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La notizia la dà il telegiornale della notte: la presidenza del Consiglio dei ministri ha deciso di rendere pubblici gli elenchi della loggia massonica P2, l’associazione segreta che il Maestro venerabile Licio Gelli chiama «l’Istituzione». È il 20 maggio 1981, vent’anni fa. L’Italia è scossa: di quella loggia misteriosa si parla ormai da molto tempo, ma ora i suoi componenti prendono un nome e un volto. E gli italiani scoprono che esiste un potere sotterraneo, un governo parallelo, uno Stato nello Stato. Negli elenchi della loggia sono iscritti i nomi di quattro ministri o ex ministri, 44 parlamentari, tutti i vertici dei servizi segreti, il comandante della Guardia di finanza, alti ufficiali dei Carabinieri, militari, prefetti, funzionari, magistrati, banchieri, imprenditori, direttori di giornali, giornalisti…
Una settimana dopo, il governo presieduto da Arnaldo Forlani dà le dimissioni. Nasce il primo governo laico della storia d’Italia, guidato da Giovanni Spadolini. è varata una commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia di Gelli, sotto la presidenza di Tina Anselmi. è approvata una legge dello Stato che vieta le associazioni segrete e scioglie la P2. I capi dei servizi di sicurezza sono tutti licenziati. Qualche piduista ha la carriera bloccata, qualcuno subisce procedimenti disciplinari, una ventina di affiliati finisce sotto processo. I magistrati aprono indagini sulla loggia, con l’ipotesi che abbia realizzato una cospirazione politica contro le istituzioni della Repubblica.
Ma oggi, vent’anni dopo, che cosa è restato di quel terremoto? Dove sono, che cosa fanno i membri del club P2? Il più noto di essi, che vent’anni fa era soltanto un giovane, brillante palazzinaro, ora spera di diventare nientemeno che presidente del Consiglio. Ecco dunque la storia dimenticata dell’«Istituzione» che ha segnato alcuni decenni della storia italiana.
È molto probabile che la Loggia P2, che si è delineata come un vero e proprio servizio segreto atlantico, fosse stata trasformata anche in una sede di raccordo e di incontro tra tutte le strutture parallele che gestivano il potere reale in Italia.
Nelle liste della P2, rinvenute il 17 marzo 1981 nella villa di Gelli di Castiglion Fibocchi, risultavano iscritti numerosi nomi di dirigenti dei servizi segreti:Miceli, Maletti, La Bruna, D’Amato, Fanelli, Viezzer.
Vi risultavano anche Giuseppe Santovito, Grassini e Walter Pelosi, capo del CESIS dal maggio 1978.
C’erano i nomi di numerosi altri dirigenti, tra cui Musumeci, capo della segreteria di Santovito, Sergio Di Donato e Salacone, dell’ufficio amministrativo…
Nelle liste della P2 c’era anche una nutrita schiera di funzionari del SISDE.
Per molti iscritti la data di iniziazione era immediatamente precedente o successiva al passaggio nei servizi segreti.
Nel 1962-64 il generale De Lorenzo e il SIFAR predisposero principalmente un’attività di schedatura dei cittadini e di preparazione di un possibile colpo di Stato.
Negli anni settanta i dirigenti del SID (mutamento del nome del servizio segreto da SIFAR a SID, dopo lo scandalo del “piano Solo”) esplicarono soprattutto azioni per proteggere eversori di destra e sospetti autori di stragi.
Gli ufficiali del SISMI, che ne costituirono le strutture occulte, nel 1978-81 spaziarono dalla trattativa trilaterale con Br e camorra per la liberazione di Cirillo, al depistaggio dei giudici impegnati nelle indagini sulla strage del 2 agosto alla stazione di Bologna, dalla operazione “Billygate” al peculato, dalle macchinazioni nei confronti dei collaboratori del capo dello Stato alla diffusione di notizie calunniose attraverso la stampa, da loro stessi finanziata.
A somiglianza della P2, della quale per altro la struttura era una articolazione, il SUPERSISMI svolgeva un amplissimo ventaglio di attività, tutte direttamente o indirettamente finalizzate a intervenire nella sfera politica, il che era, con tutta evidenza, incompatibile con le finalità d’istituto.
Quando Gelli nel marzo del 1965 s’iscrisse alla massoneria nella loggia del Grande Oriente “Romagnosi” di Roma, aveva già delle buone credenziali come fascista della repubblica di Salò.
Contava sull’amicizia con Giulio Andreotti e referenze con gli ambienti del Vaticano, una lista di cinquanta nuovi iscritti molto qualificati.
Aveva legami con molti ufficiali dei servizi segreti, in particolare col generale Giovanni De Lorenzo e con il colonnello dell’Arma dei Carabinieri Giovanni Allavena, reduci dalle trame del “piano Solo”, (che sarebbe scattato se il governo di centrosinistra avesse adottato un programma autenticamente progressista), e dallo scandalo delle schedature del SIFAR, il nostro servizio segreto che in pochi anni aveva raccolto 157 mila dossier, per usarli come arma di ricatto su politici, militari, giornalisti, preti, privati cittadini, uomini di cultura.
Questi dossier passarono molto probabilmente nelle mani di Gelli, che ne fece uno degli strumenti del suo stesso potere.
Allo stesso De Lorenzo, capo del Sifar, venne dato il compito di organizzare l’esercito clandestino di Gladio.
Nel 1962, quando Antonio Segni salì al Quirinale, De Lorenzo era impegnato con gli uomini della CIA di Roma a creare “squadre d’azione per compiere attentati contro le sedi della Democrazia cristiana e di alcuni quotidiani del Nord, da attribuirsi alle sinistre; sono necessari altresì gruppi di pressione che chiedano, a fronte degli attentati, misure di emergenza al governo e al capo dello Stato.”
(Il brano è tratto da un memorandum dei servizi segreti americani ratificato da De Lorenzo).
La carriera di Gelli in Massoneria fu velocissima.
Nel dicembre del 1966, poco più di un anno dopo la sua iscrizione alla massoneria, venne nominato capo della loggia HOD, nota come P2, la più importante e misteriosa di tutto il Grande Oriente.
La Commissione parlamentare d’inchiesta ha sottolineato che il ruolo di Gelli crebbe di pari passo col defilarsi di Frank Gigliotti ormai anziano.
Gigliotti, uomo della CIA, era un feroce anticomunista, amico di molti mafiosi siciliani, ex agente della OSS, la rete di spionaggio degli Stati Uniti in Italia durante la guerra.
Dalle logge massoniche americane gli era stato affidato il compito di rimettere insieme quello che rimaneva della massoneria conservatrice di piazza del Gesù, con il Grande Oriente di palazzo Giustiniani.
Gigliotti rimise in circolo logge come la “Alam” del principe Giovanni Alliata di Montereale, protagonista di almeno un paio di mancati golpe e amico di boss mafiosi e finanzieri alla Michele Sindona.
Gelli stesso rivendicherà sempre con orgoglio i legami con la destra americana più reazionaria.
I legami tra la CIA e la P2 sono stati confermati in un’intervista al TG1 nel 1990, dalle rivelazioni di Richard Brenneke e Razin, ex agenti della CIA, sui finanziamenti dei servizi segreti americani alla P2.
Presero, quindi, l’avvio le inchieste che portarono a scoprire il ruolo della CCI, la “Kriminal Bank”, usata dalla CIA e dai trafficanti internazionali di valuta e di armi.
I due agenti parlarono anche di qualcosa molto simile a Gladio.
Razin era stato addirittura supervisore della Gladio europea.
Questa intervista scatenerà una delle prime esternazioni del presidente Cossiga e porterà alla rimozione del direttore del telegiornale, Nuccio Fava, e alla esautorazione del giornalista Ennio Remondino, autore dell’inchiesta.
Per Cossiga, allora capo dello Stato , era inammissibile che i servizi di sicurezza di un paese amico venissero attaccati in quel modo.
Bisognava prendere provvedimenti contro dirigenti e funzionari Rai.
Con altrettanta foga reagì qualche mese dopo, dando del “giudice ragazzino” a Casson che voleva interrogarlo su Gladio.
Nella sua testimonianza resa ai giudici di Bologna, che indagavano sul coinvolgimento del capo della P2 nella strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, Tommaso Masci, primo portiere nella seconda metà degli anni 70 dell’albergo romano Excelsior, di cui Gelli era in quel periodo cliente fisso, tracciava una descrizione efficace del formicolio dei potenti intorno a Licio Gelli.
Tra i visitatori di Gelli c’erano politici, militari, giornalisti, alti funzionari dello Stato, banchieri. Tra coloro che lo frequentavano, c’erano Andreotti, Cossiga, Craxi, Fanfani, solo per fare i nomi più noti.
Tra i visitatori c’era anche il bombarolo Paolo Aleandri, il terrorista di destra a cui Gelli aveva affidato il compito di mantenere i contatti con Filippo de Jorio, consigliere politico dell’onorevole Andreotti, che era latitante per il golpe Borghese del 1970.
Lo stesso Aleandri incontrò nella stanza di Gelli il generale Vito Miceli, capo del SID, cioè l’uomo che avrebbe dovuto arrestarlo.
Verso la fine del 1979 Alfredo De Felice, della cerchia dei neofascisti, assistette ad un incontro tra Gelli e il ministro del Commercio Estero Gaetano Stammati, che doveva sottoporre a Gelli le bozze di un decreto economico del Governo.
Il deputato democristiano si iscrisse alla loggia P2 nel 1977 e, poco dopo, diventò ministro del Commercio estero del governo Andreotti.
Dopo le elezioni del giugno 1979, l’incarico di formare il nuovo governo fu dato a Cossiga, che affidò il ministero del Commercio Estero a Stammati, quando, precedentemente, lo aveva promesso al liberale Altissimo.
Alle inferocite rimostranze dei liberali, Cossiga rispose: “Non ne ho potuto fare a meno; ho ricevuto tante pressioni…”.
Nello stesso tempo Gelli, nella sua stanza all’Excelsior, si vantava con gli amici di avere imposto Stammati.
L’attività della P2 negli anni ’70 era frenetica.
C’era la pratica costante della raccomandazione e c’erano gli affari, e gli affari intrecciati col potere che lo alimentavano.
Degli affari citiamo i più noti: l’ Eni-Petronim, il banco Ambrosiano, il crak della Banca Privata di Sindona, la scalata al “Corriere della Sera”, tutti collegati a scandali e cadaveri come quello di Calvi, penzolante sotto un ponte di Londra o quello di Ambrosoli, liquidatore della banca Privata di Michele Sindona.
A volte gli uomini della P2 si servirono delle organizzazioni criminali: mafia, camorra, ‘ndrangheta.
Collegamenti accertati dalle inchieste giudiziarie sul finto rapimento di Sindona, sul caso Cirillo, sulla strage del rapido 904, sull’omicidio di Roberto Calvi.
I nomi degli iscritti alla P2 ritornano con ossessiva puntualità in tutte le indagini sui misteri d’Italia: la strage sul treno Italicus, il caso Moro, la strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, il delitto Mattarella, il traffico di armi e droga, solo per citarne alcuni.
Il treno “Italicus”, linea ferroviaria Firenze-Bologna, il 4 agosto 1974 verso sera tardi, venne squassato dalla forte esplosione di una bomba ad altissimo potenziale:12 persone morte e 105 feriti.
Apparve certo, fin da subito, che la strage era opera del neonazismo. Le indagini si diressero sul gruppo di neofascisti di Arezzo e precisamente su Franci, Malentacci e Tuti, che avevano legami anche con la P2. I tre sono rinviati a giudizio e poi assolti. Il giudice istruttore di Bologna Angelo Vella, affiliato alla massoneria locale, non coinvolge nessun piduista.
Il neofascismo terrorista era coinvolto nella grande operazione presidenzialista, che rappresentava e rappresenterà lo scopo principale a cui tende, trasversalmente a tutti i partiti, la politica italiana.
Luciano Violante, partendo dal golpe presidenzialista, era arrivato ai gruppi terroristici di estrema destra. “Sussistono prove – scrive – di una corrispondenza tra Edgardo Sogno e l’avvocato Antonio Fante di Padova…Che dagli elementi in atti appare che tale corrispondenza abbia ad oggetto la costituzione di una organizzazione intesa a raggruppare tutti i gruppi di estrema destra, tra i quali anche Ordine Nuovo, in epoca successiva al decreto di scioglimento di questo gruppo.”
Spiega, inoltre, nella sua requisitoria contro Sogno e Cavallo, Violante: “..Va considerato che l’allertamento disposto venne a conoscenza di quei settori militari che molteplici fonti di prova indicano come interessati all’iniziativa eversiva, disincentivando per il momento la realizzazione del piano…”
I giudici milanesi Turone e Colombo arrivarono alla scoperta degli archivi di Gelli indagando sul finto rapimento e il soggiorno in Sicilia del bancarottiere Michele Sindona.
I giudici milanesi, come quelli di Palmi, che indagavano sulle nuove logge coperte, scoprirono che attraverso la P2 passavano molti dei misteri e degli scandali italiani di quegli anni, e furono costretti a suddividere in capitoli il materiale raccolto:
· la P2 e lo scandalo Eni;
· la P2 e il Banco Ambrosiano;
· la P2 e lo scandalo dei petroli;
· la P2 e la magistratura;
· la P2 e la Rizzoli;
· la P2 e i segreti di Stato;
· la P2 e i finanziamenti all’eversione nera;
· la P2 e le stragi;
· la P2 e il sequestro Moro;
· la P2 e il caso Pecorelli.
Un altro gigantesco capitolo fu aperto dall’inchiesta del giudice Carlo Palermo sul traffico di armi, che coinvolgeva molti piduisti e da cui trasparivano forti legami con la criminalità organizzata e col traffico di droga………….
Un intreccio solido quello che traspare dalle inchieste giudiziarie su mafia e massoneria.
Prima che i giudici di Palmi riaprissero il capitolo oscuro dei rapporti tra massoneria, traffici di armi, affari sporchi e criminalità, altre logge coperte erano finite in inchieste della magistratura.
A Palermo il giudice Falcone, prima di essere costretto a trasferirsi a Roma, si era a lungo occupato di massoneria. Aveva scoperto la loggia di via Roma 391, dove politici locali e funzionari pubblici venivano iniziati, insieme a mafiosi del calibro di Michele Greco e Giovanni Cascio, del quale molti anni dopo verrà intercettata una telefonata in cui si parlava in termini amichevoli di Gelli.
Gran maestro della loggia di via Roma era Pietro Calacione, direttore sanitario dell’ospedale Civico di Palermo e il Civico, forse non per una semplice coincidenza, era uno dei feudi elettorali dell’onorevole Salvo Lima.
Falcone si era occupato di un’altra inchiesta sull’intreccio tra mafia e massoneria e le indagini dei carabinieri si erano svolte in tre direttrici: logge massoniche, rilevamento di società sull’orlo del fallimento, contatti con i politici.
Le indagini erano arrivate fino a Roma e a Milano.
Pino Mandalari, capo di alcune logge, poi condannato a due anni di carcere per riciclaggio di denaro sporco, in una telefonata intercettata, si vantava di potere arrivare fino alla segreteria di Bettino Craxi; in altre telefonate si parlava del generale Cappuzzo, siciliano già iscritto alla P2, di Salvo Lima, di alcuni sottosegretari di governo.
Inesplorata resta la questione delle coperture assicurate a Gelli dai politici, a cominciare da Andreotti, suo grande amico, poi da Cossiga, da Fanfani, da Craxi, da Forlani e da molti altri.
Fu scoperto che dietro la sigla del circolo Scontrino di Trapani si celavano ben sei logge massoniche e una superloggia coperta( loggia C), con iscritti deputati regionali, alti funzionari e mafiosi.
La loggia C saltò fuori anche nelle indagini del giudice Augusto Lama di Massa Carrara, sui traffici di armi di Aldo Anghessa, un collaboratore dei servizi segreti italiani. Questa storia intricata vede coinvolti anche dei neofascisti che, secondo una sentenza della magistratura, avrebbero ricevuto tra l’altro finanziamenti da Licio Gelli.
E’ un intreccio solido quello che traspare dalle inchieste giudiziarie su mafia e massoneria delle logge coperte.
Uno studio attento della struttura massonica più conosciuta, la P2, fa rilevare che la regione più rappresentativa tra gli iscritti alla loggia di Gelli è proprio la Sicilia, che non è, storicamente, una terra di grandi tradizioni massoniche.
La P2,quindi, risultò coinvolta in molte inchieste giudiziarie sulle stragi e su alcuni omicidi politici
Non è un caso che a Castiglion Fibocchi, alla villa di Gelli, perquisita dai carabinieri per ordine dei magistrati milanesi Gherardo Colombo e Giuliano Turone, il 17 marzo 1981, i giudici milanesi siano arrivati, indagando sul misterioso soggiorno in Sicilia di Michele Sindona, il bancarottiere di Patti, iscritto alla P2 e legato a filo doppio ad Andreotti.
Nel corso del suo finto sequestro, Sindona si era avvalso dell’appoggio, tanto della massoneria quanto della mafia.
Proprio durante il suo soggiorno in Sicilia, nell’estate del 1980, si aprì, con gli omicidi del commissario Boris Giuliano e del giudice Cesare Terranova, la stagione dei cosiddetti delitti “eccellenti”.
E’ solo un caso che nella stessa estate ci sia la strage alla stazione di Bologna?
Il 20 maggio 1981, il governo messo alle strette dallo scandalo, comunicò al Parlamento la lista dei presunti aderenti alla loggia segreta P2 di Licio Gelli, alla quale risultavano affiliati, tre ministri, un segretario di partito, i vertici dei servizi segreti, militari, imprenditori, parlamentari, banchieri, giornalisti. .
Ogni nome era preceduto da un numero di fascicolo e da un numero di gruppo; seguiva un “codice”, al quale talvolta seguiva il numero della tessera e un appunto relativo alle quote sociali.
Nella lista c’erano: 52 alti ufficiali dei Carabinieri, 50 dell’esercito,
37 della Guardia della Finanza, 29 della Marina, 11 Questori, 5 Prefetti, 70 imprenditori, (uno era un famoso costruttore di Milano, figlio di un dipendente della Banca Rasini, pluriinquisito e pluriindagato), 10 presidenti di banca, 3 ministri in carica, 2 ex ministri, il segretario di un partito di governo, 38 deputati,14 magistrati, sindaci, primari ospedalieri, notai e avvocati.
Gli elenchi della loggia segreta P2 del Venerabile Maestro Gelli, come si può notare, erano impressionanti: politici, imprenditori, giornalisti, alti gradi delle forze armate, tutori dell’ordine pubblico, funzionari dello stato, dirigenti dei servizi segreti, magistrati. E ancora,119 piduisti già insediati ai vertici delle maggiori banche, nel ministero del tesoro, e in quello delle finanze.
Gente che spesso aveva giurato fedeltà e obbedienza tanto alla Costituzione Italiana quanto alla massoneria.
Secondo la commissione parlamentare d’inchiesta, l’elenco completo degli iscritti alla P2 era all’incirca di 2500 nomi; ne mancano 1650. Solo la magistratura ha avuto il coraggio di punire gli appartenenti alla P2.
L’assoluzione più sconcertante è stata quella dei militari, voluta dal ministro della Difesa Lagorio, socialista e iscritto alla massoneria.
Tra i 962 iscritti c’è anche il “nostro” presidente del consiglio del 2001, l’on. Cav. Silvio Berlusconi.
Silvio Berlusconi risulta iscritto alla loggia P2, con la tessera numero 1816, codice e.19.78, gruppo 17, fascicolo 0625, il 26 Gennaio del 1978.
Lo stesso giorno in cui si era iscritto Maurizio Costanzo, numero di tessera 1819.
Dagli atti della Commissione parlamentare, ed in particolare dagli elenchi degli affiliati, sequestrati in Castiglion Fibocchi, figura il nominativo del Berlusconi (numero di riferimento 625) e l’annotazione del versamento di lire 100.000, eseguito in contanti in data 5 maggio 1978, versamento la cui esistenza risultava comprovata anche da un dattiloscritto proveniente dalla macchina da scrivere di proprietà di Gelli.
Alla Magistratura di Venezia Berlusconi, sotto giuramento, nega di aver versato personalmente soldi per la sua iscrizione, contro tutte le prove portate a suo carico, e per questo viene condannato come “spergiurio”, in via definitiva, dal Tribunale veneziano.
Berlusconi sarà comunque amnistiato, e così potrà diventare Presidente del Consiglio nel 1994 e nel 2001.
Da Sindona alla P2.
Nella seconda metà degli anni Settanta qualche articolo di giornale aveva accennato all’esistenza di una loggia massonica potentissima e misteriosissima. Ombre, sospetti, dicerie? Nel 1980 il consigliere istruttore di Milano Antonio Amati deve aprire due inchieste giudiziarie: una sull’assassinio dell’avvocato milanese commissario liquidatore delle banche di Michele Sindona, Giorgio Ambrosoli, ucciso a Milano l’11 luglio 1979; l’altra sullo strano rapimento di Sindona, scomparso da New York il 2 agosto 1979 e poi ricomparso il 16 ottobre. Nessuno allora avrebbe pensato che quelle inchieste avrebbero portato alla P2.
Il “Piano di Rinascita Democratica”, documento programmatico della loggia P2 guidata da Licio Gelli. Inoltre, tutti i nomi degli iscritti all’affiliazione segreta che tramò per sovvertire lo Stato, nella formulazione degli elenchi ritrovati a Castiglion Fibocchi
PREMESSA
1) L’aggettivo democratico sta a significare che sono esclusi dal presente piano ogni movente od intenzione anche occulta di rovesciamento del sistema.
2) Il piano tende invece a rivitalizzare il sistema attraverso la sollecitazione di tutti gli istituti che la Costituzione prevede e disciplina, dagli organi dello Stato ai partiti politici, alla stampa, ai sindacati, ai cittadini elettori.
3) Il piano si articola in una sommaria indicazione di obiettivi , nella elaborazione di procedimenti – anche alternativi – di attuazione ed infine nella elencazione di programmi a breve, medio e lungo termine.
4) Va anche rilevato, per chiarezza, che i programmi a medio e lungo termine prevedono alcuni ritocchi alla Costituzione – successivi al restauro delle istituzioni fondamentali.
OBIETTIVI
1) Nell’ordine vanno indicati:
a) i partiti politici democratici, dal PSI al PRI, dal PSDI alla DC al PLI (con riserva di verificare la Destra Nazionale).
b) la stampa , escludendo ogni operazione editoriale, che va sollecitata a livello di giornalisti attraverso una selezione che tocchi soprattutto: Corriere della Sera, Giorno, Giornale, Stampa, Resto del Carlino, Messaggero, Tempo, Roma, Mattino, Gazzetta del Mezzogiorno, Giornale di Sicilia per i quotidiani; e per i periodici: Europeo, Espresso, Panorama, Epoca , Oggi, Gente, Famiglia Cristiana. La RAI-TV va dimenticata;
c) i sindacati , sia confederali CISL e UIL, sia autonomi, nella ricerca di un punto di leva per ricondurli alla loro naturale funzione anche al prezzo di una scissione e successiva costituzione di una libera associazione di lavoratori;
d) il Governo , che va ristrutturato nella organizzazione ministeriale e nella qualità degli uomini da preporre ai singoli dicasteri;
e) la magistratura , che deve essere ricondotta alla funzione di garante della corretta e scrupolosa applicazione delle leggi;
f) il Parlamento , la cui efficienza è subordinata al successo dell’operazione sui partiti politici, la stampa e i sindacati.
2) Partiti politici, stampa e sindacati costituiscono oggetto di sollecitazioni possibili sul piano della manovra di tipo economico-finanziario. La disponibilità di cifre non superiori a 30 o 40 miliardi sembra sufficiente a permettere ad uomini di buona fede e ben selezionati di conquistare le posizioni chiave necessarie al loro controllo.
Governo, Magistratura e Parlamento rappresentano invece obiettivi successivi, accedibili soltanto dopo il buon esito della prima operazione, anche se le due fasi sono necessariamente destinate a subire intersezioni e interferenze reciproche, come si vedrà in dettaglio in sede di elaborazione di procedimenti.
3) Primario obiettivo e indispensabile presupposto dell’operazione è la costituzione di un club (di natura rotariana per l’eterogeneità dei componenti) ove siano rappresentati, ai migliori livelli, operatori, imprenditoriali e finanziari, esponenti delle professioni liberali, pubblici amministratori e magistrati nonché pochissimi e selezionati uomini politici, che non superi il numero di 30 o 40 unità.
Gli uomini che ne fanno parte debbono essere omogenei per modo di sentire, disinteresse, onestà e rigore morale, tali cioè da costituire un vero e proprio comitato di garanti rispetto ai politici che si assumeranno l’onere dell’attuazione del piano e nei confronti delle forze amiche nazionali e straniere che lo vorranno appoggiare. Importante è stabilire subito un collegamento valido con la massoneria internazionale .
PROCEDIMENTI
1) Nei confronti del mondo politico occorre:
a) selezionare gli uomini – anzitutto – ai quali può essere affidato il compito di promuovere la rivitalizzazione di ciascuna rispettiva parte politica. (Per il PSI, ad esempio, Mancini, Mariani e Craxi; per il PRI: Visentini e Bandiera; per il PSDI: Orlandi e Amidei; per la DC: Andreotti, Piccoli, Forlani, Gullotti e Bisaglia; per il PLI: Cottone e Quilleri; per la Destra Nazionale (eventualmente): Covelli);
b) in secondo luogo valutare se le attuali formazioni politiche sono in grado di avere ancora la necessaria credibilità esterna per ridiventare validi strumenti di azione politica;
c) in caso di risposta affermativa , affidare ai prescelti gli strumenti finanziari sufficienti – con i dovuti controlli – a permettere loro di acquisire il predominio nei rispettivi partiti;
d) in caso di risposta negativa usare gli strumenti finanziari stessi per l’immediata nascita di due movimenti: l’uno sulla sinistra (a cavallo fra PSI-PSDI-PRI-Liberali di sinistra e DC di sinistra), e l’altro sulla destra (a cavallo fra DC conservatori, liberali, e democratici della Destra Nazionale). Tali movimenti dovrebbero essere fondati da altrettanti clubs promotori composti da uomini politici ed esponenti della società civile in proporzione reciproca da 1 a 3 ove i primi rappresentino l’anello di congiunzione con le attuali parti ed i secondi quello di collegamento con il mondo reale.
Tutti i promotori debbono essere inattaccabili per rigore morale, capacità, onestà e tendenzialmente disponibili per un’azione politica pragmatistica, con rinuncia alle consuete e fruste chiavi ideologiche. Altrimenti il rigetto da parte della pubblica opinione è da ritenere inevitabile.
2) Nei confronti della stampa (o, meglio, dei giornalisti) l’impiego degli strumenti finanziari non può, in questa fase, essere previsto nominatim . Occorrerà redigere un elenco di almeno 2 o 3 elementi, per ciascun quotidiano o periodico in modo tale che nessuno sappia dell’altro. L’azione dovrà essere condotta a macchia d’olio, o, meglio, a catena, da non più di 3 o 4 elementi che conoscono l’ambiente.
Ai giornalisti acquisiti dovrà essere affidato il compito di simpatizzare per gli esponenti politici come sopra prescelti in entrambe le ipotesi alternative 1c e 1d.
In un secondo tempo occorrerà:
a) acquisire alcuni settimanali di battaglia;
b) coordinare tutta la stampa provinciale e locale attraverso una agenzia centralizzata;
c) coordinare molte TV via cavo con l’agenzia per la stampa locale;
d) dissolvere la RAI-TV in nome della libertà di antenna ex art. 21 Costit.
3) Per quanto concerne i sindacati la scelta prioritaria è fra la sollecitazione alla rottura, seguendo cioè le linee già esistenti dei gruppi minoritari della CISL e maggioritari dell’UIL, per poi agevolare la fusione con gli autonomi, acquisire con strumenti finanziari di pari entità i più disponibili fra gli attuali confederati allo scopo di rovesciare i rapporti di forza all’interno dell’attuale trimurti.
Gli scopi reali da ottenere sono:
a) restaurazione della libertà individuale nelle fabbriche e aziende in genere per consentire l’elezione dei consigli di fabbrica con effettive garanzie di segretezza del voto;
b) ripristinare per tale via il ruolo effettivo del sindacato di collaboratore del fenomeno produttivo in luogo di quello illegittimamente assente di interlocutore in vista di decisioni politiche aziendali e governative.
Sotto tale profilo, la via della scissione e della successiva integrazione con gli autonomi sembra preferibile anche ai fini dell’incidenza positiva sulla pubblica opinione di un fenomeno clamoroso come la costituzione di vero sindacato che agiti la bandiera della libertà di lavoro e della tutela economica dei lavoratori. Anche in termini di costo è da prevedere un impiego di strumenti finanziari di entità inferiori all’altra ipotesi.
