CACCIA ALL’ERETICO

Il concetto di Eresia viene precisato dai Padri apostolici. Si tratta di personali affermazioni in contrasto con l’insegnamento tradizionale della Chiesa: eresia ed eretici dovevano essere respinti dalla comunità cristiana. Ci si riferisce perciò ad un contrasto di natura dottrinale e non disciplinare. Nella storia i primi eretici sono i «giudeo-cristiani», oppositori di Paolo (nazarei). Il montanismo affermava invece una terza e ultima rivelazione, quella dello Spirito. Il manicheismo va considerato non tanto come un’eresia quanto come una religione a sé stante, contrastante con il cristianesimo, pur conservandone alcuni elementi. 
Fu il secolo IV, quello dei Padri della Chiesa, il più ricco di eresie: il donatismo, movimento scismatico nella chiesa d’Africa da Donato il Grande, ebbe fortuna con Giuliano l’Apostata (302) e si oppose con violenza alla chiesa cattolica; l’arianesimo: da Ario, presbitero di Alessandria, discepolo di Luciano. Fu deposto nel concilio del 321. Voleva salvare il monoteismo e la trascendenza di Dio, e ne negava così la generazione nel Cristo. Ario non riconosce così l’unità della sostanza divina nel Padre e nel Figlio; il pelagianesimo: si sviluppò nel secolo V, da Pelagio, monaco laico irlandese nato verso il 305; riparò in Africa dopo il Sacco di Roma del 410. Tra i principali concetti teologici: mortalità naturale di Adamo, limitazione della colpa originale ad Adamo stesso. Le dottrine furono elaborate sistematicamente da Giuliano d’Eclano, e condannate dal concilio di Cartagine nel 411. Benché le eresie abbiano accompagnato il cristianesimo fin dalle origini, la chiesa si produsse nella sistematica persecuzione degli eretici solo a partire dal XII secolo, quando l’obbedienza dogmatica a Roma divenne condizione imprescindibile per rimanere nell’ortodossia. Con il IV concilio Lateranese (1215) si promosse la repressione e l’isolamento degli eretici: equiparando la dissidenza religiosa al delitto di lesa maestà, che prevedeva la morte e la confisca dei beni dei condannati, si aprì la strada a vere e proprie misure di guerra contro gli eretici. In conseguenza a questi decreti si realizzò la crociata contro gli albigesi: il papato autorizzò i signori, anzi li spinse, a “purgare” le proprie terre dall’eresia, minacciandoli di scomunica se non l’avessero fatto. Fu istituita l’Inquisizione, che aveva il compito di cercare, processare e condannare gli eretici. L’eventuale condanna capitale era sempre evitabile con il pentimento e l’abiura, ma, come per le pene minori, si trattava per la chiesa non di punizione, bensì di penitenza necessaria per la redenzione del peccato.  


http://www.storia.unive.it/_RM/didattica/fonti/delcorno/saggi/cap3.htm

La predicazione degli eretici

I movimenti ereticali hanno condizionato per certi aspetti la mentalità e l’opera dei fondatori degli ordini Mendicanti; certo la nuova predicazione cattolica fa conto delle esperienze compiute in questo campo dagli avversari. Purtroppo non c’è rimasto quasi nulla della predicazione degli eretici: l’unica reliquia è rappresentata dalla predica conservata dal rituale di liturgia catara, pubblicato dal Dondaine in appendice al Liber de duobus principiis. Possiamo farcene un’idea attraverso gli atti dell’Inquisizione (istituita nel 1233) e le testimonianze degli scrittori cattolici.
I capi delle sette ereticali sono innanzitutto geniali predicatori, capaci di piegare il volgare a strumento di una capillare penetrazione degli ambienti urbani. Il Tractatus de hereticis di Anselmo d’Alessandria riferisce che Marco di Concorezzo, primo diffusore della eresia catara in Italia, creato diacono a Napoli dal vescovo eretico, si diede a un’intensa predicazione «in Lombardia, et postea in Marchia, et postea in Tuscia» suscitando un’entusiastica adesione alla nuova setta. Valdo, il fondatore della setta dei Poveri di Lione, che prese da lui il nome (Valdesi), si rivolge al popolo lionese nella sua lingua, con una predicazione evangelica, basata sul commento del Nuovo Testamento tradotto in volgare. L’abilità nel maneggiare la Scrittura, la finezza della penetrazione psicologica è una caratteristica che accomuna tutti gli eretici: lo nota con preoccupazione Gioacchino da Fiore nella Expositio in Apocalypsim, identificando gli eretici con le locuste dell’ Apocalisse (cap. 10).
La tecnica dei missionari eretici è sostanzialmente ispirata alla primitiva predicazione apostolica. Bernardo Gui, nel suo celebre Manuale dell’Inquisitore, dedica un capitolo al modo di insegnare tenuto dai Valdesi. Passata la fase della tolleranza e delle discussioni pubbliche coi cattolici, costretti alla prudenza, gli eretici si radunano in luoghi privati. Tema della loro predicazione, affidata ai «perfetti», è il comportamento dei veri cristiani in base al Vangelo: essi parlano (come faranno i francescani) «delle virtù e delle buone opere, e della fuga dai vizi»; ma poi passano ad attaccare le istituzioni ecclesiastiche giudicate indegne del modello evangelico. I Valdesi predicano per lo più nelle case dei «credenti», ma anche per le vie della città o per le strade fuori dell’abitato. Altri eretici, come gli Apostoli di Gerardo Segarelli di Parma, danno la preferenza alla predicazione itinerante, proclamando la penitenza per i paesi, sulle piazze e dovunque si imbattono in potenziali uditori. Al di là delle differenze dottrinali, tutti i movimenti ereticali sono d’accordo nel proporre un tipo di predicazione del tutto diverso da quello ex cathedra, che da secoli era affidato e limitato al vescovo. Si tratta, per quanto si può ricavare dalle testimonianze indirette di parte cattolica, di una predicazione adatta alla mentalità, all’ambiente, alla lingua di gruppi in generale non troppo numerosi, basata sulla lettura del Vangelo, tradotto in volgare, e sull’interpretazione letterale e spontanea della Parola di Dio. Queste caratteristiche del sermone ereticale saranno riprese nei loro valori positivi dai grandi predicatori francescani e domenicani.


http://www.monasterovirtuale.it/Concili/laterano4.html

Quarto Concilio Lateranense

Dall’11 al 30 novembre 1215
Papa Innocenzo III (1198-1216)
Tre sessioni. Settanta capitoli
Tema: confessione di fede contro i Catari; transustanziazione eucaristica; confessione e comunione annuale.


COSTITUZIONI I-XXX

I

La fede cattolica

Crediamo fermamente e confessiamo semplicemente che uno solo è il vero Dio, eterno e immenso, onnipotente, immutabile, incomprensibile e ineffabile, Padre, Figlio e Spirito Santo, tre persone, ma una sola essenza, sostanza o natura semplicissima. Il Padre (non deriva) da alcuno, il Figlio dal solo Padre, lo Spirito Santo dall’uno e dall’altro, ugualmente, sempre senza inizio e senza fine. Il Padre genera, il Figlio nasce, lo Spirito Santo procede. Sono consostanziali e coeguali, coonnipotenti e coeterni, principio unico di tutto, creatore di tutte le cose visibili e invisibili, spirituali e materiali. Con la sua onnipotente potenza fin dal principio del tempo creò dal nulla l’uno e l’altro ordine di creature: quello spirituale e quello materiale, cioè gli angeli e il mondo, e poi l’uomo, quasi partecipe dell’uno e dell’altro, composto di anima e di corpo. Il diavolo infatti, e gli altri demoni, da Dio sono stati creati buoni per natura, ma sono diventati malvagi da sé stessi. E l’uomo ha peccato per suggestione del demonio. Questa santa Trinità, una, secondo la comune essenza, distinta secondo le proprietà delle persone, ha rivelato al genere umano, per mezzo di Mosè, dei santi profeti e degli altri suoi servi la dottrina di salvezza, secondo una sapientissima disposizione dei tempi. E finalmente il Figlio unigenito di Dio, Gesù Cristo, incarnatosi per opera comune della Trinità, concepito da Maria sempre vergine con la cooperazione dello Spirito Santo, divenuto vero uomo, composto di anima razionale e di carne umana, una sola persona in due nature, manifestò più chiaramente la via della vita. Immortale e impassibile secondo la divinità, Egli si fece passibile e mortale secondo l’umanità; anzi, dopo aver sofferto sul legno della croce ed esser morto per la salvezza del genere umano, discese negli inferi, risorse dai morti e salì al cielo; ma discese con l’anima, risorse con la carne, salì con l’uno e l’altro; e verrà alla fine dei tempi per giudicare i vivi e i morti e per compensare ciascuno secondo le sue opere, i cattivi come i buoni. Tutti risorgeranno coi propri corpi di cui ora sono rivestiti, per ricevere un compenso secondo i meriti, buoni o cattivi che siano stati: quelli con il diavolo riceveranno la pena eterna, questi col Cristo la gloria eterna.

Una, inoltre, è la chiesa universale dei fedeli, fuori della quale nessuno assolutamente si salva. In essa lo stesso Gesù Cristo è sacerdote e vittima, il suo corpo e il suo sangue sono contenuti realmente nel sacramento dell’altare, sotto le specie del pane e del vino, transustanziati il pane nel corpo, il sangue nel vino per divino potere; cosicché per adempiere il mistero dell’unità, noi riceviamo da lui ciò che egli ha ricevuto da noi.

Questo sacramento non può compierlo nessuno, se non il sacerdote, che sia stato regolarmente ordinato, secondo i poteri della chiesa che lo stesso Gesù Cristo concesse agli apostoli e ai loro successori.

Il sacramento del battesimo, poi, che si compie nell’acqua, invocando la indivisa Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, da chiunque conferito secondo le norme e la forma usata dalla chiesa, giova alla salvezza sia dei bambini che degli adulti. Se uno, dopo aver ricevuto il battesimo, è nuovamente caduto nel peccato, può sempre riparare attraverso una vera penitenza. Non solo le vergini e i continenti, ma anche i coniugi, che cercano di piacere a Dio con la retta fede e la vita onesta, meritano di giungere all’eterna beatitudine.

II

Gli errori dell’abate Gioacchino

Condanniamo, quindi, e riproviamo l’opuscolo o trattato(1), che l’abate Gioacchino ha pubblicato contro il maestro Pietro Lombardo sulla unità o essenza della Trinità, dove lo chiama eretico e stolto, per aver detto nelle sue Sentenze: “Poiché il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono una realtà suprema, che né genera, né è generata, né procede” (2). Da ciò egli conclude che il Lombardo ammette in Dio non una Trinità, ma una Quaternità: ossia tre persone più la comune essenza, come un quarto elemento, affermando chiaramente che non vi è cosa alcuna che sia Padre, Figlio e Spirito Santo, né essenza, né sostanza, né natura, quantunque conceda che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono una sola essenza, una sola sostanza, una sola natura. Ma egli ritiene che questa unità non è vera e propria, bensì quasi collettiva e analogica come quando si dice che molti uomini sono un popolo, e che molti fedeli sono una chiesa, come nell’espressione: La moltitudine dei credenti aveva un cuor solo e un’anima sola (3); e Chi aderisce a Dio forma un solo spirito (4)con lui. Similmente: Chi pianta e chi irriga sono tutt’uno (5); e tutti siano un solo cuore in Cristo (6). Ancora nel libro dei Re: Il mio Popolo e il tuo sono una cosa sola (7).

A provare questa sua opinione, egli adduce soprattutto quella espressione che Cristo dice dei suoi seguaci nel Vangelo: Voglio, Padre, che essi siano una cosa sola in noi, come noi siamo uno, Perché essi siano perfettamente uniti (8). In realtà, dice, i fedeli del Cristo non sono una cosa sola, cioè una realtà comune a tutti; essi sono un’unità, perché formano una sola chiesa a causa dell’unità della fede e, finalmente, un solo regno per l’unità indissolubile dell’amore, proprio come si legge nella lettera canonica di S. Giovanni: Perché tre rendono testimonianza in cielo, il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo. E questi tre sono una cosa sola (9), e aggiunge subito: e tre sono quelli che rendono testimonianza in terra: lo spirito, l’acqua, e il sangue e questi tre sono una cosa sola, come si legge in alcuni codici.

Noi, con l’approvazione del sacro concilio universale, crediamo e confessiamo, con Pietro Lombardo, che esiste una somma sostanza, incomprensibile e ineffabile, la quale è veramente Padre, Figlio e Spirito Santo, le tre persone insieme, e ciascuna di esse singolarmente. In Dio, quindi, vi è solo una Trinità, non una quaternità, poiché ognuna delle tre persone è quella sostanza, essenza o natura divina, la quale è, essa sola, principio di tutte le cose, e fuori della quale non se ne può trovare altra. Essa non genera, non è generata, non procede, ma è il Padre che genera, il Figlio che è generato, lo Spirito Santo che procede; in tale modo vi è distinzione nelle persone e unità nella natura.

Quindi, se altro è il Padre, altro il Figlio, altro lo Spirito Santo, non sono tuttavia altra cosa, ma ciò che è il Padre è il Figlio e lo Spirito Santo; la stessa identica cosa, così da doversi credere, conforme alla retta fede cattolica, che essi sono consostanziali.

Il Padre, infatti, generando il Figlio eternamente, gli diede la sua sostanza, secondo quanto lui stesso attesta: Ciò che il Padre mi ha dato è la più grande di tutte le cose (10); e non si può certo dire che gli abbia dato una parte della sua sostanza, e che una parte l’abbia ritenuta per sé: perché la sostanza del Padre è indivisibile, in quanto del tutto semplice. E neppure si può dire che il Padre, generando, abbia trasfuso nel Figlio la sua sostanza, quasi che comunicandola al Figlio non l’abbia conservata per sé; in questo caso avrebbe cessato di essere sostanza. E’ chiaro, quindi, che il Figlio, nascendo, ha ricevuto la sostanza del Padre senza alcuna diminuzione, e quindi il Padre e il Figlio hanno la medesima sostanza; in tal modo il Padre e il Figlio sono la stessa cosa; e così lo Spirito Santo che procede dall’uno e dall’altro.

Quando, allora, la Verità prega il Padre per i suoi fedeli, dicendo: “Voglio, Padre, che essi siano una cosa sola in noi, come noi siamo una cosa sola” (11), il termine una cosa sola quando si tratta dei fedeli si deve prendere nel senso di unione della carità nella grazia; per le persone divine, invece, deve intendersi come unità di identità nella natura, come altrove dice la Verità: Siate Perfetti com’è perfetto il vostro Padre celeste (12). E’come se dicesse, più chiaramente: “Siate perfetti della perfezione della grazia, come il vostro Padre celeste è perfetto della perfezione che gli è naturale”, cioè ciascuno a suo modo, perché tra il creatore e la creatura per quanto la somiglianza sia grande, maggiore è la differenza.

Se qualcuno, quindi, intendesse su questo argomento difendere o approvare l’opinione, cioè la dottrina del suddetto Gioacchino, sia ritenuto da tutti eretico. Con ciò, però, non vogliamo gettare un’ombra sul monastero di Fiore, in cui lo stesso Gioacchino è stato maestro, poiché ivi l’insegnamento è regolare e la disciplina salutare. Tanto più che lo stesso Gioacchino ci ha inviato tutti i suoi scritti perché fossero approvati o corretti secondo il giudizio della Sede apostolica. Ciò egli fece con una lettera, da lui dettata e sottoscritta di proprio pugno, nella quale egli confessa senza tentennamenti di tenere quella fede che ritiene la chiesa di Roma, madre e maestra, per volontà di Dio, di tutti i fedeli.

Riproviamo e condanniamo anche la stravagante opinione dell’empio Amalrico (13); la cui mente è stata così accecata dal padre della menzogna, che la sua dottrina non tanto deve giudicarsi eretica, quanto insensata.

III

Degli eretici

Scomunichiamo e anatematizziamo ogni eresia che si erge contro la santa, ortodossa e cattolica fede, come l’abbiamo esposta sopra. Condanniamo tutti gli eretici, sotto qualunque nome; essi hanno facce diverse, male loro code sono strettamente unite l’una all’altra (14), perché convergono tutti in un punto: sulla vanità. Gli eretici condannati siano abbandonati alle potestà secolari o ai loro balivi per essere puniti con pene adeguate. I chierici siano prima degradati della loro dignità; i beni di questi condannati, se si tratta di laici, siano confiscati; se fossero chierici, siano attribuiti alla chiesa, dalla quale ricevono lo stipendio.

Quelli che fossero solo sospetti, a meno che non abbiano dimostrato la propria innocenza con prove che valgono a giustificarli, siano colpiti con la scomunica, e siano evitati da tutti fino a che non abbiano degnamente soddisfatto. Se perseverano per un anno nella scomunica, dopo quel tempo siano condannati come eretici. Siano poi ammonite e, se necessario, costrette con censura le autorità civili, di qualsiasi grado, perché, se desiderano essere stimati e creduti fedeli, prestino giuramento di difendere pubblicamente la fede: che essi, cioè, cercheranno coscienziosamente, nei limiti delle loro possibilità, di sterminare dalle loro terre tutti quegli eretici che siano stati dichiarati tali dalla chiesa. D’ora innanzi, chi sia assunto ad un ufficio spirituale o temporale, sia tenuto a confermare con giuramento, il contenuto di questo capitolo.

Se poi un principe temporale, richiesto e ammonito dalla. chiesa, trascurasse di liberare la sua terra da questa eretica infezione, sia colpito dal metropolita e dagli altri vescovi della stessa provincia con la scomunica; se poi entro un anno trascurasse di fare il suo dovere, sia informato di ciò il sommo pontefice, perché sciolga i suoi vassalli dall’obbligo di fedeltà e lasci che la sua terra sia occupata dai cattolici, i quali, sterminati gli eretici, possano averne il possesso senza alcuna opposizione e conservarla nella purezza della fede, salvo, naturalmente il diritto del signore principale, purché questi, non ponga ostacoli in ciò, né impedimenti.

Lo stesso procedimento si dovrà osservare con quelli che non abbiano dei signori sopra di sé.

I cattolici che, presa la croce, si armeranno per sterminare gli eretici, godano delle indulgenze e dei santi privilegi, che sono concessi a quelli che vanno in aiuto della Terra Santa. Decretiamo, inoltre, che quelli che prestano fede agli eretici, li ricevono, li difendono, li aiutano, siano soggetti alla scomunica; e stabiliamo con ogni fermezza che chi fosse stato colpito dalla scomunica, e avesse trascurato di dare soddisfazione entro un anno, da allora in poi sia ipso facto colpito da infamia, e non sia ammesso né ai pubblici uffici o consigli, né ad eleggere altri a queste stesse cariche, né a far da testimone. Sia anche “intestabile”, cioè privato della facoltà di fare testamento e della capacità di succedere nell’eredità. Nessuno, inoltre, sia obbligato a rispondergli su qualsiasi argomento; egli, invece, sia obbligato a rispondere agli altri. Se egli fosse un giudice, la sua sentenza non abbia alcun valore, e nessuna causa gli venga sottoposta. Se fosse un avvocato, non gli venga affidata la difesa; se fosse un notaio, i documenti da lui compilati, siano senza valore, anzi siano condannati col loro condannato autore. Lo stesso comandiamo che venga osservato in casi simili a questi.

Se poi si tratta di un chierico, sia deposto dall’ufficio e dal beneficio: infatti chi ha una colpa maggiore, sia punito con una pena più grave. Chi trascurasse di evitarli, dopo la dichiarazione di scomunica da parte della chiesa, sia colpito dalla scomunica fino a che non abbia dato la debita soddisfazione.

I chierici non amministrino a questi uomini pestilenziali i sacramenti della chiesa; né osino dare ad essi sepoltura cristiana; non accettino le loro elemosine o le loro offerte. Diversamente, siano privati del loro ufficio, e non tornino mai più in suo possesso, senza un indulto speciale della sede apostolica. La stessa disposizione va applicata a qualsiasi religioso, senza tener conto dei loro privilegi in quella diocesi, in cui avessero avuto l’ardire di provocare tali eccessi.

Ma poiché alcuni, sotto l’apparenza della pietà, negano però (come dice l’Apostolo) la sua essenza (15), e si attribuiscono la facoltà di predicare, mentre lo stesso Apostolo dice: Come potranno predicare, se non sono mandati? (16), tutti quelli cui sia stato proibito, o che senza essere stati mandati dalla sede apostolica o dal vescovo cattolico del luogo, presumessero di usurpare in pubblico o in privato l’ufficio di predicare, siano scomunicati, e, qualora non si ravvedessero al più presto, siano puniti con altra pena proporzionata.

Inoltre ciascun arcivescovo o vescovo deve personalmente o per mezzo dell’arcidiacono o di persone capaci e oneste, visitare due o almeno una volta all’anno, la sua diocesi se vi è notizia della presenza di eretici, ed ivi costringa tre o anche più uomini di buona fama, o addirittura, se sembrerà opportuno, tutti gli abitanti dei dintorni, a giurare se vi sono degli eretici, o gente che tiene riunioni segrete, o che si al- lontana nella vita e nei costumi dal comune modo di comportarsi dei fedeli. Il vescovo convochi gli accusati alla sua presenza; e se questi non si saranno giustificati dalla colpa loro imputata, o, se dopo l’espiazione ricadranno nella loro primitiva perfidia, siano puniti secondo i canoni. Chi rifiutasse il carattere sacro del giuramento e con riprovevole ostinazione non volesse giurare, per questo stesso motivo sia considerato eretico.

Vogliamo, dunque, e ordiniamo, e comandiamo rigorosa- mente in virtù di santa obbedienza, che i vescovi vigilino diligentemente nelle loro diocesi all’efficace esecuzione di queste norme, se vogliono evitare le pene canoniche. Se qualche vescovo, infatti, si mostrerà negligente o troppo lento nel liberare la sua diocesi dai fermenti ereticali quando la loro presenza fosse certa, sia deposto dall’ufficio episcopale e sia sostituito da un uomo adatto, il quale voglia e sappia confondere la malvagità degli eretici.

IV

L’orgoglio dei greci contro i latini

Quantunque sia nostra intenzione favorire e onorare i Greci che in questi nostri tempi sono ritornati all’obbedienza della sede apostolica, rispettando i loro costumi e i loro riti per quanto possiamo farlo nel Signore, non vogliamo tuttavia e non possiamo essere remissivi di fronte a usi che importano un pericolo per le anime e detraggono all’onore della chiesa. Da quando, la chiesa Greca con alcuni suoi complici e fautori si è sottratta all’obbedienza della sede apostolica, i Greci hanno cominciato a disprezzare talmente i Latini che, tra le altre cose che compivano ampiamente per offenderli, quando i sacerdoti Latini celebravano sui loro altari essi si rifiutavano di celebrare su di essi il santo sacrificio, se prima non erano stati lavati, quasi fossero stati contaminati. Inoltre osavano ribattezzare temerariamente quelli che erano già stati battezzati dai Latini, cosa che alcuni, a quanto abbiamo sentito dire, fanno ancora oggi senza alcun riguardo.

Volendo, quindi, toglier dalla chiesa di Dio così grave scandalo, secondo il parere del sacro concilio comandiamo loro severamente che cessino di agire in tal modo, confermandosi come figli obbedienti della sacrosanta Romana chiesa, loro madre, perché vi sia un solo ovile ed un solo pastore (17).

Se qualcuno osasse fare ancora qualche cosa di simile, colpito dalla scomunica, sia deposto da ogni ufficio e beneficio ecclesiastico.

V

Della dignità dei patriarchi

Rinnovando gli antichi privilegi delle sedi patriarcali, decretiamo, con l’approvazione del santo e universale concilio, che, dopo la chiesa Romana, la quale per volontà del Signore ha il primato della potestà ordinaria su tutte le altre chiese, come madre e maestra di tutti i fedeli cristiani, la chiesa di Costantinopoli abbia il primo posto, l’Alessandrina il secondo, quella di Antiochia il terzo, quella di Gerusalemme il quarto, ciascuna col proprio rango; così che, dopo che i loro prelati hanno ricevuto dal Romano pontefice il pallio, simbolo della pienezza della loro dignità pontificale, possano lecitamente dare a loro volta, quando sia stato prestato loro il giuramento di fedeltà e di obbedienza, il pallio ai loro suffraganei, ricevendo per sé la professione canonica, e per la chiesa Romana la promessa di obbedienza.

Facciano anche portare dinanzi a sé, dappertutto, la croce del Signore, meno che in Roma, e dovunque fosse presente il Romano pontefice o un suo legato, che faccia uso delle insegne della dignità apostolica. In tutte le province soggette alla loro giurisdizione, quando è necessario, si faccia ricorso ad essi, salvi gli appelli interposti alla sede apostolica, a cui bisogna che tutti si attengano umilmente.

VI

Dei concili provinciali

Come è stato stabilito dai santi padri, ì metropoliti non omettano di celebrare ogni anno con i loro suffraganei i concili provinciali; in essi si tratti diligentemente, nel timore di Dio, della correzione dei peccati e della riforma dei costumi, specialmente nel clero; sì rileggano le norme canoniche, e specialmente quanto è stato stabilito in questo concilio generale, perché vengano osservate, infliggendo le pene dovute ai trasgressori.

Per conseguire efficacemente tale scopo, i metropoliti, stabiliscano in ogni diocesi delle persone previdenti e oneste, le quali per tutto l’anno, senza alcuna giurisdizione, investighino con zelo quello che sia degno di correzione e di riforma e riferiscano fedelmente al metropolita, ai suffraganei e ad altri nel successivo concilio, perché su questi ed altri punti, secondo quanto è richiesto dall’utilità e dall’onestà, possano prendere adeguate deliberazioni. Quanto è stabilito, sia osservato, e lo si pubblichi nei sinodi vescovili, da celebrarsi ogni anno nelle singole diocesi.

Chi, poi, si mostrerà negligente nel curare l’adempimento di questa norma salutare, sia sospeso dai suoi benefici e dal suo ufficio, fino a che non gli sia tolta la sanzione dal suo superiore.

VII

Della correzione delle colpe

Con ferma disposizione stabiliamo che i prelati attendano con prudente diligenza a correggere le mancanze dei loro sudditi, specie dei chierici, e alla riforma dei costumi, altrimenti dovranno rendere conto del loro sangue (18).

Perché possano compiere liberamente questo loro dovere di correzione e di riforma, decretiamo che nessuna consuetudine o appello impedisca l’esecuzione delle loro decisioni a meno che non abbiano ecceduto nei modi. Le infrazioni dei canonici della chiesa cattedrale, tuttavia, in cui è solito intervenire il capitolo, saranno corrette da esso nelle chiese che finora hanno avuto tale consuetudine, dietro ammonizione e ingiunzione del vescovo ed entro un tempo conveniente, che questi stabilirà. Altrimenti il vescovo, da quel momento, tenendo Dio solo dinanzi agli occhi, e superando ogni opposizione, non tardi a correggerli con la censura ecclesiastica, come richiederà la cura delle anime. Non ometta neppure di emendare anche altre eventuali trasgressioni, secondo che richiederà il bene delle anime, osservando naturalmente il debito modo in ogni cosa.

Se poi i canonici, senza un motivo vero e plausibile, ma per disprezzo del vescovo, sospendessero gli uffici divini, egli, se lo crede, celebri nella chiesa cattedrale; e il metropolita, dietro le sue rimostranze, considerandosi in ciò da noi delegato, dopo esser venuto a conoscenza del vero stato delle cose, li punisca talmente con la censura ecclesiastica, da indurli in seguito a non commettere più tali eccessi, almeno per timore della pena.

I responsabili delle chiese evitino di trasformare questo salutare decreto in un mezzo di guadagno o in altro peso, ma lo eseguano con zelo e fedeltà, se vorranno sfuggire alle pene canoniche, perché su questo punto la sede apostolica, con l’aiuto del Signore, sarà particolarmente vigilante.

VIII

Delle inchieste

“Come e in qual modo il superiore debba procedere nell’informarsi sulle colpe dei sudditi e nel punirle, si deduce facilmente dagli esempi dell’antico e del nuovo Testamento, da cui derivano le norme canoniche” (19); ciò, secondo quanto avevamo già stabilito e che ora confermiamo con l’approvazione del sacro concilio.

Si legge infatti nel Vangelo, che quel fattore che fu accusato presso il suo signore di aver dissipato i suoi beni, si sentì dire da lui: Cosa sento dire di le? Rendimi conto della tua gestione, infatti non potrai più tenere tale ufficio (20). E nella Genesi il Signore dice: Discenderò e vedrò se davvero hanno operato conforme al grido che è giunto fino a me (21).

