita. Quello pero’
che ci sentiamo di imputare a personaggi che hanno fatto una brillante
carriera dopo il 1991 non e’ tanto la loro passata appartenenza
all’UDBA, quanto il loro doppiogiochismo, cioe’ il fatto di aver
tradito l’UDBA ed i valori della Jugoslavia unitaria per vendersi ad
ideologie infami ovvero al migliore offerente.

Italo Slavo


“AH LA LA, QUANDO PENSO AI BEI TEMPI..”

…quando l’Occidente aiutava i musulmani bosniaci,
gli albanesi e me a combattere i serbi…

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/files/IMMAGINI/osamait.gif



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