4) Governo, Magistratura e Parlamento
E’ evidente che si tratta di obiettivi nei confronti dei quali i procedimenti diventano alternativi in varia misura a seconda delle circostanze.
E’ comunque intuitivo che, ove non si verifichi la favorevole circostanza di cui in prosieguo, i tempi brevi sono – salvo che per la Magistratura – da escludere essendo i procedimenti subordinati allo sviluppo di quelli relativi ai partiti, alla stampa ed ai sindacati, con la riserva di una più rapida azione nei confronti del Parlamento ai cui componenti è facile estendere lo stesso modus operandi già previsto per i partiti politici.
Per la Magistratura è da rilevare che esiste già una forza interna (la corrente di magistratura indipendente della Ass.Naz.Mag. ) che raggruppa oltre il 40% dei magistrati italiani su posizioni moderate.
E’ sufficiente stabilire un raccordo sul piano morale e programmatico ed elaborare una intesa diretta a concreti aiuti materiali per poter contare su un prezioso strumento, già operativo all’interno del corpo anche ai fini di taluni rapidi aggiustamenti legislativi che riconducano la giustizia alla sua tradizionale funzione di elemento di equilibrio della società e non già di eversione.
Qualora invece le circostanze permettessero di contare sull’ascesa al Governo di un uomo politico (o di una equipe) già in sintonia con lo spirito del club e con le sue idee di “ripresa democratica”, è chiaro che i tempi dei procedimenti riceverebbero una forte accelerazione anche per la possibilità di attuare subito il programma di emergenza e quello a breve termine in modo contestuale all’attuazione dei procedimenti sopra descritti.
In termini di tempo ciò significherebbe la possibilità di ridurre a 6 mesi e anche meno il tempo di intervento, qualora sussista il presupposto della disponibilità dei mezzi finanziari.
PROGRAMMI
Per programmi s’intende la scelta, in scala di priorità, delle numerose operazioni da compiere in forma di:
a) azioni di comportamento politico ed economico;
b) atti amministrativi (di Governo);
c) atti legislativi; necessari a ribaltare – in concomitanza con quelli descritti in materia di procedimenti – l’attuale tendenza al disfacimento delle istituzioni e, con essa, alla disottemperanza della Costituzione i cui organi non funzionano più secondo gli schemi originali. Si tratta, in sostanza, di “registrare” – come nella stampa in tricromia – le funzioni di ciascuna istituzione e di ogni organo relativo in modo che i rispettivi confini siano esattamente delimitati e scompaiano le attuali aree di sovrapposizione da cui derivano confusione e indebolimento dello Stato.
A titolo d’esempio si considerino due fenomeni:
1) lo spostamento dei centri di potere reale dal Parlamento ai sindacati e dal Governo ai padronati multinazionali con i correlativi strumenti di azione finanziaria. Sarebbero sufficienti una buona legge sulla programmazione che rivitalizzi il CNEL ed una nuova struttura dei Ministeri accompagnate da norme amministrative moderne per restituire ai naturali detentori il potere oggi perduto;
2) l’involuzione subita dalla scuola negli ultimi 10 anni quale risultante di una giusta politica di ampliamento dell’area dell’istruzione pubblica, non accompagnata però dalla predisposizione di corpi docenti adeguati e preparati nonché dalla programmazione dei fabbisogni in tema di occupazione.
Ne è conseguenza una forte e pericolosa disoccupazione intellettuale – con gravi deficienze invece nei settori tecnici – nonché la tendenza ad individuare nel titolo di studio il diritto al posto di lavoro. Discende ancora da tale stato di fatto la spinta all’equalitarismo assoluto (contro la Costituzione che vuole tutelare il diritto allo studio superiore per i più meritevoli ) e, con la delusione del non inserimento, il rifugio nell’apatia della droga oppure nell’ideologia dell’eversione anche armata. Il rimedio consiste: nel chiudere il rubinetto del preteso automatismo: titolo di studio – posto di lavoro; nel predisporre strutture docenti valide; nel programmare, insieme al fenomeno economico, anche il relativo fabbisogno umano; ed infine nel restaurare il principio meritocratico imposto dalla Costituzione.
Sotto molti profili, la definizione dei programmi intersecherà temi e notazioni già contenuti nel recente messaggio del Presidente della Repubblica – indubbiamente notevole – quale diagnosi della situazione del Paese, tendendo, però, ad indicare terapie più che a formulare nuove analisi.
Detti programmi possono essere resi esecutivi – occorrendo – con normativa d’urgenza (decreti legge).
a) Emergenza a breve termine . Il programma urgente comprende, al pari degli altri, provvedimenti istituzionali (rivolti cioè a “registrare” le istituzioni) e provvedimenti di indole economico-sociale.
a1) Ordinamento giudiziario : le modifiche più urgenti investono:
– la responsabilità civile (per colpa) dei magistrati;
– il divieto di nominare sulla stampa i magistrati comunque investiti di procedimenti giudiziari;
– la normativa per l’accesso in carriera (esami psicoattitudinali preliminari);
– la modifica delle norme in tema di facoltà di libertà provvisoria in presenza dei reati di eversione – anche tentata – nei confronti dello Stato e della Costituzione, nonché di violazione delle norme sull’ordine pubblico, di rapina a mano armata, di sequestro di persona e di violenza in generale.
a2) Ordinamento del Governo
1- legge sulla Presidenza del Consiglio e sui Ministeri (Cost.art.95) per determinare competenze e numero (ridotto, con eliminazione o quasi dei sottosegretari);
2- legge sulla programmazione globale (Costit.art.41) incentrata su un Ministero dell’economia che ingloba le attuali strutture di incentivazione (Cassa Mezz. – PP.SS. – Medicredito – Industria – Agricoltura), sul CNEL rivitalizzato quale punto d’incontro delle forze sociali sindacali, imprenditoriali e culturali e su procedure d’incontro con il Parlamento e le Regioni;
3- riforma dell’amministrazione (Costit.articolo 28-97 e 98) fondata sulla teoria dell’atto pubblico non amministrativo, sulla netta separazione della responsabilità politica da quella amministrativa che diviene personale (istituzione dei Segretari Generali di Ministero) e sulla sostituzione del principio del silenzio-rifiuto con quello del silenzio-consenso;
4- definizione della riserva di legge nei limiti voluti e richiesti esplicitamente dalla Costituzione e individuazioni delle aree di normativa secondaria (regolamentare) in ispecie di quelle regionali che debbono essere obbligatoriamente limitate nell’ambito delle leggi cornice.
a3) Ordinamento del Parlamento
1- ripartizione di fatto, di competenze fra le due Camere (funzione politica alla CD e funzione economica al SR);
2- modifica (già in corso) dei rispettivi Regolamenti per ridare forza al principio del rapporto (Cost.art.64) fra maggioranza-Governo , da un lato, e opposizione, dall’altro, in luogo della attuale tendenza assemblearistica.
3- adozione del principio delle sessioni temporali in funzione di esecuzione del programma governativo.
b) Provvedimenti economico-sociali :
b1) abolizione della validità legale dei titoli di studio (per sfollare le università e dare il tempo di elaborare una seria riforma della scuola che attui i precetti della Costituzione);
b2) adozione di un orario unico nazionale di 7 ore e 30′ effettive (dalle 8,30 alle 17 salvi i turni necessari per gli impianti a ritmo di 24 ore, obbligatorio per tutte le attività pubbliche e private;
b3) eliminazione delle festività infrasettimanali e dei relativi ponti (salvo 2 giugno – Natale – Capodanno e Ferragosto) da riconcedere in un forfait di 7 giorni aggiuntivi alle ferie annuali di diritto;
b4) obbligo di attuare in ogni azienda ed organo di Stato i turni di festività – anche per sorteggio – in tutti i periodi dell’anno, sia per annualizzare l’attività dell’industria turistica, sia per evitare la “sindrome estiva” che blocca le attività produttive;
b5) revisione della riforma tributaria nelle seguenti direzioni:
1- revisione delle aliquote per i lavoratori dipendenti aggiornandole al tasso di svalutazione 1973-76;
2- nettizzazione all’origine di tutti gli stipendi e i salari della P.A. (onde evitare gli enormi costi delle relative partite di giro);
3- inasprimento delle aliquote sui redditi professionali e sulle rendite;
4- abattimento delle aliquote per donazioni e contributi a fondazioni scientifiche e culturali riconosciute, allo scopo di sollecitare indirettamente la ricerca pura ed il relativo impiego di intellettualità;
5- alleggerimento delle aliquote sui fondi aziendali destinati a riserve, ammortamenti, investimenti e garanzie, per sollecitare l’autofinanziamento premiando il reinvestimento del profitto;
6- reciprocità tra Stato e dichiarante nell’obbligo di mutuo acquisto ai valori dichiarati ed accertati;
b6) abolizione della nominatività dei titoli azionari per ridare fiato al mercato azionario e sollecitare meglio l’autofinanziamento delle aziende produttive;
b7) eliminazione delle partite di giro fra aziende di Stato ed istituti finanziari di mano pubblica in sede di giro conti reciproci che si risolvono – nel gioco degli interessi – in passività inutili dello stesso Stato;
b8) concessione di forti sgravi fiscali ai capitali stranieri per agevolare il ritorno dei capitali dall’estero;
b9) costituzione di un fondo nazionale per i servizi sociali (case-ospedali-scuole-trasporti) da alimentare con:
1- sovraimposta IVA sui consumi voluttuari (automobili-generi di lusso);
2- proventi dagli inasprimenti fiscali ex b5)3;
3- finanziamenti e prestiti esteri su programmi di spesa;
4- stanziamenti appositi di bilancio per investimenti;
5- diminuzione della spesa corrente per parziale pagamento di stipendi statali superiori a L.7.000.000 annui con speciali buoni del tesoro al 9% non commerciabili per due anni.
Tale fondo va destinato a finanziare un programma biennale di spesa per almeno 10.000 miliardi. Le riforme di struttura relative vanno inviate a dopo che sia stata assicurata la disponibiltà dei fabbricati, essendo ridicolo riformare le gestioni in assenza di validi strumenti (si ricordino i guasti della riforma sanitaria di alcuni anni or sono che si risolvette nella creazione di 36.000 nuovi posti di consigliere di amministrazione e nella correlativa lottizzazione partitica in luogo di creare altri posti letto).
Per quanto concerne la realizzabilità del piano edilizio in presenza della caotica legislazione esistente, sarà necessaria una legge che imponga alle Regioni programmi urgenti straordinari con termini brevissimi surrogabili dall’intervento diretto dello Stato; per quanto si riferisce in particolare all’edilizia abitativa, il ricorso al sistema dei comprensori obbligatori sul modello svedese ed al sistema francese dei mutui individuali agevolati sembra il metodo migliore per rilanciare questo settore che è da considerare il volano della ripresa economica;
b10) aumentare la redditività del risparmio postale elevando il tasso al 7%
b11) concedere incentivi prioritari ai settori:
I – turistico
II – trasporti marittimi
III – agricolo-specializzato (primizie-zootecnica);
IV – energetico convenzionale e futuribile (nucleare-geotermico-solare);
V – industria chimica fine e metalmeccanica specializzata di trasformazione; in modo da sollecitare investimenti in settori ad alto tasso di manodopera ed apportatori di valuta;
b12) sospendere tutte le licenze ed i relativi incentivi per impianti di raffinazione primaria del petrolio e di produzione siderurgica pesante.
c) Pregiudiziale è che oggi ogni attività secondo quanto sub a) e b) trovi protagonista e gestore un Governo deciso ad essere non già autoritario bensì soltanto autorevole e deciso a far rispettare le leggi esistenti.
Così è evidente che le forze dell’ordine possono essere mobilitate per ripulire il paese dai teppisti ordinari e pseudo politici e dalle rispettive centrali direttive soltanto alla condizione che la magistratura li processi e condanni rapidamente inviandoli in carceri ove scontino la pena senza fomentare nuove rivolte o condurre una vita comoda.
Sotto tale profilo, sembra necessario che alle forze di P.S. sia restituita la facoltà di interrogatorio d’urgenza degli arrestati in presenza dei reati di eversione e tentata eversione dell’ordinamento, nonché di violenza e resistenza alle forze dell’ordine, di violazione della legge sull’ordine pubblico, di sequestro di persona, di rapina a mano armata e di violenza in generale.
d) Altro punto chiave è l’immediata costituzione di una agenzia per il coordinamento della stampa locale (da acquisire con operazioni successive nel tempo) e della TV via cavo da impiantare a catena in modo da controllare la pubblica opinione media nel vivo del Paese.
E’ inoltre opportuno acquisire uno o due periodici da contrapporre a Panorama, Espresso, Europeo sulla formula viva “Settimanale”.
MEDIO E LUNGO TERMINE
Nel presupposto dell’attuazione di un programma di emergenza a breve termine come sopra definito, rimane da tratteggiare per sommi capi un programma a medio e lungo termine con l’avvertenza che mentre per quanto riguarda i problemi istituzionali è possibile fin d’ora formulare ipotesi concrete, in materia di interventi economico-sociali, salvo per quel che attiene pochissimi grandi temi, è necessario rinviare nel tempo l’elencazione di problemi e relativi rimedi.
a) Provvedimenti istituzionali
a1) Ordinamento giudiziario I unità del pubblico ministero (a norma della Costituzione – articoli 107 e 112 ove il P.M. è distinto dai Giudici);
II responsabilità del Guardasigilli verso il Parlamento sull’operato del P.M. (modifica costituzionale);
III istruzione pubblica dei processi nella dialettica fra pubblica accusa e difesa di fronte ai giudici giudicanti, con abolizione di ogni segreto istruttorio con i relativi e connessi pericoli ed eliminando le attuali due fasi d’istruzione;
IV riforma del Consiglio Superiore della Magistratura che deve essere responsabile verso il Parlamento (modifica costituzionale);
V riforma dell’ordinamento giudiziario per ristabilire criteri di selezione per merito delle promozioni dei magistrati, imporre limiti di età per le funzioni di accusa, separare le carriere requirente e giudicante, ridurre a giudicante la funzione pretorile
VI esperimento di elezione di magistrati (Costit. art. 106) fra avvocati con 25 anni di funzioni in possesso di particolari requisiti morali;
a2) Ordinamento del Governo
I modifica della Costituzione per stabilire che il Presidente del Consiglio è eletto dalla Camera all’inizio di ogni legislatura e può essere rovesciato soltanto attraverso le elezioni del successore;
II modifica della Costituzione per stabilire che i ministri perdono la qualità di parlamentari
III revisioni della legge sulla contabilità dello Stato e di quella sul bilancio dello Stato (per modificarne la natura da competenza in cassa);
IV revisione della legge sulla finanza locale per stabilire – previo consolidamento del debito attuale degli enti locali da riassorbire in 50 anni – che Regioni e Comuni possono spendere al di là delle sovvenzioni statali soltanto i proventi di emissioni di obbligazioni di scopo (esenti da imposte e detraibili) e cioè relative ad opere pubbliche da finanziare, secondo il modello USA. Altrimenti il concetto di autonomia diviene di sola libertà di spesa basata sui debiti;
V riforma della legge comunale e provinciale per sopprimere le provincie e ridefinire i compiti dei Comuni dettando nuove norme sui controlli finanziari
a3) Ordinamento del Parlamento
I nuove leggi elettoriali , per la Camera, di tipo misto (uninominale e proporzionale secondo il modello tedesco) riducendo il numero dei deputati a 450 e, per il Senato, di rappresentanza di II grado, regionale, degli interessi economici, sociali e culturali, diminuendo a 250 il numero dei senatori ed elevando da 5 a 25 quello dei senatori a vita di nomina presidenziale, con aumento delle categorie relative (ex parlamentari – ex magistrati – ex funzionari e imprenditori pubblici – ex militari ecc.);
II modifica della Cosituzione per dare alla Camera preminenza politica (nomina del Primo Ministro) ed al Senato preponderanza economica (esame del bilancio);
III Stabilire norme per effettuare in uno stesso giorno ogni 4 anni le elezioni nazionali, regionali e comunali (modifica costituzionale);
IV Stabilire che i decreti legge sono inemendabili ;
a4) Ordinamento di altri organi istituzionali
I Corte Costituzionale : sancire l’incompatibilità successiva dei giudici a cariche elettive ed in enti pubblici; sancire il divieto di sentenze cosiddette attive (che trasformano la Corte in organo legislativo di fatto);
II Presidente della repubblica : ridurre a 5 anni il mandato, sancire l’ineleggibilità ed eliminare il semestre bianco (modifica costituzionale);
III Regioni : modifica della Costituzione per ridurre il numero e determinarne i confini secondo criteri geoeconomici più che storici.
b) Provvedimenti economico-sociali
b1) Nuova legislazione antiurbanesimo subordinando il diritto di residenza alla dimostrazione di possedere un posto di lavoro ed un reddito sufficiente (per evitare che saltino le finanze dei grandi comuni);
b2) nuova legislazione urbanistica favorendo le città satelliti e trasformando la scienza urbanistica da edilizia in scienza dei trasporti veloci suburbani;
b3) nuova legislazione sulla stampa in senso protettivo della dignità del cittadino (sul modello inglese) e stabilendo l’obbligo di pubblicare ogni anno i bilanci nonché le retribuzioni dei giornalisti;
b4) unificazione di tutti gli istituti ed enti previdenziali ed assistenziali in un unico ente di sicurezza sociale da gestire con formule di tipo assicurativo allo scopo di ridurre i costi attuali;
b5) disciplinare e moralizzare il settore pensionistico stabilendo:
I Il divieto del pagamento di pensioni prima dei 60 anni salvo casi di riconosciuta inabilità;
II il controllo rigido delle pensioni di invalidità;
III l’eliminazione del fenomeno del cumulo di più pensioni;
b6) dare attuazione agli articoli 39 e 40 della Costituzione regolando la vita dei sindacati e limitando il diritto di sciopero nel senso di:
I introdurre l’ obbligo di preavviso dopo aver esperito il concordato;
II escludere i servizi pubblici essenziali (trasporti; dogane; ospedali e cliniche; imposte; pubbliche amministrazioni in genere) ovvero garantirne il corretto svolgimento;
II limitare il diritto di sciopero alle causali economiche ed assicurare comunque la libertà di lavoro;
b7) nuova legislazione sulla partecipazione dei lavoratori alla proprietà azionaria delle imprese e sulla gestione (modello tedesco)
b8) nuova legislazione sull’ assetto del territorio (ecologia, difesa del suolo, disciplina delle acque, rimboscamento, insediamenti umani);
b9) legislazione antimonopolio (modello USA);
b10) riforma della scuola (selezione meritocratica – borse di studio ai non abbienti – scuole di Stato normale e politecnica sul modello francese);
b11) riforma ospedaliera e sanitaria sul modello tedesco.
c) Stampa – Abolire tutte le provvidenze agevolative dirette a sanare i bilanci deficitari con onere del pubblico erario ed abolire il monopolio RAI-TV.
Su 972 iscritti alla loggia P2 di Licio Gelli ben 177 sono militari, tutti ufficiali. Ad essi vanno aggiunti 6 ufficiali del corpo delle guardie di PS, 5 prefetti e vice prefetti, 11 questori e 5 funzionari di polizia. Per un totale di 204 persone che, prima del giuramento massonico, avevano giurato fedeltà allo Stato. Come dire che più del 20% della Loggia massonica segreta era composta da servitori dello stato.
Licio Gelli, fascista e massone.
Chi è questo Gelli? – si chiedono Turone e Colombo. Quasi sconosciuto, allora, dal grande pubblico, era il Maestro Venerabile della loggia massonica Propaganda 2, che riuniva la crema del potere italiano. C’era la fila, per ottenere udienza da Gelli nella sua suite all’hotel Excelsior, in via Veneto, a Roma. La loggia era segreta, per non mettere in imbarazzo i suoi potenti iscritti, dispensati anche dalle ritualità massoniche. Bastava la sostanza.
Gelli era arrivato al vertice della P2 dopo una onorata carriera come fascista, simpatizzante della Repubblica di Salò, doppiogiochista con la Resistenza, collaboratore dei servizi segreti inglesi e americani, infine agente segreto della Repubblica italiana. Volonteroso funzionario del Doppio Stato: soldato, come tanti altri fascisti e nazisti, arruolato nell’esercito invisibile che gli Alleati avevano approntato, dopo la vittoria contro Hitler e Missolini, per combattere la «guerra non ortodossa» contro il comunismo. Entrato nella massoneria, aveva contribuito a selezionare, dentro l’esercito, gli ufficiali anticomunisti disposti ad avventure golpiste. Nel colpo di Stato (tentato) del 1970 aveva avuto un ruolo di tutto rispetto: suo era l’incarico di entrare al Quirinale e trarre in arresto il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, quello che mandava telegrammi a raffica che finivano sempre con un bel «viva la Resistenza, viva l’Italia». Poi il golpe non ci fu, sospeso forse dagli americani, ma la «guerra non ortodossa» continuò, con una serie di stragi che insanguinarono l’Italia. Fino al 1974, anno di svolta. Allora la strategia della guerra segreta contro il comunismo cambiò: basta con la contrapposizione diretta, con i progetti apertamente golpisti, sostituiti da una più flessibile occupazione, attraverso uomini fidati, di tutti gli ambiti della società, di tutti i centri di potere. La massoneria (o almeno una parte di essa) fornisce le strutture e le coperture necessarie a organizzare questo club del Doppio Stato, questo circolo dell’oltranzismo atlantico. Nasce la P2 di Licio Gelli. In cui poi, all’italiana, entrano anche (e per alcuni soprattutto) le protezioni, le carriere, gli affari e gli affarucci. Ma tutto ciò, tra il 1980 e il 1981, Turone e Colombo ancora non lo sapevano, non lo immaginavano neanche. I due andavano avanti per la loro strada, a districare i misteri del caso Sindona.
La perquisizione fatale.
Scoprono che Sindona non è stato rapito, ma ha organizzato una messa in scena per sparire dagli Stati Uniti e arrivare in Italia, in Sicilia. Scoprono che è lui a trattare il salvataggio delle sue banche con Giulio Andreotti, a minacciare il presidente della Mediobanca Enrico Cuccia (che si oppone al piano di risanamento), è lui a far uccidere Giorgio Ambrosoli, nella notte dell’11 luglio 1979, con tre colpi di 357 magnum sparati al petto da un sicario che viene dagli Stati Uniti. A ospitare Sindona a Palermo, in quell’estate di scirocco e di sangue, è un medico italoamericano: Joseph Miceli Crimi, massone, esperto di riti esoterici e di chirurgie plastiche. è lui che spara alla gamba del banchiere, con sapienza clinica, per cercare di rendere credibile il rapimento. I due giudici istruttori gli sequestrano alcune carte e, tra queste, uno stupido biglietto ferroviario Palermo-Arezzo, usato da Miceli Crimi nell’estate del 1979. Domanda: perché un viaggio dalla Sicilia ad Arezzo? Risposta: «Per andare dal dentista presso cui ero in cura». Fantasiosa, ma i due milanesi non abboccano. Miceli Crimi, messo alle strette, ammette: ma sì, sono andato da un certo Licio Gelli, per discutere con lui la situazione di Sindona. Questo Gelli comincia proprio a incuriosire i due giudici istruttori. I personaggi che si muovono attorno a Sindona e si danno da fare per salvarlo, scoprono Turone e Colombo, finiscono tutti per arrivare a Gelli: Rodolfo Guzzi, l’avvocato del bancarottiere; Pier Sandro Magnoni, suo genero; Philip Guarino e Paul Rao, due massoni che incontrano il Venerabile poche ore dopo essere stati ricevuti da Giulio Andreotti. Ecco perché, nel marzo 1981, i giudici milanesi ordinano una perquisizione di tutti gli indirizzi del Venerabile. «Cautela assoluta», ricorda Colombo, «avevamo intuito che per ottenere risultati dovevamo procedere con la massima segretezza». La sera di lunedì 16 marzo 1981 una sessantina di agenti della Guardia di finanza si muove da Milano verso i quattro indirizzi di Gelli annotati su una agenda di Sindona sequestrata al banchiere dalla polizia di New York: villa Wanda di Arezzo, l’abitazione privata; la suite all’Excelsior dove riceveva autorità, politici, postulanti; un’azienda di Frosinone; e gli uffici di una fabbrica d’abbigliamento, la Giole di Castiglion Fibocchi.
Amati assegna i due fascicoli,
insieme, a due giovani magistrati. Il primo, più esperto, si chiama Giuliano Turone, baffi curati e dita sottili, irrequieto e rigorosissimo. Dopo il liceo Manzoni di Milano, dopo un anno negli Stati Uniti, dopo la laurea in legge, era stato tentato dalla carriera diplomatica. Ma aveva scelto la magistratura: perché il diplomatico deve limitarsi a eseguire la politica estera del suo governo, mentre il magistrato decide e giudica, con il solo aiuto della legge e della sua coscienza. Affascinato dalla geometria dell’indagine, aveva voluto diventare giudice istruttore, figura mista (oggi cancellata dal nuovo codice) di giudice e investigatore. Poco più che trentenne, era entrato di persona nel covo-prigione di uno dei primi sequestrati italiani, l’imprenditore Luigi Rossi di Montelera; e nel 1974 aveva fatto arrestare il responsabile, un ometto siciliano che abitava in via Ripamonti 84, a Milano, e che sulla carta d’identità aveva scritto Luciano Leggio, anche se era già noto come boss di Cosa nostra con il nome di Luciano Liggio.
Gherardo Colombo, il secondo
magistrato, era invece un giovanotto che arrivava a palazzo di giustizia con i jeans e la camicia senza cravatta, e sopra gli occhiali aveva una gran corona di capelli refrattari al pettine. Era cresciuto in una grande casa sui colli della Brianza, padre medico e un po’ poeta, nonno e bisnonno avvocati. Amava i giochi di logica e il bridge. Parlava con aria apparentemente svagata, accompagnando le parole con brevi gesti secchi della mano, che poi spesso lasciava così, sospesa a mezz’aria. Per nove mesi, Turone e Colombo lavorano sodo. Macinano insieme decine e decine di interrogatori, perquisizioni, indagini bancarie. Sono letteralmente risucchiati da un’inchiesta che è un giallo appassionante, pieno di misteri e di colpi di scena. «Era un tessuto dai cento fili intrecciati», secondo Turone, «così abbiamo cominciato col tirare i fili che sporgevano dalla trama».
Il sequestro di Sindona: strano,
con quella improbabile rivendicazione del «Gruppo proletario di eversione per una giustizia migliore». Strani anche gli affidavit (dichiarazioni giurate) che una decina di persone invia negli Stati Uniti, ai magistrati americani, per testimoniare che il povero Sindona, che ha fatto bancarotta e ha lasciato sul lastrico centinaia di clienti, è perseguitato dai magistrati italiani soltanto per la sua fede anticomunista. Uno degli affidavit è firmato da un certo Licio Gelli. Dice: «Nella mia qualità di uomo d’affari sono conosciuto come anticomunista e sono al corrente degli attacchi dei comunisti contro Michele Sindona. è un bersaglio per loro e viene costantemente attaccato dalla stampa comunista. L’odio dei comunisti per Michele Sindona trova la sua origine nel fatto che egli è anticomunista e perché ha sempre appoggiato la libera impresa in un’Italia democratica». La prosa non è un granché, ma l’ossessione anticomunista è ben presente (e allora, almeno, i comunisti c’erano davvero…).
L’incarico delle perquisizioni
è affidato a un uomo di cui Turone e Colombo conoscono la lealtà istituzionale, il colonnello della Guardia di finanza Vincenzo Bianchi. Ha l’ordine di agire senza informare nessuno e senza avere alcun contatto con le autorità locali, i carabinieri, la polizia, la magistratura del posto, neppure i comandi della Guardia di finanza. I suoi finanzieri, arrivati in Toscana, non passano la notte nella caserma di Arezzo, ma si disperdono in diverse località lì attorno. Per tutti, l’appuntamento è all’alba del 17 marzo.
Scatta la perquisizione. Nessun risultato a Roma. Niente a villa Wanda. L’azienda di Frosinone è un vecchio indirizzo. Alla Giole, invece, c’è una montagna di carte. Gelli non si trova, è a Montevideo. Ma la sua segretaria, Carla, protegge con vigore i documenti stipati nella scrivania, nei cassetti, nella cassaforte, in una valigia… Nella cassaforte ci sono gli elenchi della loggia segreta. «Sequestrate tutto», ordinano, per telefono, i giudici istruttori. La perquisizione è ancora in corso quando a Bianchi arriva via radio una chiamata del generale Orazio Giannini, comandante della Guardia di finanza: c’è anche il suo nome, in quegli elenchi, come quello del suo predecessore, il generale Raffaele Giudice, come quello del capo di stato maggiore della Finanza, il generale Donato Lo Prete. E il comandante delle Fiamme gialle di Arezzo, e una folla di generali, colonnelli, maggiori…
Verso il porto delle nebbie.