Queste autorità dimostrano chiaramente che non solo quando manca un suddito, ma anche quando sbaglia un superiore, se le voci e le lamentele giungono alle orecchie del superiore non da parte di malevoli o di maldicenti, ma da persone prudenti e oneste, e non una sola volta ma spesso (come sottolineano le lamentele e le voci), tocca al superiore portare il caso davanti agli anziani della chiesa per cercare con maggior diligenza la verità. E se il caso lo richiede, la pena canonica punisca l’errore del colpevole, di modo che il superiore non sia nello stesso tempo accusatore e giudice, ma adempia il suo dovere, mosso dalle lamentele o dalle voci che denunciano. Tali norme devono essere applicate ai sudditi, e tanto più ai superiori posti come bersaglio alle saette (22). E poiché questi non possono soddisfare tutti, dovendo a causa del loro ufficio non solo convincere, ma anche rimproverare, qualche volta addirittura sospendere, e talora vincolare con pene, frequentemente incorrono nell’odio di molti e sono oggetto di insidie. Per questo i santi padri stabilirono prudentemente che non si sia facile nell’ammettere accuse contro i prelati, perché non avvenga che, scosse le colonne, cada l’edificio (23); si usi invece molta cautela, sbarrando la porta alle accuse false e alle malignità.

Essi vollero proteggere i prelati da accuse ingiuste, ma anche inculcare loro il timore di peccare d’arroganza. Essi hanno trovato un rimedio adatto per l’uno e per l’altro male: ogni accusa di un delitto che implica diminutio capitis, ossia la degradazione, non sia ammessa in nessun modo senza che prima vi sia stata l’iscrizione (24). E tuttavia qualora uno fosse stato diffamato in tal modo, per le sue colpe, che le voci prendono consistenza e non si possano più dissimulare senza scandalo né tollerare senza pericolo, allora senza dubbi né scrupoli si proceda alla ricerca e alla punizione delle colpe, non certo mossi dall’odio, ma dall’amore. Se la colpa fosse grave, ma non tale da implicare la degradazione, il colpevole sia però allontanato da ogni ufficio, essendo conforme all’insegnamento del Vangelo, che l’amministratore venga allontanato dall’amministrazione di cui non è in grado di rendere conto (25).

Deve essere presente colui contro il quale si fa l’inchiesta, a meno che non sia in contumacia; gli si espongano i capi di accusa sui quali verte l’inchiesta, perché possa difendersi; gli si devono far conoscere le accuse portate contro di lui, e anche i nomi dei testimoni, perché sappia di che è accusato e da chi; siano permesso anche le eccezioni e le repliche legittime, affinché col tacere i nomi non si favorisca l’audacia di infamare e con l’esclusione delle eccezioni, quella di deporre il falso.

Il prelato deve correggere diligentemente le colpe dei sudditi, piuttosto che lasciare colpevolmente impuniti i loro errori. Contro questi – per tacere di colpe notorie – si può procedere in tre modi: accusa, denuncia, inchiesta, affinché però si usi sempre una diligente cautela, e non avvenga che per un guadagno insignificante si giunga ad una perdita grave, come l’accusa deve essere preceduta dalla legittima iscrizione, così anche la denuncia dev’essere preceduta da un caritatevole ammonimento, e l’inchiesta giudiziaria dalla presentazione dell’accusa; anche la forma della sentenza rispetti le regole della procedura giudiziaria.

Quest’ordine, tuttavia, non deve essere sempre osservato con i regolari i quali, quando un giusto motivo lo richieda, possono più facilmente e con maggior libertà essere allontanati dal loro ufficio dai propri superiori.

IX

Riti diversi nella stessa fede

Poiché in più parti, entro l’ambito della stessa città e diocesi sono raccolti popoli di diverse lingue, che nell’ambito dell’unica fede hanno riti e costumi diversi, comandiamo severamente che i vescovi di queste città o diocesi nominino persone adatte, che possano celebrare nei diversi riti e lingue gli uffici divini e amministrare loro i sacramenti, istruendoli con la parola e con l’esempio.

Proibiamo, però, assolutamente che una stessa città o diocesi abbia più vescovi, perché un corpo con più teste è come mostro. Se, quindi, per le ragioni accennate, una urgente necessità lo richieda, il vescovo del luogo con matura decisione nomini suo vicario, per questo ambito, un prelato cattolico di quella nazione che gli sia soggetto e obbediente in ogni cosa. Chi si comportasse diversamente sarà passibile di scomunica, e, se non si pente sarà deposto da ogni ministero con l’aiuto, se necessario, del braccio secolare per reprimere tanta insolenza.

X

La scelta di predicatori

Tra le altre cose che riguardano la salvezza del popolo cristiano, si sa che il nutrimento della parola di Dio, è tra i più necessari, poiché come il corpo si nutre di cibo materiale, così l’anima di quello spirituale. Non di solo Pane, infatti, vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio (26).

Avviene spesso che i vescovi per le molteplici occupazioni, per la cattiva salute, per gli attacchi dei nemici, o per altri motivi – per tacere dell’ignoranza, cosa assolutamente riprovevole in essi, e da non tollerarsi più in nessun modo – non riescono da sé a predicare al popolo la parola di Dio, specie quando le diocesi sono ampie ed estese. Stabiliamo che i vescovi scelgano persone adatte ad attendere perciò saltuariamente all’ufficio della santa predicazione, potenti nella parola e nelle opere (27), le quali, visitino, in loro vece, le popolazioni loro affidate, le edifichino con la parola e con l’esempio. Se ne hanno bisogno, procurino loro quanto è necessario perché le privazioni non li obblighino ad abbandonare l’impresa.

Comandiamo, quindi, che, sia nelle cattedrali che nelle altre chiese collegiate vengano scelte persone capaci, di cui i vescovi possano servirsi come coadiutori e cooperatori, non solo per la predicazione, ma anche per ascoltare le confessioni e imporre le penitenze, e per gli altri problemi che riguardano la salvezza delle anime. Chiunque manchi di assolvere a questo dovere, sarà punito severamente.

XI

Dei maestri di scuola

Alcuni per mancanza di mezzi non hanno possibilità di imparare a leggere, né opportunità di miglioramento; nel concilio Lateranense (28) si provvide, con pia disposizione che in ogni chiesa cattedrale si assegnasse un beneficio conveniente ad un maestro, che istruisse gratuitamente i chierici della stessa chiesa e altri scolari poveri, venendo così incontro alle necessità del maestro e aprendo la via alla scienza agli scolari.

Poiché in molte chiese ciò non si osserva affatto, volendo ridare vigoria tale prescrizione, aggiungiamo che non solo in ogni chiesa cattedrale, ma anche nelle altre in cui vi siano mezzi sufficienti, venga scelto dal prelato un maestro adatto; esso sia scelto insieme col capitolo, o con la maggioranza di esso e la parte più prudente; questi istruirà i chierici di quelle chiese e delle altre, gratuitamente, nella grammatica e nelle altre discipline come meglio potrà.

La chiesa metropolitana abbia tuttavia un teologo che possa istruire i sacerdoti e gli altri nella sacra scrittura, e li formi specialmente in quanto riguarda la cura delle anime. A ciascun maestro sia assegnata dal capitolo la rendita di una sola prebenda, e altrettanto dal metropolita per il teologo; con ciò, però, egli non entra a far parte del capitolo, ma percepisce il beneficio solo finché dura l’insegnamento. Se poi la chiesa metropolitana si trova gravata da due insegnanti, allora essa provveda al teologo nel modo che abbiamo detto, e al maestro di grammatica faccia in modo che provveda sufficientemente un’altra chiesa della città o della diocesi.

XII

Dei capitoli generali dei monaci

In ogni regno o provincia si tenga ogni tre anni, salvo il diritto dei vescovi diocesani, un capitolo generale degli abati e di quei priori senza abati propri, che sinora non si celebravano. Ad esso prendano parte tutti, a meno che non abbiano un impedimento canonico. Si raccolgano presso uno dei monasteri adatto a riceverli con questo limite, però, che nessuno di essi porti più di sei cavalcature né più di otto persone. Invitino, con carità, a inaugurare questo sistema due abati vicini dell’ordine Cistercense, perché possano assisterli col loro consiglio e l’aiuto opportuno, dato che essi hanno una lunga consuetudine e maggior esperienza nel celebrare questi capitoli. Questi, senza che qualcuno possa opporsi, portino con sé due dei loro, che possano essere utili; questi quattro presiedano al capitolo generale in modo però che nessuno di essi abbia l’autorità di superiore e possano, con matura decisione, essere cambiati all’occorrenza.

Questo capitolo sia celebrato per alcuni giorni continui, fissi, secondo l’uso dei Cistercensi; in esso si tratti diligentemente della riforma dell’ordine e dell’osservanza della regola; e quello che sarà stato stabilito con l’approvazione di quei quattro, sia osservato da tutti inviolabilmente, senza alcuna scusa, contraddizione o appello. Si stabilisca tuttavia dove, alla prossima scadenza, sarà celebrato il prossimo capitolo.

I partecipanti vivano in comune, e sostengano in proporzione tutte le spese comuni; se non possono essere alloggiati tutti insieme, siano sistemati almeno in diversi nelle stesse case.

Siano stabiliti anche, in questo capitolo, dei religiosi prudenti che, secondo criteri stabiliti, visitino in vece nostra le singole abbazie del regno o della provincia, non solo dei monaci, ma anche delle monache per correggere e riformare ciò che ha bisogno di correzione e di riforma. Se essi riterranno che il superiore di un luogo dev’essere assolutamente deposto, lo denunceranno al vescovo, perché questi lo allontani. Se questi non lo fa, gli stessi visitatori sottoporranno la questione alla sede apostolica.

Intendiamo e comandiamo che questa disposizione venga osservata anche dai Canonici regolari, secondo la loro regola.

Se nell’esecuzione di queste nuove norme sorgesse qualche difficoltà, che non potesse essere risolta dalle persone designate, si riferisca, senza provocare scandalo, alla sede apostolica perché esprima il suo giudizio, osservando, naturalmente, ogni altra norma che sia stata decisa all’unanimità.

I vescovi diocesani, però, si studino di riformare in tal modo i monasteri soggetti alla loro giurisdizione, che quando i suddetti visitatori giungono presso di essi, vi trovino più cose da lodare che da riformare. Si guardino bene, ad ogni modo, di non aggravare questi monasteri con oneri indebiti, perché noi teniamo al rispetto dei diritti dei superiori altrettanto quanto al rispetto della giustizia verso gli inferiori.

Ancora, comandiamo severamente sia ai vescovi diocesani, che ai presidenti dei capitoli, che vietino con la censura ecclesiastica, e senza appello gli avvocati, i patroni, i vicesignori, i reggenti e i consoli, i grandi, i cavalieri e chiunque altro, perché non si azzardino a danneggiare i monasteri nelle persone e nei beni. E non manchino di costringere alla riparazione quelli che l’avessero fatto, perché Dio onnipotente sia servito nella pace e nella libertà.

XIII

Proibizione di nuovi ordini religiosi

Perché l’eccessiva varietà degli ordini religiosi non sia causa di grave confusione nella chiesa di Dio, proibiamo rigorosamente che in futuro si fondino nuovi ordini.

Chi quindi volesse abbracciare una forma religiosa di vita, scelga una di quelle già approvate. Ugualmente chi volesse fondare una nuova casa religiosa faccia sua la regola e le istituzioni degli ordini religiosi già approvati.

Proibiamo anche che uno sia monaco in diversi monasteri, e che un solo abate possa presiedere a più monasteri.

XIV

Punizioni per i chierici incontinenti

Perché i costumi e il comportamento del clero siano riformati in meglio, tutti cerchino di vivere una vita pura e casta, specialmente quelli che hanno ricevuto gli ordini sacri: si guardino, quindi, da ogni vizio di impurità, specie da quello per cui l’ira di Dio scese dal cielo sui figli dalla ribellione (29), affinché possano servire Dio onnipotente con cuore puro e corpo casto.

E perché un facile perdono non sia incentivo alla trasgressione, stabiliamo che chi sia preso in flagrante delitto di incontinenza, sia punito secondo le sanzioni canoniche, in proporzione del suo peccato: e vogliamo che queste norme canoniche vengano più efficacemente e più strettamente osservate, in modo che quelli che il timore di Dio non trattiene dal male, siano almeno frenati dalla pena temporale dal cadere nel peccato.

Se, quindi, qualcuno, sospeso per questo motivo, presumesse di celebrare i divini misteri, non solo sia spogliato dei benefici ecclesiastici, ma sia anche deposto per questa duplice colpa, e per sempre. I prelati che sostenessero tali peccatori nella loro iniquità, specialmente se per denaro o per qualche altro utile temporale, siano soggetti alla stessa pena. Quelli che, secondo l’uso della loro regione, non hanno rinunziato all’unione coniugale, se cadessero in peccato, siano puniti più gravemente, dato che hanno la possibilità di godere del legittimo matrimonio.

XV

Contro l’ubriachezza dei chierici

Tutti i chierici si guardino bene dall’ingordigia e dall’ubriachezza; se essi non abusano del vino, il vino non abuserà di loro e nessuno sia incitato a bere perché l’ubriachezza oscura l’intelletto e suscita le passioni carnali.

Stabiliamo, quindi, che si sradichi l’abuso, per cui in alcune regioni i bevitori si incitano a vicenda a bere ed è più degno di lode chi riesce a farne ubriacare di più e a bere più bicchieri.

Se, perciò, qualcuno si rende colpevole su questo punto, e, ammonito dal superiore, non si corregge come si deve, sia sospeso dal beneficio e dall’ufficio. La caccia degli animali e degli uccelli è proibita a tutti quelli che appartengono al clero. E non osino, quindi, avere cani o uccelli da caccia.

XVI

Le vesti dei chierici

I chierici non esercitino mestieri propri dei secolari e non si diano agli affari, specie se poco onesti. Non assistano a giochi di mimi, di giocolieri e di commedianti. Evitino assolutamente le osterie, a meno che non si tratti di un caso di necessità, quando si trovano in viaggio. Non giochino d’azzardo o ai dadi, e non assistano a simili giochi. Portino una corona (di capelli) e una tonsura conveniente, e si applichino diligentemente agli uffici divini e agli studi onesti. Indossino soprabiti chiusi, che non siano troppo corti o troppo lunghi. Non usino stoffe rosse o verdi, guanti e scarpe troppo eleganti o a punta, freni, selle, fasce e sproni dorati o con altri ornamenti superflui. Non portino cappe con maniche nella chiesa e neppure fuori – almeno quelli che sono sacerdoti o dignitari – a meno che un giustificato motivo non consigli di mutare il vestito. Non portino in nessun modo fibbie né legacci con ornamenti d’oro e d’argento e neppure l’anello, eccetto quelli cui spetta a motivo della loro dignità.

I vescovi, in pubblico e in chiesa usino tutti abiti di lino, a meno che siano monaci, che devono portare l’abito monastico. Non usino in pubblico, mantelli aperti, ma ben chiusi dietro il collo e sul petto.

XVII

Dei festini dei prelati e della loro negligenza per gli uffici divini

Deploriamo che non solo alcuni chierici minori, ma anche certi prelati passano una metà della notte in baldorie superflue e in chiacchiere illecite, per non dire altro; questi dormono il resto della notte, si svegliano appena al canto degli uccelli, a giorno tardo e restano assonnati il resto del mattino.

Vi sono altri che celebrano la messa appena quattro volte l’anno; e, ciò che è peggio, non vogliono neppure assistervi; e se per caso qualche volta sono presenti quando è celebrata, fuggendo il silenzio del coro, vanno fuori a parlare con i laici; e così seguono discorsi inopportuni e non prestano invece alcuna attenzione alle cose divine.

Proibiamo, quindi, assolutamente queste ed altre cose simili sotto pena della sospensione, e comandiamo severamente in virtù di santa obbedienza, che essi recitino il divino ufficio sia diurno che notturno, come Dio concederà loro, con zelo pari alla devozione.

XVIII

Sentenze di morte e duelli proibiti ai chierici

Nessun chierico sottoscriva o pronunci una sentenza di morte, né esegua una pena capitale né vi assista. Chi contro questa prescrizione, intendesse recar danno alle chiese o alle persone ecclesiastiche, sia colpito con la censura ecclesiastica. Nessun chierico scriva o detti lettere implicanti una pena di morte; e quindi nelle corti dei principi questo incarico venga affidato non a chierici, ma a laici.

Similmente nessun chierico venga messo a capo di predoni o di balestrieri, o, in genere, di uomini che spargono sangue; i suddiaconi, i diaconi, i sacerdoti non esercitino neppure l’arte della chirurgia che comporta ustioni e incisioni; nessuno, finalmente, accompagni con benedizioni le pene inflitte con acqua bollente o gelata, o col ferro ardente, salve, naturalmente le proibizioni che riguardano le monomachie, cioè i duelli, già promulgate.

XIX

Divieto di ingombrare le chiese con oggetti profani

Non vogliamo tollerare che alcuni chierici si servano delle chiese per depositare le suppellettili loro e di altri di modo che esse assomigliano più a case di laici che a delle basiliche di Dio. Essi dimenticano che il Signore non permetteva che un vaso venisse portato per il tempio (30).

Altri non hanno per le loro chiese alcuna cura, permettono che i vasi sacri, i paramenti liturgici, le nappe dell’altare, e perfino i corporali, siano così sporchi che ad alcuni fanno ribrezzo.

Poiché, dunque, lo zelo della casa di Dio ci divora (31), proibiamo con ogni fermezza di depositare queste suppellettili nelle chiese, salvo che, in caso di incursioni nemiche, di incendi improvvisi, o di altre urgenti necessità, non si debba cercar rifugio in esse a condizione che passato il pericolo gli oggetti siano riportati al loro posto. Comandiamo anche che i luoghi di culto, i vasi sacri, i corporali, le vesti cui abbiamo accennato, siano conservati puliti. E’ infatti assurdo che si tolleri negli oggetti sacri tale sporcizia, che sarebbe vergognosa anche nelle cose profane.

XX

Il Crisma e l’Eucarestia devono essere custoditi sotto chiave

Ordiniamo che in tutte le chiese il crisma e l’Eucarestia debbano esser conservati scrupolosamente sotto chiave, perché nessuna mano temeraria possa impadronirsi di essi profanandoli con usi innominabili. Se il custode li abbandona, sia sospeso dall’ufficio per tre mesi; e se per la sua negligenza accadesse qualche cosa di abominevole, sia assoggettato ad una pena più grave.

XXI

Della confessione, dei segreto confessionale, del dovere di comunicarsi almeno a Pasqua

Qualsiasi fedele dell’uno o dell’altro sesso, giunto all’età di ragione, confessi fedelmente, da solo, tutti i suoi peccati al proprio parroco almeno una volta l’anno, ed esegua la penitenza che gli è stata imposta secondo le sue possibilità; riceva anche con riverenza, almeno a Pasqua, il sacramento dell’Eucarestia, a meno che per consiglio del proprio parroco non creda opportuno per un motivo ragionevole di doversene astenere per un certo tempo. Altrimenti finché vive gli sia proibito l’ingresso in chiesa, e – alla sua morte – la sepoltura cristiana. Questa salutare disposizione sia pubblicata frequentemente nelle chiese, perché nessuno nasconda la propria cecità con la scusa dell’ignoranza.

Se poi qualcuno per un giusto motivo volesse confessare i suoi peccati ad un altro sacerdote, prima chieda e ottenga la licenza dal proprio parroco, poiché diversamente l’altro non avrebbe il potere di assolverlo o di legarlo (32).

Il sacerdote, poi, sia discreto e prudente; come un esperto medico versi vino e olio (33) sulle piaghe del ferito, informandosi diligentemente sulle circostanze del peccatore e del peccato, da cui prudentemente possa capire quale consiglio dare e quale rimedio apprestare, diversi essendo i mezzi per sanare l’ammalato.

Si guardi, poi, assolutamente dal rivelare con parole, segni o in qualsiasi modo l’identità del peccatore; se avesse bisogno del consiglio di persona più prudente, glielo chieda con cautela senza alcun accenno alla persona: poiché chi osasse rivelare un peccato a lui manifestato nel tribunale della penitenza, decretiamo che non solo venga deposto dall’ufficio sacerdotale, ma che sia rinchiuso sotto rigida custodia in un monastero, a fare penitenza per sempre.

XXII

Gli infermi provvedano prima all’anima poi al corpo

L’infermità del corpo dipende talora dal peccato, come disse il Signore all’ammalato che aveva sanato: Va e non voler più peccare, perché non debba accaderti di peggio (34), col presente decreto pertanto stabiliamo e comandiamo severamente ai medici dei corpi che quando sono chiamati presso gli infermi, prima di tutto li ammoniscano e li inducano a chiamare i medici delle anime, cosicché dopo che è stato provvisto alla salute spirituale degli infermi, si proceda al rimedio della medicina corporale con maggior efficacia: cessando infatti la causa, cessa anche l’effetto.

Questo decreto è motivato dal fatto che alcuni, quando soffrono, e i medici cercano di persuaderli a provvedere alla salute della loro anima, cadono in una estrema disperazione, da cui segue più facilmente il pericolo di morte.

I medici che trasgredissero, dopo la sua pubblicazione da parte dei prelati locali, questa nostra costituzione, siano esclusi dall’ingresso in chiesa fino a quando non abbiano soddisfatto nel debito modo per questa trasgressione.

Del resto, poiché l’anima è molto più preziosa del corpo, proibiamo ai medici sotto minaccia di anatema di consigliare all’ammalato per la salute del corpo qualche cosa che si risolva in danno per l’anima.

XXIII

Una chiesa cattedrale o regolare non resti vacante oltre tre mesi

Perché il lupo rapace non si impadronisca del gregge del Signore (35) per mancanza del pastore, o non avvenga che una chiesa, priva del suo capo, vada incontro a qualche grave danno nei suoi beni, volendo ovviare ai pericoli delle anime e provvedere alla sicurezza delle chiese, stabiliamo che una chiesa cattedrale o regolare non debba restar vacante oltre i tre mesi; dopo tale termine se, pur cessando il giusto impedimento, non è stata fatta l’elezione, quelli che avrebbero dovuto farla siano privati del potere di eleggere, e questo sia devoluto al superiore immediato.

Quegli cui è passato il potere, avendo Dio dinanzi agli occhi, provveda canonicamente entro tre mesi, col consiglio del capitolo e di altre persone prudenti, alla chiesa rimasta vedova, con persona adatta della stessa chiesa, o, se non se ne trovasse, di un’altra, sotto pena di sanzione canonica.

XXIV

L’elezione per scrutinio o per compromesso

A causa delle diverse forme di elezione, che si cerca sempre di escogitare, sorgono molti impedimenti e grandi pericoli per le chiese vacanti. Stabiliamo che in caso di elezione, alla presenza di tutti quelli che devono, vogliono e possono intervenire, siano scelte nel collegio tre persone che godono la comune fiducia, le quali in segreto raccolgano diligentemente ad uno ad uno il voto di tutti; poi messa ogni cosa in scritto, la pubblichino davanti a tutti. Respinta ogni possibilità di appello, fatto lo spoglio sia proclamato eletto quello che ha ottenuto l’unanimità o il voto della maggioranza, o della parte più qualificata del capitolo. Si potrebbe anche affidare il compito dell’elezione ad un certo numero di persone idonee, che a nome di tutti provvedano alla chiesa vacante il pastore. Ogni altra procedura non sia valida a meno che non sia fatta all’unanimità da tutti, come per ispirazione divina, senza alcuna irregolarità.

Chi tentasse fare una elezione contro le forme prescritte, sia privato, per questa volta, del diritto di elezione.

Proibiamo infine assolutamente che nell’elezione uno possa dare procure, a meno che sia assente, trattenuto da giusto impedimento e non possa venire. Su ciò, se necessario, dia garanzia con giuramento, allora, se vorrà, affidi ad uno dello stesso collegio di fare le sue veci.

Riproviamo anche le elezioni clandestine e stabiliamo che non appena fatta l’elezione, sia pubblicata solennemente.

XXV

L’elezione fatta dal potere secolare è invalida

Chiunque acconsentisse alla propria elezione fatta abusivamente dal potere secolare, contro la libertà canonica, perda l’elezione e diventi ineleggibile; egli non potrà essere eletto a qualche dignità senza la dispensa.

Chi poi osasse fare una elezione di tal genere – che noi dichiariamo invalida ipso jure – sia senz’altro sospeso dagli uffici e dai benefici per un triennio, privo, per quel tempo, del potere di eleggere.

XXVI

Pene contro chi conferma una elezione irregolare

Nulla nuoce maggiormente alla chiesa di Dio, quanto che indegni prelati siano assunti al governo delle anime.

Volendo rimediare a questo male, stabiliamo con un decreto irrevocabile che, quando uno è eletto al governo delle anime, quegli a cui compete la sua conferma esamini con diligenza il procedimento dell’elezione e la persona dell’eletto e se tutto si è svolto secondo le norme, conceda la conferma. Se invece si fosse proceduto con poca prudenza, non soltanto dovrà essere rifiutato chi è stato indegnamente promosso, ma dovrà essere punito anche chi l’ha promosso irregolarmente. Stabiliamo anche che questi, quando consti la sua negligenza, specie se ha approvato un uomo di scienza insufficiente, di vita disonesta, o di età insufficiente non solo sia privato del potere di confermare l’elezione del successore, ma, perché non possa in nessun caso sfuggire alla pena, sia anche sospeso dal percepire i frutti del proprio beneficio, fino a che, se sarà creduto opportuno, non meriti il perdono. Che se poi venisse convinto di aver mancato intenzionalmente, sia sottoposto ad una pena maggiore.

Anche i vescovi, se vogliono sfuggire alla pena canonica, cerchino di promuovere agli ordini sacri e alle dignità ecclesiastiche soggetti che diano affidamento di adempiere degnamente l’ufficio loro affidato.

Quelli che sono immediatamente soggetti al Romano Pontefice, per ricevere la conferma del loro ufficio, se possono si presentino personalmente alla sua presenza, altrimenti inviino persone adatte, capaci di rispondere all’inchiesta sul procedimento dell’elezione e sugli eletti stessi. Finalmente dopo attenta considerazione del complesso della cosa, con, segua la pienezza del suo ufficio, avendo soddisfatto le leggi canoniche. Quelli però le cui sedi sono molto distanti, cioè fuori d’Italia, se sono stati eletti senza opposizione, abbiano provvisoriamente l’amministrazione spirituale e temporale in considerazione della necessità e dell’utilità delle chiese, a patto però che non alienino assolutamente nulla dei beni ecclesiastici. Saranno consacrati o benedetti come si è usato finora.

XXVII

L’istruzione degli ordinandi

Il governo delle anime è l’arte delle arti. Comandiamo, perciò, severamente che i vescovi istruiscano diligentemente quelli che devono essere promossi al sacerdozio, e li formino, o loro direttamente o per mezzo di persone capaci alla celebrazione dei divini uffici e all’amministrazione dei sacramenti. Se in avvenire osassero ordinare degli ignoranti e degli inetti cosa facile da constatare – decretiamo che sia quelli che li ordinano, che gli ordinati stessi debbano sottostare ad una pena grave. E’ meglio, infatti, specie nell’ordinazione dei sacerdoti, avere pochi e buoni ministri, che molti e cattivi, poiché se un cieco fa da guida ad un altro cieco, cadono tutti e due in una fossa (36).

XXVIII

Chi ha chiesto di andarsene ne sia costretto

Qualcuno, dopo aver chiesto insistentemente l’autorizzazione di resignare, una volta ottenutala non intende più andarsene. Ma poiché nella domanda di ritirarsi essi avevano riguardo all’utilità delle chiese o alla propria salute, noi volendo sottrarli agli argomenti di quelli che non cercano che i propri interessi (37) o anche da qualsiasi forma di leggerezza, decretiamo che costoro siano costretti a ritirarsi.

XXIX

Nessuno Può avere due, benefici con cura d’anime

Con molta prudenza nel concilio Lateranense (38) fu proibito che nessuno ricevesse, contro le prescrizioni dei sacri canoni, diverse dignità ecclesiastiche e più chiese parrocchiali sotto pena per il beneficiario di perdere il beneficio stesso e per chi l’avesse conferito di essere privato del diritto di collazione. Ma poiché l’audacia e l’avidità di taluno ha privato di effetti tale decreto, noi volendo rimediare in modo più chiaro e più deciso, stabiliamo, col presente decreto, che chiunque riceve un beneficio che abbia annessa la cura delle anime, se prima ne aveva uno simile lo perda isso jure e se tentasse di tenerli entrambi, sia privato anche del secondo.

Inoltre, chi ha diritto di conferire il primo beneficio, dopo che il beneficiato ha ricevuto il secondo, può tranquillamente assegnarlo a chi crederà degno e se tarderà più di tre mesi ad assegnarlo, non solo secondo la prescrizione del concilio Lateranense (39), l’assegnazione del beneficio passa ad altri, ma egli sarà costretto a devolvere a beneficio della chiesa, cui appartiene quel beneficio, una parte dei suoi proventi pari a quanto ha ricavato da esso durante la vacanza.