Tutte le carte sono portate a Milano. Turone e Colombo le catalogano, personalmente, pagina per pagina. Ne fanno due copie. L’originale entra nel fascicolo dell’inchiesta; la prima copia è affidata ai finanzieri, con l’incarico di conservarla in un luogo sconosciuto agli stessi giudici; la seconda è nascosta, sotto una falsa intestazione («Formazioni comuniste combattenti») tra i fascicoli di un collega di cui i due si fidano, il giudice Pietro Forno. Non si sa mai.
Fuori dal palazzo di giustizia di Milano, intanto, nessuno sa delle carte sequestrate a Gelli. Eppure qualcuno sta lavorando febbrilmente per parare il colpo. La notizia comincia a trapelare. La dà, per primo, il telegiornale Rai la sera del 20 marzo. Ma non è chiaro quali documenti siano stati trovati dai giudici. Il giorno dopo, sabato 21 marzo, il Giornale (allora diretto da Indro Montanelli) scrive: «Nell’ambito delle indagini per l’affare Sindona, stasera si è appresa una doppia operazione compiuta dalla magistratura di Milano e da quella di Roma, nella villa aretina di Licio Gelli, Venerabile Maestro della loggia massonica P2. Per conto dei giudici milanesi l’intervento sarebbe stato operato dalla Guardia di finanza, mentre Roma avrebbe partecipato agli accertamenti attraverso il sostituto procuratore della Repubblica Sica». Strana notizia: il ritrovamento non è avvenuto a villa Wanda ma alla Giole di Castiglion Fibocchi; e soprattutto Domenico Sica, detto «Rubamazzo», per ora non c’entra nulla. Ma basteranno poche settimane e Roma arriverà ad avverare la profezia del Giornale e a strappare l’indagine ai magistrati milanesi.
Turone e Colombo, consci del peso
istituzionale della loro scoperta, decidono che è loro dovere informare il capo dello Stato: ma il presidente Sandro Pertini è all’estero, così ripiegano sul capo del governo, Arnaldo Forlani. Si recano a Roma il 25 marzo, l’appuntamento è fissato alle ore 16 a Palazzo Madama. Aspettano per due ore. Poi la segreteria di Forlani comunica che c’è stato un equivoco, che il presidente li aspetta a Palazzo Chigi. I due giudici si spostano lì. Ad accoglierli è il capo di gabinetto di Forlani. «Ci siamo guardati negli occhi in silenzio», ricorda Colombo, «il funzionario davanti a noi era il prefetto Mario Semprini, tessera P2 1637». Forlani è cortese, chiede se le carte trovate possono essere non autentiche. I due giudici gli mostrano una firma autografa del ministro della Giustizia Adolfo Sarti sulla domanda d’iscrizione alla loggia. Chiedono: «Signor presidente, avrà certamente un documento controfirmato dal suo ministro Guardasigilli…». Forlani ne prende uno, confronta i due fogli, si convince. «Datemi tempo di riflettere», conclude Forlani. «Di solito offro agli ospiti di riguardo un aereo dei servizi per tornare a casa. Mi pare che questa volta non sia il caso».
Forlani tira in lungo. Non vuole prendersi la responsabilità di rendere pubblici gli elenchi. Cerca di scaricarla sui giudici milanesi. Sui giornali del 20 maggio i titoli confermano quella sensazione: «Forlani: spetta ai giudici togliere il segreto sulla P2». Turone, Colombo e il capo dell’ufficio Amati inviano immediatamente una lettera al presidente del Consiglio, in cui sostengono che sono coperti dal segreto istruttorio i verbali delle deposizioni dei testimoni che stanno sfilando davanti a loro, ma non «il restante materiale trasmesso». Forlani capisce che non può più aspettare. Le liste di Gelli sono rese pubbliche.
Oltre agli elenchi degli affiliati
e alla documentazione sulla loggia, tra le carte sequestrate vi sono 33 buste sigillate con intestazioni diverse: «Accordo Eni-Petromin», «Calvi Roberto vertenza con Banca d’Italia», «Documentazione per la definizione del gruppo Rizzoli», «On. Claudio Martelli»…
C’erano già, in quelle carte, i segreti di Tangentopoli, del Conto Protezione e di tanto altro ancora. Ma i tempi non erano maturi. Da Roma si muovono il giudice istruttore Domenico Sica (detto «Rubamazzo») e il procuratore della Repubblica Achille Gallucci. Sollevano il conflitto di competenza e la Cassazione, il 2 settembre 1981, strappa l’inchiesta a Milano per affidarla a Roma. Non sviluppata, l’indagine si spegne. «Mi è arrivata sulla scrivania già morta», dice Elisabetta Cesqui, il pubblico ministero che eredita l’indagine. L’accusa di cospirazione politica contro le istituzioni della Repubblica mediante associazione cade: tutti i rinviati a giudizio (pochi: qualche capo dei 17 gruppi in cui la P2 era divisa, più Gelli e i responsabili dei servizi segreti) sono prosciolti, e comunque il processo arriva in Cassazione quando ormai è troppo tardi e per tutti scatta la prescrizione.
Pochi del club P2 sono stati messi
davvero fuori gioco dallo scandalo che seguì la pubblicazione degli elenchi. I magistrati (unica categoria che reagì con decisione) furono giudicati e sanzionati dal Consiglio superiore della magistratura. Ma ciò non toglie che uno dei magistrati iscritti alla P2, Giuseppe Renato Croce, tessera numero 2071, oggi giudice per le indagini preliminari a Roma, con arzigogoli procedurali stia dando ragione a Marcello Dell’Utri in una delle tante contese giudiziarie che il braccio destro di Berlusconi ha aperte.
Molti dei piduisti sono stati messi da parte dagli anni e dall’età. Ma chi resiste all’azione del ciclo biologico non se la cava poi tanto male. Tra i giornalisti (di allora), Gustavo Selva è parlamentare di An; Maurizio Costanzo è direttore di Canale 5 e uomo politicamente trasversale, anche se sempre dalla parte di Berlusconi nei momenti cruciali; Massimo Donelli è direttore della nuova tv del Sole 24 ore. Roberto Gervaso continua a scrivere un fiume di articoli e di libri e nessuno si ricorda più di una simpatica lettera che inviò, tanto tempo fa, a Gelli: «Caro Licio, ho chiesto a Di Bella (direttore del Corriere della sera quando era nelle mani della P2, ndr) di farmi collaborare. è bene che tutti capiscano che bisogna premiare gli amici. Oggi Di Bella parlerà della mia collaborazione con Tassan Din (direttore generale del Corriere, piduista come l’editore del Corriere, Angelo Rizzoli, ndr). Vedi di fare, se puoi, una telefonata a Tassan Din, affinchè non mi metta i bastoni tra le ruote». Più defilato Paolo Mosca, ex direttore della Domenica del Corriere. Gino Nebiolo, all’epoca direttore del Tg1, è stato mandato da Letizia Moratti a dirigere la sede Rai di Montevideo (una capitale della P2) e oggi scrive sul Foglio di Giuliano Ferrara. Franco Colombo, ex corrispondente della Rai a Parigi e aspirante piduista, oggi ha cambiato mestiere: è vicepresidente della società del Traforo del Monte Bianco e si sta dando molto da fare per gli appalti che devono riaprire il tunnel. Alberto Sensini (aspirante piduista, come Colombo) scrive di politica sui giornali.
Tra i politici,
Pietro Longo, segretario del Partito socialdemocratico, divenne il simbolo negativo del piduista con cappuccio. Ma a tanti altri è andata meglio. Publio Fiori (tessera 1878), ex deputato democristiano, è trasmigrato in An e nel 1994 è diventato ministro di Berlusconi [Nota di fisicamente del 3 marzo 2006. Con sentenza n. 20537/01 del Tribunale di Roma è stata riconosciuta l’estraneità dell’onorevole Publio Fiori alle liste della P2]. Una poltrona di ministro è già capitata, durante il governo Berlusconi, anche ad Antonio Martino (anch’egli a Gelli aveva solo presentato la domanda d’iscrizione). Invece Duilio Poggiolini (tessera 2247), ex ministro democristiano della Sanità, ha avuto la carriera stroncata non dalla P2, ma dai lingotti d’oro di Tangentopoli trovati nel pouf del salotto. Massimo De Carolis (tessera P2 1815, solo un numero in meno di quella di Berlusconi), negli anni Settanta era democristiano e leader della «Maggioranza silenziosa», oggi è tornato alla politica sotto le bandiere di Forza Italia e grazie al rapporto diretto con Berlusconi ha ottenuto la presidenza del Consiglio comunale di Milano e la promessa di una candidatura in Parlamento. Le ha dovuto abbandonare entrambe, dietro la ferma insistenza del sindaco Gabriele Albertini, dopo essere stato coinvolto in alcuni scandali. è accusato, tra l’altro, di aver chiesto 200 milioni per rivelare notizie riservate a una azienda partecipante a una gara per un appalto a Milano. Ma il fatto curioso è che, insieme a De Carolis, nel processo in corso a Milano sia coinvolta un’altra vecchia conoscenza della P2: Luigi Franconi (tessera P2 numero 1778). I rapporti solidi resistono nel tempo
Più utile il lavoro della Commissione parlamentare
presieduta da Tina Anselmi, che dichiara le liste della P2, con 972 nomi, «autentiche» e «attendibili», ma incomplete. E con anni di lavoro produce un materiale immenso e prezioso, la documentazione di come funzionava una potentissima macchina di eversione e di potere. Ma nel 1981 le speranze – o le paure – erano altre: una parte del Paese sperava che lo scandalo P2 avviasse il rinnovamento della vita politica e istituzionale; un’altra temeva che il proprio potere si incrinasse per sempre. Sbagliavano gli uni e gli altri.
La giustizia va ricondotta
«alla sua tradizionale funzione di equilibrio della società e non già di eversione». Per questo, è necessaria la separazione delle carriere del pubblico ministero e dei giudici, «l’istruzione pubblica dei processi nella dialettica fra pubblica accusa e difesa di fronte ai giudici giudicanti», la «riforma del Consiglio superiore della magistratura che deve essere responsabile verso il Parlamento». Molto è già stato realizzato. Per il resto si vedrà.
Che fine hanno fatto gli altri «fratelli» di loggia? Alcuni hanno fatto proprio una brutta fine. Sindona, dopo essere stato condannato per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli, è morto in carcere, per una tazzina di caffè al veleno. Il suo successore nella finanza d’avventura, Roberto Calvi, tessera numero 1624, ha gettato la più grande banca italiana, il Banco Ambrosiano, nelle braccia della P2 che gli ha sottratto un fiume di miliardi e l’ha fatto finire in bancarotta; alla fine, il 18 giugno 1982, è stato trovato penzolante sutto il ponte dei Frati neri, a Londra. Mino Pecorelli, tessera 1750, giornalista in contatto con i servizi segreti, direttore di Op e piduista anomalo che voleva giocare in proprio, è stato crivellato di colpi nella sua automobile, il 20 marzo 1979.
La loggia multinazionale.
Gelli è agli arresti domiciliari a villa Wanda, condannato per il crac del Banco Ambrosiano. Molti degli affiliati, il nocciolo duro del club dell’oltranzismo atlantico, sono stati coinvolti in vicende di eversione, stragi, tentati colpi di Stato, depistaggi. Così Vito Miceli, Gian Adelio Maletti, Antonio Labruna, Giuseppe Santovito, Giovanni Fanelli, Antonio Viezzer, Umberto Federico D’Amato, Giovanbattista Palumbo, Pietro Musumeci, Elio Cioppa, Manlio Del Gaudio, Giovanni Allavena, Giovanni Alliata di Montereale, Giulio Caradonna, Edgardo Sogno… Ci vorrebbe almeno un libro per ciascuno, per raccontare la multiforme attività di questi fedeli servitori del Doppio Stato.
Organizzazione multinazionale, la P2 aveva affiliati che operavano in Sudamerica: Uruguay, Brasile e soprattutto Argentina. In Argentina, dove Gelli aveva rapporti molto stretti con i servizi segreti, aveva arruolato nella loggia l’ammiraglio Emilio Massera, capo di Stato maggiore della Marina, Josè Lopez Rega, ministro del Benessere sociale di Juan Domingo Peron, Alberto Vignes, ministro degli Esteri, l’ammiraglio Carlos Alberto Corti e altri militari
Vent’anni dopo, in Italia è tempo
di revisioni. Anche sulla P2. è stato un legittimo club di amiconi, magari con qualcuno che ne approfittava un po’ per fare affari. Gelli? Un abile traffichino che millantava poteri che in realtà non aveva. Ma era proprio questo, la P2? Vista con distacco, appare invece il luogo più attivo per l’elaborazione di strategie di potere del grande partito atlantico in Italia, almeno tra il 1974 e il 1981. Centro d’incontro tra politica, affari, ambienti militari. Nella loggia segreta è confluito il partito del golpe, reduce della stagione delle stragi 1969-74, ma con una nuova strategia, più flessibile, più attenta alla politica. E ai soldi, che possono comprarla: come suggerisce, appunto, il Piano di rinascita.
E oggi? La fase 2, naturalmente
, è nuova. La società è cambiata. Anche gli uomini alla ribalta sono, in buona parte, diversi. Ma nella storia italiana non si butta via niente, c’è una continuità di fondo con il peggio delle nostre vicende, fatte di un anticomunismo eversivo, bancarotte e spoliazioni di denaro pubblico, politica corrotta, stragi, morti ammazzati, rapporti inconfessabili con le organizzazioni criminali. Il passato, il tremendo passato italiano, deve sempre restare non del tutto chiarito, perché i dossier, gli uomini, i segreti, i ricatti che da quel passato provengono possano essere riciclati nel futuro. Da questo punto di vista, la parabola di Silvio Berlusconi, uomo «nuovissimo» che viene dal passato vecchissimo di Gelli e affiliati, è la parabola dell’Italia.
Politica & affari
Un banchiere iscritto alla P2, certo meno noto di Sindona e Calvi, era Antonio D’Alì, proprietario della Banca Sicula e datore di lavoro di boss di mafia come i Messina Denaro. Oggi ha passato la mano al figlio, Antonio D’Alì jr, eletto senatore a Trapani nelle liste di Forza Italia. Angelo Rizzoli, che si fece sfilare di mano il Corriere dalla compagnia della P2, oggi fa il produttore cinematografico. Roberto Memmo (tessera 1651), finanziere che tanto si diede da fare per salvare Sindona, oggi è buon amico di Marcello Dell’Utri, di Cesare Previti e del giudice Renato Squillante, che incontrava insieme, e dirige la Fondazione Memmo per l’arte e la cultura, con sede a Roma nel Palazzo Ruspoli.
Rolando Picchioni (tessera 2095), torinese, ex deputato dc, coinvolto (ma assolto) nello scandalo petroli, oggi è in area Udeur ed è segretario generale del Salone del libro di Torino. Giancarlo Elia Valori, unico caso di piduista espulso dalla loggia perché faceva troppa concorrenza al Venerabile Maestro, oggi è presidente dell’Associazione industriali di Roma, infaticabile scrittore di libri e instancabile tessitore di rapporti e di alleanze. Vittorio Emanuele di Savoia (tessera 1621) è un curioso caso di uomo off-shore: non può rientrare in Italia, ma in Italia fa business, seppure attraverso società estere. Ora vorrebbe poter rientrare definitivamente, anche se nei fatti non ne è mai stato fuori, a giudicare dai suoi affari e traffici (d’armi): nei decenni scorsi è stato, anche grazie alla sua integrazione nel club P2, mediatore d’affari all’estero per conto di aziende italiane (Agusta) e addirittura di Stato (Italimpianti, Condotte…), quello stesso Stato sul cui territorio non poteva mettere piede. Di Berlusconi ha detto (era il 1994): «è un buon manager, può rimettere ordine nell’economia italiana». Come? Per esempio «cancellando quel disastro» che è «lo Statuto dei lavoratori, con il divieto di licenziamento». Apprezzamenti naturali, tra compagni di loggia. Ma con un finale obbligato per il principe: «Io? Non faccio politica». Vittorio Emanuele non vota, ma c’è da scommetterci che tifa per Berlusconi, che potrà farlo finalmente rientrare in Italia, questa volta anche fisicamente.
Circolo Pinay e la P2
Il Circolo Pinay è un’organizzazione “Atlanticista” di destra composta da agenti dei servizi segreti in attività e in pensione, ufficiali e politici che hanno cospirato per “causare” dei cambiamenti governativi.
Fra le altre cose esso rivendica il merito di aver pilotato l’elezione di Margaret Thatcher in UK.
Il decennio degli anni ’70 è stato un bel periodo caratterizzato da enormi sommovimenti politici, giochi sporchi ed incessanti dicerie in merito a colpi di stato di matrice militare destrorsa nelle principali democrazie occidentali. I fianchi più meridionali dell’asse europea della Nato – Portogallo, Spagna, Turchia e Grecia – trasformarono le dicerie in fatti agghiaccianti tramite gli smalti blu acciaio delle canne dei fucili. L’Italia, terra della pizza,del Papa e della Propaganda 2 (P2) arrivò ad elaborare la sua propria variante della stabilità politica con i buoni ufficiali della CIA dello Zio Sam.
Mentre la decade degli anni ’80 lentamente scivolava sull’orizzonte dell’est europeo ora meno che rosa, i beneficiari destrorsi del programma coordinato di destabilizzazione internazionale ringraziavano sentitamente. Fra questi c’erano la Signora di Ferro inglesa – Margaret Thatcher – Madonna dell’industria degli armamenti – e l’americano Ronald Regan – meno fragile e considerevolmente meno perspicace, stimato amico dei ragazzi della lobby internazionale delle armi.
Questi due decenni hanno visto la proliferazione di gruppi segreti e semi-ufficiali di destra che hanno coordinato i servi e la propaganda ed intrapreso “nere” operazioni occulte in tutto il mondo. Uno dei più oscuri di tutti è il Circolo Pinay, dal nome del suo fondatore Antonie Pinay, premier francese nel 1951. Conosciuto più semplicemente come Le Cercle (Il Circolo) viene ritenuto un’organizzazione sorella ancora più clandestina del già assai segreto gruppo Bilderberg. Entrambi i gruppi condividono affiliazioni familiari che comprendono Henry Kissinger, Zbigniew Brzezinski e David Rockefeller.
Il Circolo Pinay nel 1969 iniziò a reclutare segretamente uomini influenti in qualità di membri. L’intenzione era quella di spostare il clima politico dell’Europa verso l’estrema destra tramite una campagna di propaganda segretamente finanziata e di istituire dei servizi di intelligence privati che avrebbero lavorato in veste non ufficiale con l’esistente apparato dei servizi occidentali. Lo scrittore Stephen Dorril ritiene che ci siano serpentine interconnessioni fra Le Cercle e la rete Gladio, struttura militare di guerriglia “anticomunista nascosta” fondata dai Quartieri Generali delle Potenze Alleate Europee (SHAPE) della Nato durante gli anni ’50 e che era formata in gran parte da ex nazisti.
Le Cercle mantiene anche stretti rapporti con una moltitudine di organizzazioni di destra intrecciate fra loro fra cui WACL, la Heritage Foundation, Western Goals, ISC, Freedom Association, Interdoc, Bilderberg, l’italiana Propaganda 2, l’Opus Dei, i Moonies, e il Jonathan Institute: molti di questi sono finanziati interamente o parzialmente dalla CIA americana.
IL RISVEGLIO DELLA MASSONERIA
“SETTE” del “Corriere della sera”
NEL MONDO DEI “FRATELLI”
Di Claudio Lindner
Dopo lo scandalo P2 e dopo l’inchiesta sui presunti legami con la mafia, sembrava che avesse perso influenza. Ora si assiste a un’inversione di tendenza: gli iscritti aumentano, e perfino Gelli pare “riabilitato”. Un potere occulto? Le logge rispondono con un’operazione di trasparenza. Ma gli espelli avvertono: i “migliori” restano coperti dal segreto.
La massoneria in Italia resta un tabù. Pochi ne parlano, molti la temono. Per gli esperti ha perso influenza, per la stragrande maggioranza è sinonimo di potere occulto e complotti. Loro, i massoni ufficiali, rispondono con due parole: glasnost e marketing, vale a dire eliminare quell’alone di mistero che circonda l’istituzione. E quindi scendere in piazza per commemorare Giordano Bruno a Campo dei Fiori, festeggiare il Fratello Wolfgang Amadeus Mozart e il ritorno del Flauto magica all’Opera di Roma con uno sconto del 50 per cento a chi presenta il tesserino del Grande Oriente d’Italia, ricordare Hugo Pratt con un convegno il prossimo novembre sul percorso “iniziatico” di Corto Maltese. E ancora: dibattiti culturali aperti ai “profani”, filantropia, riviste, siti Internet.
Poi bastano cinque righe di agenzia Ansa (21 novembre 2001) per far tremare di nuovo le Obbedienze e riportare a galla vecchi fantasmi: “Licio Gelli è stato nominato Gran Maestro onorarlo della Serenissima Gran Loggia nazionale d’Italia. Giorgio Paternò è stato eletto Sovrano Gran Maestro”. Ma come, il capo della Propaganda 2 al centro di uno dei maxiscandali italiani torna a intorbidire le acque? Il Goi di Palazzo Giustiniani si affretta a smentire ogni coinvolgimento: “L’associazione che ha teatralmen- riesumato Gelli non c’entra nulla con le Obbedienze storiche presenti in Italia e ha cambiato denominazione dopo le nostre reiterate diffide”. Negli ambienti ufficiali la .loggia del principe Paternò di Catania . viene ignorata, considerata “spuria”. Tina Anselmi, all’epoca presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 ma che sull’argomento ora non vuole più intervenire, si limita a dire “che Geni diventa furioso quando viene negata la sua appartenenza alla massoneria”. Insomma, gran confusione. “Manca una legge che tuteli, oltre la libertà di associazione anche la denominazione corretta”, sottolinea Gustavo Raffi, Gran Maestro del Goi “chiunque può costituire e definire “massoneria” un gruppo senza che ci sia un riconoscimento dalle grandi logge regolari del mondo”.
Una vita molto tormentata quella liberomuratoria, che ha oscillato tra l’esaltazione laica, il grande tema della libertà di associazione e le crociate contro le trame occulte e le logge riservate. Rialzatasi dopo le batoste subite durante il fascismo, l’istituzione ha dovuto fare sempre i conti con gli ostacoli frapposti dal Vaticano che solo nel 1983 ha tolto la scomunica all’iniziazione. Un compromesso, quello raggiunto dalla Chiesa, forse anche imposto. dalla realtà dei fatti, a giùdicare dalle rivelazioni del sacerdote lombardo don Luigi Villa, riportate dal quotidiano La Padania, sulle infiltrazioni in San Pietro. Tra i Figli delle Vedove, secondo don Villa, figurano molti collaboratori di Paolo VI, due potenti segretari di Stato come Fean Villot e Agostino Casaroli, l’ex presidente dello Ior, Paul Marcinkus, coinvolto nello scandalo Sindona. Nonché monsignor Francesco Marchisano, recentemente nominato Vicario generale dello Stato Vaticano e arciprete della Basilica.
C’è poi il capitolo della ricostruzione economica del dopoguerra, con le divisioni tra finanza cattolica e finanza laica, quest’ultima con rapporti talvolta provati talvolta no con la massoneria. Erano affiliati Gino Olivetti e Vittorio Valletta, fonti romane assicurano che lo fosse il senatore Gasare Merzagora, per qualche tempo presidente delle Assicurazioni Generali. Su Enrico Cuccia, fondatore assieme a Raffaele Mattioli di Mediobanca e protagonista di uno scontro frontale con Sindona, le voci sono invece discordanti. Di sicuro era un dichiarato e importante massone ‘il suocero Alberto Beneduce. Lo è stato Carlo De Benedetti, che ha poi abbandonato “per la delusione provata dal livello delle riunioni alle quali ebbe ad assistere” (Storia della Massoneria italiana dello studioso Aldo Mola). E lo erano molti manager di Stato.
La massoneria sta ora cercando un secondo rilancio per uscire da una crisi ventennale iniziata con il trauma della P2 (che coinvolse anche il vertice della Rizzali e del Corriere della Sera) e proseguita nel 1993 con la bufera Cordova, quando (allora procuratore di Palmi avviò un’indagine in Sicilia su presunti legami con la mafia arrivando a sequestrare le liste degli iscritti in tutta Italia (l’inchiesta fu poi archiviata). La commissione parlamentare arrivò alla conclusione che la P2 voleva scolpire la sovranità dei cittadini” mentre la magistratura assolse tutti dall’accusa di finalità cospirative insistendo invece sulle trame finanziarle, fiscali e sul depistaggio nelle stragi: A mettere fuori legge la P2 fu Giovanni Spadolini, massimo storico e amante del Risorgimento (al quale proprio i massoni fanno riferimento).
E Licio Galli che fine ha fatto? Ha 83 anni ed è agli arresti domiciliare nella sua Villa Wanda di Arezzo dove sconta la pena di 12 anni per la bancarotta dell’Ambrosiano. Negli anni Ottanta e Novanta la ritirata è inevitabile. Spariscono le logge coperte, il Consiglio supremo della magistratura e la Corte di cassazione definiscono “inopportuna” l’adesione dei giudici. Gran parte dei vip abbandonano. “Oggi i migliori sono “in sonno””, dice Mola, forse il maggior conoscitore della massoneria, “alcuni si sono iscritti a logge in altri Paesi, ma è difficile saperlo, perché le liste sono segrete”.
UN BOOM DI ADESIONI
Non esiste un censimento dei Fratelli, anche perché a fare outing sono in pochissimi. Le fonti, quindi, non possono che essere interne. Il Goi, l’istituzione più grossa, ha da poco superato i 14 mila iscritti (tutti uomini, per statuto e tradizione) e le 556 logge. La Gran Loggia d’Italia (Gldi), la seconda per importanza staccatasi dal Goi nel 190$ dopo la battaglia parlamentare sull’insegnamento della religione a scuola, ne ha 8.500 (1.500 sono donne). Terza per dimensione è la Gran Loggia Regolare, frutto di una scissione dal Goi a opera dell’allora Gran Maestro Giuliano Di Bernardo che provocò forti polemiche ma riuscì a farsi riconoscere dalla Gran Loggia d’Inghilterra. Completa il quadro una giungla di qualche decina di sigle, tutte simili una all’altra, da far venire il mal di testa.
A sentire i Gran Maestri delle due principali istituzioni negli ultimi mesi c’è stata un’esplosione di domande in Italia. “Questa settimana” (venerdì 28 giugno, ndr), racconta Luigi Danesin (Gldi), veneziano, 70 anni, consulente di diritto del lavoro (nel suo studio lavora anche il nipote Alessandro, parlamentare europeo di Forza Italia), “ha firmato una cinquantina di nuove richieste, molte sono di giovani, anche ventenni”. “Nel 1999 abbiamo ricevuto 2.075 domande”, incalza Gustavo Raffi (Gol), 58 anni, avvocato di Ravenna, che vanta di essere stato uno dei grandi accusatori interni di Gelli, “nel 2001 erano già 1.351, e continuano a crescere”. La regione leader è da sempre la Toscana, seguono Piemonte; Calabria e Lombardia. L’Umbria ha la densità più alta di massoni: nove ogni 10 mila abitanti. Ma logge “italiane” esistono anche a Londra, New York, Miami, Praga.
E l’identik? L’età media è scesa a 42 anni per il Goi e a 50 per la Gldi, il 58 per cento ha un titolo universitario (dati Goi), sono liberi professionisti, imprenditori, manager pubblici e privati, direttori d’orchestra, pensionati “di alto profilo”. “Abbiamo circa 700 medici”, spiega Danesin, “e 370 avvocati, molti capitani d’industria, tutti preoccupati che si sappia…”. Vige l’autofinanziamento, ognuno versa circa un milione di vecchie lire all’anno. Serietà e controllo sulle “iniziazioni” vengono garantiti. “Dalla richiesta all’ammissione definitiva passano sei mesi”, dichiara il capo della Gldi, “una lunga “tegolatura” (la relazione stesa da due Fratelli, diversi da quelli che hanno presentato l’amico aspirante alla loggia) e tre votazioni segrete. Il Gran Maestro ha comunque l’ultima parola. La nostra è una struttura piramidale, qui non possono esistere P2″. Anche Raffi sposta l’attenzione sul lato intimistico: “Il massone ha molta curiosità intellettuale, è un uomo che cerca soprattutto se stesso. Io mi sono occupato tanto di storia, filosofia e politica (è stato segretario regionale del Partito repubblicano, ndr), ma solo qui ho trovato delle risposte. E così succede oggi a tanti giovani”.