Stabiliamo che la stessa prescrizione debba osservarsi anche per i personali, aggiungendo che nella stessa chiesa nessuno possa avere più dignità o personali, anche se non importino cura d’anime. Tuttavia, se si tratta di persone nobili o versate nelle lettere, degne di essere onorate con maggiori benefici, quando le circostanze lo richiedono, la sede apostolica potrà dispensare.

XXX

Circa l’idoneità per essere addetti alle chiese

assai grave e addirittura assurdo che i prelati delle chiese, potendo promuovere ai benefici ecclesiastici soggetti idonei, non abbiano ritegno ad assumere degli indegni, che non si raccomandano né per onestà di costumi, né per istruzione. In ciò essi seguono la voce della carne, non la ragione. Ora, nessuno, che sia sano di mente, ignora quanti danni ne derivino.

Volendo, quindi, rimediare a questo stato di cose, stabiliamo che, deposti gli indegni, siano nominate al loro posto persone adatte, che vogliano e possano prestare a Dio e alle chiese un grato servizio, e che si faccia ogni anno, su questo argomento, un esame diligente al concilio provinciale; chi, dopo un primo ed un secondo ammonimento fosse trovato colpevole, venga sospeso dallo stesso concilio dal conferire i benefici, e nel medesimo concilio sia eletta una persona prudente ed onesta, che nel conferimento dei benefici possa supplire chi è stato sospeso. Lo stesso si osservi per quanto riguarda i capitoli che avessero mancato su questo punto. Se poi fosse il metropolita a mancare, la sua trasgressione sia lasciata al giudizio del superiore, su denunzia del concilio.

Perché questo salutare provvedimento possa conseguire efficacemente il suo effetto, questa sentenza di sospensione non sia sciolta assolutamente da nessuno, fuorché dall’autorità del Romano pontefice o dal patriarca perché, anche in ciò, le quattro sedi patriarcali siano particolarmente onorate.


Note

(1) Opera persa, cfr. F. RUSSO, bibliografia gioachimita, Firenze 1954, p. 23
(2) PETRI LOMBARDI, Libri IV sententiarum, I dist, 5, I, Ad claras Aquas, 1916, pp. 42-51
(3) At 4, 32
(4) I Cor 6, 17
(5) I Cor 3, 8
(6) Rm 12, 5
(7) IV Re 22, 5; Cfr. Rt 1, 16
(8) Gv 17, 22-23
(9) I Gv 5, 7-8
(10) Gv 10, 29
(11) Gv 17, 22
(12) Mt 5, 48
(13) Amalrico da Bena (+1204), Cfr. H: GRUNDMANN, movimenti religiosi nel Medioevo, Bologna, 1974, 310-312 e 346-348
(14) Cfr. Gdc 15, 4
(15) II Tm 3, 5
(16) Rm 10, 15
(17) Gv 10, 16
(18) Cfr. Ez 3, 18; 33, 8
(19) Innocenzo III, in c. 17, X, V, 1 (Friedburg, 2, 738-739)
(20) Lc, 16, 2
(21) Gn 18, 21
(22) Lam 3, 12
(23) Cfr. Gdc 16, 30
(24) Cioè la notificazione del nome dell’accusatore e il suo impegno ad accettare una pena equivalente a quella richiesta per l’accusato nel caso in cui l’accusa risultasse calunniosa.
(25) Lc 16, 2
(26) Mt 4, 4; Cfr. Dt 8, 3; Lc 4, 4
(27) Cfr Lc 24, 19
(28) Lateranense III (1179), c. 18 (COD, 220)
(29) Ef 5, 6
(30) Mc 11, 16
(31) Cfr. Sal 68, 10 e Gv 2, 17
(32) Cfr. Mt 16, 19; 18, 19
(33) Cfr Lc 10, 34
(34) Gv 8, 11; 5, 14
(35) Cfr Gv 10, 12
(36) Lc 6, 39; Mt 15, 14
(37) Fil 2, 21
(38) Concilio Lateranense III (1179) c. 13 (COD. 218)
(39) Concilio Lateranense III (1179) c. 8 (COD. 215)


http://www.cronologia.it/storia/tabello/tabe1546.htm

L’eresia medievale viene erroneamente associata alla mancanza di fede, in realtà l’eresia non nasce dal non credere, ma da un bisogno di credere e di vivere diversamente la propria religione.

Era l’aspirazione di numerosi laici che volevano tornare al modello ideale di chiesa descritto nei vangeli e negli atti degli apostoli.

I movimenti evangelici si caratterizzarono per un radicale anticlericalismo che rimetteva in discussione l’esistenza delle strutture e del personale ecclesiastico.

La Chiesa assunse un atteggiamento estremamente duro nei confronti delle correnti evangeliche, come Valdesi e Umiliati, che sul piano della dottrina non erano in alcun modo separati dall’ortodossia cattolica. Al contrario sarà per molto tempo incapace di replicare e manterrà una posizione relativamente passiva di fronte al Catarismo, che rappresentava invece una reale minaccia sul piano dottrinale.

Tra i movimenti ereticali di spicco, nell’ambito della diocesi milanese, troviamo la Pataria, il cui nome deriva dal luogo in cui avevano luogo le riunioni degli adepti, le patarie, cioè le discariche di Milano.

Con Pataria si designa il movimento riformatore sviluppatosi a Milano nella seconda metà dell’XI sec.. Obiettivo del movimento era l’eliminazione della pratica del matrimonio del clero, il cosiddetto NICOLAISMO, e, in un secondo tempo, la lotta contro la SIMONIA che si configurava agli occhi dei patarini come un’eresia antitrinitaria, in quanto negatrice della santità e del valore dello Spirito Santo.

Obiettivo dei patarini erano i possessori di cariche ecclesiastiche indebitamente ottenute.

Arialdo fu il capo della Pataria milanese. Nonostante la scomunica inflitta ad Arialdo dal Sinodo provinciale di Fontaneto (tenutosi alla fine del 1057), ne il movimento ne i suoi capi persero mai l’appoggio di Roma, ma con la precauzione che l’appoggio fosse il più sfumato possibile, e che Roma fosse sempre, per i patarini, il referente a cui guardare, perché nelle azioni della Pataria c’era un potenziale pericolo per tutte le istituzioni ecclesiastiche.

Milano è stato il centro dell’esperienza patarinica. Se si considera questo fenomeno religioso in relazione alle gerarchie ecclesiastiche, le sole in grado di proclamarne il carattere ereticale, è chiaro che i patarini non si allontanarono mai dell’ortodossia, rappresentando la parte più radicale di un programma di riforma della chiesa promosso da Roma. Ciò non toglie che la continua polemica contro il clero simoniaco e concubinario fosse passibile di uno sviluppo anticlericale dal quale la chiesa si difese con la promulgazione delle Constitutiones nelle quali tracciava i limiti dell’azione dei laici ai quali veniva negata ogni facoltà di giudizio sui chierici. La lotta contro il clero indegno andava disciplinata. La discriminante era non nel merito dell’azione, ma nell’obbedienza alle direttive superiori. Quindi l’eresia nasceva in coloro che peccavano non contro la “verità” quanto contro l’”autorità”, cioè i laici che si arrogavano il diritto di giudicare i chierici.

E’ la conseguenza di una lunga tradizione, che ha indotto a credere che la Lombardia fosse una terra di eretici. Non solo, ma anche il termine patarino gradualmente venne inteso come sinonimo di eretico.

A partire dal 1270 la lotta contro gli eretici assume i connotati della crociata. Avviene quindi la mobilitazione del potere pubblico e di tutti i fedeli. Perché la crociata diventasse un’istituzione della cristianità si dovette attendere il papato di INNOCENZO III. Fin dall’inizio del suo pontificato Innocenzo III assunse un atteggiamento fermo nei confronti dell’eresia, ammettendo l’esigenza della predicazione apostolica itinerante e della povertà evangelica. Egli concesse ampio spazio d’azione all’interno della Chiesa stessa, con la condizione che le dottrine ortodosse restassero intatte e l’autorità pontificia fosse sempre riconosciuta. Quello che caratterizza il suo pontificato è la distinzione tra coloro che erano da considerare veramente eretici e gli ortodossi. Il diverso modo di vivere la religione veniva visto come eresia, cioè come disobbedienza alla Chiesa. Tale disobbedienza venne da Innocenzo III classificata come delitto di natura pubblica con la bolla Vergentis in senium del 1199, la quale equiparò l’eresia al delitto di lesa maestà. 

Con il canone Excommunicavimus del quarto Concilio Lateranense del 1215 si pongono le basi per la lotta all’eresia. Argomento principale del Concilio fu infatti la riforma della Chiesa minacciata dall’eresia. Considerando le disposizioni che furono formulate dal Concilio ci si rende conto che non ci fu nessuna reale innovazione rispetto alle risoluzioni precedenti. Il risultato fu la fusione di vecchie disposizioni in materia di eresia. Anche i metodi per fronteggiare l’eresia restano immutati, simili in tutto a quelli precedenti il 1200. Di importanza fondamentale è l’atteggiamento del Concilio per stabilire la discriminante che induceva a condannare una persona come eretico. Nelle disposizioni precedenti erano stati elencati come caratteri distintivi dell’eresia la predicazione non autorizzata e la diffusione di false dottrine sui sacramenti, pur restando valido il libero arbitrio dei vescovi nel giudicare i vari casi. Il Concilio permise una confessione di fede e giudicò eresie tutte quelle che la contraddicevano. Fu il dogma il criterio usato per la distinzione tra ortodossia ed eresia. Il Concilio condannò inoltre la predicazione non autorizzata e l’istituzione di nuovi ordini.

Altro fenomeno eretico di grande importanza fu il catarismo. La definizione di Catari o Uomini Puri fu coniata dagli stessi adepti. In genere vennero chiamati in modi diversi derivando il nome dal luogo in cui la loro presenza era predominante: ALBIGESI da Albi, concorreziani da Concorrezzo, ecc..

L’origine dell’eresia catara è un argomento sul quale gli storici si sono a lungo divisi. È probabile che il catarismo sia una derivazione della setta dei BOGOMIL che fece la sua comparsa nel X secolo in Bulgaria e si diffuse a Costantinopoli alla fine dell’XI secolo.

Professavano una dottrina dualista, predicavano una assoluta purezza di vita e rifiutavano i sacramenti fatta eccezione per il battesimo.

Per i catari il problema essenziale consisteva nel liberare l’animo umano dal potere del male che governava il mondo terreno. Il messaggio dei catari era un invito alla liberazione: ciascuno veniva chiamato a seguire la parola di Cristo. A giudizio dei Catari la Chiesa avendo accettato il potere e le ricchezze aveva optato per il male e quindi non era più in grado di offrire alcun sostegno per la purificazione. La salvezza poteva venire solo dalla nuova chiesa dei Catari.

Sarebbe comunque errato considerare il catarismo un fenomeno unico unito intorno ad una dottrina comune. Infatti, ogni comunità conservava un’autonomia resa ancora più ampia dal fatto che, a differenza della Chiesa cattolica, non esisteva un’entità centrale incaricata di fissare un’ortodossia comune.

Il fascino esercitato dalla chiesa catara fu molto forte, e questo fu dovuto al rigore morale che la distingueva dal clero cattolico che era sovente mediocre e corrotto.

Un’altra ragione del successo del catarismo è di tipo dottrinale. Il catarismo si era subito proposto come l’autentica Chiesa di Cristo, quella degli apostoli, quella che la Chiesa cattolica, avendo ceduto alla tentazione del potere aveva tradito.

La liturgia catara era molto semplice: un solo sacramento era ammesso, il consolamentum, una specie di battesimo impartito agli adulti, che permetteva all’avvicinarsi della morte di liberarsi dal peccato.

Dopo il Concilio cataro di Saint Felix de Caraman del 1167 si cominciò ad intuire la pericolosità del fenomeno cataro.

Papa ALESSANDRO III li condannò come eretici, condanna che venne confermata successivamente da INNOCENZO III.

Il momento decisivo che segnò la fine del catarismo fu l’uccisione nel 1208 del legato pontificio Pietro di Castelnau. Fu allora che Innocenzo III nel 1209 promosse la crociata che portò all’annientamento del fenomeno, anche se la sconfitta dei catari non significò la fine della lotta contro le eresie.

(By: Simonetta – “Simi”)

BIBLIOGRAFIA

ERETICI ED ERESIE MEDIEVALI di G.G. Merlo
CONTRO GLI ERETICI di G.G. Merlo
MOVIMENTI RELIGIOSI NEL MEDIOEVO di H. Grundmann


ERESIE: SECOLI XII-XIII

E’ l’età dello sviluppo comunale che portò con sé un vasto movimento e trasformò la struttura della società e le istituzioni politiche, interessando anche la vita religiosa. Le nuove condizioni create dallo sviluppo cittadino portarono gradualmente ad una laicizzazione della cultura e dell’educazione ed una maggiore libertà della ricerca scientifica. In questo quadro politico economico e sociale in profonda evoluzione, rientrò necessariamente un’esigenza riformatrice della vita religiosa, delle strutture ecclesiastiche e persino degli ordinamenti morali. Infatti in questo particolare periodo storico si manifestarono numerosi movimenti di riforma  rivolta contro la secolarizzazione della chiesa, il commercio delle cariche ecclesiastiche, la corruzione e l’ignoranza di una parte del clero. 

Tali correnti si rifacevano spesso a problematiche già esistenti nel XII secolo e non risolte dalla riforma Gregoriana . I primi a denunciare l’allontanamento avvenuto da parte delle istituzioni religiose, da quelli che erano i valori morali e spirituali del Cristianesimo, e a ridare nuova dignità, furono colti e pii intellettuali come Pier Damiani e Anselmo d’Aosta. Monasteri di grande fama, come l’abbazia di Cluny (da cui nasce il movimento dei Cluniacensi), o comunità di monaci eremiti, come quella fondata da san Nilo in Calabria, o le congregazioni di Camaldoli e di Vallombrosa, acquistarono enorme peso religioso e politico. 

I Cluniacensi, la cui polemica fu rivolta contro il concubinato del clero e contro la pratica della simonia (D), si proposero il compito di moralizzare la vita ecclesiastica e di riportare il clero regolare alle funzioni spirituali che gli erano proprie. Questi monaci riformatori incoraggiarono anche parte dei ceti popolari a ribellarsi ai vescovi-conti che governavano le città. A tal proposito possiamo trovare un episodio degno di nota in un movimento politico-religioso sorto a Milano detto spregiativamente dei Patari (in milanese straccioni). Altra vicenda particolarmente interessante fu l’insurrezione avvenuta nella città di Roma, che portò all’istituzione del comune di Roma. 

L’esperienza comunale romana, infatti, come del resto avvenne anche a Milano con la sommossa dei Patari, si incontrò con un movimento politico-religioso che condannava la ricchezza ed il possesso dei beni materiali da parte del clero e predicava il ritorno della chiesa alla sua missione puramente spirituale, non contaminata da interessi. 
Uno dei maggiori rappresentanti di questa corrente di idee fu Arnaldo da Brescia che si recò a Roma nel 1147, assumendo il ruolo di guida spirituale e politica del comune, al quale cercò di dare un indirizzo spiccatamente popolare. Arnaldo fu fatto prigioniero e poi ucciso nel 1154. Tuttavia le esigenze fin qui emerse, rimasero vive e inappagate finché sfociarono nel XIII e XIV secolo in nuovi e vasti movimenti riformatori, che in molti casi divennero eresie vere e proprie. 

Il primo caso è quello degli Umiliati, diffuso soprattutto nella Lombardia, di ispirazione evangelica e pauperistica, che trovava largo ascolto tra gli artigiani. Il secondo è quello della dottrina Catara, che professava principi estranei alla religione Cristiana, riprendendo la tradizione del Manicheismo, con la sua visione dei due principi divini inconciliabili, il bene e il male. I Catari consideravano il mondo terreno e tutte le creazioni dell’uomo, tra cui in primo luogo la chiesa, come opere del male, contro cui bisognava assumere un atteggiamento di antitesi totale. Giungevano persino a rifiutare il matrimonio, per non avere figli, e a giustificare l’annullamento del corpo mediante il suicidio. Il Catarismo si diffuse nell’Italia del nord, in Provenza e nella Linguadoca, penetrando in tutte le classi sociali e divenendo pericoloso, per la sua estensione e per la radicale condanna del Cattolicesimo. Tra l’altro costituì una propria chiesa con un preciso ordinamento gerarchico e pratiche religiose definite, tra cui una delle più singolari era il digiuno fino alla morte (Endura). La chiesa tentò ripetutamente di riconvertire i seguaci di tale dottrina, che avevano costituito il loro principale centro organizzativo ad Albi, Francia meridionale, finché il Papa Innocenzo III (1160-1216) iniziò una vera e propria crociata, che si concluse nel 1229 con uno sterminio di massa.

Altri movimenti che si svilupparono al di fuori della chiesa ebbero come motivi comuni l’idea del ritorno al Cristianesimo delle origini, il distacco dai beni e dagli interessi mondani e la rivendicazione dell’uguaglianza tra i fedeli. Convinti interpreti di questi motivi furono i Poveri di Lione, movimento sorto in Francia alla fine del secolo XII. Promotore fu un mercante di Lione, Pietro Valdo. Poiché rifiutavano di riconoscere la gerarchia ecclesiastica i Valdesi  furono condannati come eretici nel 1180. Le loro idee si diffusero nelle regioni Alpine, nel Delfinato, nella Provenza ed anche in Piemonte e in Lombardia. 

poveri Lombardi, che tennero un convegno a Brescia nel 1218, negavano la validità dei riti cattolici, il culto dei santi e delle immagini, il Purgatorio e le indulgenze . I Valdesi non miravano soltanto alla riforma morale e del costume, ma proponevano anche un ripensamento della dottrina Cristiana e delle interpretazioni che ne aveva dato il Cattolicesimo, anticipando tesi e concetti che Lutero  avrebbe sostenuto all’inizio del XVI secolo. Una diversa impostazione ebbe la corrente suscitata dal monaco calabrese Gioacchino da Fiore (1141-1202), appartenente all’ordine Cistercense, che profetizzò l’avvento di una terza età, in cui l’umanità si sarebbe purificata. Anche la dottrina Gioachinita, pervasa da una vigorosa ansia di riforma, fu ufficialmente condannata dalla chiesa. In ambito di tale dottrina anche l’eresia di Frate Dolcino da Novara, che all’inizio del ‘300 capeggiò una vasta rivolta contadina nell’Italia settentrionale. Fra’ Dolcino aveva preso la guida del movimento degli Apostolici (nato verso il 1260 nella regione di Parma), dopo la morte di Gerardo Segarelli, arso vivo.

Tra il XIV e XV secolo, a seguito anche del Grande Scisma della chiesa, ci fu un ulteriore incremento delle tendenze riformatrici, che a volte furono contenute e cercarono di stare all’interno della struttura ecclesiastica, mentre altre volte caddero nella eresia.

Alcuni di questi movimenti sono ” I Servi di Maria “, che erano aggregazioni di laici molto vicine agli Ordini mendicanti e i Fraticelli, che era un ramo dissidente dei Francescani. Anche le donne iniziarono ad aderire alla protesta religiosa, formando il gruppo delle Beghine ; né laiche né religiose, esse suscitarono sospetto e subirono, tra 1290 e 1310, accuse di eresia.

Un grande impulso alla esigenza di riforma fu dato dall’azione di Wycliffe (1330-1384) un professore dell’università di Oxford. Il punto principale della sua dottrina fu l’affermazione che l’opera della chiesa dovesse svolgersi su di un piano puramente spirituale; Wycliffe giunse a negare completamente la gerarchia ecclesiastica, l’autorità del Pontefice, i sacramenti, le indulgenze e la confessione. Le sue idee si diffusero tra i ceti popolari dando origine al movimento dei Lollardi e penetrarono profondamente nella coscienza religiosa del popolo inglese e contribuirono a preparare il terreno alla penetrazione della Riforma Protestante.

In Boemia , un sacerdote, Jan Hus, vicino alle posizioni di Wycliffe , si pone in aperto contrasto con l’autorità ecclesiastica. La sua posizione, da un punto di vista dottrinario, è meno intransigente e radicale di quella di Wycliffe. La frangia estrema del movimento degli Hussiti, che assume il nome di Taboriti, tiene a lungo testa agli eserciti imperiali, solo nel 1434 sarà sconfitta.


LA CROCIATA CONTRO GLI ERETICI

LE CROCIATE

Il 27 novembre 1095 è una data tragica della storia mondiale. Dalla cittadina

francese di Clérmont il papa Urbano II bandisce la prima crociata.

“Secondo il pontefice uccidere in una guerra di tal fatta poteva far guadagnare il

favore di Dio e un posto accanto al suo trono (…) Oltre alla licenza di uccidere, il

buon cristiano poteva ottenere la remissione di tutto il tempo che avrebbe dovuto

scontare in purgatorio e delle penitenze che avrebbe dovuto fare in terra. Gli veniva

promesso infatti che, se fosse morto durante la santa crociata, sarebbe stato

automaticamente assolto da tutti i peccati e, se fosse sopravissuto, sarebbe stato

protetto dalla punizione temporale per qualunque peccato avesse potuto

commettere. Come il monaco o il sacerdote, il crociato veniva svincolato dalla giustizia

secolare e considerato soggetto solo a quella spirituale. Se fosse stato riconosciuto

colpevole di un qualunque crimine, gli sarebbe stata semplicemente confiscata la

croce rossa di crociato e sarebbe stato punito <<con la stessa clemenza riservata agli

ecclesiastici”. Negli anni successivi, gli stessi benefici sarebbero stati offerti su più

larga scala. Per usufruirne, il cristiano non doveva neppure impegnarsi di persona

nella crociata, era sufficiente che si limitasse a fare una semplice donazione in

denaro per sostenerla.” (Michel Baigent, Richard Leigh, L’inquisizione, persecuzioni,

ideologia e potere, Marco Tropea editore, Milano, 2000, pag. 18-19)

La prima crociata portò alla formazione di una colonia franca a Gerusalemme.

Questa specie di guerra coloniale, giustificata con pretesti religiosi, impegnò

per due secoli il mondo “cristiano”, dal 1095 al 1270. Le date delle crociate

sono stabilite nei pochi anni in ebbe luogo ciascuna spedizione vera e

propria, ma bisogna considerare che la guerra si protrasse, pressoché

ininterrotta, per tutto il tempo.

Crociate Descrizione

1° 1096-1099 Fondazione del regno franco di Gerusalemme.

2° 1147-1149 Condotta da Luigi VII di Francia e Corrado III di Germania. Finisce

in un fiasco con il fallimento dell’assedio di Damasco.

3° 1189-1192 Conducono Filippo Augusto, Barbarossa e Riccardo Cuor di Leone,

la lotta si svolge contro il Saladino con vicende alterne.

4° 1202 -1 204 Bonifacio II di Monferrato e Baldovino IX di Francia la conducono,

l’obiettivo in realtà è il saccheggio di Costantinopoli (!).

5° 1208-1224-

1255

Crociata albigese, indetta da Innocenzo III, poi guidata da Luigi

VIII, da nobili del Nord e da Simone de Monfort contro le città

indipendenti della Francia del sud: fine della cultura in lingua d’Oc,

massacri di civili, caccia agli “eretici”, roghi e inquisizione.

6° 1217-1221 Condotta da Giovanni di Briemme re di Gerusalemme e da Abdrea

II re di Ungheria, fallisce al monte Tabor.

7° 1228-1229 Federico II ottiene Gerusalemme pacificamente, sposando la figlia

del re (Isabella di Brienne) e un trattato con il sultano d’Egitto che

restituisce la città per 10 anni.

8° 1248-1254 Condotta da Luigi IX si risolve in un fallimento.

9° 1270 Luigi XII muore e nel 1290 i franchi saranno definitivamente espulsi

dall’oriente.

LA CROCIATA CONTRO I CATARI E LA CULTURA PROVENZALE

La crociata bandita da Innocenzo III nel 1208 ottenne il risultato di liquidare

la cultura laica che si stava diffondendo nel sud della Francia, grazie alla

lingua d’Oc, ai trovieri, ai signori indipendenti di castelli e città, che

vivevano in quel periodo un momento d’oro che aveva prodotto, tra l’altro,

un bellissimo esempio di letteratura non religiosa, incentrata sull’ “amore

cortese”. Questa cultura idealizzava la corte feudale, la cavalleria, i valori

della società del sud della Francia dell’epoca e, contemporaneamente, si

intrecciava con la diffusione di fenomeni, definiti “eretici” dalla chiesa

cattolica. In realtà queste pretese “eresie” erano manifestazioni di

insofferenza nei confronti della corruzione del clero romano, dalla sua

deriva morale e sociale e di affermazione di valori legati alle condizioni

sociali, economiche e di vita delle province provenzali francesi, oltre a

rappresentare una generale aspirazione all’emancipazione e alla lotta contro

l’ingiustizia. Questo fenomeno preoccupava moltissimo la chiesa, ma fu

possibile lanciare una crociata contro il sud della Francia, solo quando il

Vaticano fu certo di ottenere l’appoggio del regno di Francia nel Nord. I n

effetti mentre al Nord il regno di Francia maturava posizioni accentratrici e

di unificazione economica, politica, culturale e statale, il sud del paese

continuava sulla strada della propria autonomia, della frammentazione in

contee e ducati, piccoli domini che mantenevano la propria indipendenza.

chiesa cattolica e regno di Francia si allearono in questa crociata con lo scopo

di schiacciare ogni manifestazione di indipendenza raggiunta dalla cultura

provenzale, sia sotto il piano politico che culturale e religioso.

In effetti: “La Linguadoca era una regione tollerante. I conti di Tolosa e altri

governanti delle regioni meridionali concedevano alla gente libertà di religione. I

Valdesi avevano tradotto la Bibbia nella lingua d’oc e la stavano predicando con

zelo, a due a due, in tutta la regione. Anche i catari (noti pure come albigesi)

diffondevano la loro dottrina e facevano molti convertiti tra i nobili. Molti sirventesi dei

trovatori rispecchiavano la delusione, la mancanza di rispetto e il disgusto che la

gente provava nei confronti del clero cattolico. Un sirventese di Gui de Cavaillon

condanna gli ecclesiastici per aver “abbandonato la loro vocazione originale” in

favore di interessi più mondani. I testi dei trovatori mettevano in ridicolo l’inferno di

fuoco, la croce, la confessione e l’acqua “santa”. Si facevano beffe delle indulgenze

e delle reliquie e satireggiavano i preti immorali e i vescovi corrotti definendoli

“traditori, bugiardi e ipocriti. La chiesa cattolica, tuttavia si riteneva superiore a

qualsiasi impero e regno. La guerra divenne il suo strumento di potere. Papa

Innocenzo III promise la ricchezza di tutta la Linguadoca all’esercito che fosse riuscito

a sottometterne i principi e ad eliminare ogni dissenso nelle regioni meridionali della

Francia. Quello che seguì fu un periodo di torture e di stragi tra i più sanguinosi che

la storia francese ricordi. Fu chiamato la crociata contro gli albigesi (1209-29). I

trovatori la definirono la “falsa crociata”. Le loro canzoni espressero indignazione per

la crudeltà della chiesa nei confronti dei dissidenti per il fatto che il papa offriva a chi

uccideva i dissidenti francesi le stesse indulgenze offerte a chi uccideva i musulmani,

considerati infedeli. Con la crociata contro gli albigesi e L’inquisizione che seguì la

chiesa si arricchì grandemente. Intere famiglie furono diseredate, e le loro terre e le

loro case vennero confiscate. Accusati di essere eretici catari, quasi tutti i trovatori si

rifugiarono in paesi meno ostili. Questa crociata segnò la fine della civiltà occitana,

del suo modo di vivere e della sua poesia. I decreti dell’inquisizione proibirono di

cantare o anche solo di canticchiare a bocca chiusa le canzoni dei trovatori. Ma la

loro eredità non andò perduta. In effetti, le loro canzoni anticlericali prepararono il

terreno per quella che sarebbe stata la Riforma. Sì, i trovatori possono essere

ricordati non solo per le loro canzoni d’amore.”. (Christian E. Maccarone presidente

del CSSSS http://members.tripod.it/CSSSSTRINAKRIA/trov.html)

Dunque il pretesto era di combattere contro l’eresia dei Catari, lo scopo reale

sottomettere la Provenza agli ordini del re di Francia e del papa.

Le idee dei Catari erano semplici e chiare. Essi propugnavano un contatto

diretto con “il divino”, non più mediato dai preti, dal clero. Qualunque

individuo che avesse seguito i dettami storici della religione, volgendo il

proprio interesse non verso la materia, ma verso la spiritualità, avrebbe

trovato una propria dimensione di accordo e contatto con il divino, senza più

alcun bisogno della struttura clericale. Era un movimento chiaramente

contrapposto alla corruzione cattolica che predicava l’amor dei e il disprezzo

dell’amor mundi, ma vendeva la remissione dei peccati e le cariche

ecclesiastiche. Inoltre la struttura cattolica era una vera e propria istituzione

dell’oppressione feudale, che schiacciava i contadini nel gioco della servitù

della gleba, delle tasse, delle mille gabelle e servizi con i quali legava il

popolo a sé. I Catari, come altri movimenti “eretici” rappresentavano una

forma di rivolta popolare contro l’oppressione della società feudale che,

invece di esprimersi sul terreno politico, si muoveva sul piano religioso. La

religione era importante per le popolazioni dell’epoca ed era un vero e

proprio terreno di discussione, di incontro, di riflessione e anche di sfogo.

Essendo anche un luogo di potere era naturale che lo scontro politico e

sociale avvenisse sul terreno religioso. La rivolta era talmente diffusa e

l’oppressione così insopportabile che:

“nel XII secolo nel Sud della Francia il catarismo minacciava davvero di soppiantare il

cristianesimo (…) Ai cavalieri, ai nobili, ai commercianti e ai contadini del Sud della

Francia, sembrava offrire una consona alternativa alla detestata chiesa di Roma:

duttilità, generosità, onestà, tolleranza erano qualità non facilmente reperibili nella

gerarchia ecclesiastica istituzionale. Inoltre, in campo pratico, offriva una via di

scampo all’onnipotente clero romano, all’arroganza clericale e agli abusi di una chiesa

corrotta, i cui latrocini diventavano sempre più intollerabili. Non è un mistero che la

chiesa del tempo fosse vergognosamente corrotta. (…) I vescovi furono descritti dai

contemporanei come <<pescatori di denaro e non di anime, esperti in mille inganni

per svuotare le tasche ai poveri” – cit. in: Lea H.C A History of the Inquisition of the

Middle Ages, London, 1888, vol. 1 pag. 53 – (…) In alcune chiese, addirittura, non si

officiava la messa da più di trent’anni, perché i sacerdoti trascuravano i parrocchiani e

si dedicavano ai commerci o all’amministrazione dei loro possedimenti. L’arcivescovo

di Tour, notoriamente omosessuale e che era stato il favorito del suo predecessore,

pretese che l’episcopato di Orléans fosse assegnato al proprio amante. L’arcivescovo

di Narbona non si curò neppure di visitare la città e la ,sua diocesi. Numerosi

ecclesiastici si dedicavano ai banchetti, mantenevano cortigiane, insomma, uno stile

di vita consono più alla grande nobiltà che al clero, mentre le anime affidate alle loro

cure erano abbandonate alle vessazioni e ridotte in uno stato di degrado e di miseria

sempre più profondo. Non sorprende, quindi, che una parte rilevante della

popolazione, a prescindere da ogni questione spirituale, volgesse le spalle a Roma e

abbracciasse il catarismo.” (Michel Baigent, Richard Leigh, L’inquisizione,

persecuzioni, ideologia e potere, Marco Tropea editore, Milano, 2000, pag. 25-27).

Il legato papale, Pierre de Castelnau doveva seguire l’applicazione del nuovo

indirizzo del papa, che nel novembre del 1207 aveva esortato il re di Francia e

gli alti nobili a estirpare l’eresia in Francia. Il legato papale si scontrò con il

conte di Tolosa che aveva promesso di sterminare gli eretici, ma non fece

nulla. La mattina del 14 gennaio 1208 il legato fu ucciso. Il papa accusò il

conte di Tolosa e lo scomunicò. Iniziava l’escalation che avrebbe condotto alla

crociata. Alla fine di giugno 1209 fu finalmente costituita una crociata di

circa ventimila uomini formata soprattutto da nobili del Nord, cavalieri,

avventurieri, guidata da un nobile di basso rango che diventerà tristemente

famoso: Simone de Monfort. Il 22 luglio la città di Béziers fu messa a ferro e

fuoco. Di fronte al problema di distinguere gli eretici dai cattolici, il legato

pontificio sembra avesse affermato: “Uccideteli tutti, Dio distinguerà i suoi”

(J. Sumption, The Albigesian Crusade, London, 1978, pag. 93, cit. in: ibidem,

pag. 29). Al di là della loro verità storica, queste cronache testimoniano la

grande diffusione del catarismo e delle varianti eretiche e restano

documentate la violenza della crociata e le atrocità commesse dai cattolici. A

Béziers vennero massacrate circa ventimila persone, donne, bambini, vecchi,

giovani, non importa il rango o l’età. 7000 di essi furono bruciati vivi

all’interno di una chiesa. Assedio dopo assedio, le città si arresero. Un

tentativo del re di Aragona, nel 1213, di fermare questa orrenda carneficina

fallì a causa della sua sconfitta con le forze della crociata nella battaglia di

Muret. Nel 1217 i crociati assediarono per nove mesi la città di Tolosa, assedio

durante il quale lo stesso Simone de Monfort conobbe la sua morte e la

crociata fallì nell’impresa. Nel 1224 venne indetta un’altra crociata guidata

da Luigi VIII, orrori e guerre si susseguirono finché, nel 1229 tutta la

Linguadoca fu annessa alla corona francese. Ci furono ancora rivolte catare

nel 1240 e nel 1242 e infine Montségur, la più importante roccaforte dei

catari cadde il 16 marzo del 1244. Duecento catari furono inviati al rogo e poi

Quéribus, l’ultima fortezza catara, cadde nel 1255.

“Alla fine i domini del sud passarono direttamente o indirettamente, sotto il controllo

della monarchia francese. L’inquisizione, creata dai Domenicani, il nuovo Ordine

mendicante nato apposta per dichiarare guerra all’eresia, stringe la vita religiosa in

una morsa di ferro. La delicata vita sociale delle corti meridionali è squassata fin dalle

fondamenta e ne risente in tutte le sue manifestazioni. La vittima più illustre della

crociata e dei nuovi dominatori, forse al di là delle loro vere intenzioni, è la forma di

espressione artistica per la quale questi territori diventeranno famosi: la poesia

provenzale” (Franco Suitner – doc. Letteratura Italiana, Univ. Venezia – “Poesia

d’Oc”, medioevo, n. 4, ottobre 2000, pag. 94-115)

La chiesa non avrà più bisogno delle crociate contro gli eretici perché, nel

corso stesso di questa crociata, aveva forgiato una nuova arma che

affiancherà il suo potere per molti secoli: l’inquisizione, fondata dall’ordine

dei frati Dominicani. Un potere speciale e terribile che spargerà odio e

violenza in tutta Europa e anche nel Nuovo Mondo al servizio, beninteso, della

lotta per la fede cristiana, contro le eresie.


http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/000531.htm

Manichei, gli eretici che conobbero la luce

Armando Torno

Furono combattuti dagli imperatori romani e dai primi cristiani. Si difesero portando il loro messaggio dalla Spagna alla Cina
Una corrente religiosa sopravvissuta sino ai nostri giorni. Esce la prima raccolta di testi in italiano

Che senso ha oggi parlare dei manichei e della loro religione che si propagò dalla Spagna alla Cina per oltre un millennio? Che cosa può suggerirci ancora Mani, il fondatore, che fuse nel suo credo le dottrine di Buddha, Zarathustra e Gesù, nonché alcune suggestioni della letteratura apocalittica ebraica? È difficile offrire una risposta precisa, anche perché la raccolta del corpus manicheo è in corso di stampa (presso la Brepols di Turnhout) e molti scritti attendono di essere interpretati. Intanto esce la prima raccolta di testi in italiano: l’ha curata Aldo Magris per Morcelliana, si intitola Il Manicheismo . A prescindere dalla sistemazione di questo lascito che occuperà per anni gli specialisti, resta il fatto che numerose tracce di quel mondo fiorito tra il III e il XIII secolo della nostra era continuano a sopravvivere nel contemporaneo. Lo stesso aggettivo “manicheo” indica l’atteggiamento di chi condanna un’idea contrapponendone un’altra degna di esclusiva esaltazione. È l’ultimo residuo della lotta tra la Luce e le Tenebre, tra Dio e la materia della cosmogonia di Mani. È una convinzione che permea il pensiero dell’Occidente: si applica alle nostre categorie di giudizio allorché definiamo senza sfumature una certa cosa Bene e un’altra Male. Anche il dualismo tra anima e corpo, che tanto interessa la psicoanalisi, si ritrova in un frammento scoperto a Turfan, scritto in mediopersiano. In tal caso la separazione non è netta: l’anima non è solo una entità spirituale e il corpo un puro dato anatomico, giacché per Mani il nostro involucro di carne ha uno spirito perverso che ne guida le manifestazioni maligne, soprattutto aggressività e concupiscenza. Numerose sorprese riserva la morale manichea. Nel libro di Magris, in un capitolo tradotto dal copto da Claudio Gianotto, ci si accosta a idee che riflettono l’atteggiamento della solidarietà globale: “Abbiamo misericordia gli uni degli altri, in modo che anche noi riceviamo misericordia; perdoniamoci l’un l’altro, in modo che anche noi siamo perdonati”. Quest’altro passo ricorda la tarda filosofia greca: “Tutti si affannano perché vogliono guadagnare qualche cosa per la loro anima; tutti sono spaventati e sconvolti perché vogliono salvare la propria vita”. Non sono che esempi di una spiritualità sorta presso Babilonia (Mani nacque nel 216 in un sobborgo di Ctesifonte) e che raggiunse – attraverso la Via della seta – India e Cina, che seppe coinvolgere le più disparate religioni e influenzò alcune sètte del nostro medioevo, come gli Albigesi. Anzi, presso la tribù turca degli Uigùri, fu religione di Stato sino al XV secolo; stando all’importante saggio di Lieu sul manicheismo (pubblicato a Tubinga nel 1992), sopravvisse in Cina in piccole comunità sino ad epoche recenti. Il carattere camaleontico di questa religione fu anche la sua forza; inoltre, a differenza del giudaismo e del cristianesimo, essa si presentò sempre come un sistema compiuto e l’unico autore di riferimento fu il medesimo Mani, tanto nei principi pratici che in quelli teorici. Per questo è riuscita a passare indenne attraverso i secoli e le forme espressive. Egli fece miracoli e prodigi come Cristo, come lui morì dopo una lunga sofferenza (scorticato e impagliato, quindi esposto al ludibrio); a Gesù rivolse l’ultima preghiera. Il manicheismo parlava di salvezza, di redenzione, praticava il battesimo e la confessione, anche se con differenze rispetto al cristianesimo. Sant’Agostino fu manicheo per un decennio e poi si trasformò in acerrimo nemico. I suoi scritti contro questa religione occupano ben tre volumi dell’opera completa in corso presso l’editrice Città Nuova (sino ad oggi ne è uscito uno solo, che contiene le Due anime e la Natura del Bene ). Gli imperatori romani della decadenza colpirono duramente i manichei. Si conoscono editti di Teodosio I e II, Valentiniano I e III: chiusura dei luoghi di culto, confisca dei beni, esilio perpetuo, distruzione dei libri. Giustiniano nel 527 comminava per la prima volta la pena di morte. Ma quella religione innamorata della luce si spostava, si sottraeva. Per Mani gli esseri luminosi non sanno reagire e il Padre li soccorre decidendo da “se stesso”. Anche se in aramaico, la lingua che Mani parlava, “se stesso” si dice nafsha’ , ovvero “la propria anima”. Ed è quindi la “sua propria anima” che Dio evoca come personaggio a sé stante e invia a combattere.


Sull’eresia vedi anche:

www.disinformazione.it

I cattolici e la caccia agli eretici
di Enzo Mazzi* – “l’Unità” del 22 novembre 2004


Cosa dicono, OGGI, gli ascari cattolici, sulle eresie ? Leggiamo:

http://www.culturanuova.net/storia/1.inquisizione.php (sono cattolici di derivazione vaticana)

Il Cristianesimo tiene a due valori essenziali: la verità e la carità. Quello dell’Inquisizione è uno dei casi in cui la conciliazione di tali due valori è parsa particolarmente complessa. E’ molto probabile anzi che si sia trattato di un tragico misconoscimento del valore della carità, in nome di una distortamente intesa esigenza di affermare la verità. In questo senso noi non vogliamo “difendere l’Inquisizione”, anche se aspettiamo che su tale fenomeno sia fatta piena luce dagli studiosi, appositamente incaricati di accedere a tutti gli archivi della Chiesa, dopo secoli in cui molta storiografia laicista e anticattolica ha potuto “lavorare di fantasia”, librandosi al di sopra di una serietà documentaria.

Per capire che cosa sia stata l’Inquisizione medioevale occorre capire che cosa fossero le eresie bassomedioevali, in rapporto alle quali essa sorge.

Non sono eresie l’ateismo, o le religioni diverse dal Cristianesimo (ebraismo, islam, ecc.).

E’ dunque importante notare che la Chiesa non ha mai chiesto di perseguitare, e men che meno di ammazzare, gli atei, o gli ebrei, o i mussulmani.

Anche qui si vede la differenza rispetto all’Islam, che invece prevede l’uccisione degli infedeli, idolatri e politeisti. L’inquisizione medioevale non si occupava di loro, ma solo degli eretici cristiani.

Una eresia è una interpretazione dei dogmi del Cristianesimo che ne altera, consapevolmente e volontariamente, il contenuto. Consapevolmente e volontariamente: occorre andare contro un dogma (non quindi aspetti secondari, qualcosa di essenziale della verità cristiana) stabilito formalmente e solennemente da un Concilio. Dunque non si potrebbe essere eretici … senza saperlo e senza volerlo.

Altro nota bene: l’eresia è una concezione, consapevolmente e volontariamente affermata, non è una incoerenza etica; riguarda il piano delle idee, non quello della prassi. Nessuno è mai stato inquisito come eretico per aver fatto qualcosa, ossia per una debolezza morale, ma per aver tenacemente sostenuto di essere depositario della vera interpretazione del Cristianesimo.

Un eretico dunque è uno che, senza credere nel dogma, pretende di essere cristiano. Pretende che la sua interpretazione dei dogmi sia vera, e sia falsa quella della Chiesa e della Tradizione.

E’ importante cogliere la dimensione civile (sociale e politica) delle eresie. Esse non erano soltanto delle diverse maniere di pensare la fede, non si limitavano ad un ambito “puramente spirituale”, ma comportavano delle conseguenze eversive sul piano civile e sociale, che allarmavano non solo i detentori del potere politico, ma anche molta gente comune. Molto spesso gli eretici non si limitavano alla predicazione delle loro idee, ma ricorrevano alla lotta armata, mettendo a ferro e fuoco intere regioni (come fu il caso, in Italia del Nord, di fra’ Dolcino da Novara).

Da ciò il fatto che i primi a interessarsi delle eresie non furono ecclesiastici, ma politici, e la stessa gente del popolo, danneggiata anche materialmente dal clima di disordine e di violenza che gli eretici creavano.

Proprio per questa valenza socialmente distruttiva, le eresie venivano in un primo tempo affrontate in modo sommario dalla società civile e dal potere politico. In questo senso la Chiesa interviene non per aizzare alla violenza contro gli eretici, ma al contrario per moderarla e immettere nella lotta alle eresie un elemento di maggior discernimento. Leggiamo dal contributo del prof. Pappalardo

La ferma riprovazione dei civili contro le vessazioni degli eretici costringe le autorità ecclesiastiche a intervenire, anzitutto per controllare e per frenare una reazione nata dal popolo e gestita, non sempre con il necessario discernimento, dai tribunali laici, che si illudevano di risolvere il problema inviando con disinvoltura gli eretici al rogo.

[anche qui, come nella Leggenda Nera, vi èuna rivolta dei civili contro le angherie degli eretici (dice un tal Pappalardo in uno dei siti cattolici:

L’Inquisizione nasce verso la fine del Medioevo propriamente detto come risposta della Chiesa agli eccessi di movimenti ereticali, che non si limitavano a propugnare deviazioni di contenuto esclusivamente teologico – contrastati fino ad allora sul piano dottrinale e solo con mezzi spirituali -, ma insidiavano mortalmente la società civile. La ferma riprovazione dei civili contro le vessazioni degli eretici costringe le autorità ecclesiastiche a intervenire, anzitutto per controllare e per frenare una reazione nata dal popolo e gestita, non sempre con il necessario discernimento, dai tribunali laici, che si illudevano di risolvere il problema inviando con disinvoltura gli eretici al rogo.

Questi civili chiedono aiuto alla Chiesa che è buona e protegge tutti (nel caso della Leggenda Nera, gli indios erano stufi dei Maya, Incas, … e si appoggiarono ai cattolici spagnoli per farli fuori. Stesso copione farisaico per questa centrale di menzogne).]

http://www.medievale.it/new_site/artic_content.asp?target=zanella_001

Eresia colta e popolare



La storia dell’eresia nel Medioevo è tutt’altro che lineare. Dopo le grandi contese trinitarie e cristologiche che affaticarono non poco la cristianità fra IV e VIII secolo, per un lungo periodo, grosso modo dalla metà dell’VIII alla metà del XII secolo, l’eresia praticamente scomparve dall’Europa cristiana. Ci furono sì qua e là episodi definiti “ereticali”, ma si tratta, nella stragrande maggioranza dei casi, di vere e proprie “stranezze”, generate per lo più dal desiderio di uniformarsi all’insegnamento di monaci e di eremiti, tanto più credibili ed influenti sulla società dei laici quanto più distaccati dal mondo, e quindi legittimamente “eccentrici”.

La nuova ventata ereticale che infuriò tra XII e XIV secolo si distinse nettamente da quella dei primi secoli del Cristianesimo. Intanto per localizzazione geografica: mentre le controversie trinitarie e cristologiche agitarono soprattutto i fedeli dell’Asia Minore, dell’Africa settentrionale e della Siria, l’ambiente dunque eminentemente bizantino, con riflessi solo secondari, seppure in qualche caso rilevanti, in Occidente, i nuovi eretici sono attivi eminentemente nella Francia centro/meridionale e nell’Italia centro/settentrionale.

Secondariamente, se i dibattiti dei primi secoli trovavano un terreno fecondo in società fortemente acculturate, tanto che si diceva che perfino nelle piazze si discutesse normalmente di teologia, le eresie europee del basso Medioevo sono peculiari di non-dotti. Non si tratta di esperti di retorica, o di logica. Berengario di Tours, che non credeva nella realtà della transustanziazione, è un isolato. Per lo più tra Due e Trecento noi incontriamo tanti anonimi o quasi Giuliano e Maria accusati di eresia. Gli eretici basso medievali non hanno libri, né scuole, né maestri diversi dai genitori o da qualche predicatore di passaggio.

Una terza distinzione di non poco conto è rappresentata dalla presa sulla società. Mentre le dispute teologiche dei primi tempi interessavano quasi esclusivamente i vescovi, le eresie bassomedievali si trovano diffuse all’opposto tra i laici di media condizione. Anche per quel che riguarda il numero, i nuovi eretici sono sicuramente molti di più degli antichi. Per queste ragioni anche l’impero e i comuni, oltre naturalmente le autorità religiose, furono obbligati ad interessarsi del fenomeno, non tanto per sincera fede religiosa, quanto piuttosto per ciò che di destabilizzante gli eretici potevano significare.


Periodizzazione



Sarà necessaria un’altra avvertenza preliminare. I grandi movimenti ereticali del basso medioevo sono noti col nome di Catarismo, Valdismo, movimento apostolico o dolciniano. Mentre i catari nacquero, si svilupparono e morirono tra la metà del secolo XII ed il primo quarto del XIV, i Valdesi nacquero sul finire del XII e, com’è noto, sopravvivono oggi; i dolciniani, infine, ebbero una vita molto più modesta, occupando pochi decenni a cavallo del 1300. Molto si è discusso in passato circa l’origine dei catari, se si dovesse intenderli come eretici frutto di un fenomeno di importazione, dall’Oriente, od invece se si dovesse considerarli di origine endogena all’Europa cristiana. Oggi normalmente si è d’accordo nel ritenere il catarismo fenomeno tipico dell’Europa occidentale, con una forte matrice cristiana, ma con indubbie influenze orientali.


Catarismo e Valdismo



Ma vediamo ora, seppure succintamente, i temi dottrinari, e cominciamo da quelli tipici dei catari. Al fondo sta una piuttosto netta distinzione fra due sfere di influenza del dio buono e del dio malo. Tutto ciò che è spirituale, per dirla con una immagine usata dagli stessi eretici, tutto ciò che sta dal cielo in su, pertiene al dio buono. Tutto ciò che è carnale, e tende alla riproduzione della carnalità, dal cielo in giù, pertiene al dio malo. L’umanità deve liberarsi dall’influenza del dio cattivo per raggiungere la pienezza della felicità nella comunione con il dio buono. Rifiutano dunque i catari il consumo dei cibi carnei e delle uova, rifiutano il coito, la gerarchia cattolica, negano la resurrezione dei corpi, negano validità ai sacramenti, alle preghiere per i defunti, non credono nella maternità di Maria né nella passione di Cristo; odiano la croce e gli edifici ecclesiastici.

Il rifiuto della gerarchia cattolica genera una nuova gerarchia. I fedeli si dividono in credenti e perfetti, a seconda che abbiano o no ricevuto il consolamento, una specie di battesimo, o piuttosto una cerimonia di iniziazione impartita mediante l’imposizione delle mani di tutti i presenti, già perfetti. Più in alto stanno i diaconi, collaboratori degli alti gradi. Al culmine di ogni circoscrizione sta un vescovo, coadiuvato da un figlio maggiore, destinato a succedergli, ed un figlio minore. Le diocesi catare sono sette o otto, alcune più rigoriste, altre più moderate, con distinzioni piuttosto modeste tra le diverse credenze. Il complesso dei catari contava circa 4000 fedeli in Italia settentrionale, nella prima metà del Duecento.

O almeno questa è la situazione che si ricava dai trattatisti cattolici antiereticali, e dai verbali dei processi per eresia che ci sono pervenuti, visto che, in verità, noi non abbiamo alcuna testimonianza di parte ereticale. Quanto questa rappresentazione del mondo ereticale si adegui al vero è piuttosto discutibile, ma ne riparleremo più oltre. Per quel che concerne Valdo, l’iniziatore del movimento che da lui prese il nome, tutto si originò da una sua personale crisi religiosa, del resto non infrequente nel periodo, basti pensare a quella per tanti versi analoga di Francesco d’Assisi. Come Francesco Valdo è un ricco mercante che ad un certo punto sente tutta l’insufficienza della sua esistenza, e decide di mutare radicalmente vita. Vende ciò che ha e ne distribuisce il ricavato ai poveri, non tenendo in alcun conto, fra l’altro, le rimostranze della moglie che si vede ridotta in povertà. Abbagliato da un racconto agiografico sentito sulla piazza, va da uno che sa leggere e scrivere e si fa tradurre in volgare qualche brano, non sappiamo neppure bene quale, della sacra scrittura, e si mette a predicare in pubblico. A differenza di Francesco Valdo insiste nella predicazione anche quando glielo proibiscono prima il vescovo locale, poi addirittura gli esperti nominati dalla corte papale. La mancata obbedienza fa di lui un eretico, lui che aveva iniziato a predicare proprio con l’idea, che sarà la stessa di san Domenico, di convincere gli eretici dei loro errori. Ancora in vita Valdo, che non volle mai sentir parlare di una scissione dalla chiesa cattolica, constatava che i suoi seguaci erano fortemente divisi tra loro, e che una gran parte di loro era per una rottura definitiva con la gerarchia ortodossa. Ma di per sé non c’è assolutamente nulla in origine nella predicazione di Valdo, che suoni dottrinalmente eretico. E difficile è dire quanto di eretico ci sia nella predicazione dei valdesi dopo la sua morte, se si esclude la decisa volontà di predicare in pubblico anche se non autorizzati, tanto poi i valdesi si confusero con i catari.

Ancora più difficile enucleare i principi dottrinari dei dolciniani, che praticamente si esauriscono nella volontà del capo, Dolcino appunto, di non sottostare alle ingiunzioni delle gerarchie ecclesiastiche.


L’inquisizione



Gli eretici vennero avvertiti, non subito, come un pericolo. Nei primi anni furono i vescovi a farsi carico di ricercare gli eretici, cercare di convincerli, eventualmente punirli. Ma la percezione del pericolo crebbe a tal punto che si pensò ad un organismo dedicato: nacque così tra 1231 e 33 l’inquisizione monastico-papale, che sostituì del tutto quella vescovile. Gli inquisitori, di solito due per ogni circoscrizione ereticale, dovevano render conto esclusivamente al papa, ed erano quindi assolutamente liberi di muoversi nelle diocesi, svincolati com’erano dalla giurisdizione vescovile. Il nuovo officio della fede venne affidato ai nuovi ordini mendicanti, francescani e domenicani, che davano maggiori garanzie, per cultura, per fedeltà al papato, perché potevano contare sui già numerosi conventi del loro ordine come basi di appoggio, e sull’aiuto dei loro confratelli.

La famiglia inquisitoriale, composta da almeno un notaio, e da diversi servi, si muoveva incessantemente alla ricerca degli eretici, ovunque anche un accenno generico poteva far pensare che vi fosse qualche cosa di eterodosso. Non sempre la ricerca aveva esito positivo, anzi…. Una volta sentito il sospetto, e una volta convinto dell’eresia, l’inquisitore comminava la pena relativa. In qualche caso, raro, molto raro, il rogo, nella stragrande maggioranza dei casi una multa, il cui ricavato, prevedevano chiaramente le costituzioni pontificie, doveva esser diviso in tre parti: una per le necessità dell’inquisitore e della sua famiglia, una per la corte papale, una per il comune che avesse fornito aiuto all’inquisitore, per custodire i prigionieri (il Medioevo non ha conosciuto il carcere come istituzione permanente), per il vitto degli inquisiti, eventualmente le cavalcature, o la legna per il rogo.


Armanno Pungilupo



Chiediamoci ora, per venire al punto, nell’ordine: in che cosa consiste effettivamente il pericolo rappresentato degli eretici nella società del tempo? Come fu avvertito e in che misura? Qual’è il senso proprio dell’eresia?

Cominciamo col riassumere una vicenda che, per quanto eccezionale, risulta largamente emblematica. Il 16 dicembre 1269 muore a Ferrara un certo Armanno, detto Pungilupo. La persona era conosciutissima in città, e la notizia si sparge in un lampo: una gran folla si raduna presso la sua casa. La salma viene portata in cattedrale e diventa immediatamente oggetto di culto, non solo da parte dei ferraresi: molti vengono a rendergli omaggio da diverse città del Veneto ed anche da Bergamo. Subito cominciano i miracoli. Il 20 dicembre una certa Nova è sanata da un tumore all’occhio; il 21 Gisla è guarita di un braccio anchilosato dalla nascita e Marchesina, zoppa, è completamente sanata; il giorno di Natale Tomasina da una fistola; il 28 Adelasia riacquista la vista; il 29 Marinello è miracolato dalla gotta; il 4 gennaio Angelo dalla gotta; il 5 Daniela zoppa e Giovanna paralizzata; il 18 Benvenuto da un’ulcerazione; e altri da altri mali, fino al 17 maggio. Si costruisce una cappella ed il corpo di Pungilupo viene riposto in un lussuoso antico sarcofago che si diceva provenire da Ravenna in cui aveva riposato l’imperatore Teodosio. Gli ex-voto si fanno numerosissimi. A questo punto si muove l’inquisitore. Interrogate diverse persone scopre che Pungilupo era stato inquisito per eresia nel 1254, aveva abiurato i suoi errori, ma poi evidentemente era tornato all’eresia, perché aveva frequentato molti eretici noti, da Rimini a Verona, ed anzi a Verona aveva ricevuto il consolamento. Frate Aldobrandino inquisitore ingiunge di esumare il corpo di Armanno e di gettarlo fuori della chiesa. Il capitolo della cattedrale non obbedisce e l’inquisitore scomunica i canonici ed interdice la cattedrale. I sacerdoti del capitolo reagiscono preparando una deposizione di vari sacerdoti ferraresi che attestano l’ortodossia di Armanno e si appellano a papa Gregorio X, che affida la questione al cardinale Giovanni, futuro Nicolò III. La protesta del capitolo ottiene un primo, parziale successo: Giovanni scrive a frate Aldobrandino inquisitore di sospendere la scomunica.