QUEL SEGRETO CHE RESISTE
Ciò che divide nettamente i massoni dal resto del mondo è il segreto (“riservatezza” precisano i Gran Maestri), incomprensibile ai più nell’epoca della democrazia occidentale, di Internet, dei satelliti e via dicendo. “Non aderirei mai a un club se sapessi che gli iscritti sono persone come me”, diceva una celebre battuta di Groucho, uno dei quattro fratelli Marx. Per i “fratelli” è esattamente l’opposto. Ancora oggi il “segreto iniziatico” è una regola d’oro sulla quale non si transige. Io posso dire di essere un massone, ma non rivelare i nomi degli altri appartenenti alla loggia. Lo si sa dunque dei morti illustri, da Garibaldi a Cavour, da Fermi a Carducci e Pascoli, da Totò a Gino Cervi e Amedeo Nazzari. Lo si ignora dei viventi, tranne qualche eccezione come Alessandro Meluz- Fabio Roversi Monaco, Valerio Zanone, lo scrittore Paolo Maurensig.
La segretezza è sempre stata un punto di forza. Nel Settecento e nell’Ottocento per aiutare la battaglia dell’opposizione ai totalitarismi e nella seconda metà del Novecento soprattutto per favorire le reti di affari politici e finanziari. I massoni ufficiali negano di essere un’associazione segreta: “Siamo sull’elenco telefonico, tutti possono visitare le nostre sedi”. La Gldi ha recentemente avviato. una campagna di sensibilizzazione politica per chiedere l’abolizione di quelle norme presenti in alcuni statuti regionali che pongono veti nell’amministrazione pubblica (Toscana, Emilia, Liguria, Piemonte, Lazio e Friuli). Danesin è stato ricevuto dall’ex ministro degli Interni, Claudio Scajola, e due mesi fa ha scritto una lettera a Gianfranco Fini, come vicepresidente del Consiglio e soprattutto come leader di Alleanza nazionale, “un partito che prevede discriminazioni nello statuto”. Tenterà, dice, anche con il vertice della Lega, la più ostile nei fora confronti.
PIÙ TOLLERANZA all’estero
I Gran Maestri puntano tutto sulle due sentenze emesse nel 2001 dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo. La prima, su ricorso del Goi, va contro una legge della Regione Marche che obbliga i concorrenti a cariche pubbliche a una dichiarazione di non appartenenza a logge. La seconda dà ragione a un magistrato di Monza, sottoposto a procedura disciplinare nel 1994 perché ex Fratello.
La Corte di Strasburgo riflette forse l’atteggiamento più tollerante che c’è negli altri Paesi, dove la massoneria resta molto radicata e influente pur se insidiata da altri poteri forti come le lobby o le grandi élite che si raccolgono nella Commissione Trilaterale e nel gruppo Bilderberg.
I liberomuratori nel mondo sono circa sette milioni, dei quali due milioni e mezzo negli Stati Uniti. Si racconta che solo quattro presidenti americani non siano stati Fratelli (tra questi il cattolico John Kennedy e che lo stesso George Bush abbia giurato sulla Bibbia massone custodita nel Tempio di Washington. Molto potente resta nel Regno Unito (250 mila gli affiliati), dove è nata nel 1717, anche se il laburista Tony Blair ha duramente attaccato la segretezza delle logge che ritiene siano un grande serbatoio per la classe dirigente conservatrice. I “freemasons” hanno risposto con una campagna di immagine studiata da una società di pubbliche relazioni. A fine giugno hanno organizzato una raccolta fondi per beneficenza distribuendo T-shirt con la scritta: “Io sono un massone”.
In Francia gli iscritti sono 130 mila, circa 5 mila quelli che contano nelle stanze del potere. Alcuni sono stati coinvolti nei recenti scandali politico-finanziari, ma ciò non ha impedito a Jacques Chirac, in vista delle elezioni presidenziali, di invitare all’Eliseo i Gran Maestri delle nove principali Obbedienza e al primo ministro dell’epoca, Lia nel Jospin, di andare ospite a colazione nella sede del Grande Oriente di Francia a Parigi. I massoni hanno ricambiato in maggio, alla vigilia della sfida Chirac-Le Pen, invitando con un comunicato a votare per il presidente uscente (il Fronte nazionale è da sempre considerato un acerrimo nemico).
In Italia tra i principali promotori di interpellanze e interrogazioni parlamentari a sostegno dei diritti dei massoni c’è sempre stato il se natore Marcello Pera, ora presidente di Palazzo Madama. “Lo vedrò a Lucca”, annuncia Danesin, “il mio predecessore Franco Franchi lo conosceva molto bene”.
SONO POCHI I “FRATELLI” DICHIARATI
Eccezioni: l’ex segretario del Pli Valerio Zanone, l’ex rettore dell’università di Bologna Fabio Roversi Monaco e lo psichiatra Alessandro Meluzzi.
INTERVISTA AD ANNA GIACOMINI
Sebben che siamo donne, andiamo al Tempio
A Giacomini (foto), scrittrice ed ex antiquaria “felicissima nonna” di 60 anni, è diventata massone nel 1992: “Nel tempio”, racconta, “si impara ad ascoltare, è una scuola per tutti noi: ci si pub esprimere quanto si vuole, si pub intervenire sa quanto detto da altri, ma senza tare polemica. Esiste un dialogo vero, l’interlocutore viene rispettato”.
Ma che utilità ha il segreto, regola d’oro della massoneria? “Chi partecipa”, risponde, “acquisisce una ricchezza che si rischia di perdere se viene comunicata”.
Paola Neuhaus, ex fotografa, à iscritta da sedici anni, ma ha cambiato
Obbedienza una volta per passare da una tutta al femminile a una mista “e avere un’esperienza di dialogo più ampia”. “Ci si aiuta a vicenda”, spiega, “quando un
“fratello” o una “sorella” sono indigenti o stanno male ferma restando che il mondo interno è come quello fuori. Non à detto che ci vogliamo tutti bene a ogni costo”.
Le donne in massoneria sono 2.500-3.000 (ma anche qui non esiste art censimento), la maggioranza fa parte della Gran Loggia d’Italia, obbedienza mista, a differenza dei Grande-Oriente, più tradizionale e dogmatico. Esistono poi alcune logge solo femminili con qualche centinaio di affiliato. Il Gran Maestro, Giuseppe Garibaldi, attestano documenti dell’epoca, “inizia” una donna nell’Ottocento, quando in Francia e in Germania già esistevano società androgine.
In Italia è solo dalla metà degli anni Settanta che la massoneria femminile ha presa qualche consce; sulle tracce di Anita Garibaldi, Eleonora Duse, Marisa Bettola.
Il “maschilismo” del Grande Oriente ha salvato le donne dalla P2 e dall’onta della lista di Licio Galli. Anche se un rivolo dello scandalo è arrivato a una loggia femminile di Palermo costituita sotto la spinta di Giuseppe Miceli Crimi piduista, salito agli onori delle cronache come il medico dal quale il bancarottiere Michele Sindone si fece sparare al braccio per rafforzare la messa in scena del finto sequestro siciliano.
Maggioranza MENO OSTILE
In effetti il rilancio della massoneria esoterica trova il terreno fertile nell’establishment nuovo che governa il Paese.
“C’è in alcune persone che fanno parte della maggioranza minor ostilità”, dice Mola, sottolineando comunque come in altri Paesi l’influenza sia ben più forte che da noi. In Parlamento, secondo i Gran Maestri, non ci sarebbero che una decina tra deputati e senatori. Ma Danesin non si lamenta di questo: “C’è una schiera di “amici”, non iscritti, ma è meglio così altrimenti si rischia di ricreare una situazione tipo P2: perché mai dovrei vantarmi di quel parlamentare o ministro massone?”.
L’attenzione di Pera ai temi delle libertà individuali dei “Fratelli” non può che essere condivido dal presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, massone in sonno quale iscritto alla P2, “non un titolo di demerito”. Come disse a Telelombardia. “Iniziato” nel gennaio 1978, il Cavaliere sostenne durante il processo che “in quella loggia c’erano persone di fronte alle quali togliersi tanto di cappello”. Fu assolto come tutti gli altri dall’accusa di cospirazione politica.
Certamente tollerante è Antonio Martino, ministro della Difesa: non figurava nella lista della P2, ma secondo quanto risulta nell’Archivio storico della Camera fece domanda di ammissione il 6 luglio 19$0 introdotto da tre professori. La procedura non venne perfezionata perché poco dopo scoppiò lo scandalo.
L’apparato militare è sempre stato uno dei più sensibili al richiamo delle logge soprattutto quando prevale il filoatlantismo incondizionato.
II curriculum del neoministro degli Interni, Giuseppe Pisanu, presenta invece rapporti stretti con un altro sardo doc, Armando Corona, ritenuto l’epuratore di Gelli e guida del Goi dopo la P2. La carriera politica di Pisanu subì un arresto negli anni Ottanta, quando si dovette dimettere da sottosegretario al Tesoro a seguito delle polemiche scaturite dopo la sua deposizione sui rapporti con Flavio Carboni e Roberto Calvi.
Più risorgimentale e ideale è la sintonia del livornese Carlo Azelio Crampi con la massoneria. Sul presidente della Repubblica sano girate molte voci, mai suffragate da dati certi, e lui ha sempre categoricamente smentito di essere stato iscritto. Certo è che la decisa campagna di rivalutazione dei simboli patriottici, la bandiera italiana e l’inno di Mameli (massone doc), trova il plauso sincero del Gran Maestro Raffi (Gol). E l’Associazione mazziniana presieduta da Maurizio Viroli (“Circa il 30 per cento dei nostri 3 mila soci sono massoni, come Giuseppe Mazzini”), ha nominato Ciampi socio onoraria.
Non mancano dunque i presupposti per un risveglia della massoneria nei quartieri alti dell’establishment italiano. Se non appare molto coerente con le ambizioni del governo Berlusconi la battaglia promossa dal Grande Oriente d’Italia per rafforzare la scuola pubblica, piacciono certamente alla massoneria internazionale la spinta fi- e la politica liberista in economia.
Forte è da sempre nelle università, dove le cordate di Fratelli dominano i concorsi pubblici e le promozioni in cattedra soprattutto nelle facoltà di Medicina (i “si dice> sono tanti, ma nessuno si arrischia di fare i nomi in pubblica). Le voci corrono tuttora nei settori militari, dei servizi segreti, nell’amministrazione pubblica in generale, si stemperano nel mondo “spaventato” della Giustizia.
E l’ultimo tam tam riguarda niente meno che le nomine della Rai, dove presidente e direttore generale “non sarebbero malvisti” dalla massoneria.
I “NON OSTILI DEL NUOVO GOVERNO
II presidente del Consiglio Silvio Berlusconi: era iscritto alla loggia P2, attualmente è “in sonno”.
Ex aspirante
ll ministro dalia Difesa Adonio Martino: chiese l’iscrizione alla P2, ma non fece in tempo a entrarvi.
Buoni rapporti.
II neoministro degli Interni Giuseppe Pisanu: aveva rapporti stretti con Armando Corona, ritenuto l’epuratore di Gelli e guida del Goi dopo la P2.
18 luglio 2002 – MASSONERIA E P2: INTERVISTA COSSIGA
“Sette”, settimanale del “Corriere della sera”
Il settimanale “Sette” pubblica un lungo servizio (con richiamo in copertina, dove compare una foto del Gran Maestro Raffi), dal titolo
NEL MONDO DEI “FRATELLI” IL RISVEGLIO DELLA MASSONERIA
A margine del servizio compare un’ intervista all’ ex presidente Francesco Cossiga, di Claudio Lindner, della quale trascriviamo il testo:
Francesco Cossiga conferma: “Ho la sensazione che i “fratelli” abbiano ripreso influenza”. Un fatto di cui l’ex presidente non si rammarica:”Difendere la massoneria è una battaglia di libertà”, dice. E persino sulla P2………………
– Presidente, un intero scaffale della sua libreria è dedicato alla massoneria, solo un interesse politico-culturale?
– Il mio interesse per la massoneria è sorto soltanto per un motivo di libertà, così come a suo tempo condussero battaglie politiche sia Cesare Ruffini sia Antonio Gramsci quando il fascismo voleva sopprimere la massoneria”.
– Ma lei è massone?
– Ma no, sono di tutt’altra parrocchia. Lo era mio nonno oculista, Gran Maestro 33° grado di rito scozzese, arrivò ad essere tesoriere del Grande Oriente d’Italia. Morì a 92 anni con un rimpianto: non riuscire a votare il 2 giugno per la Repubblica.
– E poi?
– Nella mia famiglia c’era un ramo strettamente cattolico, antimassone. Mia zia giunse a tale faziosità dopo la scomparsa del nonno da distruggere ogni simbolo o ricordo della sua appartenenza all’istituzione….
– A Francesco Cossiga, ex presidente della Repubblica e protagonista degli ultimi 40 anni di politica italiana, l’argomento massoneria piace, lui si scalda subito.
– Ho visto montare questa favola della P2, non si comprenderà mai perché si è gonfiata e sgonfiata così rapidamente. Ha lasciato persone distrutte: alcune, altre no…..
– C’erano anche tentazioni golpiste nella P2?
– Ma per carità. La P2 era prevalentemente un’associazione di mutuo soccorso, e poi esisteva lo spirito di sovversione degli americani nel caso i comunisti fossero andati al governo. Sa dove è nata l’idea della P2?
– Me lo dica lei.
– Un grande massone non piduista mi ha raccontato che tutto nacque nella residenza dell’ammiraglio comandante della VI Flotta a Napoli. Il vero scopo era quello di mettere insieme i militari e i “civil servant” più filoamericani, Licio Gelli doveva essere l’organizzatore. Quando non serviva più, gli americani l’hanno mollata.
– Nella storia della massoneria internazionale l’élite militare ha sempre avuto un certo peso.
– Assolutamente sì. Anche in Italia. L’arma dei carabinieri, per esempio, ha come principio base la fedeltà, caratteristica fortissima fra i massoni. Ma non solo: quando ero sottosegretario alla Difesa nel 1966 venne nominato capo di Stato Maggiore della Marina un generale calabrese e mi ricordo un sussurrare un po’ scandalizzato negli ambienti militari perché era un cattolico.
– Presidente, parliamo di oggi. Gelli è ora riapparso, Gran Maestro onorario nell’Obbedienza del principe Paternò.
– Sì, negli ultimi mesi la massoneria internazionale ha completamente riabilitato Gelli perché si ritiene che fosse stato oggetto di persecuzione. E lui continua ad essere un uomo influente e importante della massoneria italiana, anche se è un uomo prudente che ha incassato tutto.
– Presidente, ma quanto conta oggi la massoneria in Italia?
– Ho la sensazione che abbia ripreso influenza. Sempre più spesso sento dire; “Quello è un massone”. Intendiamoci, ci sono persone degnissime, come il mio amico Roversi Monaco, rettore dell’Università di Bologna che per questo ebbe anche l’umiliazione di un’inchiesta giudiziaria. Ho la certezza che i miei amici ministri lo siano, ma non faccio i nomi perché essere massoni in Italia sembra una cosa disonorevole.
– A proposito di battaglie per la libertà, la Corte di Giustizia di Strasburgo ha dato ragione al Grande Oriente che aveva fatto ricorso contro due casi di discriminazione.
– Sì, e la cosa “bella” è che la sentenza di Strasburgo è stata impugnata dal governo presieduto da un ex piduista e che conta molti ministri massoni. Lo dico con rispetto, mio nonno era massone……
Claudio Lindner
La lunga lotta contro mafia e P2
di ANTONIO MEREU
Nel week-end dal 6 all’ 8 agosto di 20 anni fa si consumo’ il fallimento del Banco Ambrosiano. La mattina del 9 agosto inizio’ la sua resurrezione sotto la sigla di Nuovo Banco Ambrosiano. La principale banca privata d’ allora, devastata dalle manovre spregiudicate di Roberto Calvi e del vescovo Marcinkus, venne risanata e rilanciata per volonta’ ferma di tre protagonisti: il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, il governatore della Banca d’ Italia Carlo Azeglio Ciampi, Giovanni Bazoli, esponente della sinistra cattolica bresciana, temprata alla scuola di Giovan Battista Montini. Andreatta e Ciampi imposero il professor Bazoli come presidente del Nuovo Banco Ambrosiano, questi prese in mano una banca fallita e in vent’anni l’ha trasformata nella Intesa-Bci, la maggiore banca italiana per sportelli e raccolta. Ciampi e Bazoli (purtroppo Andreatta giace nell’incoscienza colpito da un ictus) ricordano con nostalgia quei momenti, consapevoli dei rischi corsi ma anche d’avere dato una soluzione esemplare ad una bancarotta i cui costi non sono stati pagati dai contribuenti, contrariamente a quanto è avvenuto negli Usa con le vicende delle casse di risparmio, del Fondo Ltcm, o di quanto può accadere nei casi di Enron, Worldcom, J.P. Morgan, Citygroup.
La devastazione del Banco Ambrosiano non provenne dall’invasione di Hyksos, improvvisamente apparsi e subitaneamente scomparsi. Le evoluzioni volte ad impadronirsi dei centri finanziari ed editoriali presero le mosse all’inizio degli anni Settanta e lasciarono rovine finanziarie e morali. Una sigla, P2, caratterizzò le iniziative. Le sue mire, probabilmente sotto altre specie, influenzano ancora la politica, la finanza, l’editoria, scomparendo e riaffiorando come i fiumi carsici.
Alla fine degli anni Sessanta si cercò il riassetto dei poteri industriali e finanziari, nel quadro della riorganizzazione del sistema politico-statuale e del capitalismo italiano, attraversati dalla crisi organica del blocco dominante. Erano gli anni del timore del sorpasso elettorale del Pci nei confronti della Dc. Si presentava alla ribalta Bettino Craxi, proteso ad occupare un ruolo determinante nel sistema politico-sociale-economico. Il leader del Psi cercò di erodere la forza della Dc nelle banche, nelle Partecipazioni statali, nella Rai e nell’editoria, nei rapporti con la Confindustria, mentre promuoveva l’ascesa televisiva di Silvio Berlusconi.
Era la stagione dei Cefis, Ursini, Rovelli, Sindona, Di Donna, Fiorini, Tassan Din, dei grandi affari disastrosi di finanzieri spregiudicati, di boiardi ribaldi. Gaetano Stammati, P2, venne imposto alla presidenza della Comit al posto di Raffaele Mattioli, Fausto Calabria, P2, alla presidenza della Mediobanca, Di Bella, P2, alla direzione del Corriere. Boiardi e politici puntellavano le rispettive carriere, salivano alla ribalta brasseurs d’affaires e burattinai, Gelli, Ortolani, Pazienza, Carboni, elementi di collegamento tra politica-servizi segreti-business-malavita-crimine organizzato. Nelle vicende dell’Ambrosiano ebbe un ruolo significativo la banda della Magliana, la mafia usò ed eliminò Calvi e Sindona.
La Banca d’Italia mise in luce i malaffari di Sindona, Calvi e Marcinkus, ma tutto fu messo a tacere. Pagarono il fio del loro corretto agire uomini coraggiosi e integerrimi che avevano a cuore la res publica. Ambrosoli fu ucciso dalla mafia italo-americana, il rimpianto Paolo Baffi e Mario Sarcinelli perseguitati.
In questa temperie Andreatta, Ciampi, Bazoli, salvarono l’Ambrosiano, impedirono l’imposizione di “protezioni” sul Corriere della Sera, che si voleva lottizzare secondo il metodo collaudato alla Rai e nelle Partecipazioni statali. La migliore borghesia lombarda (Leopoldo Pirelli, Francesco Cingano, Lucio Rondelli, Enrico Cuccia, Guido Artom, Giancarlo Lombardi) seppe reagire, seppure tardivamente, aiutando Andreatta, Ciampi, Bazoli, dinanzi alle pressioni politica-P2, nel risanamento finanziario-morale delle banche e del principale gruppo editoriale italiano.
COMUNICATO ASSOCIAZIONE FAMILIARI VITTIME STRAGE BOLOGNA SU ESTRADIZIONE GELLI
L’estradizione di Licio Gelli, Gran Maestro della Loggia Massonica P2, per il reato di depistaggio decisa dal Governo Francese è motivo di grande soddisfazione per i Familiari delle Vittime che vedono cadere il muro di protezione politica nei confronti di chi ha fomentato ed attuato l’intossicazione delle indagini sulla Strage del 2 Agosto 1980, che causò 85 morti e 200 feriti.
Ci si augura che chi ancora, in Italia, si attarda a sostenere l’ingiusta tesi assolutoria portata avanti personalmente da Licio Gelli e dai suoi sostenitori abbia, per il futuro, la dignità di tacere.
“Il Nuovo”
Estradizione per Gelli: potrebbe tornare in carcere
Il Consiglio di Stato francese ha concesso l’estradizione all’ex capo della P2 che, ora, potrebbe tornare dietro le sbarre. Deve scontare 10 anni per il depistaggio nelle indagini sulla strage alla stazione di Bologna.
MILANO – Licio Gelli potrebbe tornare in carcere. Il Consiglio di Stato francese ha votato a sorpresa l’estradizione dell’ex capo della P2, condannato a dieci anni per i depistagli sulla strage alla stazione di Bologna del 2 agosto del 1980. Ora, Gelli si trova in stato di “detenzione domiciliare” per motivi di salute nella sua villa di Arezzo, dove sta scontando dodici anni di reclusione per la bancarotta del Banco Ambrosiano.
Licio Gelli, 83 anni, potrebbe quindi tornare in cella. L’ultima parola spetta però al Tribunale di Sorveglianza di Firenze, che dovrà valutare lo stato di salute dell’ex Venerabile Maestro. Di fatto, comunque, il verdetto dei magistrati francesi costringono Gelli a rimanere detenuto fino al 2013, quando avrà 94 anni. Il provvedimento del Consiglio di Stato d’Oltralpe, firmato un anno fa da Jospin, è ora inappellabile.
La memoria corta del Sig Silvio Berlusconi
L’Italia è l’ospite d’onore del prossimo Salone del Libro di Parigi. Da nove mesi a questa parte, il governo di Silvio Berlusconi moltiplica i segnali di una pericolosa deriva antidemocratica e di un ostentato disprezzo della cultura.
Ebbene, va detto e precisato ai nostri amici scrittori italiani inseriti nella lista ufficiale dei 61 autori invitati, che la loro presenza sarà coperta solo per il 50% dall’Italia, in particolare dal sottosegretariato ai Beni culturali di Vittorio Sgarbi e dal ministero degli Affari esteri di Silvio Berlusconi.
Di fronte a questa realtà, alcuni autori hanno immediatamente scelto la strada del rifiuto o hanno preferito venire a loro spese.Catherine Tasca (ministro della Cultura del governo Jospin, n.d.t.) ha dichiarato che non desiderava venirsi a trovare accanto a Berlusconi nel corso dell’inaugurazione.
Quest’ultimo ha reagito sdegnosamente, facendo sapere di non essere a conoscenza dell’esistenza della Signora Tasca. Una persona che, come lui, non ha mai potuto dare vere e proprie spiegazioni sull’origine della sua fortuna è necessariamente un po’ in difficoltà con la memoria: gli sarà quindi senza dubbio sfuggito di aver ufficialmente incontrato Catherine Tasca all’epoca del lancio di «La Cinq».
Il Signor Berlusconi ha quindi una memoria debole. Noi invece abbiamo buona memoria. Ricordiamo che è stato condannato per falsa testimonianza a proposito della sua iscrizione alla Loggia P2 (reato prescritto da un’amnistia del 1989); che è stato condannato in prima istanza a due anni e nove mesi di reclusione per tangenti alla Guardia di Finanza, prima di beneficiare in una prescrizione in appello; che fu condannato a due anni e quattro mesi di prigione per finanziamento illegale di partito politico, prima di beneficiare di una prescrizione in appello e poi in cassazione; che fu condannato a un anno e quattro mesi di prigione per falso in bilancio prima di beneficiare di una prescrizione del reato in appello.
Egli è ancora coinvolto in diversi processi attualmente in fase di appello o ancora in corso in Italia, ed è accusato di frode fiscale in Spagna. Aggiungerei che il Signor Berlusconi non ha mai intentato causa agli autori del libro «L’odore dei soldi», Elio Veltri e Marco Travaglio: un documento con affermazioni schiaccianti, in cui il fantasma della mafia è onnipresente…
Berlusconi ha fatto sapere che non sarà presente all’inaugurazione del Salone del libro, in quanto occupato altrove. Allora, si volta pagina? No, dato che il suo sostituto sarà Vittorio Sgarbi. Anche qui ricordiamo che Vittorio Sgarbi, autore di alcune clamorose dichiarazioni durante questi ultimi mesi (tra cui «l’arte escremenziale» a proposito di un centro di arte contemporanea…), fu condannato nel 1996 a sei mesi e dieci giorni di reclusione per truffa aggravata e produzione di documenti falsi.
Del resto, egli ha accumulato tante condanne per diffamazione, in particolare contro magistrati (ha dato dell’assassino al giudice Di Pietro e al pool Mani Pulite di Milano), che deve la sua attuale libertà unicamente all’immunità parlamentare di cui gode. Il Signor Eyrolles, lo zelante Presidente del Sindacato nazionale dell’editoria (SNE) esprimerà anche a lui il «suo spirito di amicizia e di complicità»?
Per quanto riguarda l’idea secondo cui non bisogna confondere i libri e la politica, si tratta di una vera e propria idiozia che la storia ha spesso smentito. Il potere simbolico in gioco nell’editoria allontana immediatamente qualsiasi forma di innocenza. Non vi è quindi il rischio che alcuni degli autori invitati diventino veri e propri alibi? Durante la conferenza di presentazione, Sgarbi non si è fatto sfuggire l’occasione per parlare di «lista di sinistra» come prova di apertura di spirito.
L’Italia sta dando lo spettacolo di un deterioramento della democrazia ad opera dell’affarismo. In nove mesi di esercizio del potere il governo Berlusconi ha posto come priorità la difesa della situazione del suo “padrone” in un conflitto di interessi che è andato via via aggravandosi.
Già proprietario delle tre principali reti televisive private, Berlusconi, da perfetto Tartufo, ha annunciato la sua intenzione di privatizzare due delle tre reti pubbliche della Rai, ma a condizione che i loro conti siano risanati, cosa alla quale lui stesso fa ostruzione.
L’obiettivo è chiaro: mantenere la Rai in uno stato di concorrenza controllata, per non dire indebolita, sul mercato pubblicitario.Tra le leggi che Berlusconi ha fatto adottare di gran carriera alcune gli consentiranno di sfuggire alla giustizia: si tratta della depenalizzazione del falso in bilancio (il reato non è più punibile con la prigione, e il periodo di prescrizione è stato ridotto a sua misura…).
E le cose sono ancora più chiare con la legge sulle rogatorie: autentica di ogni pezzo di carta con un timbro, esigenza di documentazione originale (cosa impossibile quando si ha a che fare con delle contabilità su supporto informatico), rigida conformazione al codice di procedura italiano, in assenza della quale tutto il fascicolo può essere invalidato, e tutto ciò con effetto retroattivo: si tratta di pseudo-difese pignole del diritto del cittadino, che offrono di fatto la possibilità tecnica di annullare dei fascicoli compromettenti per lo stesso Berlusconi. Come non ricordare l’Ubu Re di Alfred Jarry (scrittore francese 1873-1907, n.d.t.) e la sua battuta: «Sbrigatevi, più veloci, voglio fare delle leggi adesso. Voglio prima di tutto riformare la giustizia, poi ci occuperemo delle finanze».
E parliamone delle finanze: detassazione dell’eredità delle grandi fortune (beneficio stimato per la famiglia Berlusconi: diverse centinaia di milioni di Euro); autorizzazione al rientro dei capitali esportati illegalmente senza doverne giustificare la provenienza, con la ridicola tassazione del 2,5%, avendo in cambio la garanzia di non avere alcun controllo fiscale su questi capitali per cinque anni. Nel momento in cui gli sforzi internazionali si concentrano sulle reti finanziarie del terrorismo, c’è di che rimanere senza parole.
E aggiungiamo poi: la drastica riduzione della protezione per i giudici anti-mafia di Palermo ma anche di Milano, per alcuni giudici al centro dei processi contro Berlusconi e alcuni suoi stretti collaboratori; una dichiarazione clamorosa del Ministro delle infrastrutture Pietro Lunardi “i clan mafiosi esisteranno sempre, dovremo convivere con questa realtà”.
E soprattutto un lavorìo quotidiano, attraverso la stampa o la televisione, tendente a delegittimare il mondo della giustizia e della cultura, sia con attacchi diretti, che con una teoria ossessiva del complotto, oppure con un esplicito disprezzo e la non considerazione di qualsiasi forma di competenza (vedi ad esempio la sostituzione del Direttore della Scuola nazionale del Cinema, Lino Micciché con Francesco Alberoni, autore di libri di successo sulla sociologia dell’amore…).
Questo regime di bugie, di deformazione e di disinformazione, di aggiustamenti a fini privati rappresenta una vera e propria minaccia per l’Europa. Sembra che non si tratti di vero e proprio fascismo. Non importa: non è certamente democrazia. La separazione dei poteri viene ogni giorno messa in discussione, l’informazione è ampiamente confiscata, la storia viene sottoposta a revisione. Vengono intitolate strade e targhe commemorative a Mussolini, si moltiplicano le manifestazioni in onore della Repubblica di Salò. L’incubo è diventato realtà.