L’inquisitore non si dà per vinto ed intensifica le sue indagini, e raccoglie numerose altre testimonianze sull’eresia di Pungilupo. Nel 1276 muore papa Gregorio, e la questione passa nelle mani di papa Nicolò III, che comunque lascia irrisolta la cosa. Nel 1284 frate Florio, succeduto ad Aldobrandino riprende con energia e puntiglio ad indagare, ed alla fine del 1285 ripropone il dossier Pungilupo ad Onorio IV. Rispondono i canonici della cattedrale facendo riscrivere il 4 ottobre 1286 le deposizioni dei miracolati del 1269 e 1270 e quella dei sacerdoti ferraresi del 1272. La morte di papa Onorio nel 1287 aggiorna la discussione del caso. Frate Florio continua a darsi da fare, e raccoglie nuove testimonianze a sfavore. Con Bonifacio VIII la questione viene affrontata con maggiore sollecitudine. Agli inizi del 1300 il pontefice ingiunge ai canonici di presentarsi alla curia romana. Il 6 aprile Bonfamilio, procuratore del capitolo chiede udienza, ma non è ammesso alla presenza del papa. Fa allora redigere una protesta scritta e lascia a Roma un suo procuratore con un memoriale. L’esame della questione è affidato al cardinale Giovanni di San Nicola. Il 13 gennaio 1301 invia una lettera a frate Guido inquisitore perché si consigli con il vescovo di Bologna ed altri esperti di diritto ecclesiastico e civile. Il 22 marzo l’inquisitore emana la sentenza di condanna, ed il 23 ingiunge l’obbedienza della medesima al podestà ferrarese. Di notte si procede alla riesumazione dei resti di Pungilupo, alla loro cremazione e dispersione delle ceneri nel Po. Il popolo che apprende la cosa il mattino seguente tumultua, ma ormai la faccenda é definitivamente chiusa.

Questa lunghissima vicenda, trent’anni!, è estremamente significativa. L’eresia di Armanno appare alle prime indagini estremamente labile. Accuse generiche, quando non risibili, permettono niente più di un sospetto. Ma è il battage sui miracoli del sant’uomo ad imporre all’inquisitore una attenzione particolare. I canonici ferraresi che esibiscono la santità di Armanno tentano di appropriarsi della tutela sul comune sentimento e manifestazione religiosa, che invece è monopolio, sotto il profilo dell’ortodossia, dell’inquisitore, e ne mettono in discussione la stessa legittimazione. Addirittura i buoni sacerdoti ferraresi propongono col Pungilupo un modello di vita cristiana indipendente dalla sua collocazione gerarchica: Pungilupo non è sacerdote, né monaco, né riveste alcuna importanza nell’amministrazione cittadina. Un modello di vita cristiana tutto fondato sull’esercizio delle buone opere, sull’assistenza a malati e carcerati, e su di una lettura semplice ed ingenua del sacro testo che tenta di coglierne solo lo spirito più immediato ed emozionale. E proprio in base a questi paradigmi piuttosto che rifiutare alcuni dogmi si dimostra sospettoso nei confronti di certi principi di difficile comprensione, quale quello della transustanziazione. Ed è un modello che si diffonde in maniera impressionante: i miracolati provengono di lontano, dalla Romagna, dall’Istria, da Brescello, da Bergamo. L’inquisitore a questo non è preparato. Sa che l’eretico si comporta come gli dicono che si comporta i manuali per gli inquisitori: appartiene ad una precisa setta ereticale, sostiene certi errori dottrinali. Così la sua preoccupazione è quella di esemplificare il manuale: trova i principi dottrinali, non importa se esigui ed alquanto confusi, trova testimoni dell’appartenenza di Pungilupo ad una setta, ma a caricare la dose mostra l’eretico in contatto o addirittura credente di altre sette, che pure i trattatisti dicevano in feroce contrasto reciproco, ma di nuovo importa poco. Quel che interessa non è esibire un modello di coerenza, ma un modello di eretico, che per essere tale deve essere incoerente, e deve contrapporsi alla chiesa. Allora l’accusa più ricorrente sarà quella di parlar male degli uomini di chiesa. L’esemplificazione del manuale è perfetta, l’eresia di Pungilupo incontrovertibile. I canonici ferraresi non si rendono conto della vera entità della partita. Forse, come diceva qual terribile pettegolo che era frate Salimbene da Parma, volevano semplicemente approfittare dei proventi della fama di santità di Armanno. La questione è ben altra: quell’uomo parlava di boni homines e di bona opera e di boni christiani, non credeva nella bontà dell’ordinamento gerarchico della chiesa, anzi soprattutto i frati mendicanti lo trovano astioso nei loro confronti. Il clero locale si mostra disposto ad ammettere una pluralità di manifestazioni di religiosità e di pietà, come dimostra il suo favore per le organizzazioni di penitenti e per il culto spontaneo di santi laici. L’inquisitore invece non ammette alternative, perché l’intero sistema non lo prevede. Quella che egli vede messa in forse, in definitiva, è in realtà l’autorità stessa del magistero, e questa riafferma. Il pericolo ereticale è il pericolo che si incrini la razionalizzazione del potere decisionale ecclesiastico. Di qui l’invenzione del processo come strumento terribile e rassicurante ad un tempo. Siamo quindi ad un livello ben diverso dai semplici contrasti fra clero locale e ordini mendicanti, un livello più alto, così come ben diversamente vanno intesi i moti popolari contro le decisioni degli inquisitori, che non sono solo segni di insofferenza emozionale per la prepotenza altrui, ma, consciamente o no non importa, la registrazione della non ammissibilità di comportamenti alternativi.

In un sistema totalizzante il ribelle, l’eretico, non ha spazio. L’inquisitore sostiene che Pungilupo è eretico; il clero locale che è un santo. Per circa trent’anni la questione rimane impregiudicata, fino a che l’inquisitore raccoglie materiale sufficiente per la condanna. Il caso di Pungilupo è evidentemente singolare, ma non assolutamente anomalo: di condanne a largo spazio di tempo ne conosciamo moltissime, senza contare le frequentissime sentenze post mortem. Ora io non credo affatto ad una reazione di tutta una società all’eresia, come vorrebbero alcuni miei colleghi, perché allora vicende come questa risulterebbero del tutto incomprensibili. Sicuro però è che l’eresia venga presentata come elemento di disgregazione del vivere civile. L’eresia è una vita irrazionale, al di fuori del normale ordinamento sociale, e della gerarchia sociale e religiosa a un tempo. Siamo di fronte ad un episodio della marcia metodica ed inarrestabile dei due ordini mendicanti titolari dell’inquisizione, domenicani e francescani, verso l’affermazione di una volontà decisamente egemonica nel mondo cittadino italiano, e perché tale non necessariamente esclusiva, ma necessariamente tesa ad inglobare qualsiasi forma di attività umana in una “ratio” etico-sociale “prevista”.


Chiesa, imperatori, comuni di fronte all’eresia



Se ora ci spostiamo ad un ambito più generale possiamo enunciare alcuni punti fermi.

1. Il quadro degli eretici che si ricava dai trattatisti e dai manuali inquisitoriali non è affatto credibile. Invece che ad eresie organicamente strutturate, coerenti, come noi troviamo nei trattati inquisitoriali, siamo di fronte ad un mondo pervaso da un “malessere ereticale”, un mondo alla cui base ci sono istanze pauperistiche, aspirazione ad un rinnovamento integrale della Chiesa, desiderio da parte dei laici ad una maggiore partecipazione alla vita spirituale in qualità di attori e soggetti; un malessere determinato dalle incongruità della realtà in cui i singoli operano; un disagio in cui motivi religiosi e politici e istanze sociali si incrociano. L’eretico è colui che non riesce a tenere il ritmo di rapida trasformazione di quei tempi, e che risolve questa sua incapacità in scelta spirituale esistenziale. L’esperienza religiosa degli eretici si muoveva parallela al fluire della vita degli uomini, quando non estranea alla dinamica delle relazioni istituzionalizzate tra individui, gruppi ed enti. Ciò fu all’inizio un elemento di forza; alla lunga si trasformò in motivo di debolezza: l’estraneità rispetto al divenire storico divenne un gravissimo limite.

2. Gli uomini di chiesa preposti a combattere l’eresia hanno tuttavia l’assoluto bisogno di vedere il fatto ereticale in termini istituzionali. L’eresia è un mostro dalle cento facce – alcune delle quali sono anche il turpiloquio, la sodomia, l’usura e l’appartenenza alla razza ebraica – che solo nella razionalità di un trattato può acquistare un aspetto credibile, ma soprattutto “conoscibile”. Bernard Gui, il terribile inquisitore de “Il nome della rosa”, è tutto teso a codificare ciò che a noi sempre più sembra difficilmente codificabile.

Il fatto è che negli atti dei processi per eresia che ci sono pervenuti sono molti i passi da cui risulta che gli inquisiti non si rendono affatto conto di essere eretici, non hanno mai sentito parlare delle sette che li si accusa di ingrossare, partecipano attivamente agli atti di culto della chiesa cattolica, celebrano i santi, chiedono indulgenze, si confessano, fanno atti di penitenza, di carità e di devozione, tutto quello, vale a dire che i trattati dicono essere rifiutato e combattuto dagli eretici. Altro che di fronte ad una antichiesa quasi tutto ci porta a concludere che quelli che ci vengono presentati come eretici credono fermamente di essere cristiani.

Gerardo Segarelli è uno zotico e ignorante, ma moltissimi a Parma credettero in lui. La ragione del successo non è nella dottrina, perché nella sua predicazione non c’è nulla di nuovo, ma perché, come dice un teste «era un buon uomo e diceva belle parole», che non si sanno ripetere, e non per reticenza: la stima per l’eretico deriva dalla loro credibilità, è un buon uomo, per cui altrettanto buona deve essere la dottrina che predicano, qualunque essa sia.

3. La morte del catarismo è dovuta alla sua completa aleatorietà istituzionale. Il ruolo dell’inquisizione, più che efficace nella repressione (che repressione è, se per lo più si condannano eretici defunti?), lo è nel togliere ogni spazio a qualsiasi pratica di pietà religiosa, che è regolamentata e monopolizzata dalle confraternite parainquisitoriali. Su questo piano, e non certo su quello dottrinale, dove non c’era da impegnarsi a fondo, stante il modesto patrimonio dottrinale del catarismo, l’istituzione ecclesiastica ha il sopravvento, per la sua capacità di “prevedere” ogni comportamento in merito. 4. Se poniamo attenzione alla storia del vario atteggiarsi della legislazione comunale in tema di eresia si vede chiaramente come essa non apparve come un pericolo fino al terzo decennio del secolo XIII. I comuni dimostrano più consapevoli affermazioni d’autonoma competenza che uno spirito disciplinato alle direttive pontificie. La svolta è segnata dagli statuti di Brescia del 1230, che furono il modello per quelli successivi di Padova, Verona, Vicenza, Treviso, Bologna, Ferrara. L’eresia, perseguita come crimine di lesa maestà richiede l’intervento del podestà. Ma fu solo dal 1252 che la persecuzione sistematica delle sette venne eretta ad elemento essenziale dell’edificio sociale in ogni città. Giusto dalla seconda metà del secolo si infittiscono i nomi degli eretici. Ma è anche il momento in cui l’ordinamento cittadino si va nettamente trasformando, ed ecco le città, guelfe o ghibelline che fossero, alla ricerca del compromesso che facesse salva la loro autonomia nello stesso momento che si attuava il delicato passaggio dagli ordinamenti repubblicani alle prime espressioni del centralismo signorile. Un buon numero di statuti, ancora nella seconda metà del Duecento e nei primi anni del Trecento non contiene norme contro l’eresia: Chianciano (1287), Pistoia (1284 e 1296), Firenze (1293), Bassano (1259 e 1295), Modena (1306-07), Cremona (1339), e sono numerosissimi gli episodi di intolleranza popolare dell’azione inquisitoriale a Rimini, Faenza, Parma, Bologna. Con difficoltà a Como nel 1255 ed a Ferrara nel 1268 gli statuti recepiscono le norme antiereticali; Genova si rifiuta di farlo nel 1256; a Mantova i magistrati intralciano l’operato degli inquisitori; Firenze insiste nel rifiuto; Padova a malincuore obbedisce; Verona inserisce nel 1270 alcune norme antiereticali, ma altre sono ignorate. Del resto la promulgazione della normativa antiereticale non significa automaticamente una presenza eterodossa.

Insomma gli eretici sono nella legislazione comunale un pericolo assolutamente generico: una generica previsione normativa riferiva al podestà la punizione di eretici, sodomiti, girovaghi, saltimbanchi, meretrici, adulteri ed alchimisti.

L’eretico, per definizione, sfugge all’autorità, o meglio, sfugge alla prevedibilità. Sia che propongano la trasparenza delle opere di carità vicendevole in opposizione alle astruserie dottrinali, sia che stabiliscano incontri, contatti, scambi di idee ed esperienze al di fuori degli ambienti e strutture normalmente intese a quello scopo, sia che prospettino visioni dell’aldilà non ortodosse, sia che si dedichino a rituali difformi, gli eretici non si propongono come contestatori dell’ordine cittadino, mai. Il loro essere – meglio il loro fare – “diverso” è in contrasto esclusivamente con il monopolio delle manifestazioni religiose, soprattutto con quello rivendicato dai Mendicanti. Se il Comune avanza pretese di giurisdizione in merito è perché la Chiesa lo costringe a farlo.

Il fatto è che i nostri eretici, altro che essere emarginati, sono invece perfettamente integrati nella società cittadina, per quanto personalmente “a disagio”. Gli statuti di Verona e Treviso prevedono la distruzione delle case abitate dagli eretici; quelli di Verona anche il bando dalla città e dal distretto dei sospetti. Eppure mai finora è stato possibile documentare l’attuazione di queste norme. Multe sì, in sovrabbondanza, ma distruzione delle case… Ed un altro segno evidente è dato dal fatto che molte in tutta l’Emilia e la Romagna sono le sollevazioni popolari cittadine contro l’accanimento dell’inquisitore nei confronti di alcuni indagati per eresia, in qualche caso fino alla violenza, segno manifesto del perfetto inserimento di questi personaggi nella realtà urbana, oltre che della loro “accettazione” popolare sotto l’assisa del gradimento. Nella sentenza nei confronti di Paolo Trentinelli a Bologna sono messe in evidenza le pressioni esercitate dal vescovo, dal podestà, dai capitani, degli anziani del popolo e di molti religiosi in favore dell’assoluzione. Ancora a Verona gli eretici sono assimilati ai ladri ed agli omicidi, ma mai è possibile neppure lontanamente desumere dagli atti, interrogatori, condanne ed abiure, che nella coscienza dei contemporanei tali delitti siano assunti come analoghi. E lo stesso vale per gli ebrei: se dopo il 1301 a Ferrara l’azione inquisitoriale si rivolge quasi esclusivamente contro gli ebrei ciò naturalmente non significa che essi siano assimilati agli eretici, ma solo che la battaglia contro il “diverso”, ma perfettamente inserito nella macchina cittadina, continua, anche nell’assenza di eretici.

Anzi si potrebbe dire che l’azione inquisitoriale, se considerata come monopolio degli ordini mendicanti, costituisce un’occasione, rapidamente colta ed ampiamente sfruttata, per porsi sempre più, come ha acutamente colto Giacomo Todeschini, «quale catalizzatore non soltanto della storia salvifica, ma soprattutto e quotidianamente della storia dei rapporti sociali cittadini, come momento di mediazione istituzionale tra forme del potere e loro modo di manifestazione politico-culturale».

Ma l’importanza sociale del fenomeno? Ormai è definitivamente tramontata l’idea di chi, come Gioacchino Volpe, pensava che sotto l’eresia si agitassero fermenti e rivendicazioni sociali e politiche. Quasi mezzo secolo di indagini sul campo hanno dimostrato come senza ombra di dubbio non è in alcun modo possibile stabilire una stretta relazione tra ambienti e ceti ed eresia. Che è assolutamente interclassista ed ubiquitaria. Annovera tra le sue fila la nobildonna ed il contadino, il commerciante e l’artigiano ed il banchiere, il cittadino ed il campagnolo. Si sono spese tante energie e fatiche per analizzare il reclutamento sociale degli eretici, e la conclusione unanime è che si tratta di argomento del tutto insignificante; lo stesso è stato per l’addensamento ereticale, per gli eretici e il matrimonio, gli eretici e il lavoro. Perfino per l’accusa di usura che ogni tanto si rivolge agli eretici, Massimo Giansante ha concluso che l’attività feneratizia in realtà non interessa affatto l’inquisitore, il quale, d’altra parte, anche quando le circostanze processuali lo inducono ad imporre la proibizione, dimostra comunque in proposito un tiepido interesse ed un’ampia possibilità a soluzioni di compromesso. Il prestito a interesse è tema troppo importante, si potrebbe osservare, per confinarlo nell’indagine ereticale, e la partita va giocata in grande, non qui. Una sola cosa si può affermare con sicurezza per quest’aspetto: non ci sono tra gli eretici personaggi colti, di qui l’osservazione del Delaruelle: «siamo nel mondo popolare, non in quello dei chierici: la critica dunque non sarà di carattere intellettuale e teologico, piuttosto affettiva e passionale».

Così che oggi si pensa comunemente che gli aspetti sociali dell’eresia risultino rilevanti solo per quel che concerne la sua diffusione, e non la sua genesi. Credo che le cose stiano diversamente. Mi pare abbia ancora valore quanto scriveva, ormai mezzo secolo fa, Eugenio Dupré Theseider: «Gli eretici appartengono al mondo tipico del comune di popolo: mondo vivace ed irrequieto, ma non propriamente inquieto, né desideroso di profondi mutamenti sociali; mondo disegualmente provvisto, ma non sprovvisto di beni di fortuna, e perciò non tentato di servirsi della religione per migliorare le proprie condizioni». Il che, come ben si capisce, non è affatto negazione del valore sociale, per dir così, “di riverbero” dell’eresia, ma, al contrario tentativo di interpretazione del valore sociale nella nascita di un’eresia. Nella stessa direzione portava una delle conclusioni del monumentale studio sui catari di Arno Borst: questi eretici non hanno contato nulla nell’ambito della politica, della scienza, dell’arte, della filosofia, sono scomparsi senza lasciare traccia in quegli ambiti. Hanno scelto di muoversi su un terreno diverso: quello della religiosità popolare, e sono stati costretti a farlo nell’impossibilità di imboccare altre strade. E vicino a quella conclusione arrivava anche chi, come Manselli, era partito da posizioni tutto sommato – non suoni scandalo – di apologetica eterodossa, quelle moderniste di Raffaello Morghen. Infatti Manselli, nella riedizione del 1975, si ponga attenzione alla data, dei sui Studi sulle eresie del secolo XII, scriveva: «Tutto quanto abbiamo fin qui detto, ci induce a proporre – e lo facciamo in questa sede per la prima volta – l’eresia catara come la manifestazione, sul piano religioso, della inquietudine esistenziale di una larga parte delle masse, specialmente urbane, tra i secoli XII-XIV, in relazione alle difficoltà d’ogni genere, sociali, economiche e politiche relative alla formazione di una nuova società, quella che sarà poi la società del Quattrocento e dell’età moderna. Questo movimento – proseguiva poi Manselli – raccoglie e, per molti aspetti, mette in evidenza il malessere vario, diffuso, molteplice d’una società che faticosamente, tormentosamente, spesso tra lotte non di rado anche sanguinose, si viene costruendo le sue articolazioni, le sue nuove forme di vita in un incessante travaglio, nel quale vengono eliminate direzioni sbagliate, tentativi vari ed inutili, speranze mal riposte o addirittura infondate, mentre i partecipi di questo processo di trasformazione ne avvertono – e spesso ne soffrono in prima persona e direttamente – tutta la durezza e spesso l’indifferente crudeltà». Allora, come diceva ancora il Borst, l’eresia non ha origine in uno stato sociale, ma essa ha agito su quello stato, e ne è stata condizionata. E non parla uno dei maggiori storici del Medioevo, Giovanni Tabacco, di «instabilità delle istituzioni nelle città comunali del XIII secolo come risposta ad una esigenza di raccordo immediato tra i ceti emergenti della società cittadina, o in essa confluenti con potenza di mezzi dal contado, e l’esercizio del potere politico»? E chi di quei ceti emergenti non faceva parte? Il suo ruolo poteva essere solo passivo.

Se il grado di convincimento di una interpretazione è direttamente proporzionale alla sua coerenza interna e con i dati che provengono da indagini ad essa esterne, ebbene credo che la mia interpretazione dell’eresia sia tra le più convincenti. Solo così si capisce come la scelta ereticale possa raccogliere il consenso dei ceti sociali più diversi: ognuno vi porta la sua parte di malessere e vi trova una collocazione confortante che altrove non è possibile individuare: la nobildonna sensibile poteva trovarvi una religiosità intensamente vissuta, il cittadino dedito agli affari o alle attività produttive considera gli eretici uomini santi, degni di quella stima e rispetto che il clero, soprattutto quello regolare, troppo impegnato funzionalmente nei confronti del potere, non guadagna, come testimonia Salimbene da Parma, il pitocco vede in loro qualche segno di speranza.

5. Questi uomini che fanno penitenza, partecipano della vita del prossimo, raccolgono offerte per i bisognosi e visitano i prigionieri, affidano il proprio vissuto religioso alla pratica, stimano i buoni uomini e sono stimati come buoni, rispondono alla prepotente esigenza, individuale e di gruppo, di essere cristiani. La loro è una sfida sul piano della qualità della testimonianza cristiana in vista della salvezza personale; non giudicano, testimoniano il Cristo; non pretendono coerenze, cercano di essere degni della salvezza. Perché non è il confronto tra eretici ed ortodossi il terreno proprio su cui misurare il grado della propria adesione alla vita cristiana: il confronto avviene solamente davanti allo specchio, ed è solo proporzionale al grado del proprio impegno. Proprio in questo sta la loro carica eversiva, nel loro non essere omologati. Ma la loro “pericolosità sociale” sta in altro. La credibilità degli eretici, ed il conseguente consenso in larghi strati popolari, trova una sua ragione nella sincerità del loro atteggiamento e comportamento, perfino indipendente dalle dottrine che predicano. Il pericolo rappresentato dal diffondersi di un simile atteggiamento di consenso consiste nell’implicita ma gravissima negazione della credibilità gerarchica. Bonigrino di Verona, eretico scoperto e condannato a Bologna, subordina chiaramente nel suo interrogatorio la legittimità degli atti del papa e degli «alii de Romana Ecclesia» alla loro coerenza con i «mandata Christi»: se questa coerenza c’è essi sono i capi della chiesa, altrimenti no. Si rifletta sul fatto che non sono pochi i casi in cui risulta chiaramente ed esplicitamente che la gente aveva accettato un eretico senza in realtà capire e ritenere nulla di quanto diceva sul piano dottrinale, al punto che non se ne ricordava nulla: «multa dicebat que ipse nesciret dicere vel explicare et de quibus non recordatur».

«Se il fondamento della Chiesa, che invera storicamente il Cristianesimo è l’autorità, «extra ecclesiam nulla salus»: e allora ogni autorità «extra ecclesiam», cioè istituzionalmente non valida e perciò non legittima, dà luogo solo alla perdizione, cioè all’eresia», ha osservato pertinentemente Ovidio Capitani. Ma se Capitani ritiene che : «è difficile pensare che almeno Dolcino di ciò non fosse consapevole», per la sua volontà di non voler cedere anche nel mo rappresentare automaticamente con il proprio comportamenmento in cui viene imprigionato e torturato, io credo che l’inconsapevolezza di di costituire con il proprio comportamento una denuncia della legittimità dell’autorità fosse per gli eretici la norma. Altrimenti bisognerebbe pensare che la resistenza armata fosse per loro inevitabile, a meno di non supporre che l’ideale di una lotta non-violenta esistesse nel basso Medioevo, ben prima del mahatma Gandhi. Si potrebbe dire che fosse molto più semplicemente la paura a guidare prudentemente la scelta di una eresia sotterranea. Ma chi riesce ad immaginare un Gerardo Segarelli o un Armanno Pungilupo come membri di una società segreta? Loro che sono proiettati in uno scenario pubblico clamoroso, ed anzi venerati proprio per giganteggiare sul palcoscenico? Come si può parlare di consapevolezza per quei due eretici di Perugia, citati dal Dupré, che si sforzano di spiegare quella «fides paterinorum» in cui credevano e che, aggiungono «credebamus fuissa ctholicam»? Valga per tutti l’osservazione che fu già di Christine Thouzellier: «L’eretico ha coscienza di essere ortodosso». E ben al di là del problema della consapevolezza, per lo stretto rapporto esistente tra spiritualità, sistema istituzionale ed ecclesiologia,ogni movimento a matrice spirituale aderisce comunque ad un’istituzione, presuppone un sistema istituzionale, o tende a mutarlo, a crearne uno diverso; ed anche se respinge un simile impegno nei confronti delle istituzioni, promuove oggettivamente la formazione di un sistema modificato, se non altro come reazione.

Non possiamo dimenticare che c’è chi pensa diversamente, e delinea le cose più o meno in questo modo. Il moto ereticale è necessariamente alternativo anche dal punto di vista istituzionale, ed alternativo tanto per il mondo ecclesiastico quanto per quello laico. Ma quella «drastica frattura sociale fra clero e classi dirigenti laiche», come si esprimeva Miccoli, cui gli eretici miravano non si verificò è questa fu la ragione principale della scomparsa del catarismo. La fede eterodossa è, ad esempio, un importante elemento di identità per i montanari piemontesi, ma non tale, per i suoi aspetti ideologici e per il quadro socio-politico in cui si inserisce da farli diventare dei “rivoluzionari” o dei “rivoltosi”, ha sostenuto Grado Merlo. Ho spiegato lungamente in numerose altre occasioni come ciò non mi convinca affatto, soprattutto rilevando come quella dell’efficienza inquisitoriale sia una favola, buona per la propaganda del Medioevo, ma inaccettabile per lo studioso moderno. L’eresia è invece un contenitore vuoto, ricco di connotazioni ma inverificabile nei singoli elementi che costituiscono il suo insieme, per usare una terminologia propria dell’analisi matematica. Al contrario di quel che pensava Merlo cogliendo lo spunto dalla vicenda dei suoi montanari piemontesi, l’eresia non è l’occasione perduta per una rivoluzione; come diceva efficacemente Borst, invece, quella del basso medioevo è l’eresia del ceto medio. La repressione inquisitoriale – ripeto qui – è fondamentalmente la decisa reazione ad una proposta comportamentale che viene non dall’autorità, ma al di fuori di essa e senza il suo controllo, ed ecco messi in campo strumenti giuridici, decretali e statuti, ed istituzionali, inquisizione e confraternite, per recuperare ed omologare chi si è mosso dal basso, ma tende a coagulare un vasto consenso.

Ma salvezza personale o salvezza di gruppo o salvezza di tutti? La società del basso medioevo è indubitabilmente tutta cristiana. In quella fede tutti si riconoscono. Ma è anche una società religiosa? 99 su 100 credono in Dio; ma la Chiesa? Gli eretici sono coloro che non hanno punto, o poca, fiducia nell’operato di questa Chiesa, ricca, compromessa con i potenti, essa stessa potente nel suo apparato di possessi, di gerarchia, di egemonia culturale e spesso politica. Il messaggio evangelico è normalmente pensata come altro da questo. Per cui l’incoerenza degli uomini di chiesa risulta evidente, la credibilità dei predicatori, che pure tengono banco in tutte le città, modesta. Soprattutto la via predicata per la salvezza non li convince. Bisogna fare, non parlare. Bisogna stringere i rapporti con gli altri sulla base della carità, della solidarietà, degli atti quotidiani di sollecitudine, di assistenza ai bisognosi, ai malati, ai poveri. Se la sollecitudine verso il prossimo è predicata da tutti gli ecclesiastici ed i religiosi, non la si vede poi in pratica. Salimbene de Adam dice che gli eretici non servono a nulla, perché non confessano, non amministrano i sacramenti, non hanno cultura, non possono insegnare le sacre scritture, come fanno i frati minori. Eppure, combattuti su tutti i fronti, gli eretici sono insoddisfatti del mondo in cui vivono, e lo vorrebbero diverso.

Le città sono piene di preti, religiosi e suore; e proprio questi sono coloro che nella stragrande maggioranza dei casi hanno meno senso del prossimo, meno senso della comunità e dei bisogni degli altri, dunque meno cristianesimo reale. Il giudizio non potrebbe essere più severo. Chi è estraneo ai giochi politici, di potere, di arricchimento, delle scuole, è una minoranza, ma è presente, e vive nell’insensibilità della classe dirigente. Di fronte al moltiplicarsi dei trattati di etica politica rivolti ai governanti cittadini, si assiste al tramonto di ogni etica nel prevalere degli interessi di parte. «Pace! Pace!» invocano i predicatori, ed è sempre scontro. Crescono gli episodi di illegalità e di prevaricazione, di fronte ai quali si è per lo più impotenti, «le leggi vi son ma chi pon mano ad elle?» lamenta Dante. Le parrocchie sono dei distributori di sacramenti, ma non si preoccupano «dell’uomo intero». Dov’è la giustizia sociale, l’impegno delle istituzioni nel tutelare il bene comune? Remigio de Girolami sostiene che quello è l’alto compito del governante, e testimonia proprio con i suoi trattati e sermoni che ne siamo lontanissimi. E oltre l’invocazione, per quanto accorata, nessuna proposta concreta. L’invito ai personaggi eccellenti è in realtà indifferenza urbana. Gli eretici fanno parte di questa minoranza cittadina, e ad essa si rivolgono. Non ottenendo ascolto dalla parte prevalente fanno un’opzione diversa: non affollano le chiese, non infoltiscono le schiere dei religiosi, che sentono estranei alla loro tensione esistenziale e sociale. Procedono per tentativi, per lo più con scelte personali e quotidiane, più facili da attuare. Non preghiera, ma operatività. Qualche volta le scelte personali si impongono ad un gruppo, hanno vita e presa più ampia. Quando il “modello” Pungilupo brilla, la sua “eresia”, scelta religiosa, appare in tutta la sua incontrovertibile forza sociale. Il suo comportamento in vita è compiuta e gratificante visione del mondo e dei rapporti umani, fondata su di un’esplicita volontà di solidarietà. La mistica è ignorata, ma il miracolo rinfranca ed avvalora e moltiplica la forza del modello. Il simbolo di una chiesa viva è credibile diviene l’eretico che nel suo operare è tangibile e credibile.