Numerosi sono gli italiani che si aspettano un aiuto dall’Europa, e in particolare dalla Francia, dai suoi scrittori, dai suoi intellettuali. Il Salone del Libro è una buona occasione per manifestare questo aiuto. Ci si aspetta che gli editori diano prova di chiarezza: in fin dei conti, perché non invitano i loro autori a spese della loro casa editrice? Ci si aspetta anche una reazione da parte dei politici. Perché l'”esternazione” di Catherine Tasca non è più solo un segno di coraggio, ma un appello al risveglio di un’Europa che sembra sprofondare nello spirito di Monaco…
Il 28 novembre scorso, a Périgueux, in occasione di un vertice franco-italiano, Jacques Chirac ha dichiarato: “L’Italia è una grande democrazia, fonte di ispirazione in Europa: l’Italia e la Francia hanno, con tutta evidenza, una medesima visione degli affari”. Non sembra che sia stata misurata tutta l’ambiguità di una formulazione di quel genere.
Questo articolo di Bernard Comment, scrittore e saggista francese,
esce oggi in Francia su «Le Monde».
Traduzione di Silvana Mazzoni
http://www.theboot.it/pieczenikIT.htm
I giorni del complotto
Per i sempre più in vista revisionisti della storia della repubblica italiana il compito numero uno è senza dubbio quello di partecipare alla proliferazione dei cosiddetti “misteri d’Italia”. A prescindere da quelli legittimi che nascono da questioni reali, molto più frequenti sono quelli ricavati dal terreno mosso dalle ricerche per i fatti veri. La nuova Time Capsule sul caso Moro dovrebbe bastare per dimostrare come questi sterminati misteri sono la materia prima del revisionismo. I “misteri” servono per la mistificazione, per oscurare la verità e avallare le fantasie degli indecisi o poco informati. Guardiamo il periodo della presente Capsula del tempo, 1994. Avrebbe dovuto essere l’annus mirabilis del caso Moro, misteriosissimo sin dal suo tragico inizio in Via Fani. Finalmente uno dei misteri fondamentali stava per essere sciolto, anzi, due: il chi e il come dell’assassinio di Aldo Moro. Si trattava dell’imminente pubblicazione di un libro di memorie scritto dall’uomo che aveva ideato, capeggiato e gestito il sequestro Moro. Era il brigatista Mario Moretti, già condannato all’ergastolo proprio per quel delitto, ma che fino ad allora non aveva mai parlato.
Io, quel mese d’aprile del ’94, sono stato invitato dal New York Times a recarmi a Roma per scrivere un articolo di aggiornamento sul caso. Il sequestro Moro non ha mai cessato di suscitare interesse all’estero, almeno nei paesi membri della NATO. A Roma, grazie alla collaborazione delle giornaliste Rossana Rossanda e Carla Mosca che curavano il libro di Moretti – e cercavano di tenere inediti i suoi segreti fino al giorno della pubblicazione – sono riuscito ad avere sia una copia delle bozze sia un’intervista telefonica con l’ergastolano-autore. Fu lo stesso New York Times introducendo il mio articolo ad aggiungere un suo inedito. Scriveva: “Sono stati gli alleati politici di Aldo Moro che lo hanno lasciato morire. Perché?”1
Dunque, un commento durissimo che andava ben oltre quegli “alleati” fino ad arrivare a una rarissima autocritica. Segnalava, infatti, un drammatico riconoscimento dell’abbandono universale dello statista italiano. La politica adottata dal suo partito – quella che non fu altro che un’aderenza cieca a una linea dura mai sperimentata da nessuna parte – era disastrosa. Era però una politica possibile dovuta al consenso dato loro da una stragrande maggioranza emersa subito con risvolti maccartisti. Ciò nonostante, aveva un appoggio fortissimo in tutti i centri di potere dell’occidente, fra cui si contavano i più prestigiosi quotidiani degli Stati Uniti, con il Times in testa. Ora, però è proprio il giornale newyorkese a rompere un lungo silenzio in una clamorosa critica. Con una parola sola, il “perché” del commento, il Times smontava la barriera del chi e del come – lasciando scoperta la questione determinante, il perché. Ora, trovare la risposta potrebbe far crollare il muro di misteri del caso Moro.
Ma i revisionisti, si sa, sono bravi muratori; demolito un muro, ne costruiscono un altro. Finiti i giorni dell’ira, cominciano i giorni del complotto. Tuttavia questa bravura, in quel lontano 1994, era tutta da verificare. A Roma si parlava già dell’ultimo complotto, di un uomo dei misteri, dei documenti compromettenti, una specie di burattinaio, un Grande Vecchio, ma più grande che vecchio, non italiano ma americano. Perciò, appena rientrato negli States, mi sono messo a cercare questo mio connazionale. Si chiamava Steve Pieczenik — al tempo del sequestro Moro mandato dagli USA per motivi ancora da chiarire. Lo conoscevo; lo avevo intervistato brevemente a Washington nel primo dopo-Moro, e ora lì andavo di nuovo per trovarlo. Era un buon inizio, ma come finirà? Troverò un burattinaio oppure un burattino?
La Time Capsule che segue è il testo integrale di un articolo mio apparso su Panorama del 13 agosto 1994. Le novità che avevo raccolto sembravano una risposta devastante alle ultime pretese dei revisionisti, ma, come il lettore vedrà, nel mondo che sta dentro lo specchio scuro del revisionismo non esiste una nuova risposta senza due nuovi misteri. – RK
ra i misteri del caso Moro, uno dei più appassionanti riguarda il ruolo giocato dal consulente americano presso il governo Andreotti, il dottor Steve R. Pieczenik, inviato a Roma da Washington. Tra marzo e giugno [1994], ho realizato con lui una serie di interviste e in quell’occasione, cercando una sorta di conclusione definitiva, Pieczenik ha infranto il silenzio che per 16 anni ha protetto il suo soggiorno romano – silenzio imposto prima dal governo e successivamente da una decisione di ordine personale. Per certi versi il mistero non fa che infittirsi, ma in molti casi le sue rivelazioni gettano nuova luce sul lato più oscuro dell’affare Moro.
Il 16 marzo 1978, a poche ore dalla sanguinosa imboscata tesa in via Fani al presidente della Dc, in cui cinque delle sue guardie del corpo persero la vita, l’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga radunò al Viminale le alte gerarchie ministeriali, militari e dei servizi segreti, creando tre comitati di crisi destinati a costituire il centro nevralgico degli sforzi compiuti da Roma per salvare il sequestrato. Una delle task torce a cui Cossiga avrebbe partecipato in maniera più diretta si chiamava Gruppo ristretto per la gestione della crisi ed era composta da una squadra scelta di esperti comportamentisti. Il ministro ricordava vagamente la storia di uno psichiatra americano, il cui ruolo si era rivelato fondamentale nella risoluzione di una grave vicenda di terrorismo negli Slali Uniti. Chiese all’ambasciatore statunitense di occuparsi della questione in tutta segretezza e l’uomo fu presto identificato da Washington come un certo dottor Pieczenik.
Si trattava di un funzionario del Dipartimento di stato, vicesottosegretario, nominato da Henry Kissinger e in servizio presso l’amministrazione Carter, sotto la guida di Cyrus Vance. In qualità di specialista del governo americano nella microgestione di sequestri ad alto rischio, Pieczenik si recò a Roma all’apice del successo. Trentaquattro anni, psichiatra formatosi ad Harvard e dottore in scienze politiche congedato dal Mit, aveva da poco affrontato con esito positivo due gravi emergenze terroristiche. Tuttavia, considerava il rapimento compiuto dalle Brigate rosse come il tentativo sino ad allora più pericoloso di destabilizzare una democrazia occidentale.
Giunto nella capitale poco dopo il giorno in cui le Br fecero circolare la prima fotografia di Moro prigioniero, Pieczenik ricevette in dotazione una Beretta, un soprabito antiproiettile e un alloggio sicuro. Dietro richiesta di Cossiga, la sua presenza in Italia venne tenuta segreta. Trascorse così tre settimane immerso 12 ore al giorno in consultazioni. Quindi, mentre le operazioni proseguivano, rientrò a Washington, dove definì «encomiabile» l’atteggiamento adottato da Roma. In realtà si trattava di cortesia diplomatica, di un parere lontano anni luce da ciò che la difficile esperienza italiana gli aveva suggerito.
Fin dal giorno della sua partenza, l’uomo di Washington a Roma è rimasto coinvolto nella trama delle più complesse teorie cospirative sull’assassinio Moro, Alcuni sostengono, e fra questi membri delle commissioni parlamentari che affrontarono il caso, che l’americano sia stato il padrino della singolare strategia di assoluta intransigenza, la cosiddetta linea della fermezza, religiosamente seguita dal governo italiano. L’ex senatore Sergio Flamigni, per esempio, membro della commissione Moro (e delle commissioni P2 e Antimafia), nonché enciclopedia vivente sul caso, ha avuto ampi molivi per ritenere che Pieczenik fosse la longa manus di Kissinger incaricato di assicurare la fine di Moro.
A pochi giorni dallo sbarco di Pieczenick nella capitale, lo stesso Moro chiedeva nell’amara lettera a Paolo Emilio Taviani se la linea dura non fosse stata per caso imposta dall’America: in seguito, avrebbe parlato dell’animosità che Kissinger covava nei suoi riguardi. In una delle sue ultime minacce di rivelare i segreti sul caso Moro (che lo hanno invece accompagnato nella tomba con l’omicidio del 1979) Mino Pecorelli, giornalista superinformato, lasciava intendere di conoscere particolari sinistri sulle attività di Pieczenik al Viminale. Fu l’anno in cui riuscii a strappare al reticente americano una breve intervista per il mio libro I giorni dell’ira, dove riferivo di quello che sembrava essere stato il suo ruolo nella cosiddetta «strategia dell’inattività» di Cossiga. Successivamente, nel 1981, quando venne sequestrata la famosa lista P2 e si scoprì che i comitati di crisi di Cossiga brulicavano di mèmbri della sovversiva loggia massonica di Lido Gelli, l’ipotesi che Pieczenik fosse venuto da lontano per nuocere a Moro parve acquistare ulteriore consistenza. Infine, a rafforzare la teoria provvide nuovamente nel 1986 il film di Giuseppe Ferrara, intitolato Il caso Moro e basato sul mio libro.
Il lungo silenzio dell’americano ha di per sé concorso ad amplificare la sua immagine di eminenza grigia, ma del resto nemmeno Roma si è mai mostrata disponibile a chiarire quella che fu la vera natura della sua missione. Chiamato a deporre davanti alla commissione Moro, e molto più tardi alla commissione Stragi, Cossiga ebbe a lodare il contributo fornito da Pieczenik, senza tuttavia scendere in particolari. Inoltre, tranne rare eccezioni, il contenuto degli archivi dei tre comitati di crisi scomparve senza spiegazione plausibile quasi immediatamente dopo la morte di Moro, dando vita a un ennesimo mistero.
Tuttavia, su richiesta della commissione Stragi, nel 1992 l’allora ministro dell’Interno Vincenzo Scotti condusse “un attento esame degli atti esistenti presso questo ufficio”, durante il quale venne alla luce un rapporto riservatissimo attribuito a Pieczenik. Il documento, di 14 pagine, faceva parte di un gruppo di cinque memorandum e di appunti – 57 pagine in tutto – che si ritenevano essere stati scritti al tempo della crisi Moro da reperti identificati nellepersonne del professori Steve Pieczenik, Franco Ferracuti, Stefano Silvesstri e Giulia Conte Micheli. Il rapporto Pieczenik, dattilografato in italiano e apparentemente tradotto dall’inglese, si intitola «Ipotesi sulla strategia e tattica delle Br e ipotesi sulla gestione della crisi» e tende a confermare il ruolo di freddo calcolatore svolto dallo psichiatra americano, capace di concepire schemi crudeli e diabolici da contrapporre ai prodigiosi sforzi epistolari con cui Moro cercava di negoziare il proprio rilascio.
Ma ancora più spieiato appare forse il modo in cui si suggerisce a Cossiga un sistema per promuovere l’idea che Moro avesse «in effetti (…) subito un lavaggio del cervello». Fra le raccomandazioni contenute nel rapporto: «Ricercare dichiarazioni di amici intimi e colleghi di Moro che dimostrino quanto egli avesse sostenuto l’attuale governo e la sua decisa presa di posizione», Che qualcuno, se non Cossiga stesso, lo abbia giudicato un magnifico consiglio, lo si deduce dalla dichiarazione del 25 aprile firmata dagli amici più cari di Moro (75 fra uomini e donne), dichiarazione da Leonardo Sciascia definita una «protesta mostruosa… incivile». «Non ritenevano, gli amici di Moro, di ravvisare nella lettera inviala a Zaccagnini, personalità di Moro». Indignato e chiaramente ferito, così rispondeva Moro il 29 aprile: «E devo dire che mi ha profondamente rattristato (non l’avrei creduto possibile) il fatto che alcuni amici… abbiano dubitato dell’autenticità di quello che andavo sostenendo, come se io scrivessi su dettatura delle Brigate rosse. Perché questo avallo alla pretesa mia non autenticità?».
urante l’incontro con Pieczenik a Washington, dove è consulente privato sulle questioni di politica estera presso l’United States institute of peace, curioso di sapere se conservava una copia dell’originale, gli chiesi del rapporto. «Non ho mai lasciato un rapporto scritto su una crisi» rispose. «E il perché è molto semplice: i rapporti scritti rivelerebbero particolari del mio operato, rischiando così di compromettermi e di cadere nelle mani di potenziali terroristi». Sebbene lo giudicasse un atto assolutamente scorretto, non si sentì tuttavia di escludere la possibilità che qualcun altro fra i presenti alle riunioni del Viminale avesse preso appunti sulle sue dichiarazioni e in seguito li avesse compattali in un unico documento stilato in suo nome.
Ma solo dopo essermi personalmente recato a Roma e avere letto una copia integrale del rapporto mi resi conto non solo che Pieczenik poteva non averlo scritto, ma che nessuno poteva avergli mai sentito fare simili affermazioni. Mi bastò leggere una singola riga della settima pagina di quel disordinato fascicolo: «Siamo colpiti dagli ultimissimi sviluppi della situazione» sostiene l’autore «… cioè del loro (le Br, ndr) ultimatum nel quale si richiede lo scambio di Moro contro 13 prigionieri attualmente rinchiusi nelle carceri italiane…». Si tratta di un inconfondibile riferimento al comunicato numero 8, rilasciato dalle Br il 24 aprile. Ma il presunto autore del rapporto aveva abbandonato l’Italia il giorno 15, dato confermato da incontrovertibili prove documentarie che lo volevano a Washington.
Quando mostrai il documento a Pieczenik, decidemmo di rianalizzarlo passo per passo. Lo trovò zeppo di interpretazioni fallaci e alla fine lo bollò come un falso di pessima fattura. “Se avessi avuto a disposizioni 13 prigionieri per i negoziati” commentò quando giungemmo alla fatidica riga «avrei potuto tirare fuori Moro!». Parve inoltre particolarmente risentito all’idea che gli avessero attribuito la paternità della campagna di discredito presso gli amici di Moro. «Io ho salvato 500 ostaggi dalle mani dei terroristi» protestò «e non ho mai fatto nulla del genere». Inoltre, continuò, come strategia era fallimentare. Se da un lato è sempre utile ridimensionare l’importanza politica dell’ostaggio, infatti, dall’altro «cerco anche di aumentarne il valore sul piano umano».
Ma cos’era accaduto realmente all’epoca del viaggio di Pieczenik a Roma? Oggi quest’uomo robusto e di mezza età è infine libero di raccontare la sua missione in Italia. «Qualche giorno dopo il rapimento» iniziò «il sottosegretario di stato Ben Reid mi chiese se ero disposto a recarmi in Italia, su invito di Cossiga, per mettere a punto tattiche e strategie di gestione della crisi. Il mio compito era andare in Europa, fornire a Cossiga il massimo aiuto possibile e tornare a casa. Pensi che non ricevetti nemmeno istruzioni specifiche dall’Ufficio affari italiani del Dipartimento di stato. Fu un particolare significativo, perché l’importanza attribuita a un certo paese è deducibile anche dalla quantità di informazioni che su di esso vengono fornite: i dati che mi misero in mano erano scarsissimi, niente più che ritagli di Time e Newsweek, una cosa patetica, e anche il briefing con la nostra ambasciata a Roma fu alquanto lacunoso».
Durante il primo incontro, Cossiga si mostrò di poche parole. Come riferito da Pieczenik, il ministro disse che c’erano in gioco le sorti della De: a seconda dell’esilo della crisi, il partito rischiava di crollare, e in quel caso i comunisti avrebbero preso il potere. Pieczenik rimandò ogni giudizio al giorno in cui avesse avuto a disposizione maggiori elementi. Le riunioni avvenivano quotidianamente in una sala accanto all’ufficio di Cossiga, e i due uomini si parlavano in un misto di francese, spagnolo e di quel poco di italiano che l’americano era in grado di comprendere. Spesso, erano presenti altri mèmbri del gruppo di esperti di gestione delle crisi, e uno di essi, lo psichiatra e criminologo Franco Ferracuti, faceva da interprete.
Nel corso di ulteriori riunioni con i vertici dei servizi segreti e delle unità di crisi, Pieczenik conobbe un gran numero di persone di cui gli è oggi impossibile ricordarsi. «La cosa che più mi metteva a disagio» mi raccontò «erano tutte quelle persone che continuavano a entrare e a uscire. Cossiga mi diceva: questo è un membro del Sismi o del Sisde, questo è il generale Tale, era un viavai incessante. Mi facevano domande sull’hardware, che genere di anni avremmo dovuto impiegare, se era il caso di ricorrere ai gas lacrimogeni… tutte questioni di ordine militare e paramilitare di cui io non mi occupavo affatto.
«Ciò che invece constatai, e su quel punto Cossiga si disse d’accordo con me, era l’assoluta incapacità di affrontare la vicenda terroristica sia sul piano delle attrezzature, sia su quello del software, dove per software intendo i negoziati, cioè le strategie e le tattiche, la chiave per interpretare e rispondere ai comunicati, per individuare le scollature fra contenuto manifesto e ciò che vi si celava dietro». «Il mio obiettivo principale è sempre stalo salvare gli ostaggi facendo pagare allo stato, o all’istituzione colpita, il prezzo minimo indispensabile. Anche a Roma, dunque, ritenni fondamentale conservare un atteggiamento strategico contro le concessioni, creando al contempo le premesse per ciò che chiamiamo flessibilità tattica. In altre parole, si tratta di tirare fuori l’ostaggio facendo leva sull’aspetto umanitario della questione, e in cambio di ciò si prendono in esame argomenti di natura diversa. È un modo per salvare la faccia a tutti. Il governo avrebbe sempre potuto dire: “Noi non abbiamo fatto alcuna concessione, abbiamo solo agito in base a considerazioni di ordine tattico”, e dal canto loro le Br potevano affermare. “Lo abbiamo rilasciato per motivi umanitari”. Si tratta di cercare una soluzione che soddisfi ambo le parti.
«Per quanto riguarda il caso Moro, suggerii di trovare l’intermediario adeguato. Ciò che dissi a Cossiga e agli altri fu:. “Raccogliete le informazioni necessarie a individuare l’intermediario più appropriato – come per esempio il Vaticano, o la Croce rossa internazionale – che possa a pieno titolo essere legittimato da entrambe le parti”. Solo così si ottiene vero potere contrattuale, perché ci si mette in posizione di controllo. Allora si possono anche fare le concessioni necessario a tirare fuori Moro senza perdere la faccia». Più vicina, dunque, alle proposte dello stesso Moro che non alla linea della fermezza, la strategia avanzata dal consulente americano trovò ad accoglierla reazioni ambigue. «Mentre offrivo loro i primi consigli e mi guardavo intomo in cerca di un intermediario, cominciai a rendermi conto che fra quanto io dicevo e quanto veniva realizzato c’era discontinuità, esisteva una discrepanza. Loro rispondevano: “Sì, sì certo, lo faremo”, ma poi non succedeva niente».
Rammentai a Pieczenik che nella lettera del 29 marzo indirizzala a Cossiga, lo stesso Moro aveva auspicato l’intervento del Vaticano, e in seguito i suoi famigliari avevano esercitato pressioni affinchè Andreotti chiamasse in causa la Croce rossa. Sebbene il Vaticano avesse dichiarato la propria disponibilità, entrambe le strade erano però slate bloccale: la prima per opera dei democristiani, la seconda proprio per mano di Giulio Andreotti. A questo proposito, il mio interlocutore si limitò a stringersi nelle spalle e a riportarmi un incidente occorso al Viminale che l’aveva lasciato letteralmente disorientato.
«Ci fu una cosa che emerse in maniera chiarissima, e che mi sbalordì. Io non conoscevo l’uomo Aldo Moro, dunque desideravo farmi un’idea di che persona fosse e di quanta resistenza avesse. Ci ritrovammo in questa sala piena di generali e di uomini politici, tutta gente che lo conosceva bene, e… ecco, alla fine ebbi la netta sensazione che a nessuno di loro Moro stesse simpatico o andasse a genio come persona, Cossiga compreso. Era lampante che non stavo parlando con i suoi alleali».
«C era molta ambivalenza, era un gioco che andava ben al di là del salvataggio di Moro. E comunque non ebbi mai l’impressione che lo drogassero o che gli stesse dando di volta il cervello». Riferimento all’idea abbastanza generalizzata che Moro scrivesse sotto l’effetto di droghe o fosse spiritualmente e moralmente distrutto. Quando ricevettero la sua prima lettera, Cossiga e Andreotti avevano già deciso che quella e tutte le successive sarebbero state considerate come altrettanti prodotti di un’estorsione, e dunque «moralmente non imputabili» al loro autore. Promotore della teoria di un Moro drogato e vittima di un lavaggio del cervello fu, come dimostrato dalle sue stesse, incontestate relazioni, il dottor Ferracuti, oggi defunto: in veste di esperto governativo, gli erano bastate le prime cinque lettere per diagnosticare l’avvenuto brainwashing tramite «tecniche analoghe a quelle utilizzate dai cinesi e dai nordcoreani». Ma Pieczenik giunse a conclusioni ben diverse. «Per me era chiarissimo» disse parlando dell’analisi compiuta sugli scritti di Moro«che si trattava di un uomo estremamente lucido e attento. Lo si capiva da riferimenti molto prevedibili e precisi contenuti nelle sue lettere, da piccoli dettagli, dai classici segnali preziosi. La mia unica ansia era che non subentrasse una forma di compromissione a livello fisico. Ma i servizi segreti mi assicurarono che aveva a disposizione un medico».
Il che, come scoprì in seguito, non era vero, ma ormai Pieczenik aveva imparato a diffidare di Ferracuti, e ben presto si ritrovò a diffidare di tutti coloro che lo circondavano. «Dopo un po’ mi resi conto che quanto avveniva nella sala riunioni filtrava all’estemo. Lo sapevo perché ci fu chi – persino le Br – rilasciava dichiarazioni che potevano avere origine soltanto dall’interno del nostro gruppo. C’era una falla, e di entità gravissima. Un giorno lo dissi a Cossiga, senza mezzi termini. “C’è un’infiltrazione dall’alto, da molto in alto”. “Sì” rispose lui “lo so. Da molto in alto”. Ma da quanto in alto non lo sapeva, o forse non lo voleva dire. Così decisi di restringere il numero dei partecipanti alle riunioni, ma la falla continuava ad allargarsi, tanto che alla fine ci ritrovammo solo in due. Cossiga e io, ma la falla non accennò a richiudersi».
«È palese che esisteva una molteplicità di intenzioni e di interessi, e a un certo punto mi vidi costretto a fare a Cossiga un discorso molto franco. “Ho la sensazione che a Moro sia stata tesa una trappola”. “Cosa intende?” chiese lui, e io gli risposi: “Bisogna ripartire da zero e stabilire chi avrebbe tratto vantaggio dal suo sequestro”. Così riconsiderammo tutti gli elementi a nostra disposizione, e a un certo punto gli dissi: “Sarò poco diplomatico ma molto obiettivo: lei come si giudica, Cossiga? Per quali motivi dovremmo escluderla dalla rosa dei candidati?”. Allora lui si mise a ridere e rispose: “No, no. Lui è stato il mio mentore, gli ero troppo vicino”. “D’accordo” feci io “anche se non è detto che la compri così come lei me la vende”. Quindi procedemmo nell’analisi, ma senza approdare a nulla».
Intanto, la situazione si deteriorava. «Ricordo che mi arrivavano informazioni contrastanti. Si diceva che Moro fosse a Roma, poi che era in altre zone dell’Italia. Considerato il dispiego di forze paramilitari, mi riusciva sempre più difficile credere che non potessero trovarlo, che non avessero indizi da seguire, e sommando questi dati alla fuga di notizie, capii che l’interà situazione era compromessa. Ciò che sospettavo, e fu il motivo per cui ripartii anzitempo, era che in realtà non gli interessava affatto tirare fuori Moro vivo. A quel punto seppi che la mia presenza a Roma aveva 1 unico scopo di legittimare ciò che stavano facendo, che io ero funzionale ai loro obiettivi. Mi resi conto che quanto stava accadendo riguardava una sfera di cui ufficialmente non avrei dovuto sapere nulla, che esulava dalla mia portata. Così dissi “Signori, vi ringrazio”. E me ne andai».
a la storia di Pieczenik non finisce qui. Ad attenderlo a Washington c’era un colpo di scena. «A ventiquattr’ore dal mio rientro, mi piombò in ufficio un consigliere politico dell’ambasciata argentina. Si mise a parlare della necessità di aiutare Buenos Aires ad affrontare i loro problemi terroristici. Era il periodo della giunta militare, un’epoca in cui 6 mila persone si trovavano rinchiuse in stato di carcerazione preventiva all’interno di uno stadio, così gli dissi che per nessuna ragione al mondo li avrei aiutati». Il «consigliere» (Pieczenik è convinto si trattasse di un agente segreto dell’antiterrorismo) non sembrava disposto ad accettare rifiuti. «Mi minacciò. Disse che si sarebbe rivolto al Segretario di stato», il quale gli avrebbe sicuramente imposto di obbedire. Ma Pieczenik fu inamovibile, e l’argentino uscì rabbiosamente dal suo ufficio per non farvi mai più ritorno. «La cosa incredibile fu scoprire che quell’uomo era al corrente di ciò che era accaduto nelle stanze romane di Cossiga. Sapeva esattamente cosa vi avevo fatto nelle ultime tre settimane, anche se avrebbe dovuto trattarsi di segreti. Non mi spiegò in che modo fosse venuto a conoscenza di tutto ciò, e l’unica cosa che potei fare fu dedurne che la fuga di notizie faceva rotta diretta verso l’Argentina». Ciò che lo infastidì in maniera particolare furono i modi del sedicente consigliere, come se la collaborazione del governo americano fosse scontata, un obbligo. «Parlava in tono arrogante e pieno di sottintesi, come se a unirci fosse stata l’affiliazione a qualche misteriosa confraternità». I conti gli sarebbero tornati solo tré anni più tardi, quando apprese dell’infiltrazione capillare da parte della P2 nei comitati di crisi del Viminale e del legame che univa Licio Gelli all’Argentina. «Ecco qual era l’anello mancante».
Chi fu l’autore del falso rapporto Pieczenik? E a che pro tenerlo segreto fino al 1992? Per lo stesso Pieczenik, molte delle raccomandazioni in esso contenute sarebbero di sapore piduista-ferracutiano. In una, per esempio, veniva consigliato al governo di diffondere nelle carceri torinesi che ospitavano il leader Renato Curcio e altri capi storici delle Br la voce di possibili attentati da parte delle autorità (sorte in cui allora si credeva fossero incorsi alcuni mèmbri della banda Baader-Meinhof reclusi a Stoccarda nella prigione di Stammheim). Una tattica che, come specificava il rapporto, sarebbe servita a tendere una trappola ai brigatisti in libertà, inducendoli a «sferrare un attacco contro la prigione per liberare i detenuti». «Sì, è proprio nello stile di Ferracuti, il criminologo» commentò Pieczenik. «Tirava sempre fuori idee del genere, una più bizzarra dell’altra».
D’altra parte, Pieczenik riconosce anche che alcuni brani del rapporto non sarebbero in contrasto con altrettante affermazioni da lui fatte all’epoca, e a questo proposito gli torna in mente che Ferracuti era stato prontamente bandito dagli incontri a tré con Cossiga che divennero così incontri a due. Nella sua deposizione di fronte alla commissione Stragi, il dicembre scorso, Cossiga si è reso garante del rapporto, arrivando persino a identificare i protagonisti anonimi del botta-e-risposta delle ultime cinque pagine: a chiedere era lui, Cossiga: a rispondere, Pieczenik. Per quanto mi riguarda, a Roma ho cercato più volte di intervistare Cossiga, informandolo del fatto che avevo già parlato di tutte queste cose con Pieczenik. Ogni tentativo è stato inutile.2
Con l’inaugurazione di un nuovo corso di indagini sull’autore fantasma del rapporto, oggi Pieczenik esce di scena, e prospettive inedite tornano ad aprirsi sull’affare Moro.
1 Il commento e il mio articolo— “The Education of an Assassin” — si trovano sul New York Times del 23 aprile 1994, pag. 25. Ora fa parte della Time Capsule “The Man Who Killed Aldo Moro”.
2 Una sua risposta ci fu, però. Appena uscito l’articolo, arriva una lettera al direttore del settimanale (“Cossiga su Katz”, Panorama, 20 agosto 1994, pag. 155), Cossiga cerca di sdrammatizzare l’importanza delle testimonianza fornita da Pieczenik – ma non smentisce i fatti specifici. Neppure la sua accusa più grave, quella di un contraffatto rapporto attribuitogli, da fastidio. Basta una revisione semantica. Si accena all’esistenza di una “relazione finale”. Tuttavia, non trova niente di bello. L’ex capo dello stato, dice di “essere meravigliato, fino a esserne scandalizzato, che una persona che ritenevo seria come il professor Pieczenik si sia lasciato andare a rivelazioni di così cattivo gusto … a meno che Katz non abbia inventato tutto o distorto le sue dichiarazioni”. Dall’altra parte, aggiunge, “debbo riconoscere che Steve Pieczenik, uomo di grande talento ha un po’ giocato a rimpiattino con Katz, tacendogli le cose serie”. Se dopo tutte queste “spiegazioni” ci fosse qualcuno ancora perplesso, Cossiga offriva “un’ultima analisi”: che Pieczenik si sente traditi dal governo italiano, non quello del tempo del sequestro Moro, ma le autorità odierna che ha lasciato uscire il Rapporto Pieczenik. Quindi, forse il brutto e il cattivo non siano quelli già menzionati. La colpa, in quel caso, va data a un governo “contravennendo a un preciso impegno preso con l’amministrazione americana”, ha reso pubblica la relazione di cui, conclude Cossiga, “Pieczenik fa bene a negare l”esistenza…”.
http://www.theboot.it/aldo_moro_it.htm
Gli anni dell’ira: Il caso Moro
e il terrorismo nascosto
Il 9 maggio di ventisei anni fa venne ucciso dalle Brigate Rosse Aldo Moro, vittima di un’azione terroristica assurda e di una reazione disastrosa del governo che portò all’Italia “l’onore” di essere il primo paese nel mondo ad adottare una linea di assoluta intransigenza. Soltanto negli anni successivi si scoprirà che per una parte del potere fu un disastro voluto, frutto di una fermezza impiegata quale arma del terrorismo di stato. E’ un episodio ormai passato alla storia, ma oggi tornato attuale davanti alle pretese di un terrorismo globale. Per offrire un punto di vista storico su questo fenomeno, presentiamo un brano – la Prefazione integrale – del libro di inchiesta di Robert Katz, I giorni dell’ira: il caso Moro senza censure. Scritto subito dopo la tragica conclusione della vicenda Moro, la prima edizione dell’opera originale uscì negli Stati Uniti nel 1980 col titolo Days of Wrath: the Ordeal of Aldo Moro. La traduzione italiana apparse quasi tre anni dopo, ma con documentazione e testimonianze ancora inedite in Italia. Nel libro l’autore si chiede se la morte dello statista potesse essere evitata senza compromettere le istituzioni. La sua risposta, avvalorata da prove inoppugnabili, è positiva. Soltanto l’intransigenza del governo, ispirata a calcoli politici, ha impedito la liberazione di Moro. In che cosa consistevano questi calcoli e come venivano imposti si è saputo nel ventennio successivi. E’ un epilogo allucinante. Esaminiamolo qui su TheBoot.it nelle prossime edizioni.
ldo Moro venne rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978 nel corso di un’operazione di guerriglia urbana. La mattina del 9 maggio venne ucciso mentre guardava negli occhi due assassini dal sangue particolarmente freddo. Nei cinquantaquattro giorni che trascorsero tra i due avvenimenti egli venne annichilito da un gruppo di uomini di quello stesso Palazzo di cui faceva parte.
Venne annichilito nel vero senso della parola, svuotato di ogni forza, ridotto a niente, e ciò anche per mano di un governo che era una sua creatura, di un partito politico da lui stesso presieduto, dalla prima maggioranza parlamentare in Europa occidentale comprendente un partito eurocomunista, da una massa di mezzi d’informazione che fecero scempio della verità in un clima di semicensura e, infine, da un consesso sorprendentemente acritico di esponenti dell’opinione pubblica mondiale i quali furono indotti a credere che il prezzo da pagare per la libertà del prigioniero fosse un qualche Grande Principio Democratico.
Non vi furono motivi personali per distruggere così Aldo Moro. Vi erano, sì, indicazioni che potevano far pensare che i suoi rapitori lo avrebbero costretto a «parlare». A prescindere dal timore che una simile ipotesi suscitava tra i suoi colleghi politici in un paese dove troppi scandali vengono lasciati impuniti, i servizi segreti di più di uno Stato membro della Nato erano preoccupati da ciò che avrebbe potuto rivelare un uomo che era stato cinque volte Presidente del Consiglio. Ma, più importante di qualsiasi altra considerazione, quale la salvaguardia di segreti nazionali o internazionali, che ispirava i tentativi di neutralizzare la minaccia rappresentata dalla cattura di Moro, si rivelò, durante quei cinquantaquattro giorni, proprio la stessa volontà dell’uomo più potente d’Italia di non accettare il ruolo di martire.
Coloro che ebbero influenza sulle decisioni, ivi comprese quelle persone pubblicamente accusate dalla signora Moro di avere provocato con atti di omissione la morte del marito, si comportarono certamente senza malizia e nella maggior parte dei casi andarono contro i loro sentimenti più profondi. L’annullamento di Aldo Moro, il suo abbandono fisico e morale da parte di una società che volle togliergli la propria integrità, fu il prodotto di una strana coincidenza di circostanze temporali e manovre politiche. Dal momento in cui le Brigate Rosse misero le mani sull’uomo che era Aldo Moro, egli cominciò a trasformarsi nella statua che sicuramente un giorno sorgerà in una piazza romana a lui dedicata. Il potere di Moro, per quanto formidabili fossero le forze che gli erano contrarie, non fu facilmente debellato. Dalla sua cella in un’isolata e nascosta «prigione del popolo», egli condusse una battaglia complessa, articolata ed intelligente che aveva come obiettivo la propria saldezza. Riuscì ad avere dalla sua parte in questa lotta non soltanto familiari ed amici riluttanti a seguire la maggioranza (tra gli altri il Papa, due ex capi dello Stato ed il segretario generale delle Nazioni Unite), ma anche, come vedremo, un settore delle stesse Brigate Rosse.
Egli rifiutò il ruolo di martire affibbiategli dai colleghi del Palazzo. Non vi sarebbe stata gloria alcuna nel sacrificarsi in nome di quel coacervo di interessi individuali che caratterizzano la scena politica romana. Era assai più dignitoso lottare bene per la propria salvezza con quel suo metodo profondamente politico, e allorché capì che la partita era perduta — in anticipo rispetto a quelli che lottavano al suo fianco — maledisse coloro che ipocritamente piangevano la sua morte, non assolse nessuno dalle proprie responsabilità e si accomiatò da tutti con semplicità. Morì come un antieroe, come un eroe del suo tempo.
Questa è la storia della sua lotta e della sua morte. È la storia — per quanto una serie di penose verità possano somigliare ad una storia — di come un uomo di potere e la sua famiglia ebbero come antagonisti la stessa coalizione politica che proprio quell’uomo aveva costituita e di come reagirono. Ciò che era cominciato come un melodramma di proporzioni grandiose — uno stupefacente colpo di mano in un’assolata strada romana — divenne in virtù di un’amara ironia una vera e propria tragedia degna della penna di un bardo.
Io non sono certo quel bardo, ma presi a interessarmi seriamente al caso dopo aver notato ripetutamente che alcuni degli aspetti della vicenda ai quali si è fatto cenno prima erano stati trascurati. Per di più, allorché tutto fu finito, il consenso nei confronti di una strategia inedita verso il terrorismo (pur se completamente errata) fu generale.
Così, quando il «Washington Post», ad esempio, lodando implicitamente questa strategia scrisse che i rapitori di Moro lo avevano deliberatamente «immerso sempre più profondamente in un abisso psicologico, dando poi notizia di questo suo decadimento progressivo mediante la pubblicazione delle sue lettere, sempre più affrante e disperate» divenne evidente quanto il quotidiano americano fosse lontano dalla verità e con quanta abilità a Roma si fosse riusciti a tenere celata questa stessa verità. Una grave ingiustizia diventava un errore storico, a livello internazionale si stabiliva un pericoloso precedente.
Ero a Roma durante i cinquantaquattro giorni del caso Moro. Non che l’essere presenti ad un fatto garantisca imparzialità nel riferirne o nel giudicarlo, anzi. La mia unica pretesa di obiettività risiede nel fatto che guardavo gli avvenimenti da vicino ma, al tempo stesso, con il distacco di uno straniero. Di solito mi occupo di avvenimenti storici o fantastici. Il giorno in cui Moro fu rapito venni a conoscenza quasi subito dell’avvenimento; mi recavo, come al solito, al mio studio in Trastevere per lavorare ad una storia ambientata nella Roma del Cinquecento. La notizia mi riportò bruscamente alla realtà. Ma allora vivevo in un diverso spazio temporale e, dopo lo shock iniziale, fui contento di immergermi nuovamente nel passato. Nel corso degli anni da me trascorsi in Italia avevo incontrato Aldo Moro in due occasioni: in entrambe le circostanze si era rafforzata in me l’impressione che egli fosse esattamente come lo aveva magistralmente interpretato Gian Maria Volonté nel film Todo Modo. In quel film il personaggio Moro, simbolo di una Democrazia Cristiana decadente, viene eliminato alla fine dagli stessi corruttori del suo partito, e cioè dalla CIA. Ero troppo immerso allora nel mio lavoro ambientato ai tempi della Controriforma per riflettere sulle molte assonanze esistenti tra Todo Modo e la realtà; e ciò forse anche perché queste assonanze trovavano esatta eco nei miei pregiudizi. In realtà, al pari di Leonardo Sciasca, autore di Todo Modo, dovevo ancora scoprire il vero Aldo Moro.
Mi resi conto, dapprima soltanto saltuariamente, che qualcosa era cambiato a Roma: ogni volta cioè, che mi rituffavo nella realtà; ma, quando le lettere di Aldo Moro cominciarono ad arrivare dalla «prigione del popolo», mi accorsi dalle reazioni degli uomini del Palazzo che un timore si era impossessato dell’Italia e che sarebbe potuto accadere qualcosa di veramente grave.
In Italia non succede nulla che non sia in qualche modo collegato alla volontà di questo o quel partito politico: quella volta ci si trovò — e fui forse l’ultimo ad accorgermene — in un frangente di fronte al quale tutte le principali forze politiche erano d’accordo. E ciò era particolarmente vero per i due superpartiti: la Democrazia Cristiana ed il più potente partito comunista dell’Occidente.
Il giorno in cui Moro venne rapito si doveva costituire un nuovo governo con una maggioranza parlamentare senza precedenti per ampiezza nella storia italiana del dopoguerra. Dopo trent’anni di ostracismo i comunisti, notevolmente rafforzati dai più recenti risultati elettorali, entravano a far parte di questa maggioranza, seppure in una posizione di appoggio esterno. E questa svolta era il risultato della raffinata strategia politica messa in atto da Moro. Egli in questo modo era divenuto il bersaglio scelto dalle Brigate Rosse che sincronizzarono la complessa operazione della sua cattura, in modo da farla scattare proprio in quella ventina di minuti che gli occorrevano per andare dalla sua abitazione a Montecitorio e dare la propria benedizione al nuovo governo.
I comunisti, che erano entrati a far parte della maggioranza impegnandosi anche a difendere la democrazia, dovettero trovare ogni mezzo per dissociarsi dall’altro comunismo, quello invocato dalle Brigate Rosse. Essi ostentavano quasi il loro nuovo ruolo di ferrei difensori dello Stato, delle sue istituzioni, dell’ordine, della legalità. I democristiani, a prescindere dai sentimenti individuali nei confronti del loro leader sequestrato, non potevano essere da meno, e così si scatenò una gara per dimostrare chi era più intransigente.
In realtà quella posizione spieiata, intransigente, che avrebbe prevalso sino a garantire (inevitabilmente, possiamo dire ora) la morte di Moro, emerse quasi subito. Godendo dell’appoggio internazionale, ed in particolare di quello statunitense e della Germania federale (per motivi, come ebbi a scoprire più tardi, che nulla avevano a che fare con l’Italia ed il caso specifico), essa lasciava scarso margine di possibilità. Sin dall’inizio le posizioni furono chiare: o si era intransigenti, oppure si era plagiati dalle Brigate Rosse. Fu bandita ogni critica alla linea ufficiale ed Aldo Moro, il critico numero uno, fu addirittura fatto passare per matto.
Giorgio Bocca, uno spirito indipendente, poco dopo la morte di Moro, scrisse: «Il 16 marzo questa facciata [di una stampa libera] è caduta e si è visto come funzionano i meccanismi dell’informazione: i partiti padroni o protettori dei giornali e della TV decidono ed i direttori eseguono. Ipocrisie, menzogne, esagerazioni, invenzioni fino a pochi giorni prima considerate come inaccettabili, vengono passate in tipografia e stampate senza il minimo accenno di protesta. I dissenzienti più che essere emarginati si defilano, gli articolisti prima di essere censuratisi censurano. La linea maggioritaria è, s’intende, quella che si ispira agli interessi dei due grandi partiti di potere, la DC e il PCI… il tono generale era pressappoco questo: “chi non è con noi è un mascalzone o un amico del nemico”».
vevo visto accadere cose simili in altri Paesi, in India e nel Bangladesh, nell’Europa orientale e nel mio stesso paese, gli Stati Uniti, al tempo della guerra nel Vietnam e durante gli anni cinquanta. Ma l’Italia dopo Mussolini mi sembrava avesse perso il gusto dell’intolleranza. Il caso attuale sembrava degno di attenzione perché per la prima volta, ma forse non per l’ultima, il terrorismo politico, nella sua espressione moderna, provocava una simile reazione. Penso, inoltre, che gli stranieri avvertano prima e meglio, per ovvi motivi, i pericoli che corre la libertà nel Paese che li ospita.
Ai primi di aprile ficcai le mie ricerche sul sedicesimo secolo in uno scatolone di cartone e mi misi ad osservare con maggiore attenzione ciò che stava succedendo. In quei giorni era difficile avere altre notizie al di fuori di quelle che la stampa pubblicava; ora la stampa, come del resto l’atmosfera in generale, era proprio come Bocca l’ha descritta. Vi era comunque l’area della controinformazione. Essa era alimentata dalla famiglia Moro che aveva necessità di comunicare ciò che la stampa rifiutava di pubblicare. Più ci si avvicinava al momento culminante della vicenda e più accessibile e migliore diventava tale controinformazione. Parlerò di tutto ciò al momento opportuno, ma soltanto quando si arrivò all’orribile finale, se non addirittura settimane dopo, allorché le tensioni, anche per coloro che più da vicino ebbero a soffrire dalla vicenda, cominciarono a calmarsi, fui in grado di distinguere veramente tra verità e fantasia.
Il mio compito fu reso più semplice per più motivi. Il primo fu il pentimento. Furono in molti ad essere improvvisamente presi dal rimorso per aver mantenuto una linea intransigente: alcuni di loro erano ora disposti a parlare. Non dissimile fu lo stato d’animo della stampa; quasi a far ammenda del proprio passato atteggiamento, molti giornali assegnarono ai loro migliori redattori il compito di ricostruire con imparzialità la storia di quei cinquantaquattro giorni.
Il secondo motivo va identificato nel pur lieve spostamento dell’asse politico verificatosi in seguito alle elezioni amministrative del maggio ’78. Esso ebbe come conseguenza un inasprimento delle tensioni negli ambienti politici; trascurabile di per sé, provocò, per una sua logica interna, un flusso continuo di notizie su quasi tutti i documenti sul caso Moro sino ad allora rimasti inediti.
La mia posizione personale, infine, era in qualche modo privilegiata. Nel corso degli anni mi ero creato a Roma le mie fonti d’informazione, cosa del resto normale per uno scrittore del mio genere; più interessante era comunque il fatto che molte delle mie fonti fossero allora, e siano tuttora, in contatto con i protagonisti del caso Moro. Anzi, un ristretto numero di esse erano loro stesse protagoniste della vicenda. Di conseguenza ebbi occasione di prendere visione di molto materiale inedito e come si vedrà, di conoscere individui facenti parte di ambienti quasi ermetici.
Con ciò non voglio dire che il lettore si troverà in mano l’opera definitiva sul caso Moro: purtroppo passerà ancora del tempo prima di avere un libro simile. Molti ambienti, alcuni ristretti, altri addirittura ristrettissimi, restano chiusi.
Quest’opera intende essere uno sforzo iniziale per la revisione di alcuni dati ed informazioni che a suo tempo erano stati manipolati, che hanno esercitato un peso notevole sugli eventi, e che ancora oggi attendono di essere rivisti. Non è detto che ad errori passati io non riesca ad aggiungerne di nuovi, ma la mia opera si basa esclusivamente su fatti noti e su altri fatti da me appresi nel corso della mia ricerca. Nulla ho concesso alla mia immaginazione, ne ho dato credito alla fantasia altrui.
Al di là delle mie intenzioni, anch’io sono obbligato alla discrezione. Il caso Moro scotta. Sono ancora in ballo le fortune di molte persone, mentre non si sono ancora rimarginate tante ferite, sia spirituali che fisiche. Vi sono questioni di vita e di morte ancora aperte, nel senso più letterale dell’espressione. Il lettore si tranquillizzi, però: niente di ciò che mi è precluso di rendere pubblico altererebbe sostanzialmente questa mia inchiesta. Allo stesso lettore chiedo venia per tutte le occasioni in cui non sarò in grado di soddisfare la sua naturale curiosità riguardo ad alcuni dettagli intimi: motivi di prudenza, richiesta di anonimato e, soprattutto, un doveroso rispetto della riservatezza che la famiglia Moro si è autoimposta legittimano la mia richiesta. Per quanto riguarda le mie fonti, ho indicato la provenienza delle mie informazioni così come si fa generalmente ed entro i limiti cui ho fatto cenno sopra.
Quello che segue è il racconto di una Confusione universale che alla vittima, come ad altri, parve di proporzioni babeliche.
Robert Katz
Roma, 16 marzo 1979
La sfinge delle Br: Mario Moretti (sunto del libro di Sergio Flamigni, Kaos 2004).
Delitti, segreti e bugie del capo terrorista Mario Moretti
Prima biografia del capo delle Br, basata su documenti e testimonianze, e contiene notizie inedite e nuovi elementi utili a delineare con più precisione gli ambigui contorni del terrorismo brigatista e dello stesso sequestro Moro.
Moretti studente di destra mantenuto dai marchesi Casati Stampa
II libro raccoglie varie testimonianze di ex studenti dell’istituto Montani di Fermo, univoche nel descrivere il giovane Moretti come attiguo alla destra neofascista e clericale. Mantenuto agli studi dai marchesi Casati Stampa, il futuro capo delle Br appena diplomato si trasferisce a Milano (settembre 1966), con residenza nel Palazzo Soncino dei Casati Stampa; poi viene assunto dalla Sit-Siemens su raccomandazione dei marchesi, e si iscrive all’Universita Cattolica con un attestato di «sane idee religiose e politiche» firmato dai viceparroco di Porto San Giorgio. II più brillante esame sostenuto dal Moretti studente universitario è in “Esposizione della dottrina e della morale cattolica”, docente don Luigi Giussani (ideologo-fondatore del movimento integralista Comunione e liberazione).
Milano, via Gallarate 131
Nell’estate del 1968 Moretti si fidanza con una giovane che abita coi genitori in un palazzo di via Gallarate 131. In quello stesso edificio c’è la sede milanese delle torbide attività del provocatore anticomunista Luigi Cavallo, sede frequentata anche dal colonnello del Sifar Renzo Rocca (“suicidato” il 27 giugno 1968). Già collaboratore di Edgardo Sogno in “Pace e libertà” negli anni Cinquanta, Cavallo dal 1970 sarà di nuovo al fianco di Sogno nell’organizzazione anticomunista “Comitati di resistenza democratica”.
Milano, via delle Ande 5, 15 e 16
Nella primavera del 1970 Moretti, con moglie e figlio, va a abitare al n. 15 di via delle Ande (a circa un chilometro da via Gallarate 131). In via delle Ande n. 16 abita il capo dell’Ufficio politico della Questura Antonino Allegra. E al n. 5 di via delle Ande abita I’ex comunista Roberto Dotti, impegnato con Edgardo Sogno nell’organizzare gli anticomunisti “Comitati di resistenza democratica”.
Nella stessa primavera del 1970 le nascenti Brigate rosse entrano in contatto con Roberto Dotti: il tramite è Corrado Simioni, che presenta Dotti a Mara Cagol (moglie di Renato Curcio) indicandoglielo come importante referente organizzativo e depositario delle schede biografiche dei militanti della lotta armata (testimonianza di Alberto Franceschini).
Le prime coincidenze fra Moretti e i “Comitati” di Sogno
II libro segnala le innumerevoli coincidenze fra Moretti e i “Comitati” anticomunisti di Sogno-Dotti-Cavallo. II futuro capo delle Br frequenta il palazzo di via Gallarate 131 (sede dell’attivita di Cavallo); abita a pochi metri da Dotti (in via delle Ande) e conosce benissimo Corrado Simioni (in rapporti con Dotti). Non solo: dei “Comitati” fa parte il senatore liberale Giorgio Bergamasco, amico storico dei marchesi Casati Stampa, nonche tutore della marchesina minorenne Annamaria; figlia di primo letto del marchese Camillo, Annamaria Casati conosce bene Moretti (secondo la moglie del futuro capo brigatista, i due avrebbero avuto un flirt, e andavano a sciare insieme).
L’avvento di Moretti nelle Brigate rosse
II libro racconta la genesi delle Br, nate di fatto nell’agosto del 1970 e subito attive con azioni di “propaganda armata”. Mario Moretti si avvicina alle Br solo nella tarda primavera del 1971 (proprio mentre a Milano Edgardo Sogno presenta ufficialmente i “Comitati”), e il suo ambiguo ruolo nell’organizzazione clandestina emerge ai primi di maggio 1972, quando la polizia “scopre” i covi milanesi di via Boiardo e via Delfico.
Moretti capo delle Br sanguinarie
II libro ricostruisce le enigmatiche vicende che nel biennio 1974-75 portano all’arresto dei capi-fondatori delle Br: strane coincidenze, forti ambiguità e plateali omissioni permettono di fatto al latitante Moretti di assumere la guida dell’organizzazione (benchè sia sospettato dai brigatisti arrestati di essere un infiltrato), trasformandola in una banda terroristica sanguinaria. Ricostruisce inoltre lo strano sequestro Costa (gennaio 1977), col cui ingente riscatto – un miliardo e mezzo – le Br morettiane possono finanziare la loro attività terroristica.
II delitto Moro
II libro dimostra che quando Moretti, nel dicembre 1976, insedia la base romana delle Br in via Gradoli 96, ha già I’obiettivo di colpire Moro: infatti, via Gradoli è a poca distanza dall’abitazione del presidente Dc (via del Forte Trionfale) e dal luogo della strage (via Fani). Inoltre, il libro documenta la presenza in via Gradoli di società immobiliari gestite da fiduciari del Servizio segreto civile (Sisde), e ripercorre I’ambigua gestione morettiana del sequestro culminata nella “censura” degli scritti di Moro.
Nove anni di latitanza, I’arresto e la semilibertà
II libro ricostruisce le singolari circostanze dell’arresto di Moretti (a Milano, il 4 aprile 1981), dopo quasi dieci anni di latitanza “protetta” con decine di omicidi, nonchè l’accoltellamento-avvertimento di cui il capo brigatista è vittima nel carcere di Cuneo (2 luglio). Ricostruisce inoltre le manovre, i contatti e le trattative condotte da Moretti in carcere con settori della Dc, cui è seguita una versione di comodo del delitto Moro e I’ottenimento della semilibertà nonostante le 6 condanne all’ergastolo.
UNA SCIOCCHEZZA …
Nel 1991 il deputato Sergio Flamigni, nel suo libro “La tela del ragno – Il delitto Moro”, prospettò (ai tempi della strage di Via Fani), l’ipotesi di un collegamento tra il Ministero dell’Interno, all’epoca guidato da Francesco Cossiga, e la loggia P2. In seguito a ciò Francesco Cossiga, durante una conferenza stampa tenuta come Presidente della Repubblica attaccò Flamigni dicendo che quanto aveva detto non era per cattiva volontà ma per poca intelligenza. Queste frasi ampliamente riportate dalla stampa fecero si che Flamigni potesse chiedere al Tribunale Civile di Roma di condannare Cossiga al risarcimento dei danni per le offese rivoltegli. Cossiga si difese a sua volta invocando l’art.90 Cost. per il quale il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla costituzione. Il Tribunale di primo grado respinse la tesi di Cossiga, e lo condannò al risarcimento del danno per un equivalente di 40 milioni di vecchie lire, perché l’attacco personale di natura diffamatoria non poteva essere considerato come un atto rientrante nelle funzioni del Presidente. Cossiga ricorse quindi in appello dove però ottenne l’esatto contrario di quanto si era prodotto in primo grado. Il Tribunale d’Appello ritenne improponibile la domanda di Flamigni, affermando che al Presidente della Repubblica deve essere riconosciuto il potere di esternare valutazioni soprattutto quando queste servano a tutelare la Presidenza della Repubblica. Flamigni ricorse allora a sua volta in Cassazione che accolse entrambi i ricorsi , li esaminò e li rinviò ad un sezione della Corte d’Appello.
In definitiva il processo si concluse con l’obbligo , di Cossiga di risarcire il danno causato.
http://www.inventati.org/reati_associativi/testi%20raccolti/015.html
Legge Cossiga e altre nefandezze
[da Luther Blissett Project, “NEMICI DELLO STATO”, Derive Approdi, 1999]
Re: “Il mio popolo è felice! Come vedete, sorridono tutti. Se qualcuno non sorride, lo sbatto nelle segrete”. Rivolto a un contadino sorridente: “Ehi, tu”. Contadino sorridente: “Dite a me, maestà?”. Re: “Portatelo nelle segrete!” (il contadino è subito trascinato via). Straniero sbigottito: “Altezza, non riesco a capire: quel contadino stava sorridendo”. Re: “Già, ma adesso non sorride più. Preferisco prevenire il crimine piuttosto che attendere che venga commesso!”. Sembrano “veline sceneggiate” di Cossiga ai suoi solerti subalterni. Oppure una realistica rappresentazione di Radio Alice di questo stato autorevolmente autorevole, dei suoi sospettosissimi e nervosi funzionari e delle loro dure lotte contro i cattivi pensieri della gente. Invece si trova nel settimanale, edito da Mondadori (n.1129, 17 luglio 1977) Topolino. Che sia l’ultima voce libera?
Giuliano Spazzali, Italiani, perché non dovremmo…?, “Lotta continua”, 23/8/1977
Parlando di lotta al “terrorismo”, è inevitabile soffermarsi sul mandato speciale conferito al generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ma sarebbe difficile farne capire la portata e la gravità senza parlare dei servizi segreti e della loro riorganizzazione.
Come molte altre materie (carcere, interrogatorio di polizia, intercettazioni telefoniche…), anche l’organizzazione dei servizi di sicurezza conosce una “riforma” a cui segue di pochissimo una controriforma che ne contraddice, invalida o addirittura ribalta gli enunciati. In realtà si dovrebbe parlare di una contemporaneità dei due processi, quindi di un’unica “controriforma” nell’accezione suggerita da Italo Mereu, cioè stante a indicare
non… “chi è contrario a una riforma”, ma… “chi vuol cambiare molto perché tutto resti come prima” …chi vuol dare, cioè, una veste diversa (o anche nuova) a parte della istituzione, ma lasciarne intatta la struttura portante […] normativa rinnegante. Intendiamo con questo sintagma quel metodo mediante il quale il legislatore pone nello stesso contesto normativo (o in testi diversi) due principi fra loro opposti e contrastanti, lasciando a chi detiene il potere la possibilità di valersi dell’uno e dell’altro. È l’incertezza giuridica ridotta in forma di legge; è l’arbitrio codificato e reso legale. (Italo Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa, Bompiani, IIIa ediz., Milano 1995, p.5)
Dopo Piazza Fontana, da più parti si denuncia la strategia della tensione e si scoprono i mille e mille casi di “deviazione” di Sifar e Sid da quella che era teoricamente la loro sfera di competenza, cioè il controspionaggio militare: complicità nelle stragi e nei tentativi di golpe, spionaggio anti-operaio, rapporti organici con mafia e trafficanti d’armi, ratfucking a favore dei partiti governativi etc. Più tardi si scopriranno le collusioni con la P2, Stay Behind etc.