Ma è proprio religiosità? Massimo Cacciari, filosofo, ex-comunista osserva oggi: «Occorre distinguere: il bisogno sociale di identità che si esprime soprattutto nella miriade di movimenti settari, anche all’interno del cristianesimo, è l’esatto opposto della spiritualità, ne è la negazione». Credo si possa essere d’accordo con Cacciari, in generale; ma per quel che riguarda i nostri eretici la setta, ereticale nella fattispecie – ma essendo comunque scelta “cristiana” non è consapevolmente e volontariamente “setta” -, misura proprio l’identità di fede dei suoi aderenti. Può sembrare un paradosso, ma se ci si sente veri cristiani facendo cose diverse da quelle volute dalla gerarchia ecclesiastica, non per contestare la gerarchia, ma perché la si sente inadeguata a perseguire gli stessi scopi per i quali essa si presenta attiva, la contestazione di quella identità religiosa, e sociale, è formulazione della necessità di una diversa identità religiosa, e sociale. Perché Dio non lo ha mai visto nessuno, si legge nel vangelo di Giovanni, e le buone piante si riconoscono dai loro frutti, dice Cristo. Si può parlare di Dio, ma ci si salva solo vivendo tra gli uomini. Ha detto Merlo del Pungilupo: «per lui non è in gioco un’ortodossia tutta giuridica e intellettuale, sono in gioco i valori profondi di una religiosità che deve esprimersi in atti di bene, indipendentemente dalla collocazione sociale e “ideologica” dei destinatari degli atti. Armanno è un militante della misericordia cristiana, non il membro di una chiesa o una setta eterodossa: egli esperimenta in modo individuale, non individualistico, la “libera costrizione” del messaggio cristiano che lo porta in contatto con persone e gruppi nei quali vedeva un’ispirazione analoga».

La nuova religiosità ereticale riempie dunque i vuoti lasciati dalle istituzioni, ecclesiastiche e laiche. Ma per tornare a Cacciari chiediamoci: questo fenomeno testimonia delle tendenze disgregative presenti nel basso medioevo italiano, o non è piuttosto, come risulta evidente nella Storia religiosa d’Italia di Giovanni Miccoli, l’anima vera della cristianità, “tradita” dalle gerarchie e perfino dagli stessi ordini nuovi, i mendicanti? Mi pare che la risposta possa essere inequivoca.

L’irrobustimento dell’apparato concettuale e teorico politico ed economico conosce proprio tra Due e Trecento il massimo dell’accelerazione. Se ai giorni nostri la caduta ideologica può aver aperto la strada ad un rigurgito di spiritualità, oltre che alla miriade di movimenti settari riconosciuti da Cacciari, nell’Italia bassomedievale l’apparato ideologico si definisce e si rafforza. La forza dei gruppi definiti dalla chiesa ortodossa “eretici” è tipicamente di retroguardia, religiosa ma anche sociale. Molti di loro, come gli antichi seguaci di Ezzelino da Romano, sono degli sconfitti, politicamente ed inesorabilmente anche sotto il profilo economico; ma la stragrande maggioranza è formata da coloro che poco contano. Non li si trova nelle corti signorili né nell’apparato comunale, né in alcuna cancelleria. Poco contano per quel che riguarda il potere, ma non è così per quel che concerne la loro influenza sociale. E la riprova è fornita proprio dall’interessamento dell’apparato repressivo nei loro riguardi.

Il fatto è che la crisi della fede religiosa è evidente. Tanto più la macchina si irrobustisce tanto più la religiosità diviene un bene di consumo quasi privato, o limitato a piccoli gruppi relativamente coesi. La logica del potere, ecclesiastico come anche laico, e la logica del mercato, che va imponendosi rapidamente, trasforma i fedeli in mercenari. La prospettiva del benessere diffuso, se non proprio del consumismo, devasta le coscienze. La massa tende a sfuggire all’azione della chiesa.

Le istituzioni assistenziali sono frutto dell’intraprendenza di pochi e per lo più mostrano paradossalmente i segni di una crescente disumanizzazione, per non dire della mancanza di rispetto per la vita e la dignità degli indigenti. La chiesa è ben lontana dal fare delle proprie istituzioni un modello di umanesimo. Le migliaia di religiosi sono attivi in tutti i campi che contano, ma la loro fama, invece che avvolta in un alone di riverenza, è piuttosto quella che risulta dalla narrazione di Sacchetti o di Boccaccio.

Ma se il terreno in cui operare è indubitabilmente quello sociale, il punto di partenza è sicuramente religioso ed esistenziale. Il bisogno insopprimibile di credere per sfuggire alla morte definitiva: «solo nella fede degli eretici ci si salva», è il motivo ricorrente nelle parole di tutti gli inquisiti, solo uniformandosi al loro esempio si può sperare nel messaggio salvifico del vangelo. E non si tratta di pura superstizione: non risulta mai che i molti che venerano una qualche eretico gli attribuiscano doni particolari di guarigioni e chiaroveggenze. Solo Dolcino, sul finire della sua parabola, ed ormai alle strette, scivola nel profetismo. Niente miracoli, prodigi, riti misteriosi né tanto meno esoterici, niente magia, ma impegno quotidiano, sensibilità reciproca, forte solidarietà, senza arrivare mai ad una vita comunitaria.

Gli inquisitori, quando non tuonano, irridono. In loro è il fastidio dell’intellettuale di fronte all’eccesso ed alla stravaganza. Non si sforzano mai di capire che la società reale è diversa da quella che essi presentano e si rappresentano. Paradossalmente è più religiosa di quanto non la dipingano i predicatori. Nell’Italia settentrionale verso la fine del Duecento sono attivi circa quattromila eretici, divisi in vari gruppi per lo più di dimensioni ridotte e ridottissime, ma tutti attivi in quello che oggi diremmo volontariato. C’erano quattromila laici in associazioni culturali o politiche? No, non c’erano. E questi eretici impegnati hanno qualche cosa che manca ai laici: una religiosità eterogenea, più o meno profonda, ma diffusa, che in qualche modo dà un senso alla loro esistenza.

Ancora la «rivincita di Dio». Dopo la fede, le opere. Gli eretici accanto ai propri simili più bisognosi. Mentre a Ferrara il signore d’Este allontana i flagellanti che si avvicinano alla città, molti eretici ospitano nelle proprie case i pellegrini scacciati. Questo “volontariato ereticale” sparirà solo quando la solidarietà si farà in maniera più incisiva e diffusa la regola, e non l’eccezione, nel grande rigurgito di pietà che viene dopo la peste nera.

Ma la fede? In un quadro simile i problemi di trascendenza, di sovrannaturale, di mistica in realtà appaiono in maniera totalmente nebulosa. In costoro la domanda di divino non ha alcun sostegno teorico, e l’eresia è perciò stesso destinata a morire infeconda. L’assolutezza del credo ereticale, tipico di tanti fenomeni del Medio Evo, per cui solo nella fede ereticale ci si salva, sarà soppiantata dal nascente umanesimo, per il quale in ogni uomo abita il divino, che inviterà ad impararlo a vivere in se stessi, imparare ad ascoltare il divino, ad essere spirituali e liberi. Nascerà la grande mistica, soprattutto femminile, del Tre-Quattrocento, e la grande questione della povertà. Questi eretici invece non sanno pregare, si limitano a qualche formuletta insignificante, non hanno riti liturgici comuni e coagulanti, non hanno misteri, non hanno luoghi di pellegrinaggio. Non per questo sono nati, e non di questo si nutrono. Sono il frutto di un bisogno religioso, ma non sono un popolo religioso. Insomma la loro spiritualità si vede e non si vede. Il grande malinteso è questo: la conoscenza di per sé non da sollievo allo spirito, e la scienza come il potere non porta alla felicità. L’equivoco ad un certo punto è caduto e c’è stato un risorgere di spiritualità, ma come seconda scelta, si potrebbe dire, non come esigenza primaria. Hanno abbandonato la certezza dell’ordine e della gerarchia, del preciso inserimento sociale e religioso, ed il loro mondo è piuttosto quello del caos. E il caos è dramma, tragedia, ma anche fermento.


Conclusione



Temi di una sconcertante modernità. Pensiamo alle recenti eresie di don Primo Mazzolari, di don Zeno Saltini, di don Lorenzo Milani, eresie di dover «fare» per «essere». Pensiamo allo sconvolgente proliferare del volontariato laico dei nostri giorni, segno evidente di una necessità di «fare» nell’assenza di una società solidale, che non ha sostengo istituzionale, non ha guide dottrinarie, che non ha alcun posto nel catechismo, ma che è così prepotente bisogno esistenziale. Gli eretici parlano ancora.


http://www.uaar.it/documenti/controinformazione/12.html

Vittime della fede cristiana

Gesta memorande e mirabili
compiute per la maggior gloria di Dio

Avvertenza: sono qui elencati solamente fatti avvenuti per ordine o con partecipazione diretta delle autorità ecclesiastiche, oppure azioni commesse in nome e per conto della cristianità. Come è ovvio, la lista non ha pretese di completezza.

Paganesimo antico

Già durante l’Impero Romano, appena ammesso ufficialmente il culto cristiano con decreto imperiale del 315, si cominciò a demolire i luoghi del culto pagano e a sopprimere i sacerdoti pagani.

Tra il 315 e il sesto secolo furono perseguitati ed eliminati un numero incalcolabile di fedeli pagani.

Esempi celebri di templi distrutti: il santuario di Esculapio nell’Egea, il tempio di Afrodite a Golgota, i templi di Afaca nel Libano, il santuario di Eliopoli.

Sacerdoti cristiani, come Marco di Aretusa o Cirillo di Eliopoli, vennero persino celebrati come benemeriti «distruttori di templi» (DA 468).

Dall’anno 356 venne sancita la pena di morte per chi praticava i riti pagani (DA 468).

L’imperatore cristiano Teodosio (408-450) fece giustiziare perfino dei bambini per aver giocato coi resti delle statue pagane (DA 469). Eppure, stando al giudizio di cronisti cristiani, Teodosio «ottemperava coscienziosamente a ogni cristiano insegnamento».

Nel VI secolo, si finì per dichiarare fuorilegge i fedeli pagani.

All’inizio del quarto secolo, per sobillazione di sacerdoti cristiani, fu giustiziato il filosofo politeista Sopatro (DA 466).

Nel 415, la celeberrima scienziata e filosofa Ipazia di Alessandria venne letteralmente squartata da una plebaglia guidata e aizzata da un predicatore di nome Pietro, e i suoi resti dispersi in un letamaio (DO 19-25).

Missioni di evangelizzazione

Nel 782, Carlo Magno fece tagliare la testa a 4.500 Sassoni che non volevano farsi convertire al cristianesimo (DO 30).

I contadini di Steding, nella Germania settentrionale, ribellatisi per non poter più sopportare l’esosa pressione fiscale, vengono massacrati il 27 maggio 1234 da un esercito crociato, e le loro fattorie occupate da devoti cattolici. Vi persero la vita tra 5.000 e 11.000 uomini, donne e bambini (WW 223).

Assedio di Belgrado nel 1456: nell’espugnazione della città vennero uccisi non meno di 80.000 musulmani (DO 235).

XV secolo in Polonia: ordini cavallereschi cristiani saccheggiano 1.019 chiese e circa 18.000 villaggi. Quante persone cadessero vittime di tali gesta, non s’è mai certificato (DO 30).

Secoli XVI e XVII. Truppe inglesi “pacificano e civilizzano” l’Irlanda. Colà vivevano solo dei «selvaggi gaelici»«animali irragionevoli senza alcuna idea di dio o di buone maniere, che addirittura dividevano in comunità di beni il loro bestiame, le loro donne, bambini e altri averi». Uno dei più importanti condottieri, certo Humphrey Gilbert, fratellastro di Sir Walter Raleigh, fece «staccare dai corpi le teste di tutti quelli (chiunque fossero) che erano stati uccisi quel giorno, facendoli spargere dappertutto lungo la strada». Questo tentativo di civilizzare gli Irlandesi causò poi effettivamente «grande sgomento nel popolo, quando videro sparse sul terreno le teste dei loro padri, fratelli, bambini, parenti e amici» [«greate terrour to the people when they sawe the heddes of their dedde fathers, brothers, children, kinsfolke, and freinds on the grounde»].

Decine di migliaia di Irlandesi gaelici caddero vittime di quel bagno di sangue (SH, 99, 225).

Crociate (1095-1291)

L’anno 1095, per ordine del papa Urbano II, ha inizio la Prima Crociata (WW 11-41).

Tra il 12/6/1096 e il 24/6/1096, nelle stragi avvenute in Ungheria, presso Wieselburg e Semlin, perdono la vita migliaia di persone (tutti cristiani, ivi comprese le schiere crociate) (WW 23).

Dal 9/9 al 16/9/1096, durante l’assedio della città residenziale turca Nikaia, cavalieri francesi cristiani massacrano migliaia di abitanti, facendo a pezzi e bruciando vivi vecchi e bambini (WW 25-27).

A consimili azioni belliche partecipano, il 26/9/1096, durante la conquista della fortezza di Xerigordon, cavalieri crociati tedeschi.

In complesso, fino al gennaio 1098, vengono espugnate e saccheggiate 40 capitali e 200 fortezze. Non si conosce il numero delle vittime (WW 30).

Il 3 giugno 1098 le armate crociate conquistano Antiochia. In quell’assedio vengono uccisi tra 10.000 e 60.000 musulmani. Dalla cronaca di Raimondo di Aguilers, cappellano di campo del conte di Tolosa, si legge: «Sulle piazze si accumulano i cadaveri a tal punto che, per il tremendo fetore, nessuno poteva resistere a restare: non v’era nessuna via, in città, che fosse sgombra di corpi in decomposizione» (WW 33).

Il 28 giugno 1098 furono ammazzati altri centomila turchi musulmani, donne e bambini compresi. Negli accampamenti turchi – narra il cronista cristiano – i crociati trovarono non solamente ricco bottino, tra cui «moltissimi libri in cui erano descritti con esecrandi segni i riti blasfemi di turchi e saraceni», ma bensì anche «donne, bambini, lattanti, parte dei quali trafissero subito, e parte schiacciarono sotto gli zoccoli dei loro cavalli, riempiendo i campi di cadaveri orribilmente lacerati». Proprio come il loro Dio comandava! (WW 33-35)

Il 12 dicembre 1098, nella conquista della città di Marra (Maraat an-numan), furono ammazzate altre migliaia di “infedeli”. A causa della carestia che ne seguì, «i corpi già maleodoranti dei nemici vennero mangiati dalle schiere cristiane», come testimonia il cronista cristiano Albert Aquensis (WW 36).

Finalmente, il 15 luglio 1098, venne espugnata Gerusalemme, dove vennero ammazzati più di 60.000 persone, tra ebrei e musulmani, uomini, donne e bambini (WW 37-40).

Da una testimonianza oculare: «e là [davanti al tempio di Salomone] si svolse una tale mischia cruenta che i cristiani si trascinavano nel sangue dei nemici fino alle nocche dei piedi», tanto che Albert scrive: «Le donne, che avevano cercato scampo negli edifici alti e nei palazzi turriti, furono buttate giù a fil di spada; i bambini, anche i neonati, li tiravano a pedate dal petto delle madri, o li strappavano dalle culle, per poi sbatterli contri i muri o le soglie» (WW 38).

L’arcivescovo Guglielmo di Tiro aggiunge: «Felici, piangenti per l’immensa gioia, i nostri si radunarono quindi dinanzi alla tomba del nostro salvatore Gesù, per rendergli omaggio e offrirgli il loro ringraziamento… E non fu soltanto lo spettacolo dei cadaveri smembrati, sfigurati, irriconoscibili, a lasciar sbigottito l’osservatore; in realtà, incuteva sgomento anche l’immagine stessa dei vincitori, grondanti di sangue dalla testa ai piedi, sicché l’orrore s’impadroniva di tutti quelli che li incontravano» (WW 39-40, TG 79).

Il cronista cristiano Eckehard di Aura testimonia che, ancora durante l’estate successiva dell’anno 1100, «in tutta la Palestina l’aria era appestata del lezzo dei cadaveri. Di stragi siffatte nessuno aveva mai visto o udito l’uguale tra i pagani…».

Alla resa dei conti, la Prima Crociata era costata la vita a oltre un milione di persone: «Grazie e lode a Dio!» (WW 41)

Nella battaglia di Ascalon, il 12 agosto 1099, vennero abbattuti 200.000 infedeli «in nome del nostro Signore Gesù Cristo» (WW 45).

Quarta Crociata: il 12 aprile 1204, i crociati mettono a sacco la città (cristiana!) di Costantinopoli. Il numero delle vittime non è stato tramandato. (WW 141-148)

Le restanti crociate in cifre: fino alla caduta di Akkon (1291) si stimano 20 milioni di vittime (solo nella Terrasanta e nelle regioni arabo-turche) (WW 224).

Nota bene: Tutti i dati sono secondo i cronisti di parte cristiana.

Eretici e atei

Già nell’anno 385 i primi cristiani vengono giustiziati quali eretici per mano di altri cristiani: così lo spagnolo Priscilliano, insieme con sei dei suoi seguaci, decapitati a Treviri (Germania) (DO 26).

Eresia manichea. Tra il 372 e il 444 i Manichei – una setta quasi cristiana, presso i quali si praticava il controllo delle nascite, e che perciò mostravano più senso di responsabilità dei devoti cattolici – vennero totalmente annientati nel corso di diverse grandi campagne sferrate contro di loro in tutto l’Impero romano. Molte migliaia le vittime (NC).

Nel secolo XIII, gli Albigesi cadono vittime della prima crociata proclamata contro altri cristiani. (DO 29) Questi, noti anche col nome di Catari, si consideravano buoni cristiani, ma non riconoscevano né il papa né il divieto romano-cattolico delle tecniche anticoncezionali, rifiutandosi inoltre di pagare le tasse chiesastiche (NC) Nel 1208, per ordine del papa Innocenzo III – il massimo genocida prima di Hitler – incominciò la crociata contro gli eretici albigesi. La città di Beziérs (nel sud della Francia) venne rasa al suolo il 22 luglio 1209, tutti gli abitanti massacrati, compresi i cattolici, che avevano rifiutato l’estradizione degli eretici. Il numero dei morti viene stimato tra 20.000 e 70.000 (WW 179-181).

Nella stessa crociata, dopo la presa di Carcassonne (15 agosto 1209), caddero ancora migliaia di ribelli, e la stessa sorte toccò a molte altre città (WW 181).

Nei successivi vent’anni di guerra, tutta la regione fu devastata, quasi tutti i Catari (quasi la metà della popolazione della Linguadoca, nella Francia meridionale) vennero sconfitti, lapidati, annegati, messi al rogo (WW 183).

Finita la crociata contro gli Albigesi (1229), venne istituita la Santa Inquisizione (1232) al fine di stanare dai loro nascondigli gli eretici sopravvissuti e di annientarli. L’ultimo dei Catari, Guillaume de Belibaste, fu dato alle fiamme del rogo nel 1324 (WW 183, LM).

Solo tra i Catari, la stima delle vittime si aggira intorno al milione (WW 183).

Altri gruppi di eretici: Valdesi, Pauliciani, Runcarii o Poveri Lombardi, Giuseppini, e molti altri. La maggior parte di queste sette vennero sgominate; un certo numero di Valdesi esiste tuttora, sebbene siano stati perseguitati per oltre 600 anni. Secondo le mie stime, diverse centinaia di migliaia di vittime non sono calcolate in eccesso (comprese le vittime dell’Inquisizione spagnola, ma escludendo quelle del Nuovo Mondo).

Nel XV secolo, l’inquisitore spagnolo Tomas de Torquemada condanna personalmente a morte sul rogo 10.220 sospettati di eresia (DO 28, DZ).

Il predicatore e teologo boemo Jan Hus, per aver criticato il commercio delle indulgenze, viene bruciato nel 1415 a Praga (LI 475-522).

Nel 1538, a Vienna, il professore universitario B. Hubmaier viene pubblicamente condannato al rogo (DO 59).

Il 17 febbraio 1600, dopo una settennale prigionia, il filosofo Giordano Bruno, monaco domenicano processato per eresia, viene bruciato vivo sul rogo eretto in Campo de’ Fiori a Roma.

Verso la metà del Seicento, l’ateo Thomas Aikenhead, studente scozzese appena ventenne, viene impiccato per volontà del clero (HA).

Streghe

Dai primi tempi del cristianesimo fino al 1484 invalse la consuetudine di mandare a morte persone, perlopiù donne, che si credevano dotate di poteri soprannaturali, malefici e stregonici.

Nell’era vera e propria dei processi per stregoneria, dal 1484 al 1750, molte centinaia di migliaia di sospetti o colpevoli di pratiche stregoniche – secondo le stime degli storici – furono condannati a morte sul rogo o in seguito alle torture; percentualmente, i quattro quinti di essi erano donne (WV).

Un elenco (naturalmente incompleto) di queste vittime, conosciute spesso anche per nome, si trova nell’opera The Burning of Witches – A Chronicle of the Burning Times.

Guerre di religione e Riforma

Secolo XV: guerre crociate contro gli Hussiti, costate la vita a migliaia di seguaci (DO 30).

Nel 1538 papa Paolo III indice una crociata contro l’Inghilterra, sganciatasi con lo scisma dall’ubbidienza a Roma, dichiarando tutti gli Inglesi schiavi di Roma. Per fortuna, l’impresa fallisce sul nascere (DO 31).

1568: il tribunale spagnolo dell’Inquisizione decreta l’eliminazione di tre milioni di Olandesi ribelli nei Paesi Bassi, allora sotto il dominio spagnolo. Per cominciare, 5.000, o forse 6.000 protestanti vennero annegati dalle truppe spagnole della cattolicissima Spagna: «un disastro, di cui i cittadini di Emden vennero a conoscenza quando diverse migliaia di cappelli olandesi a larghe tese scesero galleggiando lungo il fiume» (DO31, SH 213).

1572: a Parigi, e in altre città francesi, 20.000 protestanti Ugonotti vengono assassinati per ordine del papa Pio V, nell’offensiva nota come Notte di San Bartolomeo. Fino alla metà del secolo successivo, oltre 200.000 profughi Ugonotti dovranno lasciare la Francia (DO 31).

1574: i cattolici sopprimono il condottiero dei protestanti Gaspard de Coligny. Dopo l’uccisione, la plebaglia ne squarta il cadavere: «gli troncarono la testa, le mani, i genitali […] gettandoli nel fiume […] ma poi non gli sembrò neppure degno che diventasse pasto per i pesci, per cui li ritirarono fuori e li portarono sul patibolo di Mantfaucon affinché là servissero da alimento per corvi e uccelli» (SH 191).

Guerra dei Trent’anni: nel 1631, la città protestante di Magdeburgo viene saccheggiata e rasa al suolo da truppe cattoliche, che massacrano 30.000 protestanti, metà della popolazione. Scrive il poeta e storico tedesco Friedrich Schiller: «In una sola chiesa si trovarono 50 donne decapitate e bambini che ancora succhiavano il latte dal petto delle loro madri senza vita» (SH 191).

1618-1648: la guerra dei Trent’anni, spaccando l’Europa tra cristiani protestanti e cattolici, decima il 40% delle popolazioni, soprattutto in Germania (DO 31.32).

Ebrei

Già nel IV e V secolo le plebi cristiane sono eccitate a incendiare le sinagoghe ebraiche.

A metà del IV secolo venne distrutta la prima sinagoga per ordine del vescovo Innocenzo di Dertona, nel nord Italia. La prima sinagoga a esser incendiata nel 388, per ordine del vescovo di Kallinikon, sorgeva in Persia, presso l’Eufrate (DA 450).

Il concilio di Toledo decreta nel 694 la riduzione degli Ebrei in schiavitù, ordina la confisca dei loro averi e il battesimo coatto dei loro bambini (DA 454).

Nell’anno 1010 il vescovo di Limoges fece espellere o sopprimere gli ebrei della città che non volevano convertirsi al cristianesimo (DA 453).

1096: all’inizio della prima Crociata furono uccisi in Europa migliaia di Ebrei, complessivamente forse 12.000. Le città più colpite furono Worms (18/5/1096), Magonza il 27/5 (dove furono trucidati 1.100 ebrei), Colonia, Neuss, Wevelinghoven, Xanten, Moers, Dortmund, Kerpen, Treviri, Metz, Ratisbona, Praga (EJ).

Parimenti, all’inizio della seconda Crociata (1147), nei centri francesi di Ham, Sully, Carentan, e Rameru, si uccisero diverse centinaia di ebrei (WW 57).

In occasione della terza Crociata (1189-90) avviene il saccheggio delle comunità ebraiche stabilitesi in Inghilterra (DO 40).

1235: uccisione pubblica di 34 cittadini ebraici (DO 41).

1257 e 1267: eliminazione della comunità ebraiche di Londra, Canterbury, Northampton, Lincoln, Cambridge e altre città, con numero imprecisato di vittime (DO 41).

1290: è rimasta memoria, nelle cronache coeve, di 10.000 ebrei espulsi o uccisi in Boemia (DO 41).

1337: aizzato da una strage compiuta a Deggendorf, in Baviera, l’isterismo antisemita si estende in pogrom effettuati in 51 città bavaresi, nonché in Austria e in Polonia (DO 41).

1348: si bruciano sul rogo gli ebrei di Basilea e di Strasburgo, complessivamente 2.000 persone (DO 41).

1349: in oltre 350 città della Germania vengono soppressi tutti gli Ebrei, perlopiù bruciati vivi. Qui, in questo solo anno, vennero trucidati dai cristiani più Ebrei di quante erano state, per duecento anni di persecuzioni anticristiane (il sangue dei martiri!), le vittime conclamate della Roma imperiale (DO 42).

1389: vengono macellati a Praga 3.000 cittadini di fede ebraica (DO 42).

1391: a Siviglia e in Andalusia, sotto la guida dell’arcivescovo Martinez, vengono soppressi circa 4.000 ebrei. Mentre altri 25.000 vengono venduti come schiavi (DA 454).

Costoro si potevano riconoscere facilmente perché tutti gli ebrei, dall’età di dieci anni,erano stati costretti a portare sull’abito un “segno d’infamia” colorato: era l’origine storica della futura “stella giudaica” dell’era nazista.

1492: nello stesso anno in cui Colombo spiegava le vele per conquistare il Nuovo Mondo, più di 150.000 Ebrei, molti dei quali perirono nell’ostracismo, venivano scacciati dalle città della Spagna.

1648: in Polonia, durante i famigerati “massacri di Chmielnitzki”, vengono sterminati circa 200.000 ebrei. (MM 470-476).

A questo punto, mi sento male, perché con questo ritmo si prosegue – secolo dopo secolo – su una linea che porta diritta ai forni crematori di Auschwitz. (DO 43).

Popolazioni indigene

Con Cristoforo Colombo, ex commerciante di schiavi, che avrebbe fatto carriera come milite crociato, ha inizio la conquista del Nuovo Mondo: allo scopo, come sempre, di espandere il cristianesimo e di evangelizzare infedeli.

Poche ore dopo lo sbarco sulla prima isola abitata in cui s’imbatte nel mare dei Caraibi, Colombo fa imprigionare e deportare sei indigeni che, come scrisse «debbono servire da bravi servitori e schiavi (…) e si possono facilmente convertire alla fede cristiana, giacché mi sembra che non abbiano religione alcuna» (SH 200).

Mentre Colombo definisce gli abitanti autoctoni quali “idolatri”, esprimendo la volontà di offrirli come schiavi ai cattolici re di Spagna, il suo socio Michele da Cuneo, aristocratico italiano, rappresenta gli aborigeni come “bestie” per il fatto che «mangiano quando hanno fame, e si accoppiano in tutta libertà, dove e quando ne hanno voglia» (SH 204-205).