Ovviamente i servizi segreti, lungi dall’essere “deviati”, hanno sempre fatto ciò per cui li si è istituiti: spiare e provocare i dissenzienti, svolgendo mansioni di polizia politica occulta. Ma tant’è: con la legge n.801 del 24/10/1977 si disciplina ex novo l’intera materia dei servizi di sicurezza e del segreto di stato. Può far sorridere descrivere quella “riforma” dei servizi oggi che sappiamo dei vari Gelli, Sindona, Pazienza, Broccoletti, Malpica, stragi, Falange Armata, Uno bianca, fondi neri, giallo dell’Olgiata. Ma non si tratta solo del senno di poi: bastava quello di prima.
In sostanza, al vecchio Sid subentrano tre nuovi organismi dipendenti da un comitato interministeriale presso la presidenza del consiglio: si tratta del Sismi (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Militare), del Sisde (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica) e del Cesis (Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza).
Il terzo coordinerà i rapporti tra i primi due e con la presidenza del consiglio. La presidenza del consiglio dovrà rendere conto al parlamento dell’attività dei servizi, tramite un rapporto semestrale. A sua volta, il parlamento nominerà un comitato di controllo (“costituito da quattro deputati e quattro senatori nominati dai presidenti dei due rami del parlamento sulla base del criterio di proporzionalità”). Il comitato parlamentare potrà formulare proposte e chiedere al governo informazioni sulle attività dei servizi; a tali richieste il governo potrà opporre il segreto di stato, “con sintetica motivazione”. Se il comitato riterrà infondata tale motivazione, lo riferirà alle camere, che comunque non potranno obbligare il governo a passare le informazioni richieste. Inoltre, “i componenti del Comitato parlamentare sono vincolati al segreto relativamente alle informazioni acquisite e alle proposte e ai rilievi formulati […] Gli atti del comitato sono coperti dal segreto”.
Si vede bene, dipanando la trama di questa pochade, che i servizi non vengono sottoposti ad alcun reale controllo: ammesso e non concesso che il parlamento conti qualcosa, i citati “criteri di proporzionalità” escludono dal comitato di controllo le forze politiche minori (ergo l’opposizione di estrema sinistra, proprio quella che più avrebbe da temere dall’attività dei servizi). Inoltre, il comitato non ha accesso ad altre informazioni che non siano quelle fornitegli dal governo, che non spartisce con nessuno il proprio potere sui servizi di sicurezza. Dulcis in fundo, la legge 801 non prevede nemmeno che il comitato sia informato degli stanziamenti di bilancio. Non c’è che dire, i cittadini sono davvero garantiti, praticamente in una botte di ferro!
Per quanto riguarda il segreto di stato, la 801 lo prevede per tutti “gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recar danno alla integrità dello stato democratico… alla difesa delle istituzioni… alla preparazione e alla difesa militare dello stato”. I pubblici ufficiali, i pubblici impiegati e gli incaricati del pubblico servizio “hanno l’obbligo di astenersi dal deporre su quanto coperto dal segreto di stato”. Ricordiamo che il segreto di stato ha già coperto alcune delle più gravi vicende della storia italiana, come lo scandalo Sifar, la strage di Piazza Fontana, il golpe Borghese etc.
Il 31/1/1978 il ministro dell’interno Cossiga (che si dimetterà dopo il ritrovamento del cadavere di Moro) emana un decreto col quale istituisce l’Ucigos (Ufficio centrale per le investigazioni generali e le operazioni speciali), a cui compete la raccolta di informazioni “necessarie per il ristabilimento dell’ordine pubblico”, per la prevenzione dei reati di terrorismo e contro la sicurezza dello stato, per le esigenze operative del ministero dell’interno e delle prefetture. La motivazione è che Sismi e Sisde non saranno operativi prima di qualche anno, mentre la lotta al terrorismo necessita di interventi immediati. Sospendiamo per un attimo il giudizio e arriviamo finalmente a Dalla Chiesa, che nel frattempo è diventato il responsabile del circuito delle carceri speciali (cfr. prossimo capitolo).
Il 30/8/1978 il nuovo ministro dell’interno Virginio Rognoni (Dc) emana un decreto segreto. Per un anno, nonostante le molte richieste, il testo non verrà comunicato al parlamento, né pubblicato sulla “Gazzetta ufficiale”, né tantomeno trasmesso ai media. Perché tanta riservatezza? Qual è il suo contenuto? Eccolo:
Considerata la necessità di rendere più incisiva la lotta al terrorismo eversivo… il Generale di divisione dell’Arma dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa – fermo restando l’incarico conferitogli […] concernente il coordinamente del servizio di sicurezza degli istituti penitenziari – è posto a disposizione del Ministro dell’Interno, per la durata di un anno a decorrere dal 10 settembre 1978, per l’espletamento, ai fini della lotta contro il terrorismo, delle funzioni di coordinamento e di cooperazione di cui alle premesse, limitatamente alle attività degli operatori di polizia appositamente prescelti dal Ministro suddetto su proposta delle Amministrazioni interessate […]
Con quest’ennesimo “decreto anti-terrorismo” e con l’istituzione dell’Ucigos si rendono inefficaci le pochissime garanzie contenute nella riforma dei servizi. Quest’ultima, all’art.10, stabiliva che “nessuna attività comunque idonea per l’informazione e la sicurezza può essere svolta al di fuori degli strumenti della modalità, delle competenze e dei fini previsti dalla presente legge”, ma lo stato fa di tutto per mantenere una zona franca al di fuori della legge, nella quale possano proseguire, indisturbatissime, le vecchie pratiche. È il trionfo della normativa rinnegante, e se ne vedranno le conseguenze.
Intanto, Dalla Chiesa diventa una sorta di “regio commissario”, di supremo super-poliziotto a cui tutte le forze dell’ordine devono prestare la massima collaborazione. Il testo del “decreto occulto” verrà reso noto solo nell’agosto 1979, e il mandato speciale a Dalla Chiesa sarà prorogato di un altro anno.
Veniamo ora alla cosiddetta “legge Cossiga” del febbraio 1980, e descriviamola con le parole di Amnesty International:
…Amnesty International ritiene preoccupante che il 15 dicembre 1979 il governo abbia emanato un nuovo decreto-legge sulle “misure urgenti per la protezione dell’ordine democratico e per la pubblica sicurezza”. Con poche modifiche, il decreto-legge è stato approvato dalla Camera dei Deputati e dal Senato, ed è divenuto la legge n.15 del 6 febbraio 1980.
Sono di particolare interesse quattro articoli: l’art.3 introduce un nuovo reato, la “associazione a fini di terrorismo e distruzione dell’ordine democratico”, che diventa l’art. 270bis del Codice Penale e prevede condanne sostanziali, dai quattro agli otto anni per chi partecipi ad atti di terrorismo e dai sette ai quindici anni per chi li organizzi. Questo in aggiunta alle condanne previste dall’art.270, associazione sovversiva.
L’art. 6 è una norma straordinaria, che rimarrà in vigore per un anno. Esso autorizza il fermo di polizia di individui sospettati di essere in procinto di commettere il reato di cui al summenzionato art.305 o all’art.416 del Codice Penale. Il fermato può essere perquisito e trattenuto in una stazione di polizia per 48 ore; il Procuratore del”La Repubblica” deve esserne immediatamente informato, e ci sono altre 48 ore a disposizione per giustificare il fermo.
L’art.9 estende i poteri di perquisizione, e la permette per causa d’urgenza anche senza il mandato del magistrato competente. Il Procuratore della Repubblica dev’esserne informato senza ritardi.
L’art.10, in casi riguardanti il terrorismo, estende di un terzo il periodo massimo di carcerazione preventiva ad ogni fase di giudizio. Questo significa che la procedura può, nei casi più estremi, avere una durata legale di 10 anni e otto mesi.
È parere di Amnesty International che queste nuove misure, pur legali di per sé, rappresentino una diminuzione dei diritti dei cittadini, soprattutto perché la legislazione già vigente dava poteri sufficientemente ampi alla polizia e alla magistratura. Oggi sono permessi ulteriori ritardi per il rinvio a giudizio in un paese già ben noto per i suoi lunghi processi. Ciò rappresenta anche una notevole riduzione del valore del diritto, previsto nell’art.25, di appelli individuali contro la violazione della Convenzione Europea dei Diritti Umani. Tali appelli sono ammessi solo qualora siano risultate vane tutte le garanzie nazionali. (Amnesty International Report 1980, pp.279-281, traduzione nostra)
La Legge Cossiga rappresenta l’ulteriore incrudelimento repressivo, in un quadro politico-giudiziario già devastato. Sull’introduzione temporanea del fermo di polizia, ecco la spiegazione dell’allora ministro degli interni Virginio Rognoni (Dc):
Le forze dell’ordine la richiedevano e un’attenzione particolare per coloro che erano più esposti era assolutamente dovuta. Inoltre era difficile trascurare anche uno solo dei tanti mezzi di lotta che potevano apparire efficaci […] una lettura, corretta e prudente insieme, di quella stagione politica portava a riconoscere come tendenza di fondo che la solidarietà e il bisogno di sicurezza erano prevalenti ad ogni altra domanda. Io non mi stancavo di ripetere ad ogni occasione che le libertà e le garanzie dell’individuo erano fuori discussione, ma che era necessaria una forte autodisciplina […] Erano tempi in cui… non si doveva vedere, in occasione di atti terroristici, il cittadino come vessato da controlli di polizia, ma il cittadino pronto a collaborare con la polizia per un preminente dovere di solidarietà. (V. Rognoni, Intervista sul terrorismo, Laterza, Bari 1988, pp.77-78)
La legge Cossiga introduce anche sconti di pena per i “terroristi” che scelgano di collaborare con la giustizia. È la prima legge speciale sul pentitismo a inserirsi nell’ordinamento giuridico italiano, producendo uno sconcertante effetto-domino.
Ma soprattutto, la Legge Cossiga completa e corona la legislazione d’emergenza con un elemento di tautologica, spettacolare perversione: come vent’anni dopo, nella società del digitale, si creeranno reati ex novo aggiungendo a quelli già esistenti l’attributo “telematico”, così l’art. 270bis del Codice Penale – tramite l’aggiunta del sostantivo “terrorismo” – crea un reato che, a rigore, sarebbe già previsto dal 270:
Art.270 del Codice Penale (Associazioni sovversive):
Chiunque nel territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni dirette a stabilire violentemente la dittatura di una classe sociale sulle altre, ovvero a sopprimere violentemente una classe sociale o, comunque, a sovvertire violentemente gli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato, è punito con la reclusione da cinque a dodici anni.
Alla stessa pena soggiace chiunque nel territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni aventi per fine la soppressione violenta di ogni ordinamento politico e giuridico della società.
Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da uno a tre anni.
Le pene sono aumentate per coloro che ricostituiscono, anche sotto falso nome o forma simulata, le associazioni predette, delle quali sia stato ordinato lo scioglimento.
Art.270bis (Associazioni con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico):
Chiunque promuove, costituisce, organizza e dirige associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con fini di eversione dell’ordine democratico è punito con la reclusione da 7 a 15 anni.
Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da quattro o otto anni.
L’evidente scopo di tale inserimento è la guerra psicologica totale attraverso la spettacolarizzazione del reato associativo: si addita il nemico pubblico, si scatena l’allarmismo e si estende il controllo sociale su chiunque rifiuti l’ideologia dominante.
Si tratta della puntuale traduzione legislativa di un ragionamento esposto nella cosiddetta “Carta di Cadenabbia”. A Cadenabbia (CO) si è da poco svolto un convegno dei magistrati titolari delle principali inchieste sul terrorismo. Nel loro documento finale c’è un paragrafo intitolato “Tentativo di definizione giuridica della fattispecie terroristica”:
[il fine terroristico] è al di là dello scopo immediatamente perseguito dall’agente (omicidio, danneggiamento, ecc.); è un fine ulteriore rispetto ad esso, consistente, appunto, nello stabilimento del terrore presso individui, gruppi o la collettività medesima ed a sua volta è strumentale rispetto al fine ultimo (costituito dall’auspicata realizzazione di determinati programmi politici, sociali, ecc.). Si è così ritenuto di poter inquadrare gli atti di terrorismo nella categoria dei reati a forma libera, caratterizzati da uno specifico dolo […] che offre l’elemento unificatore e l’essenza dei delitti terroristici. (cit. in: R. Canosa – A. Santosuosso, “Il processo politico in Italia”, Critica del Diritto n.23-24, Nuove Edizioni Operaie, Roma, ottobre 1981 – marzo 1982, p.17)
Insomma, gli atti concreti non sono importanti, ciò che conta è individuare il fine ultimo, quindi stabilire nessi logici, interpretare la personalità e le convinzioni delle persone sospette, sì da rinvenire la “fattispecie terroristica”. Poiché la già citata legge n.534 dell’8/8/77 permette di stralciare anche i reati collegati tra loro, diviene possibile costruire un’accusa prescindendo totalmente dagli atti concreti, che tanto verranno giudicati in altri processi (forse), e concentrandosi solamente sul reato associativo, che spesso è solo l’ingigantimento di un presunto reato d’opinione[1].
Pochi mesi prima della legge Cossiga, i giudici dello “spezzone romano” dell’inchiesta 7 Aprile hanno dichiarato al “Corriere della sera”, 27/5/1979 (corsivo nostro):
Stiamo cercando di ricostruire il percorso ideologico che ha portato l’imputato a commettere i gravissimi reati di cui è accusato… L’imputato non si è ancora reso conto di questo e continua ad attendersi che gli venga contestato un fatto preciso.
“Caccia alle streghe” e “inquisizione” sono forse espressioni abusate e sclerotizzate, ma è innegabile che con l’emergenza si sia tornati al Sant’Uffizio (cfr. cap.4).
Un altro grave elemento di anticostituzionalità della legge Cossiga è il suo imporsi come retroattiva, in contrasto con la Costituzione (art.25, comma 2: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”). Difatti, l’art.11 della legge ordina di applicare le nuove norme sul carcere preventivo “anche ai procedimenti in corso alla data dell’entrata in vigore del presente decreto”.
Grazie al pacchetto delle leggi anti-terrorismo e al “capolavoro” che le implementa, i reati associativi diventano le pietre angolari di tutto l’edificio repressivo italiano. Non è un caso che si tratti dei reati che porrebbero più problemi di costituzionalità, dal momento che all’art.27, comma 1, la Costituzione recita: “La responsabilità penale è personale.”.
Tra l’altro, nel campo del reato associativo è quasi impossibile stabilire la responsabilità di qualcuno sulla base di una normale indagine di polizia giudiziaria, senza, cioè, l’intervento dei “pentiti”: costoro rappresentano quasi sempre l’unico strumento che hanno in mano gli inquirenti per poter provare la colpevolezza dell ‘indagato. Da qui l’importanza che viene data alle loro deposizioni, anche quando queste non siano corroborate da nessuna prova e siano palesemente calunniose. La pentitocrazia che invaliderà le innovazioni del nuovo codice di procedura penale (parità tra accusa e difesa, terzietà del giudice, primato del dibattimento sull’istruttoria, etc.) si afferma grazie al peso che viene dato al reato associativo.
In teoria l’associazione sovversiva è un reato “a consumazione anticipata”, da punire in itinere, prima cioè che il bene venga effettivamente danneggiato. Le “associazioni sovversive” sono caratterizzate dalla volontà degli associati di un effettivo uso della violenza e di una turbativa dell’ordine costituzionale. Sono quindi illecite già nello stadio della programmazione dei reati, anche se non si è nemmeno tentato di compierli. La “soglia di punibilità” retrocede sulla base di “ipotesi criminose aperte” o addirittura libere. Con l’aggravante della “finalità di terrorismo”, tali ipotesi vengono ulteriormente espanse, fino all’arbitrio assoluto degli inquirenti e dei giudici, autorizzati dal potere politico a fare come credono, e a retrocedere la soglia di punibilità alla manifestazione del pensiero e addirittura al pensiero stesso.
L’unico modo per stabilire se propositi antagonisti anche parzialmente espressi siano in realtà atti preparatori alla consumazione di un reato è ampliare a dismisura l’area dell’analisi, ricostruire ad usum accusae il contesto storico in cui quelle opinioni sono state espresse. “Chiari” indizi di antidemocraticità e di ribellione alla Costituzione saranno, ad esempio, il rifiuto della politica istituzionale e delle tradizionali rappresentanze sindacali; per dirla con Antonio Bevere:
Da una giustizia mirante all’accertamento della lesione di un bene si può passare a quella mirante all’accertamento della violazione di un dovere politico di fedeltà […] Un altro degli effetti è [l’]ampliamento dell’area della rilevanza penale di comportamenti in sé leciti. Tale rilevanza viene attribuita a causa del valore sintomatico in essi individuato dal giudice […] E’ proprio lo stato d’animo, il pensiero nascosto e non espresso, la interna disobbedienza che divengono oggetto di indagine, in quanto è all’accertamento di essi che il giudice tende a risalire Ecco che in processi di questi ultimi anni sono sottoposti al vaglio del giudice penale comportamenti quali la creazione di un collettivo di lavoratori contrapposto al sindacato, l’organizzazione dei seminari autogestiti, la collaborazione, mediante un articolo dal contenuto lecito, a un periodico riconducibile ad una struttura associativa ritenuta illecita; l’intervento in un’assemblea universitaria, e, in genere, rapporti interpersonali manifestatisi attraverso scambi di documenti politici, lettere, telefonate, ecc., tutti dal contenuto penalmente irrilevante. (A. Bevere, “Processo penale e delitto politico, ovvero della moltiplicazione e dell’anticipazione delle pene”, in Critica del diritto n.29-30, Sapere 2000, aprile-settembre 1983, pp.62-69)
Il reato associativo è un reato d’opinione all’ennesima potenza, un reato a consumazione virtuale.
Ciò porta alla “lievitazione” dei capi d’accusa: da fatti specifici attribuiti a singole persone si risale, per induzione, a una presunta struttura organizzativa; chiunque abbia avuto rapporto politici con gli inquisiti di partenza viene inserito in tale struttura, e considerato colpevole di qualunque reato ad essa attribuito, in concorso con tutti gli altri inquisiti. Di più: ciascun imputato viene collocato ai vertici dell’ipotetica Organizzazione, descritto come un capo, un “leader storico”, un “mandante” (cfr. il “Teorema Calogero”, cap.6). Non esistono più i cosiddetti “reati intermedi” come il favoreggiamento: si verifica una traslazione della responsabilità, la spirale accusatoria porta in galera sempre più “capi” (la cui “pericolosità” è il pretesto per una lunga carcerazione preventiva) e l’O. – come i ragazzi della via Paal – diventa una banda armata di soli generali e al massimo un sottufficiale, il povero Nemecsek. L’O. è ormai una cellula cancerosa, produce una metastasi di mandati di cattura, requisitorie, sentenze-ordinanze, ma soprattutto di falsi scoop e veline.
Tutto questo è indiscutibilmente anti-costituzionale, ma in questi anni la Corte costituzionale sospende il proprio sindacato di legittimità sulle leggi anti-terrorismo, emettendo sentenze come quella n.15/1982, in cui si parla della “necessità di tutelare l’ordine democratico” e si dice che “vista la situazione d’emergenza”, “il governo e il parlamento hanno il dovere indeclinabile di adottare un’apposita legislazione” e il diritto “di non ritenersi strettamente vincolati alla Costituzione”.
NOTE
1. Nel 1981 il giudice istruttore Palombarini, che durante l’inchiesta 7 Aprile fu il bastone garantista tra le ruote del Pm Calogero (e per questo fu quasi accusato di “fiancheggiare” i “terroristi”), dedicò all’art. 270 ben 69 pagine della sentenza-ordinanza che, ridimensionando le ipotesi accusatorie, fece saltare il Teorema Calogero (cfr. cap. 6). Riassumiamo qui le sue argomentazioni:
L’art.270 c.p. non è incostituzionale, a condizione che esso venga applicato solo per la repressione di quelle associazioni che “si organizzano concretamente per mutare l’ordinamento costituito con mezzi violenti”, quelle “la cui organizzazione sia sintomatica della volontà degli associati di un uso effettivo della violenza”. Illecita non è l’associazione che si limiti alla propaganda, alla “predisposizione programmatica di tutte le iniziative ritenute funzionali alla futura rottura rivoluzionaria”, bensì quella che ha come fine “immediato” la guerra civile, l’insurrezione o altri reati.
Elemento essenziale dell’associazione sovversiva è la stabilità del vincolo associativo, che la distingue dal semplice accordo; è necessario cioè che ci sia un’organizzazione “che in qualche misura corrisponda – per i mezzi predisposti, per la distribuzione dei compiti tra i singoli, e più in generale in termini di idoneità rispetto allo scopo – ai fini che si vogliono raggiungere”. L’intenzione sovversiva non assume livello penale senza una organizzazione consistente, quanto a numero di militanti ed estensione territoriale. Essenziale è inoltre la “violenza”, intesa come “ogni forma illecita di estrinsecazione di una energia fisica contro cose o persone”; occorre che l’organizzazione non si limiti alla propaganda, ma “miri a realizzazioni pratiche di un programma di azione violenta.” (P. Petta, “I reati associativi e i giudici del ‘7 aprile”, in Critica del Diritto n.23-24, cit., pp. 108-109)
Se non sussistono tali caratteristiche, concludiamo noi, ci troviamo di fronte alla persecuzione delle opinioni, e il ricorso all’art.270 dice molto di più sul progetto politico degli inquirenti che su quello dei presunti imputati.
http://www.casomoro.it/I%20fantasmi%20del%20passato.htm
Cossiga-Flamigni, è di nuovo duello
di Gianni Cipriani
In eterna polemica, con strascichi giudiziari che hanno fatto dottrina, l’ex picconatore e il senatore della tela del ragno tornano a incrociare le spade sull’uscita dagli anni di piombo.
In Italia non c’è mai stata una guerra civile, come si dice ultimamente. Si è sempre sparato da una parte sola, come dimostrano le inchieste della magistratura che hanno evidenziato il ruolo dei servizi segreti e di altri apparati dello Stato nel proteggere i terroristi e depistare le indagini. Per questo non si deve “azzerare il passato” e mettere una pietra su tutto. Al contrario, è necessario andare avanti, scoprire tutta la verità, utilizzando ogni strumento, senza piegare questa ricerca alle convenienze politiche del momento. E’ questa la sfida politica contenuta nell’ultimo libro dell’ex parlamentare del Pci, Sergio Flamigni, appena arrivato nelle librerie: “I fantasmi del passato – La storia politica di Francesco Cossiga” (Kaos edizioni, 375 pagine, 35.000 lire). Una “sfida” lanciata a Cossiga, proprio perché l’ex presidente della Repubblica, almeno negli ultimi dieci anni, è stato il principale sostenitore della tesi secondo la quale per guardare avanti con la necessaria serenità è necessario chiudere i conti con il passato. Perché negli anni della “guerra fredda” e della conseguente eversione, ogni contendente avrebbe avuto la sua parte di colpa e di ragioni. Sul versante opposto, al contrario, si afferma che niente può nascere sull’oblio.
Vittime di stragi e terrorismo devono sapere tutta la verità e i responsabili, se individuati, devono essere colpiti, anche dopo molti anni. L’alternativa sarebbe quella di vivere in un paese dove non solo non c’è giustizia, ma dove il peso dei ricatti e delle pressioni incrociate si farebbe sentire ancora per molti anni. Flamigni e Cossiga, il biografo non autorizzato e il biografato, dunque, sono su versanti opposti. Del resto il “duello” tra i due esponenti politici va avanti da molti anni ed è diventato anche un caso giudiziario, studiato nei libri di giurisprudenza.
Sergio Flamigni, è bene ricordare, è stato per oltre venti anni parlamentare del Pci, membro delle commissioni d’inchiesta sulla P2, sul caso Moro e componente dell’Antimafia. Nel 1988 scrisse un best-seller, “La tela del ragno” sul sequestro di Aldo Moro, nel quale venivano evidenziate le responsabilità politiche della “catastrofe investigativa” degli apparati allora guidati dal ministro dell’Interno, Francesco Cossiga. Diventato presidente della Repubblica, Cossiga – che ha sempre avversato le ricostruzioni dell’ex parlamentare comunista – definì in una sua esternazione Flamigni come un poveretto e una persona poco intelligente. Parole dalle quali scaturì una causa civile che vide l’ex capo dello Stato condannato ad un risarcimento in primo grado. Nel processo d’appello il giudizio fu capovolto: Cossiga, in quanto presidente della Repubblica, non poteva essere giudicato per le sue azioni, perché “irresponsabile”, come scritto nella Costituzione. La Cassazione, a sua volta, aveva ribaltato il giudizio d’appello (e la relativa assoluzione) sostenendo che il capo dello Stato è certamente “irresponsabile”, ma solo nell’esercizio delle sue funzioni. Le offese contro Flamigni non rientravano in questo ambito. Dunque nuovo processo d’appello, che è ancora in corso in questi giorni.Tra l’altro, come detto, il pronunciamento della Cassazione sui limiti dell’irresponsabilità presidenziale è diventato, da un lato, tema di ricerca scientifica nelle università e motivo di scontro tra scuole contrapposte di giuristi che vedono, o meno, nella sentenza della Suprema Corte un’invasione di campo nella sfera politica. Insomma, dal “duello” sono nati altri “duelli”, seppure in ambito universitario.
Il nuovo libro di Flamigni, dunque, se da un lato rappresenta un nuovo capitolo della contrapposizione tra il senatore a vita e l’ex senatore, dall’altro – come detto – è una chiamata a raccolta di tutte quelle forze e personalità politiche, le quali ritengono che episodi come la strage di Brescia, piazza Fontana, lo stesso caso Moro e molti altri episodi, siano momenti della storia repubblicana sui quali manca ancora una verità completa e soddisfacente. Né sono state ancora individuate le reali responsabilità politiche. O non tutte fino in fondo. Nel suo nuovo lavoro, Flamigni ha evidenziato alcuni dati del ministero dell’Interno abbastanza eloquenti: tra il 1 gennaio 1969 e il 31dicembre 1987, si sono avuti in Italia 14.591 atti di violenza politica, che hanno provocato 500 morti e 1.181 feriti. E’ un bene per la nostra democrazia chiedere la verità fino in fondo? O è meglio liberarsi da questo passato ingombrante e guardare avanti? Ha scritto l’ex parlamentare del Pci in un passaggio nel quale polemicamente confuta l’altra tesi: “In Italia non non ci fu nessuna guerra civile: ci fu il tentativo – attraverso stragi, tentati golpe, assassinii politici – di contrastare le forze parlamentari della sinistra. Si è sparato da una parte sola, e sempre contro la democrazia. Si sono strumentalizzati i terrorismi, si sono fatte scoppiare le bombe nelle piazze e sui treni e contro le forze dell’ordine, per inibire la libertà di scelta democratica, per alterare la Costituzione repubblicana. Accettando il falso (e interessato) presupposto della guerra civile inventato da Cossiga, si arriverebbe certo a seppellire i fantasmi del passato, ma insieme a loro verrebbero seppellite la verità, la giustizia e lo stesso stato di diritto. E nessuna seconda repubblica può nascere sull’oblio di tutto ciò che ha minacciato e funestato la prima”.
I due “partiti” si fronteggiano da anni e c’è da ritenere che dopo il nuovo libro di Sergio Flamigni continueranno a farlo anche in questo finale di legislatura. E non solo in commissione Stragi. Proprio perché “i fantasmi del passato”esistono ancora.
(24 GENNAIO 2001)
I consigli degli americani: “Moro non doveva parlare”
di Gianni Giadresco (Rinascita)
Se Moro fosse stato liberato, cosa sarebbe accaduto? Lo domando a Sergio Flamigni, ex parlamentare comunista, che ha in mano la prima copia del libro “i fantasmi del passato” che sta per andare nelle librerie (Kaos edizioni, pagg. 373, L.35.000). Già membro delle Commissioni d’inchiesta sul caso Moro, sulla Loggia P2 e Antimafia, Flamigni è stato, nell’ultimo decennio, un punto di riferimento e una fonte essenziale quanto inesauribile per chiunque abbia tentato di districarsi tra i misteri della strategia della tensione. Ha scritto questo libro, il settimo della serie terrorismo, servizi deviati, delitto Moro, – dedicato significativamente “a tutte le vittime della strategia della tensione e delle trame terroristiche” – per mettere a fuoco una figura come quella dell’ex Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, considerato personaggio chiave nelle vicende che, dalla strage di via Fani si susseguono via via, fino alla strage di Ustica, le rivelazioni sull’organizzazione clandestina anticomunista denominata “Gladio”, e le manovre in atto, negli ultimi anni, per “mettere una pietra sul passato”, evitando così di raggiungere la verità e fare giustizia.