Su ogni isola su cui mette piede Colombo traccia una croce sul terreno e «dà lettura della rituale dichiarazione ufficiale» (il cosiddetto Requerimiento) al fine di prender possesso del territorio da parte della Spagna, nel nome dei suoi Cattolici Signori. Contro di che «nessuno aveva da obiettare». Qualora gli Indios negassero il loro assenso (soprattutto perché non comprendevano semplicemente una parola di spagnolo), il Requerimiento recitava così:

«Con ciò garantisco e giuro che, con l’aiuto di Dio e con la nostra forza, penetreremo nella vostra terra e condurremo guerra contro di voi (…) per sottomettervi al giogo e al potere della Santa Chiesa (…) infliggendovi ogni danno possibile e di cui siamo capaci, come si conviene a vassalli ostinati e ribelli che non riconoscono il loro Signore e non vogliono ubbidire, bensì a lui contrapporsi» (SH 66)

Di analogo tenore erano le parole di John Winthrop, primo governatore della Bay Colony del Massachusset: «justifieinge the undertakeres of the intended Plantation in New England […] to carry the Gospell into those parts of the world […] and to raise a Bulworke against the kingdome of the Ante-Christ» (SH 235) [«giustificando l’impresa della costituenda fondazione della Nuova Inghilterra, di portare il vangelo in queste parti del mondo, e di edificare un bastione contro il regno dell’Anticristo»].

Intanto, prima ancora che si venisse alle armi, due terzi della popolazione indigena cadeva vittima del vaiolo importato dagli Europei. Il che era interpretato dai cristiani, manco a dirlo, come «un segno prodigioso dell’incommensurabile bontà e provvidenza di Dio»!.

Così, ad esempio, scriveva nel 1634 il governatore del Massachussets: «Quanto agli indigeni, sono morti quasi tutti contagiati dal vaiolo, e per tal modo il SIGNORE ha confermato il nostro diritto ai nostri possedimenti» (SH 109, 238).

Sulla sola isola di Hispaniola, dopo le prime visite di Colombo, gli indigeni Arawak – un popolo inerme e relativamete felice che viveva delle risorse del loro piccolo paradiso – lamentarono presto la perdita di 50.000 vite (SH 204).

In pochi decenni, gli Indios sopravvissuti caddero vittime di assalti, stragi, strupri e riduzione in schiavitù da parte degli Spagnoli.

Dalla cronaca d’un testimone oculare: «Furono uccisi tanti indigeni da non potersi contare. Dappertutto, sparsi per la regione, si vedevano innumerevoli cadaveri di indiani. Il fetore era penetrante e pestilenziale» (SH 69).

Il capo indiano Hatuey riuscì a fuggire col suo popolo, ma fu catturato e bruciato vivo. «Quando lo legarono al patibolo, un frate francescano lo pregò insistentemente di aprire il suo cuore a Gesù affinché la sua anima potesse salire in cielo anziché precipitare nella perdizione. Hatuey ribatté che se il il cielo è il luogo riservato ai cristiani, lui preferiva di gran lunga l’inferno» (SH 70).

Ciò che accadde poi al suo popolo, ci è descritto da un testimone oculare: «Agli spagnoli piacque di escogitare ogni sorta di inaudite atrocità… Costruirono pure larghe forche, in modo tale che i piedi toccavano appena il terreno (per prevenire il soffocamento), e appesero – ad onore del redentore e dei 12 apostoli – ad ognuna di esse gruppi di tredici indigeni, mettendovi sotto legna e braci e bruciandoli vivi». (SH 72, DO 211).

In analoghe occasioni si inventarono altre piacevolezze: «Gli spagnoli staccavano ad uno il braccio, ad altri una gamba o una coscia, per troncare di colpo la testa a qualcuno, non diversamente da un macellaio che squarta le pecore per il mercato. Seicento persone, ivi compresi i cacicchi, vennero così squartate come bestie feroci… Vasco de Balboa ne fece sbranare poi quaranta dai cani» (SH 83).

«La popolazione dell’isola, stimata di circa otto milioni all’arrivo di Colombo, era scemata già della metà o di due terzi, ancor prima che finisse l’anno 1496». Finalmente, dopo che gli abitanti dell’isola furono quasi sterminati, gli Spagnoli si videro “costretti” a importare i loro schiavi da altre isole dei Caraibi, ai quali toccò peraltro la medesima sorte. In tal modo «milioni di autoctoni della regione caraibica vennero effettivamente liquidati in meno d’un quarto di secolo» (SH 72-73).

«Così, in un tempo minore della durata normale d’una esistenza umana, fu annientata un’intera civiltà di milioni di persone che per migliaia di anni erano stanziate nella loro terra» (SH 75).

«Subito dopo, gli Spagnoli rivolsero la loro attenzione alla terraferma del Messico e dell’America centrale. Le stragi erano appena cominciate. Di lì a poco sarà la volta della nobile città di Tenochttitlàn (l’odierna Mexico City)» (SH 75).

Hernando Cortez, Francisco Pizarro, Hernando De Soto e centinaia di altri Conquistadores spagnoli saccheggiarono e annientarono – in nome del loro Signor Gesù Cristo – molte grandi civiltà dell’America centrale e meridionale (De Soto saccheggiò inoltre la Florida, regione “fiorente”).

«Mentre il secolo XVI volgeva al termine, quasi 200.000 spagnoli si erano stabiliti nel Nuovo Mondo. In questo periodo, in conseguenza dell’invasione, si stima che avessero già perso la vita oltre 60 milioni di indigeni» (SH 95).

Va da sé che i primi colonizzatori dei territori dei moderni Stati Uniti d’America non si comportarono meglio dei conquistadores.

Benché, senza l’aiuto degli Indiani, nessuno dei colonizzatori sarebbe stato in grado di sopravvivere ai rigori invernali, questi cominciarono presto a scacciare e a sterminare le tribù indiane.

La guerra degli indiani nordamericani tra di loro era, in proporzione, un fenomeno irrilevante – paragonato con le consuetudini europee – e serviva piuttosto a riequilibrare le offese, ma in nessun caso alla conquista del territorio. Tanto che se ne stupivano i padri pellegrini cristiani: «Le loro guerre non sono neanche lontanamente così cruente» («Their Warres are farre less bloudy»), ragion per cui non succedeva «da nessuna delle parti un grande macello» («no great slawter of nether side»). In realtà, poteva ben accadere «che guerreggiassero per sette anni senza che vi perdessero le vita sette uomini» («they might fight seven yeares and not kill seven men»). Tra gli Indiani, inoltre, era consuetudine risparmiare le donne e i bambini dell’avversario (SH 111).

Nella primavera 1612 alcuni coloni inglesi trovarono così attraente la vita dei liberi e affabili indios, al punto da abbandonare Jamestown per vivere presso costoro (con che si ovviò presumibilmente, tra l’altro, a un’emergenza sessuale). Senonché il governatore Thomas Dale li fece stanare e giustiziare: «Alcuni li fece impiccare, altri bruciare, altri torcere sulla ruota, mentre altri furono inflizati sullo spiedo e alcuni fucilati» (SH 105).

Tali eleganti provvedimenti restarono ovviamente riservati agli inglesi; questa era la procedura con quelli che si comportavano come gli indiani; ma per quelli che non avevano scelta, proprio perché costituivano la sovrappopolazione della Virginia, si faceva senz’altro tabula rasa:

«quando un indio era accusato da un inglese di aver rubato una tazza, e non la restituiva, la reazione inglese era subito violenta: si attaccavano gli Indiani dando alle fiamme l’intero villaggio» (SH 106)

Sul territorio dell’odierno Massachussetts i padri pellegrini delle colonie perpetrarono un genocidio, entrato nella storia come Guerra dei Pequots. Autori dei massacri erano quei cristiani puritani della Nuova Inghilterra, scampati essi stessi alla persecuzione religiosa in atto nella loro vecchia Inghilterra.

Allorché fu trovata la salma d’un inglese, ucciso probabilmente da guerrieri Narragansett, i puritani gridarono vendetta. Sebbene il capo dei Narragansett implorasse pietà, i cristiani passarono all’attacco. Forse dimentichi del loro obiettivo, essendo stati salutati da alcuni Pequot, a loro volta belligeranti coi Narragansett, avvenne che i puritani attaccarono i Pequots, distruggendo i loro villaggi.

Il comandante dei puritani, John Mason, scrisse dopo un massacro: «Per la verità, l’Onnipotente incusse tale terrore sulle loro anime, che fuggirono davanti a noi buttandosi tra le fiamme, dove molti perirono… Dio aleggiava sopra di loro e sbeffeggiava i suoi nemici, i nemici del suo popolo, facendone dei tizzoni ardenti… Così il SIGNORE castigò i pagani, allineandone le salme: uomini, donne e bambini» (SH 113-114).

«Così piacque al SIGNORE di dare un calcio nel sedere ai nostri nemici, dando in retaggio a noi la loro terra» («The LORD was pleased to smite our Enemies in the hinder Parts, and to give us their land for an inheritance») (SH 111).

Siccome Mason poteva ben immaginare che i suoi lettori conoscessero la loro bibbia, non aveva bisogno di citare i versetti qui citati:

«Delle città di questi popoli, che il Signore tuo Dio ti dà in retaggio, non devi lasciare in vita nulla di quanto respira. Ma dovrai invece destinarle alla distruzione, così come il Signore tuo Dio ti ha dato per dovere» (Mosé V, 20)

Il suo compare Underhill ci ricorda quanto fosse «impressionante e angosciante lo spettacolo sanguinoso per i giovani soldati» («how grat and doleful was the bloody sight to the view of the young soldiers»), però, assicura i suoi lettori, «talvolta la Sacra Scrittura decreta che donne e bambini debbano perire coi loro genitori» («sometimes the Scripture declareth women and children must perish with their parents») (SH 114).

Molti indios caddero vittime di campagne di avvelenamento. I coloni addestravano persino dei cani al compito speciale di stanare gli Indiani, strappando i piccoli dalle braccia delle madri e sbranandoli. Per dirla con le loro stesse parole: «cani feroci per dar loro la caccia e mastini inglesi per l’attacco» («blood Hounds to draw after them, and Mastives to seaze them»). In questo, i puritani si lasciarono ispirare dai metodi dei loro contemporanei spagnoli. E così continuò, finché i Pequot furono pressoché sterminati (SH 107-119).

Altre tribù indiane patirono la stessa sorte. Così commentavano i devoti sterminatori: «È il volere di Dio, che alla fin fine ci dà ragione di esclamare “Quant’è grandiosa la Sua bontà! E quant’è splendida la Sua gloria!”» («God’s Will, wich will at last give us cause to say: “How Great is His Goodness! And How Great is His Beauty!”»). E ancora: «Fino a che il nostro Signore Gesù li piegò ad inchinarsi davanti a lui e a leccare la polvere!» («Thus doth the Lord Jesus make them to bow before him, and to lick the Dust!») (TA).

Come ancora oggi, così per i cristiani di allora era ben accetta la menzogna per la maggior gloria di dio, o quantomeno per il proprio vantaggio di fronte ai diversamente credenti: «I trattati di pace venivano firmati già col proposito di violarli.
Talché il Consiglio di stato della Virginia dichiarava che se gli Indiani “sono tranquillizzati dopo la stipula del trattato, noi abbiamo non soltanto il vantaggio di prenderli di sorpresa, ma anche di mietere il loro mais”»
. («when the Indians grow secure uppon the Treatie, we shall have the better Advantage both the surprise them, and cutt downe theire Corne») (SH 106).

Anno 1624: una sessantina di inglesi, forniti di armi pesanti, fanno a pezzi 800 inermi uomini, donne e bambini indios. (SH 107).

1675-76: durante la guerra detta di re Filippo, in una sola azione di rappresaglia, sono uccisi «circa 600 indiani». L’autorevole pastore della seconda Chiesa di Boston, Cotton Mather, definirà più tardi il massacro come «grigliata per arrosti» («barbeque») (SH 115).

In sintesi: nel New Hampshire e nel Vermont, prima dell’arrivo degli inglesi, la popolazione degli Abenaki contava 12.000 persone. Neanche cinquant’anni dopo ne erano rimaste in vita solo 250: una decimazione del 98%.

Il popolo dei Pocumtuck ammontava a 18.000; due generazioni più tardi il loro numero era sceso a 920.

Il popolo dei Quiripi-Unquachog era di 30.000; dopo ugual periodo ne sopravvivevano 1.500, un vero genocidio; la popolazione del Massachusset comprendeva almeno 44.000 persone, di cui, cinquant’anni dopo, erano sopravvissuti appena 6.000. (SH 118).

Questi sono solo alcuni esempi delle tribù che vivevano nell’America del Nord prima che vi approdassero i cristiani. E tutto ciò accadeva prima che scoppiasse la grande epidemia di vaiolo degli anni 1677 e 1678. Anche il bagno di sangue era appena agli inizi.

E tutto fu solo il principio della colonizzazione da parte degli Europei, cioè prima dell’epoca vera e propria del cosiddetto “selvaggio Far West”.

Tra il 1500 e il 1900, è probabile che, complessivamente, abbiano perduto la vita – nelle sole Americhe – più di 150 milioni di nativi: in media, circa due terzi a causa del vaiolo e di altre epidemie importate dagli Europei (e qui non dev’esser passato sotto silenzio il fatto che, a partire dal 1750 circa, le tribù autoctone venivano contagiate anche di proposito per mezzo di doni artificialmente infettati). Restano pertanto ancora 50 milioni la cui morte si fa risalire direttamente ad atti di violenza, a trattamenti disumani o alla schiavitù.

E in alcuni paesi, come ad esempio Brasile e Guatemala, questa decimazione prosegue fino ai nostri giorni: a fuoco lento, per così dire.

Ulteriori gloriose tappe della storia degli Stati Uniti d’America

Nel 1703, il pastore Salomon Stoddard, una delle più prestigiose autorità religiose della Nuova Inghilterra, fece formale richiesta al Governatore del Massachusset perché mettesse ai diposizione dei colonizzatori le risorse finanziarie per «acquistare grandi mute di cani e per poterle addestrare a cacciare gli Indiani alla stessa stregua degli orsi» (SH 241).

29 novembre 1864: massacro di Sand Creek, nel Colorado. Il colonnello John Chivington, ex predicatore metodista e politico regionale («non vedo l’ora di nuotare nel sangue nemico») fa passare per le armi un villaggio dei Cheyenne con circa 600 abitanti – quasi solo donne e bambini – benché il capo indiano agitasse bandiera bianca. Bilancio: da 400 a 500 vittime.

Ne riferisce un testimonio oculare: «C’era un gruppo di trenta o quaranta Squaw, acquattate in un buco per proteggersi, le quali mandarono fuori una bambina, di circa sei anni, con un panno bianco in segno di resa. Ebbe il tempo di fare solo pochi passi, quando venne colpita e abbattuta. In quella trincea, più tardi, tutte le donne furono uccise» (SH 131).

1860: il religioso Rufus Anderson commenta il bagno di sangue che fino allora aveva decimato, per il 90% almeno, la popolazione autoctona delle isole Hawaii. «In ciò costui non vedeva nulla di tragico: tutto sommato, la prevedibile, totale estinzione della popolazione indigena delle Hawaii era un fatto del tutto naturale – diceva il missionario – paragonabile suppergiù “con l’amputazione delle membra malate da un organismo”» (SH 244).

Atrocità delle Chiese nel XX secolo

Campi di annientamento cattolici. È sorprendente come pochi sappiano che in Europa, negli anni della seconda Guerra Mondiale, non c’erano solamente i campi di concentramento nazisti.

In Croazia, negli 1942-43, v’erano numerosi campi di sterminio, organizzati dai cattolici ustascia agli ordini del dittatore Ante Pavelic, un cattolico praticante ricevuto regolarmente dall’allora papa Pio XII. Vi erano persino campi di concentramento speciali per bambini!

Nei campi croati venivano soppressi soprattutto serbi cristiano-ortodossi, ma anche un cospicuo numero di ebrei. Il più famigerato era il lager di Jasenovac; il suo comandante fu per un certo tempo un certo Miroslav Filipovic, un frate francescano temuto con l’appellativo di “Brüder Tod” (Sorella Morte). Qui, al pari dei nazisti, gli ustascia cattolici bruciavano le loro vittime nei forni, ma vivi, diversamente dai nazisti che prima avevano almeno ucciso le prede col gas. In Croazia, però, la maggior parte delle vittime veniva semplicemente soppressa, impiccata o fucilata. Il loro numero complessivo è stimato fra i trecentomila e i 600.000; e questo in un paese relativamente piccolo. Molti uccisori erano monaci francescani, armati allora con mitragliatrici. Queste nefandezze perpetrate dai Croati era talmente spaventose, che persino alcuni ufficiali della sicurezza delle SS tedesche, in qualità di osservatori degli avvenimenti croati, protestarono direttamente con Hitler (il che lasciò peraltro indifferente il dittatore). Il papa però fu ben informato di queste atrocità, e non fece nulla per impedirle (MV).

(Aggiunta dell’Autore: di fronte ai retroscena di questa storia, i reportage dei massmedia sul più recente conflitto serbo-croato nella regione balcanica, dal 1991 al 1995, ha assunto talvolta aspetti addirittura spettrali, giacché vi ricorrevano nomi di luoghi come Banja Luka, o di fiumi come la Sava, dove occasionalmente si invengono ancora oggi scheletri di persone assassinate mezzo secolo fa).

Terrore cattolico in Vietnam. Nel 1954 i combattenti per la libertà del Vietnam, i cosiddetti Viet Min, liquidarono finalmente il governo coloniale francese nel Nord Vietnam, che fino ad allora era stato finanziato con più di due miliardi di dollari dagli USA. Sebbene i vincitori proclamassero libertà religiosa per tutti (la maggioranza dei Vietnamiti non buddhisti era cattolica) vaste campagne di propaganda anticomunista spinsero masse di cattolici a fuggire nel sud del paese. Col sostegno della lobby cattolica a Washington, e con l’appoggio del cardinale Spellmann, portavoce del Vaticano nella politica americana – il quale avrebbe in seguito definitio le truppe americane in Vietnam come «truppe di Cristo» – venne progettato un colpo di Stato per impedire elezioni democratiche nel Sud del Vietnam. Da tali elezioni, probabilmente, anche nel Sud sarebbero usciti vincitori i Viet Min comunisti. Di contro, si elesse alla presidenza del Vietnam meridionale il fanatico cattolico Ngo Dinh Diem (MW 16 ff)

Diem fece in modo che gli aiuti dagli USA, viveri e medicinali, risorse tecniche e d’ogni specie andassero a beneficio dei soli cattolici. I buddhisti, o i villaggi a maggioranza buddhista, vennero ignorati, oppure dovettero pagare per gli aiuti che i cattolici ottenevano invece gratuitamente. Di fatto, l’unica religione ufficialmente riconosciuta era quella romano-cattolica.

L’isteria anticomunista si scatenò in Vietnam in modo ancor più brutale che nella sua versione americana negli USA, la famosa “caccia alle streghe” dell’era di McCarthy.

Nel 1956, il presidente Diem emise un decreto in cui si diceva:

«Individui che minacciano la difesa nazionale o la sicurezza collettiva possono essere internati dalle autorità in campi di concentramento»

Per contrastare il comunismo, come usava dire, vennero così posti in “custodia cautelativa” migliaia di dimostranti e di monaci buddhisti. Per protesta, dozzine di monaci e di maestri buddhisti si diedero fuoco pubblicamente.

[Nota bene: qui i buddisti davano fuoco a essi medesimi, laddove i cristiani hanno piuttosto la tendenza a incenerire il loro prossimo; su questo, vedasi anche l’ultimo capoverso].

Nel frattempo, diversi campi di prigionia, in cui da tempo ormai languivano anche cristiani protestanti e persino cattolici – si erano organizzati in autentici campi di sterminio. Si stima che in questo periodo di terrore (dal 1955 al 1960) restassero ferite nei disordini almeno 24.000 persone, che fossero giustiziati circa 80.000 oppositori; 275.000 furono le persone incarcerate e torturate, mentre circa mezzo milione vennero ristrette in campi di concentramento o di prigionia (MW 76-89).

Per appoggiare un tale governo, inoltre, nel corso degli anni Sessanta, migliaia di soldati americani dovettero lasciare la loro vita.

Virus catholicus. Il primo luglio 1976 morì la 23enne studentessa tedesca di pedagogia Anneliese Michel, lasciandosi morire, nel senso letterale del termine, per fame. Da mesi essa era stata colpita da visioni e apparizioni demoniache; non solo, ma per lunghi mesi due sacerdoti cattolici – con l’autorizzazione ufficiale del vescovo di Würzburg – avevano tormentato la povera ragazza con esorcismi e presunte pratiche antidiaboliche. Quando morì nell’ospedale di Klingenberg, il suo corpo era tutto solcato da cruente ferite. I suoi genitori, entrambi fanatici cattolici, vennero condannati a sei mesi di carcere per omissione di soccorso, specialmente per non aver chiamato alcun medico. Ma neanche un religioso venne indagato e punito per questo. Al contrario! La tomba della sventurata Anneliese Michel è fatto oggetto di pellegrinaggi da parte di fedeli cattolici (ricordiamo che nel Seicento la città di Würzburg era malfamata per le numerosissime esecuzioni di streghe sul rogo).

Questo caso non è che la punta dell’iceberg di tale diffusa e pericolosa superstizione e si é risaputo solo in conseguenza del suo tragico esito (SP 80).

Massacri in Rwanda. Anno 1994: nel giro di pochi mesi, nel piccolo Stato africano del Rwanda, vengono massacrate diverse centinaia di migliaia di civili. In apparenza, si trattava d’un conflitto tra i gruppi etnici degli Hutu e dei Tutsi (Watussi). Per parecchio tempo, si udirono soltanto delle voci su un coinvolgimento del clero cattolico. Negli organi di stampa cattolici furono pubblicate strane smentite; e questo prima che qualcuno avesse accusato ufficialmente di complicità dei componenti della chiesa cattolica.
Senonché, il 10 ottobre 1996, l’emittente radio S2 – tutt’altro che critica nei riguardi del cristianesimo – reca nel notiziario S2 Aktuell delle ore 12 la seguente notizia:

«Sacerdoti e suore anglicani, ma soprattutto cattolici, sono gravemente accusati di aver preso parte attiva all’assassinio di indigeni. In particolare, il comportamento d’un religioso cattolico ha tenuto desto per mesi l’interesse della pubblica opinione, non solo nella capitale ruandese Kigali. Era parroco nella chiesa della Sacra Famiglia, ed è accusato di aver ucciso dei tutsi nei modi più atroci. Sono rimaste incontestate deposizione di testimoni secondo cui il religioso, col revolver alla cintola, fiancheggiava bande saccheggiatrici di Hutu. Nella sua parrocchia, in effetti, era avvenuta una sanguinosa strage di Tutsi che avevano cercato scampo in quel tempio. Perfino oggi, due anni dopo, vi sono molti cattolici a Kigali che, per la complicità a loro avviso dimostrata d’una parte dei sacerdoti, non mettono più piede nelle chiese della città. Quasi non v’è chiesa nel Rwanda in cui fuggitivi e profughi – donne, bambini, vecchi – non siano stati brutalmente picchiati e massacrati al cospetto della croce. Vi sono testimonianze in base alle quali i religiosi hanno rivelato i nascondigli dei Tutsi, lasciandoli in balìa delle milizie Hutu armate di machete.

Nel frattempo, si son date prove schiaccianti del fatto che, durante il genocidio in Rwanda, anche monache cattoliche si sono macchiate di gravi colpe. In questo contesto, si fa costante menzione di due benedettine, rifugiatesi intanto in un monastero belga per sottrarsi al corso della giustizia ruandese. Secondo testimonianze concordi di superstiti, una aveva chiamato i sicari hutu, introducendoli da migliaia di tutsi che avevano cercato rifugio nel suo convento. Con la forza, i morituri erano stati cacciati dal chiostro e tosto soppressi in presenza della suora. Anche la seconda benedettina aveva collaborato direttamente con le bande assassine delle milizie hutu; anche di questa suora testimoni oculari affermano che avesse assistito freddamente, senza reagire in alcun modo, a come i nemici venivano macellati. Alle due donne si contesta addirittura (in base a precise testimonianze) di aver fornito ai killer il petrolio con cui le vittime vennero bruciate vive» (S 2)

Questa notizia ha ricevuto un’appendice. Ecco il messaggio della BBC:

Priests get death sentence for Rwandan genocide:

BBC NEWS April 19, 1998

A court in Rwanda has sentenced two Roman Catholic priests to death for their role in the genocide of 1994, in which up to a million Tutsis and moderate Hutus were killed. Pope John Paul said the priests must be made to account for their actions. Different sections of the Rwandan church have beeen widely accused of playing an active role in the genocide of 1994…

Come si vede, per il cristianesimo il medioevo non è mai veramente concluso.
La cosa che spaventa più che mai è, in tutti i casi, che ogni nuova generazione di cristiani nega e contesta i delitti e le nefandezze che la precedente generazione dei suoi correligionari ha commesso in nome della fede cristiana! Oppure, qualora non sia più possibile negare, si limita ad affermare di sfuggita: oh, ma quelli non erano buoni cattolici, non erano veri cristiani! Cristiani belli e buoni sono solamente quelli che amano il prossimo loro, che fanno il bene e vogliono la pace… eccetera, eccetera.

Come se, parlando di se stessi, queste cose non le affermassero i fedeli di qualsivoglia religione del mondo!


Ogni qualvolta sento i cristiani parlare di morale, mi sento quasi rivoltare lo stomaco
Karl-Heinz Deschner


Fonti bibliografiche

  • DA: Karl-Heinz Deschner, Abermals krähte der Hahn, Stuttgart 1962.
  • DO: Karl-Heinz Deschner, Opus Diaboli, Reinbek, Hamburg 1987.
  • DZ: Die Zeit, Nr. 5, 1998.
  • EC: P.W. Edbury, Crusade and Settlement, Cardiff University Press 1985.
  • EJ: S. Eidelberg, The Jews and the Crusaders, Madison 1977.
  • HA: M. Hunter, D. Wootton, Atheism from the Reformation to the Enlightenment, Oxford 1992.
  • LI: H.C. Lea, The Inquisition of the Middle Age, New York 1961.
  • LM: E. Le Roy Ladurie, Montaillou. Ein Dorf vor dem Inquisitor 1294-1324, Frankfurt 1982.
  • MM: M. Margolis, A. Marx, A History of the Jewish People.
  • MV: A. Manhattan, The Vatican’s Holocaust, Springfield 1986. V. Dedijer, The Yugoslav Auschwitz and the Vatican, Buffalo NY 1992.
  • NC: J.T. Noonan, Conception: A History of its Treatment by the Catholic Theologians and Canonists, Cambridge, Massachussets 1992.
  • S2: Notiziario radiofonico di S2 Aktuell, 10 ottobre 1996, h 12:00.
  • SH: D. Stannard, American Holocaust, Oxford University Press 1992.
  • SP: Settimanale Der Spiegel, Nr. 49, 12/2/1996.
  • TA: A True Account of the Most Considerable Occurrences that have Hapned in the Warre Between the English and the Indians in New England, London 1676.
  • TG: F. Turner, Beyond Geography, New York 1980.
  • WW: H. Wollschläger, Die bewaffneten Wallfahrten gen Jerusalem (I pellegrinaggi armati contro Gerusalemme) Zürich 1973 (È quanto di meglio in circolazione a proposito di crociate. Contiene una silloge di cronache cristiane del medioevo. Purtroppo non più ristampato).
  • WV: Calcoli e stime sul numero delle streghe condannate al rogo:

N. Cohn, Europe’s Inner Demons: An Inquiry Inspired by the Grat Witch Hunt, Frogmore 1976, 253.

  • R.H. Robbins, The Encyclopedia of Witchkraft and Demonology, New York 1959, 180.
  • J.B. Russell, Witchcraft in the Middle Ages, Ithaca, NY 1972, 39.
  • H. Zwetsloot, Friedrich Spee und die Hexenprozesse, Treviri 1954, 56.

Questo documento, elaborato da testi originali di Karlheinz Deschner e tradotto in italiano da Luciano Franceschetti, è presente sotto il titolo Victims of the Christian Faith (in inglese) e Opfer des christlichen Glaubens (in tedesco).


http://www.specchiomagico.net/rocchecatari.htm

I PURI ALBIGESI


……………………….

Nel 1146 fu segnalato per la prima volta, da Geoffroy d’Auxerre, che “il popolo della città di Albi era infestato dall’eresia”. 
Alla cosa non fu dato eccessivo peso. 
Gli eretici chiamavano se stessi Catari, nome che deriva dal greco e significa “i puri”; poiché avevano la loro roccaforte più famosa appunto ad Albi, nel sud della Francia, furono chiamati anche Albigesi, definizione coniata nel Concilio di Tours. 
Caratteristica degli eretici era il dualismo, ispirato alle religioni orientali manichee e basato sui due principi del bene e del male. 
Nessuno era mai riuscito a spiegare davvero perché c’era il male nel mondo, ma i Catari diedero, a modo loro, una risposta: un Dio buono aveva creato il mondo spirituale, un Dio malvagio, chiamato Rex mundi (re del mondo), aveva dato origine al mondo materiale. 