Flamigni risponde alla domanda sulla sorte di Moro, aprendo il suo libro alle pagine 342/43. Due pagine esplosive. Prima cosa, sarebbe scattato il “Piano Victor”. Cioè Moro sarebbe stato internato in una clinica, seguendo il consiglio dato da un esperto del dipartimento di Stato americano(politologo-psichiatra) che aveva già trattato 66 casi di sequestri di persona e che era stato “prestato” dagli americani al governo di Roma nei terribili 55 giorni della prigionia dello statista democristiano. Alla sostanza, secondo “Victor” Moro, una volta liberato, avrebbe detto delle cose che era meglio non lasciargli dire. Per quanto aberrante possa apparire, la rivelazione è stata fatta da Francesco Cossiga in una intervista rilasciata alla TV tedesca, sul finire del novembre 1993, una ventina d’anni, o quasi, dopo il rapimento e l’assassinio di Moro ad opera delle brigate rosse, mentre scoppiava lo scandalo dei “fondi neri” del Sisde. L’esperto americano – affermava Cossiga – “ci disse che era molto pericoloso per l’equilibrio del sequestrato che lo si lasciasse parlare liberamente” in quanto probabilmente avrebbe detto “delle cose verissime, ma una volta apprese sarebbe stato pentito e questo sarebbe stato di grave nocumento per lui”. Secondo quello che scrive Flamigni, i dirigenti democristiani del tempo dichiararono di essere stati tenuti all’oscuro della faccenda. E la famiglia dello statista scomparso dirà che si trattava di un “disegno ripugnante”.
Nella stessa intervista alla TV tedesca, della quale l’Ambasciata d’italia a Bonn fornirà solamente una estrema sintesi, l’ex Presidente della Repubblica farà una seconda importante ammissione, dichiarando che, quando egli era alla guida del Ministero degli Interni, era riuscito ad infiltrare nei gruppi estremistici dell’Autonomia di Bologna alcuni giovani funzionari di polizia che avevano fatto gli studi universitari e, perciò, non destavano sospetti. La rivelazione è da collegare con la vicenda fantasiosa sorta intorno al nome di “Gradoli” (la base delle Brigate rosse a Roma, che era stranamente contigua ai nostri Servizi segreti). Si disse che quel nome, fosse evocato durante una seduta spiritica svoltasi a Bologna. Ma nel suo libro Flamigni dirada il mistero e le nebbie delle bugie, ricordando una piccola frase, detta in proposito da Andreotti alla Commissione stragi: “non ho mai creduto allo spiritismo. Per me a dare quella notizia e’ stato qualcuno dell’ Autonomia operaia bolognese”. Aggiungendo: “chiedetelo a Cossiga”.
Dopo avere letto le pagine de “I fantasmi del passato”, aumentano le domande e gli interrogativi cui Cossiga – e non solamente lui – dovrebbe rispondere. Ad esempio le vicende che portarono all’uccisione di Giorgiana Masi, allo scandalo Donat Cattin, alla tragedia di Ustica, e altre ancora, che il libro di Flamigni evoca con la forza di chi cita gli avvenimenti e li confronta con le reticenze,le lacune delle indagini, gli “omissis”, i depistaggi, i grandi interregativi che gravano sulla vita democratica del nostro paese. In una nota finale del libro – nella quale l’autore contesta la tesi, cossighiana, che trasforma la strategia della tensione e il terrorismo in “guerra civile” (ribadendo, viceversa che, le stragi, i tentativi golpisti, gli assassini politici, avevano l’obiettivo di contrastare la Sinistra e, in particolare, l’ascesa elettorale e l’accesso al governo da parte del PCI) – sono ricordate le dieci stragi che hanno insanguinato il paese: 12 dicembre 1969, piazza fontana a Milano, 16 morti e 84 feriti; 22 luglio 1970, treno Freccia del Sud, Gioia Tauro (Reggio Calabria), 6 morti e 72 feriti; 31 maggio 1972, Peteano (Gorizia), 3 morti e 1 ferito; 17 maggio 1973, Questura di Milano, 4 morti e 46 feriti; 28 maggio 1974, piazza della Loggia, Brescia, 8 morti e 103 feriti; 4 agosto 1974, treno Italicus, 12 morti e 44 feriti; 16 marzo e 9 maggio 1978, Roma, strage di via Fani e uccisione di Aldo Moro, 6 morti; 27 giugno 1980, Ustica, 81 morti; 2 agosto 1980, stazione di Bologna, 85 morti e 200 feriti; 23 dicembre 1984, treno 904, S.Benedetto Val di Sambro, l5 morti e 267 feriti. Si tratta di avvenimenti più che noti. Tuttavia, pubblicati come una statistica demografica, danno l’idea, drammaticamente inquietante, del fatto che – come scrive Sergio Flamigni”- si è sparato da una parte sola, e sempre contro la democrazia”.
I fantasmi del passato
di Sergio Minghetti
Torna a parlare degli ‘anni di piombo’ e dei suoi protagonisti il forlivese Sergio Flamigni, senatore del Pci in quell’epoca e membro della commissione parlamentare che indagò sul sequestro Moro. A Forlì ha presentato “I fantasmi del passato”, la sua ultima fatica letteraria.
Per l’ex-senatore del Pci indagare su segreti e depistaggi del caso di Aldo Moro, il segretario della Dc rapito e poi ucciso nel 1978 dalle Brigate Rosse, è ormai una missione. Tanto da avere aperto anche un sito internet (www.casomoro.it), che raccoglie tutto il materiale raccolto in anni di ricerche, Flamigni nel suo ultimo libro punta i
riflettori sulla carriera politica di Francesco Cossiga, ministro degli Interni all’epoca dell’assassinio del dirigente democristiano, e avanza il sospetto che alcune parti del memoriale di Moro prigioniero delle Br non siano state svelate.
“In realtà la storia dell’ex- presidente della Repubblica – ha affermato il professor Luciano Casali, docente di storia dell’Università di Bologna – appare come un crocevia attraverso cui passano gran parte dei misteri dell’Italia repubblicana, segnali forti di costruzione di una democrazia limitata per un popolo vissuto quasi
cinquant’anni sotto la tutela degli Stati Uniti”.
Per Valter Bielli, capogruppo Ds nella commissione parlamentare che si occupa delle stagione dello stragismo: “Cossiga si è guardato dal dire tutto ciò che sa sui misteri del nostro paese perché sarebbero troppe le verità che ci dovrebbe dire da Gladio in poi”. Certo che gli argomenti affrontati in “Fantasmi del passato” sono un vero e proprio campo minato ma l’ex-senatore del Pci non se ne preoccupa: “Questo libro non è dedicato solo alle vicende politiche di Cossiga; attraverso di lui prendo in esame vicende drammatiche che hanno contrassegnato il
nostro paese e che costituiscono i fantasmi che lui vorrebbe dimenticare. In questo modo spero di poter richiamare l’attenzione delle forze politiche e dell’opinione pubblica su avvenimenti che rimangono ancora avvolti nel mistero. Bisogna fare giustizia e indicare le responsabilità politiche di chi, nei 55 giorni della prigionia di
Moro, non fece nulla per salvarlo”.
Ma Flamigni è ancora più esplicito: “Moro fu ucciso per ragioni politiche, per impedire l’accesso della sinistra al governo. Il dramma di questo paese è che nessuno ha mai pagato per le responsabilità politiche. Adesso Cossiga vorrebbe mettere una pietra sopra la stagione degli ‘anni di piombo’ graziando i terroristi che ancora custodiscono i segreti del caso Moro che lui gestì così sciaguratamente. Io questo non l’accetto, una pietra sopra ce la metterò solo quando i responsabili avranno pagato. Mi auguro che, almeno qui, la sinistra sia tutta d’accordo”.
(Resto del Carlino – Edizione di Forlì – 23 marzo 2001
Le parole scomparse
A conclusione de “I fantasmi del passato”, Sergio Flamigni, ex membro della Commissione di inchiesta sul Caso Moro, riporta un’affermazione del recente libro di Francesco Cossiga, “La passione e la politica”. Racconta l’ex presidente che nel secondo memoriale di Aldo Moro con l’interrogatorio delle Br, l’ex statista Dc “a un certo punto parlava dell’Irlanda e diceva che io gli avevo raccontato come gli Inglesi mi volessero far vedere dei villaggi Irlandesi finti dove venivano addestrati i soldati che poi erano inviati a tenere l’ordine in Irlanda”. Secondo Flamigni, però, di quanto ricordato da Cossiga non vi è traccia nè in quello nè negli altri scritti di Moro. Conclude l’ex parlamentare: “O si tratta di una farneticazione cossighiana, oppure è la conferma che vi sono altri scritti di Moro (“censurati” prima dalle Br e poi da organi dello Stato) dei quali Cossiga è a conoscenza”. Urge chiarimento.
Da L’espresso del 1°febbraio 2001
26 marzo 2004 – IN TV INSIEME COSSIGA E ADRIANA FARANDA
“L’Espresso”
C’ERAVAMO TANTO ODIATI
Fra una manciata di giorni inizierà la registrazione di un evento per la tv destinato a far scalpore: un Iungo colloquio fra l’ex brigatista Adriana Faranda e il presidente emerito Francesco Cossiga che all’epoca del rapimento Moro (1979) – cui la Faranda partecipò – era ministro degli Interni. Non è ancora stabilito in quante puntate si tradurrà il colloquio che toccherà anche il “personale” e non solo il “politico” o la ricostruzione storica degli anni di piombo del terrorismo, né se darà il via a una serie di altre trasmissioni a due voci tra personaggi che si sono trovati su fronti opposti.
La prima idea dell’incontro è venuta alla Faranda dopo aver visto il film di Marco Bellocchio sul rapimento Moro, “Buongiorno notte”.
L’ex Br, che oggi fa la fotografa, ne ha casualmente parlato con Lucia Annunziata, incontrata in occasione della festa di compleanno della figlia della presidente Rai, presso il circolo del Polo di Roma, dove Faranda era stata incaricata di fare il servizio fotografico “ufficiale”. La cosa non ebbe alcun seguito e solo dopo qualche tempo il progetto dell’evento – che sarà prodotto dalla Wilder – è stato ripreso e rielaborato da Faranda assieme a Mara Nanni, anch’essa un’ex terrorista. Corrado Formigli gestirà la discussione e Alex Infascelli (“Almost blue”) ne curerà la regia. Non è ancora deciso se la trasmissione finirà su una rete Rai o Mediaset o Sky o su La7, ma si dice che l’idea sia piaciuta molto al direttore generale di viale Mazzini, Flavio Cattaneo. (P.F.)
31 marzo 2004 – TV:
COSSIGA-FARANDA A CONFRONTO, 26 ANNI DOPO SEQUESTRO MORO
ANSA:
TV: COSSIGA-FARANDA A CONFRONTO, 26 ANNI DOPO SEQUESTRO MORO
Adriana Faranda e Francesco Cossiga, ovvero chi attacco’ lo Stato e chi rappresentava lo Stato, a 26 anni dal sequestro Moro: il confronto fra l’ex brigatista e l’allora ministro dell’Interno fara’ da spunto a un programma televisivo che potrebbe anche svilupparsi in piu’ di una puntata e coinvolgere altri protagonisti degli anni di piombo.
L’idea, conferma lo stesso Cossiga, e’ venuta alla Faranda:
“Mi ha telefonato ed e’ venuta a trovarmi per chiedermi la disponibilita’ a un confronto. E io l’ho data volentieri”. Piu’ che sull’approccio storico-documentaristico, il programma puntera’ sugli aspetti personali, sul modo in cui i due personaggi vissero in quel periodo paure e ossessioni, su come si vedevano l’un l’altro.
Prodotto dalla Wilder, il progetto – che si inserisce in una rinnovata attenzione in tv per le vecchie e nuove Br, con il nuovo ciclo di ‘Blu Notte’, al via domani su Raitre, e una fiction in preparazione per Mediaset – coinvolge anche un’altra ex terrorista, Mara Nanni. Fra gli autori c’e’ Corrado Formigli, la regia dovrebbe essere affidata ad Alex Infascelli. La Rai sarebbe in pole position per aggiudicarsi la messa in onda.
3 marzo 2005 – I GIUDIZI DI FRANCESCHINI E FARANDA
“Dagospia”
BRIGATISTI IMPUNITI – FRANCESCHINI: “IO VOLEVO SEQUESTRARE ANDREOTTI, GLI TOCCAI LA GOBBA… SE FOSSI RIUSCITO A PERSEGUIRE IL MIO OBIETTIVO, CIOÈ QUELLO DI SEQUESTRARLO SAREI STATO IN PACE COL MONDO. ERA IL SOGNO DELLA MIA VITA…”
All’indomani della messa in onda sulla Rai del documentario, prodotto da Wilder, “A risentirci più”, incontro-intervista tra Adriana Faranda e Francesco Cossiga, “Planet 430” torna sull’argomento con una nuova puntata condotta da Luca Telese e in onda stasera su Planet (Sky).
Ospiti in studio gli ex brigatisti Adriana Faranda e Alberto Franceschini, la giornalista di Repubblica Silvana Mazzocchi animano il dibattito dal titolo “Gli anni di piombo e l’Italia di oggi: la notte della seconda Repubblica”.
A Faranda e Franceschini vengono mostrate le foto di alcuni personaggi che hanno fatto la storia di quegli anni.
COSSIGA
Faranda: amico/nemico, non saprei… sono categorie che non mi appartengono, posso dire che siamo persone profondamente diverse.
Franceschini: E’ una persona estremamente intelligente, ironica e con verità nascoste, che non può dire o se le dice lo fa a modo suo come un buffone di corte che fa le piroette e si mette pure nei panni del brigatista.
PECI
Faranda: E’ uno che ci ha tradito? Probabilmente sì, anche se su questo fenomeno dei pentiti ho sempre pensato ci fosse qualcosa alla base che lo provocasse.
Franceschini: Era un infame? Beh, è il titolo del suo libro…e secondo la vecchia terminologia sì, lo è. Certo, dopo 20 anni, il significato non vale più, ma da un punto di vista morale e psicologico ciò che mi colpisce di più dei pentiti è che loro per uscire di galera hanno fatto arrestare un sacco di persone che loro stessi avevano reclutato nella lotta armata.
DALLA CHIESA
Faranda: Sì, è un nemico che ha sparato. Quando penso a via Fracchia…penso alla sua azione e la considero come un’azione di guerra eccessiva, un po’ come succedeva in America con i Black Panter, dunque delle azioni che a noi confermavano lo stato di guerra.
Franceschini: Per noi era il nemico con la ‘N’ maiuscola. Io sono profondamente convinto che se non ci fosse stato Dalla Chiesa le BR non sarebbero state sconfitte. E’ stato un generale dei carabinieri molto intelligente. Lui era l’altra faccia nostra. Se fosse sopravvissuto alla mafia, probabilmente oggi avremmo parlato serenamente come due vecchietti in pensione.
ENRICO BERLINGUER
Franceschini: Lui era il traditore, la persona che allora aveva tradito gli ideali del Comunismo, che ha svenduto la tradizione comunista… tant’è che noi attaccavamo i berlingueriani e non il PCI.
Faranda: Non proprio il traditore ma sicuramente il dirigente che stava spingendo il PCI di allora nel vicolo cieco del compromesso storico. Un inganno, un illusione ottica, quel disegno politico che ancora oggi non avrebbe avuto gli esiti che lui desiderava.
Franceschini: Meglio Craxi, dai dillo…almeno come intelligenza politica.
Faranda: Bah, mi sono estranei tutti e due
ANDREOTTI
Franceschini: Lui era il nemico per antonomasia. Dal punto di vista politico era il Democratico. Io volevo sequestrare Andreotti, gli toccai la gobba… se fossi riuscito a perseguire il mio obiettivo, cioè quello di sequestrarlo sarei stato in pace col mondo. Era il sogno della mia vita.
Faranda: Era l’uomo del potere.
MAMBRO-FIORAVANTI
Franceschini: Io la Mambro l’ho difesa varie volte. Ho sempre detto loro – scherzando – che avevano sbagliato sportello di reclutamento. Secondo me potevano tranquillamente venire da noi come esponenti di una generazione che era quella del ’76.
Faranda: Ex ragazzi come me con scelte politiche opposte alle mie ma con la stessa spinta.
MORETTI
Franceschini: Un grande punto interrogativo. Su di lui si è detto di tutto: Savasta e molti pentiti raccontano dei suoi contatti a Parigi, con un gruppo che noi chiamavano il superclan (Corrado Simeoni, etc…) e questi contatti ha continuato a tenerli nel corso degli anni… Se questa cosa è vera, questa è una chiave di lettura fondamentale.
Faranda: E’ un compagno a cui ho voluto molto bene, perché lo sentivo dentro le cose. Non ho mai avuto la sensazione che Moretti fosse l’anello d’infiltrazione delle BR, l’ho sempre considerato un compagno come noi, probabilmente molto più aperto di altri dirigenti dell’organizzazione o degli stessi Bonisoli, Azzolini, Prospero Gallinari.
14 marzo 2005 – TERRORISMO: COSSIGA, QUELL’INCONTRO SANDALO-DONAT CATTTIN…
ANSA:
TERRORISMO: COSSIGA, QUELL’INCONTRO SANDALO-DONAT CATTTIN…
SENATORE RACCONTA, A LEADER FORZE NUOVE INGIUSTE ACCUSE
“Devo chiarire che ho la assoluta certezza che mai Carlo Donat Cattin ha detto al brigatista rosso Roberto Sandalo le cose che questi ha riferito alla autorita’ giudiziaria”. Lo afferma il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga parlando del caso di Marco Donat Cattin, il brigatista comandante militare di ‘Prima Linea’ e figlio del leader della corrente Dc di ‘Forze Nuove’.
“Essendo passati molti anni – spiega Cossiga – sento il dovere morale e di riconoscenza di dire che Carlo Alberto Della Chiesa, una persona sempre vicinissima a me e a Donat Cattin, un eroe dell’Italia moderna, sempre dubito’ che l’operazione di polizia fatta con l’aiuto di alcuni magistrati di Torino fosse contro appartenenti a ‘Prima linea’, ma in verita’ contro lo stesso Donat Cattin ed il patto detto ‘Il preambolo’ in base al quale il centrodestra aveva vinto il primo congresso della Dc del dopo-Moro”.
Secondo Cossiga, “la cosa non deve meravigliare, se si pensa che alcuni di questi magistrati, come testimoniato da Giuliano Ferrara, allora dirigente del Pci di Torino ed appartenente ad una vecchia e nobile famiglia bolscevica, erano soliti tenere riunioni politico-giudiziarie in ambito comunista. Di cio’ non mi scandalizzo. In quel momento la lotta nel mondo, in Europa ed in Italia, era talmente frontale che se poi Giulio Andreotti fu accusato da uno di questi magistrati di essere mafioso, ben si poteva accusare Carlo Donat Cattin di aver fatto scappare il figlio Marco”.
Carlo Alberto Dalla Chiesa sempre spero’ di potermi fornire le prove del complotto anche una volta nominato prefetto e mandato a Palermo. Ma poi la mafia, quella vera, mentre la Procura di Palermo perdeva tempo con i baci di Andreotti, lo ammazzo’, cosi’ come in seguito ammazzo’ Borsellino.
“Su tutto l’affare Carlo Donat Cattin-Cossiga – osserva il Senatore a vita – grava un forte dubbio, che pero’ non era il mio. Carlo Donat Cattin ignorava che Sandalo (da Capo dello Stato firmai il documento per il cambio del nome di questo imprudente prediletto di Violante e Caselli che, espatriato in base alla legge sui pentiti con i soldi dello Stato in Africa, li’ ando’ a ficcarsi in meschini traffici di droga) fosse passato alle Br. A Sandalo egli voleva rivolgersi per convincere il figlio Marco a presentarsi subito ai carabinieri (perche’ allora era meglio che alla Polizia, troppo legata, specie in Piemonte, agli svelti ‘Magistrati di Palermo’) tramite il ministro dell’Interno Virginio Rognoni (prossimo senatore a vita o giudice costituzionale spero non per meriti ‘sandaliani’ perche’ non credo che l’amico Carlo Azeglio Ciampi mi fara’ mai questo personale affronto)”.
“Quando Sandalo – racconta ancora Cossiga – si presento’ con tono quasi provocatorio da Carlo Donat Cattin facendo piu’ tardi riaprire il suo verbale dal giudice istruttore Caselli (la cui nomina a procuratore antimafia l’Italia ha fortunatamente sventato), sembra che egli fosse stato gia’ arrestato e nelle mani della Polizia guidata dall’Autorita’ giudiziaria; quest’ ultima lo mando’ da Carlo Donat Cattin sperando, come poi avvenne, che il gatto, questa volta Sandalo, potesse cercare di prendersi in bocca il sorcio, cioe’ il povero Carlo. Ma delle miserie di Rognoni – conclude Cossiga – non e’ il caso di parlare se non per dire, proprio quando l’ex vicepresidente del Csm Capotosti e’ stato eletto presidente della Consulta: Dio mio, caro Csm, quanto sei caduto in basso”.
http://www.democraticiperlulivo.it/rassegnastampa/articoli_old/20001123.htm
L’uomo che non sapeva mai
La P2, Ustica, Gladio, i segreti di Moro: nel suo libro Cossiga dichiara di ignorare tutto LA POLEMICA
di GIUSEPPE D’AVANZO
SE LEGGI il più acuto e disincantato osservatore della politica italiana, non può non venirti l’acquolina alla bocca. Filippo Ceccarelli (l’acuto osservatore) recensisce per La Stampa la fatica memorialistica di Francesco Cossiga (“La passione e la politica”, Rizzoli) e non controlla il suo entusiasmo. Scrive: “Uno dei più straordinari documenti che la pubblicistica italiana abbia mai prodotto”. Aggiunge ancora: “Una manna, una miniera, una grandine, una sagra di aneddoti che ne fanno uno dei più tosti e completi ‘diari di potere’ che siano stati compilati negli ultimi anni”. Come non essere curiosissimi? Come resistere alla tentazione di affrontare le quattrocento e passa pagine complete di prefazione e appendice? E come non restare con un palmo di naso nello scoprire pagina dopo pagina che – manna, miniera, grandine – Francesco Cossiga è l’uomo che non sapeva mai? LE COSE gli accadono intorno. Conosce tutti, incontra tutti, con tutti conversa e tutti confessa, amici e nemici. Studia le loro vite e legami e ambizioni e tentazioni. E’ protagonista, testimone, osservatore privilegiato, anche a volte vittima di complotti e trappole, ma di quel che accade, di quel che gli accade non sa mai niente. E’ al vertice dello Stato, sottosegretario, ministro, presidente del Consiglio, presidente del Senato, presidente della Repubblica e nessuno gli dice mai nulla, nessuno si prende la briga di informarlo o di consegnargli qualche lacerto di verità o di metterlo almeno sulla strada. Niente. Nessuno ha voglia o la necessità o l’obbligo di dirgli alcunché. Né, per la verità, pare che Cossiga abbia interesse a interrogarsi sull’identità di chi – collega di partito, papavero della burocrazia di Stato, governante di Paese alleato – spinge la slealtà fino al punto di tacere i fatti e le intenzioni con l’ alta autorità che Cossiga ha spesso rappresentato negli ultimi trent’anni. E dire che l’uomo non è uno sprovveduto. Ha studiato intelligence e security, assicura, e “in molti Servizi esteri – parole sue – c’ era e ancora c’è la convinzione che fossi ‘uno di loro’: e in parte era vero!”. Il presidente Jimmy Carter, durante una visita di Stato a Washington, gli chiede un consiglio per la riforma della normativa della comunità di intelligence filoamericana così esordendo: “Lei, che se ne intende…”. Un “servizio segreto di tutto rispetto” addirittura gli affibbia un nome in codice, “Cesare”. Francesco Cossiga è amico di William Colby, il capo della Cia, capostazione in Italia durante la Guerra Fredda. E’ amico di Thomas Montgomery, già residente della Cia, prima a Vienna e poi a Roma, e quindi “alternative representative” degli Stati Uniti all’Onu. Purtroppo la buona reputazione di Cossiga serve al di là dei confini italiani. Al di qua nessuno dice niente all’uomo che non sapeva mai. Nemmeno quando al centro dell’intrigo c’è lui, Cossiga. Per un palmo non ci rimette l’osso del collo (politico, naturalmente) quando salta fuori che da presidente del Consiglio ha discusso la posizione del terrorista Marco Donat Cattin con il padre Carlo Donat Cattin, in qualche modo favorendone la latitanza, e che fa quel diavolaccio di Carlo Alberto Dalla Chiesa (“Per me avrebbe fatto tutto o quasi”)? Tace. “Carlo Alberto Dalla Chiesa ritenne sempre che il pasticcio in cui ero stato trascinato con il caso Donat Cattin fosse un trappola. Non fece in tempo a dirmi – e aveva assicurato che un giorno me lo avrebbe confidato – tesa da chi”. Salta un treno alla stazione di Bologna. E Cossiga: “Mi hanno tempestato perché dicessi quello che so. Io non so nulla”. Viene giù un aereo nel mare di Ustica e Cossiga, che in quei mesi è presidente del Consiglio, deve annotare nelle sue memorie: “Io non so nulla di più di quello che sa il comune mortale”. E’ ministro dell’Interno quando ai vertici delle barbe finte di casa nostra si registra un affollamento di iscritti alla loggia massonica Propaganda 2, come Giulio Grassini, ma che ne poteva sapere Cossiga? Certo oggi, che molta acqua è passata sotto i ponti, sa che “Grassini, di tradizione massonica come molti generali dei Carabinieri, massone come il fratello e credo anche il padre, credeva di potersi servire di Gelli come fonte di informazione. Io ignoravo però tutto questo”. Cossiga sa che è stato forse “Aldo Moro il governante più capace nell’utilizzare i Servizi nell’interesse del Paese”. Di Aldo Moro, Cossiga è amico e discepolo. E’ Moro che lo ha politicamente “creato”. E’ Moro che gli affida il laborioso compito di sbarrare il passo a una legge di riforma dei Servizi che Andreotti ha ideato. Purtroppo Aldo Moro non gli racconta poi più di tanto. Scrive Cossiga: “Non posso non citare quella grande operazione (organizzata da Moro) di cui anche io non sono riuscito a sapere quasi niente e cioè un accordo con le forze della resistenza palestinese che ha messo l’Italia per lungo tempo al riparo da attentati..”. E’ vero “gli uomini di fiducia di Moro erano il generale Miceli, il colonnello Giovannone, il generale Santovito”. Per Cossiga “nutrivano un grande affetto”, ma “non mi hanno mai detto una parola”. Mannaggia. Tuttavia ci sono altre questioni che Cossiga conosce o sembra conoscere benissimo. Mitrokhin, ad esempio. Il dossier recapitato da Londra a Roma è, pare, ben poca cosa. Cossiga avverte: “Da informazioni che mi sono state date esistono altre carte. Sono informazioni che ho passato a chi di dovere”. O sulla morte di Falcone. Ricorda il senatore a vita: “E’ strano, ma proprio durante la gestione Falcone, la Procura generale dell’ Unione Sovietica prima e quella della Russia dopo, domandarono la nostra collaborazione per cercare i fondi che il governo sovietico – e quello russo – ritenevano illegalmente trasferiti tramite il Pcus e il Kgb disciolto e riformato. (…) Non è vero che io avessi dato a Falcone l’incarico di occuparsi di questa faccenda: tra l’altro, non ne avrei avuto l’autorità. Sapevo però che proprio Giovanni Falcone era stato invitato, anche a questo scopo, a Mosca. Ma non ci arrivò mai perché una settimana prima del viaggio saltò in aria”. PuO’ essere questa, sembra suggerire Cossiga, la ragione che ha messo in movimento in tutta fretta gli assassini del giudice. E’ questa la ragione? Come è ovvio, Cossiga non lo sa. Come non sa che l’ultimo rovello di Giovanni Falcone è stato Gladio. Si chiedeva infatti il magistrato: ma perché quella struttura segreta ideata e organizzata per far fronte a una possibile invasione comunista da Est non aveva una sua presenza in Sicilia? Ma di Sicilia Francesco Cossiga si è sempre occupato poco. Quando lo interrogarono al processo contro Giulio Andreotti (poi assolto) gli chiesero se avesse mai saputo di rapporti tra la mafia e le istituzioni (e sapere significava anche intuire, desumere, intendere, afferrare). L’uomo che non sapeva mai rispose di non avere mai saputo che quei rapporti, “anche sotterranei”, ci fossero. L’uomo, che non sapeva mai, almeno qualche volta poteva chiedere. O no?
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