Le due divinità erano in continua lotta per il predominio; dato che il cataro sceglieva il Dio del bene e dello spirito, e rifiutava il Dio del male e della materia, era quindi costretto a negare la vita corporea e tutto quello che veniva dal Dio della materia: per esempio, la procreazione, cosa impura che era assurdo santificare con un sacramento (era tollerata la libera unione senza matrimonio, purché si usassero metodi di contraccezione); anche gli alimenti che ricordavano l’origine della vita, come la carne, le uova, il formaggio ed il latte, erano vietati a favore di uno stretto regime vegetariano, interrotto da periodi di digiuno purificante. 
Il suicidio per fame, chiamato “endura”, veniva considerato un atto virtuoso, massima dimostrazione di fede, perché la morte avrebbe impedito il ritorno nel peccato.
Coloro che volevano diventare “perfetti” ( in lingua d’oc perféit indicava una persona che aveva preso gli ordini, come un sacerdote) dovevano rinunciare a tutti i piaceri del corpo e vivere in castità, umiltà e povertà, vestendo sempre di nero e mangiando pochissimo. 
La cerimonia del ricevimento degli ordini, detta “consolamento”, si svolgeva nel corso di un’assemblea, che veniva tenuta in un posto qualsiasi, dato che i Catari non avevano templi per il loro culto.  La santità dei “perfetti”, il loro rigidissimo ascetismo ed il loro ardore fecero grande presa sulle folle.

All’inizio la Chiesa usò contro gli eretici metodi pacifici: si pensò di mandare predicatori cistercensi a catechizzare gli abitanti, riconducendoli all’ortodossia.
Le prediche ebbero un insuccesso totale: gli eleganti predicatori, incarnazione del fasto delle abbazie cistercensi, furono accolti con freddezza, con derisione o con astio dal popolo. Il vescovo spagnolo Diego d’Osma ed il suo collaboratore, Domenico de Guzman, escogitarono un nuovo tipo di modo di predicare, più semplice e vicino al popolo.
L’idea era buona, ma il popolo reagì con indifferenza.

Il potere centrale era al momento deficitario, in quanto il re Filippo Augusto era impegnato a combattere gli Inglesi ed i loro alleati nelle regioni del Nord–Ovest, per cui il papa Innocenzo III si rivolse a Raimondo VI, nipote di quel Raimondo IV, conte di Tolosa, che era stato uno dei capi della Prima Crociata per la liberazione della Terrasanta.
Con suo orrore, il pontefice scoprì che i signori delle terre del Sud non solo tolleravano, ma in molti casi sostenevano l’eresia: Raimondo rifiutò di aderire ad una lega contro gli eretici, per cui fu scomunicato dal legato pontificio, Pierre de Castelnau. 

Innocenzo III si rese conto che la situazione era gravissima; scrisse allora a tutti i vescovi delle città del Midi, affermando che occorreva un’altra Crociata nei territori contaminati dall’eresia, non potendo la Chiesa appellarsi al braccio secolare, dato che i nobili erano d’accordo con gli eretici.
Questo particolare stabilì un precedente: in seguito, durante il Concilio Lateranense (1215), non ci si limitò a condannare genericamente ogni forma di eresia, ma addirittura vennero scomunicate le autorità secolari che non punivano gli eretici.
I nobili furono obbligati per legge a “forzare i fedeli a denunciare gli eretici”, ammettendo la delazione senza prove: un’arma pericolosissima per gli inevitabili abusi. 

Il legato pontificio tentò di nuovo, invano, di convincere Raimondo; uscito dal burrascoso colloquio l’uomo venne ucciso da un sicario, che fu subito definito “uomo di Raimondo”, malgrado nessuno potesse provare la responsabilità diretta del conte di Tolosa nell’omicidio. La situazione precipitò.
Il 10 marzo 1208 il papa canonizzò Pierre de Castelnau, martire della Chiesa, ed indisse la Crociata contro gli Albigesi, promettendo la terra a coloro che sarebbero partiti per liberare il Midi dall’eresia.
Alla chiamata risposero i più grandi casati francesi del Nord, ma anche Tedeschi, Inglesi, Frisoni e Slavi. I soldati, guidati da Simone di Montfort, portava sulla tunica la croce, esattamente come coloro che combattevano in Terrasanta, e, come tutti i Crociati, sapevano di avere la remissione di ogni peccato (con un biglietto di ingresso per il paradiso) oltre a più prosaici vantaggi: il pingue bottino che potevano fare nelle ricche terre del Sud. 
Infatti i principali centri catari erano in Linguadoca, da lungo tempo spina nel cuore per i sovrani francesi, patria di quella splendida civiltà occitana che in pieno Medioevo precorse il Rinascimento: era la terra della lingua d’oc, dei trovatori che cantavano l’amor cortese, dei giochi floreali, sostenuta dalla potenza e dalle ricchezze dei conti di Tolosa, che venivano, con disprezzo ed invidia, chiamati “i re del Mezzogiorno”. 

C’era anche un motivo religioso per odiare la Linguadoca: questa era stata per due secoli seguace dell’arianesimo, poi aveva ospitato tranquillamente Musulmani ed Ebrei, sviluppando il gusto della discussione su temi religiosi senza perdere mai lo spirito tollerante.
L’unica chiesa impopolare, per il suo carattere del tutto contrario alla cultura occitana, era proprio quella cattolica. 
In poche parole, questo abominio andava eliminato ed ai Crociati non parve vero di averne l’opportunità.
Essi calarono come un’orda di barbari e, con la stessa fanatica violenza che li aveva spinti contro l’Islam a Gerusalemme, misero la Linguadoca a ferro e fuoco per vent’anni, sterminando la popolazione di intere città, senza stare a guardare se chi moriva era eretico o no, tanto “Dio avrebbe, nell’aldilà, riconosciuto i suoi”. 
Chi si pentiva e chiedeva pietà non veniva comunque risparmiato, perché “se era davvero pentito, il rogo era la giusta espiazione per i suoi vecchi peccati, se non era davvero pentito il rogo era la giusta punizione per la sua perfidia”. 

La prima a cadere fu Béziers; buona parte dei suoi abitanti fa sterminata, altri morirono nell’incendio che i Crociati appiccarono per distruggere il nido di eretici.
Venti giorni dopo si arrese Carcassonne. Al conte di Tolosa furono proposte condizioni di resa umilianti, che vennero rifiutate.
Seguirono anni di battaglie e di massacri.
Il castello di Puivert fu cinto d’assedio e cadde dopo soli tre giorni.
Non era stato costruito per combattere, bensì per ospitare le Corti d’amore, le riunioni di belle dame e dei trovatori che ne cantavano la grazia.
Puivert era una dimora elegante ed accogliente, l’ideale per ospiti regali; la sua sala principale, detta “dei musici”, è ornata dalle figure degli strumenti musicali dell’epoca.
Il cortile era fatto per giochi cavallereschi, le basse mura non potevano fermare alcun nemico.

Cadde, ma non fu distrutto; si preferì darlo, come preda di guerra, ad una famiglia fedele a Simon de Montfort. 
I legittimi proprietari, la famiglia dei du Congost, ne furono cacciati.
Una degli ultimi discendenti andò a morire a Montségur.

La Chiesa lottò contro i Catari con le armi dei Crociati e con l’Inquisizione, affidata soprattutto ai Frati Domenicani.
Nel 1242 un gruppo di inquisitori, capeggiati da Guillaume Arnaud, famoso per la sua crudeltà nei confronti degli eretici, istituì un tribunale nella città di Avignonet, nel Lauraguais, per giudicare i Catari. Gli inquisitori furono assassinati da un gruppo di sicari; poiché la città apparteneva al conte di Tolosa, egli ne fu incolpato.
I responsabili si rifugiarono a Montségur.

Il castello fu cinto d’assedio per mesi e mesi.
La sua posizione lo rendeva, se non inaccessibile, comunque difficile da prendere.
Gli abitanti non soffrirono mai la fame: una delle battute che circolavano tra gli assediati era che da Monteségur si andasse e venisse tutti i giorni. 
Infine si venne ad un accordo. I Catari rifugiati nel castello chiesero 15 giorni per discutere della resa.
La notte tra il 15 ed il 16 marzo 1244 quattro catari fuggirono da Montségur, portando via qualcosa di molto prezioso.
La mattina del 16 marzo un ambasciatore rifiutò, a nome dei Catari, la conversione e la salvezza. Tutta la popolazione catara (più di duecento persone) fu fatta uscire dal castello, ammassata in una radura ai piedi della montagna e bruciata viva in un rogo collettivo.

Che cosa era l’oggetto prezioso, portato fuori nottetempo?
Si è parlato di oro e pietre preziose, un tesoro accumulato negli anni, custodito a Montségur, depositato dai grandi signori della regione per sottrarlo alla rapacità dei Crociati. Oppure di documenti importantissimi per la Cristianità, che avrebbero potuto stravolgere la storia.  O, ancora, di un solo, eccezionale, oggetto: il Santo Graal.
Alcuni studiosi hanno formulato l’ipotesi che il Graal, rimasto per secoli nella zona di Nimes, dopo esservi stato portato da ebrei in fuga, fosse finito nel castello di un nobile, poi convertito al Catarismo: la Crociata sarebbe stata solo il pretesto ufficiale per riprendersi la reliquia. 
Leggenda o realtà? Nessuna di queste ipotesi è mai stata né confermata, né smentita.
Ma in tutta la zona ci furono strani avvenimenti, nel corso dei secoli, che legarono tra loro indissolubilmente i Catari, i Templari, l’Ordine di Sion ed il Graal, e forse anche il segreto di una stirpe di origini divine (file aggiornato nel Novembre 2004).

Devon Scott



LE ERESIE MEDIOEVALI: UN MALESSERE RELIGIOSO

http://www.storiamedievale2.net/Medioevoereticale/malessere.htm

Dopo le grandi contese trinitarie e cristologiche che caratterizzarono i primi secoli cristiani, fra IV e VIII secolo, per un lungo periodo, fino alla metà del XII secolo, non abbiamo traccia di eresie, aldilà di casi peculiari e circoscritti ispirati per lo più dal desiderio di uniformarsi all’insegnamento di monaci e di eremiti. La rinascita ereticale che imperversò tra XII e XIV secolo nella Francia provenzale e occitana e nell’Italia centro/settentrionale, primi fra tutti i movimenti ereticali del Catarismo, Valdismo e quello apostolico o dolciniano, fu assai diversa rispetto a quella dei primi secoli del Cristianesimo. Quanto le prime eresie erano, infatti, il frutto di vere e proprie dispute filosofiche e teologiche appartenenti ad ambienti acculturati ed eminentemente bizantini, tanto le eresie del basso Medioevo erano diffuse all’opposto tra i laici di media condizione.

Per spiegare un fenomeno di così vasta portata come l’eresia medievale, non possiamo esimerci dal considerare la rinascita economica, e quindi sociale, che, a partire dai primi del secolo XI, si manifestò in Europa. Conseguenze immediate furono la riforma della Chiesa e quella monastica, che dettero il via ad un processo rinnovatore, un vero e proprio humus spirituale ed etico, che coinvolse tutta la società medievale, e con essa anche la vita religiosa, capace di risvegliare la coscienza religiosa e civile dei laici, attratti dagli ideali di coerenza morale e di ritorno alla purezza evangelica. A partire dal secolo XI, ed in particolar in quello successivo, sono evidenti i segni di questo rinvigorimento in tutta l’Europa: la popolazione aumenta di numero, sorgono nuovi centri abitati, le città rinascono a nuova vita e in esse si formano e si sviluppano nuovi ceti so­ciali. Ovunque, ma in particolare nell’Italia centro-settentrionale e nella Francia provenzale, ci sono uomini nuovi che, spinti da spirito di iniziativa, da sete di gua­dagno e da desiderio di libertà, percorrono le strade d’Europa, e con loro servi della gleba che fuggono dal feudo e per affrancarsi nella città.

Tutto questo accadde nel complicato e confuso scenario di rivolgimenti politici che fu la Lotta per le Investiture, che coinvolse i due principali attori politici del tempo: l’Impero ed il Papato. I burgenses iniziano, così, a spingere dal basso e a ritagliarsi spazi fino ad allora preclusi e a tradurre il loro anelito di cambiamento e di libertà anche in ambito religioso (e non poteva essere altrimenti tenuto conto che la religione occupava ogni aspetto della vita sociale e comune di allora). Nel XII secolo, ispirata agli ideali evangelici ed apostolici, in antitesi ai costumi della Chiesa mon­dana e corrotta, si manifesta un po’ in tutta Eu­ropa una fervente attività religiosa popolare, promossa e sostenuta dalla predicazione itinerante di monaci (tra i quali ricordiamo il Monaco Enrico e Pietro di Bruys). Questi germi li ritroviamo già all’inizio della riforma monastica, dalla quale prese le mos­se e si sviluppò la riforma gregoriana: già in quegli anni Oddone di Cluny metteva in evidenza come i cattivi costumi del clero concubinario fossero la causa per cui, tra la gente comune, si era cominciato a ritenere che un sacerdote indegno non po­tesse officiare la messa e dare i sacramentiin quanto corrotto e, quindi, fuori dal corpo della Chiesa. È a questo intenso soffio di rinnovamento spirituale che dobbiamo anche le prime e spontanee spedizioni di vaste fasce di popolo che precedettero la prima crociata e che, senza alcuna assistenza da parte delle autorità, si avviarono verso la Palestina, attratte dal miraggio della terra del Signore, per liberarla dagli infedeli.

La condanna del clero corrotto e mondano del secolo XI, pronunciata non solo da attivi riformatori, ma anche da vescovi e monaci, ebbe come conseguenza la riscoperta della vita apostolica, semplice e pura, della Chiesa dei primi secoli. Il Vangelo è una costante, una fonte di riferimento pressoché unica, e quella più larga­mente citata, da parte di tutti gli eretici e i riformatori popolari del Basso Medioevo, tanto  tra gli eretici di Arras e di Monteforte, quanto nella dottrina di Pietro di Bruys o in quella di Arnaldo da Brescia. È a questo che si deve l’origine dell’eresia medievale, non ad un tardivo risorgere della più antica gnosi. È a questa aspirazione di una Chiesa più aderente ai dettami del Vangelo che si deve la  costante opposi­zione di tutti i movimenti ereticali, dell’XI secolo come dei secoli successivi, alla Chiesa romana, raffigurata quasi sempre nella meretrice del­l’Apocalisse, o nella Babilonia della prima lettera di Pietro. Anche il movimento patarino che condusse una lotta decisa contro il clero concubinario e simoniaco, tendeva decisamente verso una Chiesa di popolo e ispirata soprattutto alla parola del Vangelo, ripudiando la messa celebrata e i sacramenti impartiti da sacerdoti.

Le eresie medievali non sono qualcosa di estraneo, avulso dal contesto dottrinario, ma si inseriscono, a modo loro, nella società del Basso Medioevo, che è indubbiamente tutta cristiana. Sono, anzi, il prodotto di quel lungo processo di trasformazione e sviluppo della società cristiana (la Christianitas) e delle sue istituzioni, che raggiunse il suo culmine nel XIII secolo. Il messaggio evangelico viene visto come altro dalla Chiesa, intesa come istituzione e gerarchia ecclesiastica, opulenta e ricca, compromessa con i potenti ed essa stessa potente. Risulta evidente l’inadeguatezza degli uomini di chiesa e bassa la credibilità di molti dei suoi predicatori. Ed è a questa parte della società (soprattutto cittadina) che gli eretici si rivolgono, ispirandosi al messaggio salvifico del vangelo. Da qui il loro impegno concreto con atti di carità, di assistenza ai bisognosi, ai malati, ai poveri, che fu una costante in tutti i movimenti, dando luogo ad un cristianesimo “sociale”.

Altra costante comune tra i vari movimenti ereticali è anche il sostenere di essere gli unici e legittimi rappresentanti, e quindi eredi, di Cristo e degli apostoli, contro la legge della Chiesa e la sua tradizione, contrapponendo l’«Ecclesia Dei» all’«Ecclesia diaboli» (è la sequela del Cristo, o il Vangelo sine glossa). E non è un caso se, agli occhi di molti contemporanei, gli eretici vengono percepiti i veri “cristiani”, i boni cristiani. Lo stesso Bernardo da Chiaravalle, morto nel 1153, uno dei più influenti predicatori e difensori dell’austerità del suo tempo, ritenne che fu proprio il diffuso malconten­to popolare, sia dei ricchi che dei poveri, per la corruzione del clero regolare, una delle ragioni principali della straordinaria popolarità che conobbe il catarismo, che annoverava tra le sue fila molti esponenti della nobiltà occitana e provenzale, a quel tempo la più civile d’Europa.

Spinti da questo malessere religioso e da un’ansia di partecipazione, che, comunque, rimase sempre circoscritta alla sfera religiosa, senza assumere quasi mai i connotati di una contestazione sociale (casomai riscontrabile in alcuni movimenti del Basso Medioevo, in ogni modo sempre a latere), molti tra quelli che si sentivano delusi dalla Chiesa, si rivolsero alla lettura della Bibbia e delle Sacre Scritture, piuttosto che ai padri della Chiesa o ai sacerdoti. Tra loro ci furono uomini come Pietro Valdo, Wyclif, Huss e Martin Lutero che si accorsero che in quei testi non vi era segno o menzione di quei dogmi sui quali la Chiesa basava la propria continuità e il suo potere. Non vi erano riferimenti ai sacramenti, al purgatorio, ai pellegrinaggi, alle indulgenze o alla venerazione delle reliquie. Ma il Papato (e come poteva esser altrimenti?) si rifiutò sempre di venir incontro a queste esi­genze di rinnovamento, trasformando molti di questi riformatori in eretici, dove, in termini teologici, di eretico c’era ben poco.

Significativo in questo senso è anche il successo che conobbe l’escatologia di Gioacchino da Fiore (morto nel 1202). Sua è l’interpretazione della storia del mondo in tre distinte ere, ognuna delle quali preceduta da un lungo periodo di gestazione: l’era del Padre (o della Legge), l’era del Figlio (o del Vangelo), e l’era dello Spirito, che aveva stimato che sarebbe iniziata intorno al 1260, numero simbolico più volte citato nell’Apocalisse di Giovanni (11,3 e 12,6) e sarebbe durata fino alla venuta dell’Anticristo e del giudi­zio universale. In quell’anno, così denso di significati per Gioacchino, non si sarebbe verificata la parusia (ovvero il secondo ritorno di Cristo sulla terra), ma l’avvento di un’era di concordia e di fine della gerarchia della Chiesa. Particolarmente famoso fu il suo commento dove veniva affermato che prima che ciò potesse avvenire, dovevano verifi­carsi alcuni prodigi, primo fra tutti la venuta di un grande maestro, un «nuo­vo Elia», e un nuovo ordine di monaci che avrebbero diffuso lo Spirito nei più remoti angoli della terra, convertendo al cristianesimo persino gli ebrei. Questa nuova interpretazione dei testi esca­tologici provocò una miriade di esegesi e trattati pseudo-gioachi­miti in cui si cercava di identificare i segni premonitori che identificassero il principio di questa nuova era. Possiamo citare i francescani appartenenti alla corrente degli Spirituali (o fraticelli) che identificavano il loro movimento con il nuovo ordine di monaci che avrebbero dovuto guidare la comunità cristiana nell’era dello Spirito. Oppure all’imperatore Federico II, che, scomunicato per spergiuro, bestemmia ed eresia, da più parti venne identificato con l’Anticristo. E non fu un caso se, verso la fine del 1260, l’anno che Gioacchino aveva indicato come inizio dell’era dello Spirito, si ebbe la prima manifestazione pubblica di flagellanti, che da Perugia si estese un po’ in tutta Europa.

La lotta tra inquisizione ed eretici si presenta, essenzialmente, come scontro tra autoconservazione dell’istituzione e le istanze individuali, o di piccoli gruppi, per appropriarsi il diritto alla predicazione (non esiste e non si ha percezione di un’antichiesa ereticale, intesa come altra e nuova istituzione, sostitutiva di quella esistente). Gli stessi manuali inquisitoriali non preparano e sostengono gli inquisitori ad una lotta contro una contro-istituzione, ma semplicemente contro degli errori, dottrinari e comportamentali, individuali. Per l’inquisizione l’eresia è tale perché in contrasto con i principi della dottrina e della morale stabiliti dal magistero ecclesiastico, non perché realizza un’istituzione alternativa alla Chiesa. Il suo scopo è accertare se le affermazioni eretiche siano veramente credute da chi le sostiene, o se sono frutto dell’ignoranza, perché la vera eresia (dal greco haeresis, ovvero “scelta”) è frutto di una scelta consapevole e libera.

L’aspetto dottrinale e l’assetto teorico e morale che stava dietro non ricoprivano per gli inquisitori un ruolo importante. All’inquisizione non interessava in alcun modo stabilire che cosa fosse eresia; non ha mai cercato il dialogo. Il suo era un fine esclusivamente di accertamento e di repressione, partendo dal presupposto esclusivo ed autoritario che «extra ecclesiam nulla salus». Con la Chiesa orientata in quegli anni verso il conformismo religioso ed una rigida istituzionalizzazione dei fedeli, ogni interpretazione o atteggiamento «extra ecclesiam» era definito illegittimo e causa di perdizione, e di conseguenza eretico. Agli occhi di un inquisitore, quasi sempre un frate predicatore od uno minore, discutere era già di per sé un errore poiché la verità che gli era stata affidata da difendere, era certa ed immutabile, meno che mai suscettibile di aggiustamenti. Gli inquisitori non si sforzano mai di capire questo “malessere ereticale”, così come le istanze pauperistiche e la richiesta di un rinnovamento integrale della Chiesa, unita ad una maggiore partecipazione alla vita religiosa da parte dei laici.

Un atteggiamento mentale di questo genere fece sì che le varie forme di dissenso religioso venissero incasellate in schemi già noti, quasi sempre ascritte ad un rifiorire del manicheismo, ricostruendo, in questo modo, uno spaccato della devianza religiosa del Duecento e Trecento frammentato e contraddittorio, nella maggior parte dei casi lontano dalla realtà. Ad aggravare ulteriormente la conoscenza delle fonti storiche, è che i documenti che ci sono giunti e che parlano dei vari movimenti sono soltanto quelli riportati dalla parte avversa, dalla penna, cioè, dei controversisti e degli inquisitori catto­lici che espongono le dottrine degli eretici in aperta pole­mica contro di essi. Interessati ad evidenziare solo quei caratteri esteriori che gli permettevano di riconoscere se un movimento religioso era o non conforme alla dot­trina della Chiesa, nei vari manuali, trattati e costituzioni pontificie ed imperiali, i cronisti descrivono indistintamente le eresie secondo canoni prestabiliti; tratti comuni sono il turpiloquio, la sodomia, l’incontinenza sessuale e la stoltezza dei loro seguaci.

Il confine tra ortodossia e eresia era sottile: numerosi sono gli atti di processi inquisitoriali da cui risulta che ci sono eretici che non si rendono conto affatto di essere tali, che partecipano attivamente agli atti di culto, celebrano i santi, chiedono indulgenze, si confessano, fanno atti di penitenza e di carità come qualsiasi altro fedele ortodosso. In molti casi il loro è semplicemente un tentativo per professare più intensamente la propria spiritualità, quasi a divenire eretico per condurre un’esistenza più coerentemente cristiana, come dimostrano i vari movimenti pauperistici e penitenziali improntati all’exemplum della vita evangelica. La predicazione di Gerardo Segarelli, ad esempio, riscosse così tanto successo a Parma non perché portasse elementi teologicamente nuovi, ma perché «era un buon uomo e diceva belle parole». Le verità dottrinali non vengono mai messe in discussione (tranne forse per il caso dei catari): diventano eretici solo perché si rifiutano di sottomettersi alle ingiunzioni papali e all’obbedienza romana.

La scelta eterodossa fu quasi sempre una scelta intellettuale e morale del singolo, mai di una comunità, spinta dalla necessità di obbedire al dettato della propria coscienza, originando nella maggior parte dei movimenti di dissenso una religiosità essenziale e scarna che puntava ad una piena responsabilizzazione di ogni cristiano nel suo rapporto diretto con Dio e limitando, laddove era possibile, l’intermediazione della Chiesa. Era questa la loro vera “pericolosità sociale”; la loro credibilità era strettamente legata ad atteggiamenti il più possibile vicini al messaggio apostolico e evangelico, e quindi “ortodosso” per ampi strati della società civile e che, implicitamente, metteva in dubbio la credibilità dell’istituzione ecclesiastica. Si badi bene, però, mai gli eretici si propongono come contestatori dell’ordine cittadino, comunale o nobiliare. Negli stessi movimenti troviamo, infatti, a braccetto il mercante, il contadino o l’artigiano, a dimostrazione che raccoglievano il consenso tra i ceti sociali più diversi. Le istanze e rivendicazioni politico-sociali, casomai e se ve ne sono, vengono dopo, molto dopo (caso a parte, ma comunque sempre ascrivibile a questo contesto, è quello della vicenda dolciniana quando il movimento apostolico si saldò con le comunità rurali e montanare dell’Alta Valsesia in aperto contrasto con i comuni di Novara e Vercelli e il vescovo di quest’ultima città).

Parlare di eresie ed eretici medievali significa, ovviamente, parlare di sconfitti ed emarginati (molti uccisi, in maniera più o meno atroce, per mano dell’inquisizione). È una storia di “dimenticati”, di uomini che hanno subito repressioni ed umiliazioni di ogni genere, che hanno conosciuto l’emargi­nazione, relegati nell’oblio. Più che di eresia, se non intesa come scelta del proprio credo, del proprio modo di comportarsi e rapportarsi con la società del tempo, si tratta di cristiani “senza una chiesa propria”, nella maggior parte dei casi desiderosi di un ritorno alla Chiesa primitiva di Cristo e degli apostoli. Sono utopisti che vogliono se­guire nudi il Cristo nudo (come Francesco d’Assisi), che guardano al passato come fine ultimo della propria azione, giungendo al paradosso che la Chiesa in nome di Cristo, spesso e volentieri, ha represso dei veri cristiani. La loro è una vita tutta rivolta all’ideale della simplicitas, semplicità e purezza dello spirito, lontano da incrostazioni materiali e da gerarchie. È un ideale che accomuna personaggi come Francesco d’Assisi, giullare di Dio, Gioacchino da Fiore oppure Gherardo Segalello; è un ideale che farà dire a Dolcino che «si può pregare Dio in una stalla o in una foresta come in una chiesa consacrata, anzi meglio» e che « Dio è di tutti». Anche se non perfettamente consapevoli, sapranno comunque abbattere barriere e creare piccole comunità di “uguali” (basti pensare al ruolo di pari dignità che, quasi in ogni movimento ereticale, hanno assunto le donne).

Rispetto alle gerarchie ecclesiastiche, per questi eretici, non ha importanza che l’uomo abbia o non abbia, che sia dotto oppure no. Niente di tutto questo ha per loro importanza, ma solo poter partecipare alla parola di Dio, di un Dio che sa sorridere e accogliere, lontano dall’immagine di giudice terribile che spesso la Chiesa ha usato per incutere timore. Ogni comportamento “deviato” rispetto alla dottrina cattolica diviene eretico (di questa colpa non è neppure immune la riforma protestante: un esempio su tutti il processo e il rogo di Michele Serveto), così come ogni tentativo di seguire una propria strada, per finire di estendere il crimine di eresia anche in campi che non sono propri degli articoli di fede (un esempio illuminante è la vicenda di Giovanna d’Arco). Ciò che accomuna questi movimenti è la professione di un cristianesimo aperto e portato all’incontro di culture diverse, come quella popolare o contadina e quella della grande mistica, a partire da Margherita Porete, originando un intreccio complesso di esegesi e istanze sociali, teso alla ricerca di un mondo migliore.

Consapevoli o meno, gli eretici medievali hanno iniziato un percorso difficile, incerto in ogni suo passo, un percorso che attraverso i secoli è giunto fino a noi: l’idea di una tolleranza possibile tra le coscienze e le religioni. Hanno elaborato approcci religiosi diversi, ma non per questo minori, capaci di parlare alle coscienze. La libertà di pensiero, conquista relativamente recente del mondo occidentale, viene anche da costoro. È la stessa motivazione che ha spinto Galileo Galilei nella sua speculazione cosmica, o Giordano Bruno al rogo. È quello stesso spirito che “eppur si muove ….” e che ha aperto la strada verso la libertà. Una libertà protesa a vivere secondo una scelta propria (airesis) e personale senza accettare passivamente verità incontrastate ed indiscusse; una libertà responsabile e che possiede una propria intelligenza, capace di investigare il mondo che la circonda. Una libertà negata nei tribunali dell’inquisizione che si sono succeduti nelle varie epoche storiche. Una libertà per cui molti, troppi, hanno pagato.

©2005 Andrea Moneti

SEGUE NELL’ARTICOLO: “ERETICI, IL DOMINIO DELLA PAURA



Categorie:Storia

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: