(Molte delle cose qui scritte provengono da: http://www.templaricavalieri.it/maria_maddalena.htm ).
Maria non era semplicemente un nome ma un titolo di distinzione, essendo una variazione di Miriam (il nome della sorella di Mosè e Aronne). Le Miriam (Marie) partecipano a un ministero formale all’interno di ordini spirituali. Mentre i “Mosè” guidavano gli uomini nelle cerimonie liturgiche, le “Miriam” facevano altrettanto con le donne. La stessa cosa vale per Sarah. Maria è un titolo sacerdotale mentre Sarah indica il titolo di regina o principessa
Maria Maddalena (o Maria di Magdala) ha una storia descritta in modi diversi a seconda delle epoche e degli autori. Prima, secondo alcuni, sarebbe stata immersa in studi sacri presso gli Esseni o al sacerdozio di Iside, quindi al seguito di Gesù, poi nella predica in Palestina, quindi (e di questo occorrerà discutere in seguito) esule nel Sud della Francia e ancora in viaggio a predicare.
Maria Maddalena viene generalmente identificata con la peccatrice, la prostituta che lava e unge i piedi di Gesù (e che, come vedremo, è invece un’altra donna) e in questo errore storico c’è qualcosa di estremamente affascinante ed importante che appartiene alla Maddalena. Non è tanto importante, nella storia, l’umile e bassa condizione cui la prostituta appartiene, quanto la perfetta autenticità ed integrità del suo gesto, che viene messa a confronto con il manierismo degli altri discepoli.
È grazie a questa sua autenticità che alla Maddalena Gesù affiderebbe il suo messaggio più importante (la buona novella e, secondo alcuni, il suo insegnamento più pregnante).
Prima di proseguire con le notizie sull’identità delle Marie che compaiono nei Vangeli, è utile risolvere da subito questa vicenda di Gesù che offrirebbe a Maria di Magdala i suoi insegnamenti più profondi (almeno quelli che anche gli Apostoli non capirono immediatamente) da trasferire poi agli Apostoli medesimi.
Il Vangelo di Maria di Magdala
Nel 1896 lo studioso tedesco Carl Reinhard comprò ne Il Cairo un manoscritto su papiro del secolo V. In tale papiro, scritto in lingua copta (una specie di intersezione tra l’egiziano traslato dal geroglifico ed il greco). Più tardi comparvero altri due frammenti (questa volta in greco) che si aggiunsero ai temi trattati nel precedente papiro. Dico subito che il papiro è il materiale su cui vi è lo scritto, ma che il tutto è confezionato a forma di codice, un progenitore del libro che noi conosciamo e che i cristiani per primi introdussero nel secondo secolo d.C.
Il papiro contiene quattro scritti gnostici: il presente Vangelo di Maria, l’Apocrifo di Giovanni, la Sofia di Gesù Cristo, gli Atti di Pietro. Il primo scritto è il più breve e il più danneggiato. Occupava le prime 18 pagine ed un quarto di un codice relativamente piccolo, 12,7 x 10,5 e termina col titolo il Vangelo di Maria alla p. 19, 5. ….Purtroppo il testo è incompleto: mancano le prime sei pagine e ancora, integralmente, le pagine 11-14: in tutto, dunque, mancano 10 pagine di testo……Il luogo di provenienza del papiro è ignoto, tuttavia ci si mantiene entro un margine di sicurezza ipotizzando che provenga dalla regione di Nag Hammadi, come altri codici copti venuti alla luce prima del 1945 e dei quali si ignorava la provenienza. Approfonditi studi e recentissime esplorazioni archeologiche confortano quella che prima era una semplice supposizione.
Naturalmente il Vangelo di Maria non rientra nella storia che il cristianesimo ha costruito e quindi non solo non passa come documento riconosciuto dalla Chiesa, ma neppure come Vangelo Apocrifo. Lo si situa tra i cosiddetti Vangeli Gnostici (ora non desidero perdermi in questo mare magnum di complicazioni: per ciò che devo dire basta quanto ho accennato).
Trascrivo ora l’intero Vangelo e quindi passerò a commentare l’enorme novità, rispetto ai Vangeli canonici, che in esso si trova.
Vangelo di Maria (di Magdala) (Pap. 8502 di Berlino e Pap. Rylands III, n. 463)
1. (Mancano le pagine da 1 a 6)
2. “In definitiva, la materia sarà distrutta, oppure no?” Il Salvatore rispose: ” Tutte le nature, tutte le formazioni, tutte le creazioni sussistono l’una nell’altra e l’una con l’altra, e saranno nuovamente dissolte nelle proprie radici. Poiché la natura della materia si dissolve soltanto nelle radici della sua natura. Colui che possiede l’udito, e possa udire, che ascolti!”
3. Pietro gli disse: “Giacché ci hai spiegato ogni cosa, spiegaci anche questo. Che cosa è il peccato del mondo? “. Il Salvatore rispose: “Non vi è alcun peccato. Siete voi, invece, che fate il peccato allorché compite azioni che sono della stessa natura dell’adulterio, che è detto ‘il peccato’. Per questo motivo il bene venne in mezzo a voi, nell’essenza di ogni natura per restituirla alla sua radice”.
E proseguì dicendo: “Per questo vi ammalate e morite, perché voi amate ciò che è ingannevole, ciò che vi ingannerà. Chi può comprendere, comprenda”.
“La materia diede origine a una passione senza uguali, che procedette da qualcosa che è contro natura. Ne venne allora un disordine in tutto il corpo. Per questo motivo vi dissi: ‘Sentitevi soddisfatti dentro di voi più di quanto continuate insoddisfatti e disubbidienti; in verità vi dico sentitevi soddisfatti ed obbedienti solo in presenza dell’immagine della natura e non di ciò che va contro di essa.” Colui che ha due orecchi e può udire, che ascolti!
4. E, dopo aver pronunciato queste parole, l’Unto se ne andò dicendo ai presenti:
“La pace sia con voi! Che la mia pace si estenda in voi! State all’erta che nessuno vi inganni con le parole: “Vedete qui” o “Vedete là”. Il germoglio della vera Umanità è infatti dentro di voi. Seguitelo! Chi lo cerca lo troverà.
“Andate, dunque, e predicate la buona novella del Signore Divino. Non annunciate alcun precetto all’infuori di quello che vi ho predicato, e non annunciate alcuna legge come se fosse la legge di un legislatore, affinché non avvenga che siate da essa costretti”.
E queste furono le sue ultime parole prima di lasciarli.
5. Quelli che erano presenti restarono afflitti e si lamentarono amaramente. “Come possiamo andare per il mondo dai gentili e predicare loro il Vangelo del Regno del Figlio della Vera Umanità ? Se essi non risparmiarono lui, come saremo risparmiati noi?” S’alzò allora Maria di Magdala, salutò tutti i presenti, e disse ai suoi fratelli: ” Non piangete, non vi affliggete, e non albergate dubbi nel vostro cuore. La sua grazia discenderà su di voi e vi proteggerà. Lodiamo piuttosto la sua grandezza, giacché egli ci ha preparati e fatti veri Esseri Umani.”
Dopo che Maria di Magdala ebbe pronunciato queste parole, il cuore dei presenti si riempì di Bene, ed essi si disposero a conversare intorno agli insegnamenti [del Signore].
6. Pietro disse a Maria: “Sorella, noi sappiamo che il Salvatore ti amava più delle altre donne. Comunicaci le parole del Salvatore che tu ricordi, quelle che tu conosci e che noi non conosciamo per non averle ascoltate”. Maria rispose e disse: “Quello che a voi è nascosto, io ve lo comunicherò”.
E cominciò a parlare con le seguenti parole.
7. “Io, disse Maria, vidi il Signore in una visione, e gli dissi: ‘Signore, oggi ti ho visto in una visione’. Egli mi rispose e disse: ‘Beata, tu che non ti sei turbata alla mia vista. Là, infatti, ove è la mente, quivi è il tesoro’. Io gli dissi: ‘Signore, adesso dimmi: colui che vede la visione, la vede attraverso l’anima oppure attraverso lo spirito?”
“Il Salvatore rispose e disse: ‘La visione non si ha né attraverso l’anima, né attraverso lo spirito, ma la mente, che si trova tra i due, è quella che vede la visione e questo è quello che …’ “.
8. [qui mancano le pagine 11-14, ndr].
9. ” … a lei”.
” … E il Desiderio disse: “Non ti ho vista quando sei discesa, ora invece ti vedo mentre sali in alto. Come mai, dunque, tu mi menti dal momento che mi appartieni ?”. L’anima rispose: “Io ti ho veduta, mentre tu non mi hai né vista né conosciuta. Hai confuso i vestiti [che porto] con il mio vero essere, e non mi hai riconosciuta”. Ciò detto, l’anima se ne andò via allegra e gioiosa.
“Andò poi l’anima ad inciampare nella terza Potenza celeste che chiamano Ignoranza. Questa guardò l’anima dall’alto in basso e le domandò : ‘Dove Vai? Sei stata presa dalla malvagità, davvero sei stata presa ! Non giudicare!’. E l’anima disse: ‘Perché mi giudichi, mentre io non ho giudicato? Io sono stata presa, sebbene io non abbia dominato alcuna cosa. Non sono stata riconosciuta. Ma io ho riconosciuto che l’universo è destinato a perdersi, sia le cose e nature terrestri sia le celesti’.
“Dopo che l’anima ebbe lasciato dietro di sé la terza Potenza celeste, salì in alto e vide la quarta Potenza. Essa aveva sette forme. La prima è l’oscurità; la seconda è la bramosia; la terza è l’ignoranza; la quarta è l’emozione della morte; la quinta è il regno della carne; la sesta è la stolta saggezza della carne; la settima è la sapienza dell’iracondo. Queste sono le sette potenze dell’Ira.
Esse domandarono all’anima: ‘Da dove vieni, assassina, e dove vai, usurpatrice degli spazi ?’.
L’anima rispose dicendo: “Ciò che mi possiede è stato ucciso, ciò che mi circonda è stato annientato, la mia bramosia è finita e la mia ignoranza è morta. Mi hanno fatto cadere da un mondo ad un altro mondo, e ad un archetipo da un archetipo superiore, dalla catena dell’oblio, che soggiace al tempo. D’ora in poi io raggiungerò, in silenzio, il riposo del tempo’.
Quando Maria di Magdala terminò di pronunciare queste parole, si azzittì, poiché questo era tutto quello che il Salvatore le aveva rivelato.
10. Allora Andrea replicò e disse ai fratelli e sorelle presenti: ‘Dite che cosa pensate di quanto ella ha detto. Io, almeno, non credo che il Salvatore abbia detto ciò. Queste dottrine, infatti, sono in verità insegnamenti strani’.
Riguardo a queste stesse cose parlò anche Pietro affermando che anch’egli sospettava che tali insegnamenti fossero veri. Egli li interrogò in merito al Salvatore: “Ha egli forse parlato realmente in segreto e non apertamente a una donna, senza che noi lo sapessimo? Ci dobbiamo ricredere tutti e ascoltare lei? Forse egli l’ha anteposta a noi?”,
Maria allora pianse e disse a Pietro: ‘Pietro, fratello mio, che cosa credi dunque? Credi tu che io l’abbia inventato in cuor mio, o che io menta riguardo al Salvatore? “.
Levi replicò a Pietro dicendo: ‘Tu sei sempre stato un uomo irascibile, Pietro! Ora io vedo che ti scagli contro questa donna come se fosse un avversario. Ma se il Salvatore l’ha resa degna, chi sei tu per respingierla ? Non v’è dubbio che il Salvatore la conoscesse profondamente. Per questo amava lei più di noi. Dobbiamo piuttosto vergognarci, rivestirci dell’uomo perfetto, accoglierlo nel nostro seno mentre ci guida e annunziare la buona novella, senza far caso a nessun precetto o legge che ci svii dagli insegnamenti del nostro Salvatore’.
Quando Levi ebbe detto ciò, essi presero ad andare per annunziare e predicare.
Il Vangelo secondo Maria.
Alcune considerazioni
Non sono un teologo e non so cogliere le sottigliezze che certamente vi sono. Mi appoggio però ad una teologa che ha analizzato questo Vangelo con estrema attenzione, parlo della statunitense teologa Karen King professoressa di Studi sul Nuovo Testamento e di Storia del Cristianesimo Primitivo nella Scuola di Teologia dell’Università di Harvard (recentemente, 2003, ha scritto The Gospel of Mary of Magdala. Jesus and the first woman apostle).
Cosa ci dice di nuovo e rivoluzionario questo Vangelo ?
Gesù aveva come prima interlocutrice una donna! A lei rivela i suoi pensieri più reconditi e delega a lei la spiegazione di essi agli apostoli! Questo è il messaggio principale che ne ha altri dietro.
Pietro interviene su Maria come farà Paolo di Tarso con tutte le donne. Devono restare nell’ombra ed in nessun caso ritenere di poter opinare o essere portatrici di novità che non siano prima dell’uomo (vedi Paolo di Tarso 1 Cr 14:34).
Inoltre si afferma la donna come veicolo principale di comunicazione e si adombrano rapporti d’amore più profondi di Gesù per Maria di Magdala di quanti ne potessero esistere con gli apostoli. In qualche modo Maria è assunta a coordinamento e guida dell’opera degli apostoli. Detto più chiaramente: dove termina l’insegnamento di Gesù, segue quello di Maria.
Discussione più approfondita meriterebbe la non esistenza del peccato di cui si parla in apertura.
Per ciò che ci interessa questo Vangelo mette in primissimo piano la figura di questa donna, Maria di Magdala.
Vediamo di fare chiarezza tra le Marie che i Vangeli canonici ci presentano.
Le tre Marie
Con l’espressione “questione delle tre Marie” la critica denomina il problema dell’identità di tre donne che compaiono nei testi evangelici. La Chiesa latina era solita accomunare nella liturgia le tre distinte donne di cui parla il Vangelo e che la liturgia greca commemora separatamente: Maria di Betania, sorella di Lazzaro e di Marta, l’innominata peccatrice “cui molto è stato perdonato perché molto ha amato” (Lc. 7, 36-50), e Maria Maddalena o di Magdala, l’ossessa miracolata da Gesù, che ella seguì e assistette con le altre donne fino alla crocifissione ed ebbe il privilegio di vederlo risorto.
I versetti di Lc. 8, 1-3, dove si nomina Maria di Magdala come donna guarita da Gesù, “dalla quale erano usciti sette demoni”, si trovano nel racconto di Luca subito dopo l’episodio della donna innominata (7, 36-50) che, entrata nella casa di Simone il fariseo, si avvicina a Gesù e gli cosparge i piedi di olio profumato. Questo è l’unico riferimento che l’evangelista fa a unzioni da parte di una donna nei confronti di Gesù; Luca non rivela la sua identità, ma afferma solo che si tratta di una “peccatrice”. L’episodio di un’unzione è presente anche in Marco (14, 3-9) e Matteo (26, 6-13). I due racconti concordano nel porre l’avvenimento a Betania, in casa di Simone il lebbroso, e nel riferire l’unzione ad una donna senza indicarne il nome. In Giovanni (12, 1-8) infine è narrata un’unzione che viene collocata sempre a Betania, senza indicare in casa di chi,bensì nominando tra i presenti Marta e Lazzaro e identificando in Maria la donna che unge Gesù.
Ora questi due brani sono concordemente ritenuti paralleli e relativi allo stesso episodio. Nel quarto vangelo, in una sezione precedente, si trova però anche questo riferimento: “Maria era quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era ammalato” (Gv.11,2).
I problemi principali che questi testi pongono sono:
1) Gv. 11, 2 si riferisce all’unzione narrata poi in 12, 1-8 oppure a quella narrata da Lc. 7, 36-50?
2) Si deve ritenere che ci sia stato un solo episodio di unzione oppure due?
3) Chi è la donna senza nome di Lc. 7, 36-50?
4) Quale interpretazione dare circa l’espressione riferita a Maria di Magdala “erano usciti sette demoni”?
Le possibili diverse risposte agli interrogativi hanno conseguenze molteplici per le identità delle donne coinvolte. La risposta ai primi due quesiti, nel senso che Gv. 11, 2 si riferisce allo stesso episodio di Lc. 7, 36-50 di cui in tal modo viene attribuita a Giovanni la conoscenza, porta a fare di Maria di Betania una sola persona con la peccatrice di Lc. 7, 36-50. A tale risultato si perviene anche ritenendo che Gesù sia stato oggetto di un’unica unzione: quella narrata in Gv. 12, 1-8 e in Lc. 7, 36-50. La risposta agli altri due problemi può condurre, attraverso la connotazione del demonio quale causa di peccato, a identificare Maria di Magdala, dalla quale secondo Lc. 8, 2 “erano usciti sette demoni”, con la peccatrice di Lc. 7, 36-50.
I procedimenti relativi alla problematica delle unzioni e alla interpretazione dell’espressione “sette demoni”, che di per sé sarebbero separati e indipendenti, confluiscono perché la peccatrice è figura comune ai due percorsi. Ne risulta una sintesi che conduce a identificare Maria di Magdala con Maria di Betania e a fare di tre donne una sola. Questo travisamento esegetico porta Maria di Magdala, la prima donna nominata nel seguito di Gesù, a essere considerata una prostituta e come tale ad essere ricordata per secoli nel culto, nella letteratura, nell’arte. Questi percorsi di errata interpretazione dei testi si sono sviluppati nell’arco della storia dell’esegesi forse a partire da Girolamo che per primo fece l’accostamento tra il concetto di possessione e quello di peccato.
In Oriente è stata mantenuta la distinzione, rilevabile anche dalle tre diverse date in cui vengono celebrate le feste: peccatrice innominata di Lc.7, 36-50 il 31 marzo, Maria di Betania il 18 marzo, Maria di Magdala il 22 luglio. La convinzione prevalente degli studiosi oggi è a favore della distinzione.
Maria Maddalena evangelica
Maria chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti “sette demoni” (Lc.8,2) è la prima donna del gruppo delle discepole itineranti con Gesù ad essere nominata nel Vangelo di Luca. Sempre prima la ritroviamo nella lista dei sinottici quando viene descritta la crocifissione e si nomina la presenza del gruppo delle donne, fedeli seguaci del Nazareno fin dalla predicazione sulle strade della Galilea, che assiste alla Passione (Mc 15,40; Mt 27,56; Lc 23, 49-55; 24,10).
Nel racconto giovanneo la troviamo menzionata sotto la croce con la “madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa “(Gv 19,25). Se nelle altre liste ha il privilegio di essere la prima, qui ha quello di essere associata al gruppo delle parenti strette. Già dalla lettura di questi primi testi biblici emergono elementi che indicano un primato di Maria di Magdala nel gruppo. Essa è il solo nome ad essere comune a tutte le liste: le altre donne ricordate cambiano, lei sola è presente in tutte le fonti. Che questi dati suppongano anche un rapporto particolare e privilegiato con Gesù è confermato dal seguito delle narrazioni evangeliche.
Maria Maddalena è inconfondibilmente “presso la croce di Gesù”, poi in veglia amorosa “seduta di fronte al sepolcro”, infine, all’alba del nuovo giorno è la prima a recarsi di nuovo al sepolcro, dove ella rivede e riconosce il Cristo risorto dalla morte. Alla Maddalena, in lacrime per aver scorto il sepolcro vuoto e la grossa pietra ribaltata, Gesù si rivolge chiamandola semplicemente per nome: “Maria!” e a lei affida l’annuncio del grande mistero: “Và a dire ai miei fratelli: io salgo al Padre mio e Padre vostro, al mio Dio e vostro Dio”.
E’ di grande rilevanza che in un tempo nel quale la testimonianza delle donne, e quindi la loro parola, non aveva valore giuridico, il Cristo affidi il messaggio di resurrezione, a Maria di Magdala, facendo di lei la prima mediatrice della Parola, del Verbo incarnato, rendendola apostola degli apostoli.
In ogni caso ed in definitiva, da un punto di vista storico, non si sa se la Maddalena che ha lavato i piedi del Cristo sia la stessa Maddalena che ha scritto il Vangelo di Maria (apocrifo), non si sa se colei che è stata al fianco del Cristo e che è stata la sua leale compagna e dal quale sembra che abbia avuto dei figli, sia la stessa Maddalena descritta cortigiana pentita. La storia di Maria Maddalena si perde e si confonde a causa della pervicace volontà della Chiesa di negarle il ruolo che le spettava, perché la Chiesa ha voluto privilegiare il ruolo della Madonna Vergine come femminile sacro.
Ed ora veniamo alla parte più discussa, quella dei rapporti più stretti tra Gesù e Maria di Magdala e alla vicenda del trasferimento di Maria di Magdala nel Sud della Francia.
Il matrimonio di Maria Maddalena e Gesù
Secondo alcuni studiosi (fra cui Sir Laurence Gardner, un genealogista cavalleresco inglese al servizio di molte case reali, in Bloodline of the Holy Grail, un lucido trattato scientifico sulle realtà nascoste dei Vangeli usati dalla Chiesa di Roma) Maria Maddalena fu la sposa sacra di Gesù in pieno rispetto delle procedure del matrimonio ebraico per i discendenti della stirpe di Davide e le nozze di Canaan (in cui Gesù era lo sposo) sarebbero appunto il primo atto di tale matrimonio.
Nei vangeli di Marco e Matteo si legge che quando Gesù, fu nella casa di Simone Lazzaro a Betania, gli si avvicinò una donna con un contenitore d’alabastro. Questa donna, Maria Maddalena, unse la sua testa con nardo, un unguento prezioso (Mc 14,3; Mt 26,7). Nella tradizione ebraica, come anche in quella sumera, babilonese e cananea, l’unzione rituale del re è eseguita esclusivamente dalla sacerdotessa reale o dalla sposa reale.
Solo dopo quest’unione rituale con la sacerdotessa il re assume il proprio ruolo di messiah, l’unto. E di questo si pensi ciò che si vuole ma tali eventi narrati non dovrebbero essere casuali.
Chi ci parla esplicitamente di un rapporto “matrimoniale” tra Gesù e Maria ? Un altro Vangelo (ritrovato nel 1947 a Qumran), un apocrifo, anch’esso non riconosciuto dalla Chiesa, il Vangelo di Filippo (da non confondere con il Vangelo di Filippo Apostolo o di Filippo II, rinvenuto nel 1945 presso Nag Hammadi, in Egitto, insieme ad una intera collezione di scritti gnostici, in lingua copta, che erano ormai dati per scomparsi da secoli), l’unico, che propone un legame tra Gesù e la Maddalena che andava ben oltre quello discepolo-maestro (“Tre persone camminavano sempre con il Signore: Maria sua madre, la sorella di lei e la Maddalena, detta sua compagna. Maria infatti si chiamava sua sorella, sua madre e sua compagna” e più oltre: “La compagna del Figlio è Maria Maddalena. Il Signore amava Maria più di tutti i discepoli, e spesso la baciava sulla bocca.” Vang. Fil. 64,2).
Da Maria e Gesù sarebbero nati, secondo tale tradizione tre figli, dando luogo ad una dinastia che si protrae nei secoli. Ora non possiamo fare a meno di rammentare alcune importanti tradizioni medievali, severamente combattute dalla Chiesa soprattutto nella Francia meridionale, in cui si credeva che Maria Maddalena fosse proprio la moglie dell’aspirante Messia dei giudei e che, attraverso un figlio da lei concepito con l’illustre marito, avesse avuto un seguito la stirpe del sangue reale di Davide (il Sang Raal dei provenzali di lingua d’Oc, che noi storpiamo nella forma San Graal). E’ una delle questioni più censurate della storia medievale, dietro la quale si sono giocati anche importanti equilibri nella lotta per l’egemonia politica sull’occidente cristiano. Il Santo Graal, che noi siamo soliti rappresentare simbolicamente come una coppa in cui sarebbe stato raccolto il sangue del figlio di Davide, sarebbe in realtà la dinastia davidica (il Sangue Reale appunto) a cui qualcuno si sarebbe fregiato di appartenere, motivando così la sua ambizione a regnare sul Sacro Romano Impero.
Maria Maddalena nella Gnosi
In alcune sette gnostiche tra il II e il V secolo, Maria Maddalena giocava un ruolo simbolico molto importante. Si riteneva che per la sua vicinanza con Gesù avesse ricevuto una rivelazione speciale da Lui e conoscenze che in seguito Ella avrebbe trasmesso agli altri discepoli (abbiamo visto ciò nel Vangelo riportato).
Maria Maddalena era anche l’archetipo del sacerdozio femminile.
Maria Maddalena, la Francia e i Catari
Secondo alcune fonti (Vangelo di Giovanni in: 1) Manoscritto nel Papyrus Berolinensis 8502 (sec. V). 2) Manoscritto nel Codice I della Biblioteca di Nag Hammâdi, (sec IV). 3) Manoscritto nel Codice I e di nuovo nel Codice III della Biblioteca di Nag Hammâdi, (sec IV), in redazione più ampia della precedente. Gli studi attualmente in corso su questo testo gnostico appureranno anche la questione se esso debba considerarsi il modello del Libro di Giovanni, in uso tra i bogòmili bulgari e i càtari francesi) Maria Maddalena morì nel 63 d.C, all’età di 60 anni, in quella che oggi è St.Baume, nella Francia meridionale. Il suo esilio venne raccontato da Giovanni, nella “Rivelazione” (12: 1-17), in cui descrive Maria e suo figlio e narra della sua persecuzione, della sua fuga e della caccia al resto del suo seme (i suoi discendenti) condotta senza tregua dai Romani. Oltre a Maria Maddalena, fra gli emigrati in Gallia nel 44 d.C, c’erano Marta e la sua serva Marcella. C’erano anche l’apostolo Filippo, Maria Iacopa (moglie di Cleofa) e Maria Salomè (Elena). Il luogo dove sbarcarono in Provenza era Ratis, divenuto poi noto come Les Saintes Maries de la Mer.
Il più antico documento scritto che propone la incredibile storia della presenza della Maddalena in Provenza dopo la morte di Gesù, è la Vita di Maria Maddalena, opera pubblicata intorno al IX secolo da Rabanus Maurus o Raban Maar (776-856) arcivescovo di Mainz (Magonza) e abate di Fuld, ed anche La légende de Sainte Marie Madelaine del frate domenicano Père Lacordaire, ma il testo che più ampliamente affronta questo tema e che aggiunge maggiori dettagli è di certo la Legenda Aurea scritta nel 1260 da Jacopo de Varagine (Legenda aurea, Jacobus de Varagine o daVarazze, Nuremberg: Georg Stuchs de Sulczpach, Ottobre 1488; Bryn Mawr College Library’s Collections). Qui di seguito riporto una sintesi ottenuta stralciando parti del libro quarto che l’autore dedica alla leggenda della Maddalena:
Maria Maddalena prende il nome da Magdalo, un castello, nacque da nobile lignaggio e da genitori di sangue reale. Suo padre si chiamava Ciro e sua madre Euchasia. Lei con suo fratello Lazzaro e sua sorella Marta possedevano il castello di Magdalo, che sorge a due miglia da Nazareth e da Betania … In quel tempo all’apostolo S. Massimino, che era uno dei 70 discepoli del signore cui fu affidata la Maddalena per ordine di S. Pietro, in seguito dopo che i discepoli furono partiti, S. Massimino, Maria Maddalena, Lazzaro suo fratello, Marta sua sorella, Marcella serva di Marta, e Santa Cetonia che era nata cieca e che aveva riacquistato la vista grazie al Signore, insieme ad altri cristiani furono catturati dai miscredenti e caricati su una barca priva di remi e timone perché affogassero. Ma la bontà di Dio onnipotente li condusse tutti a Marsiglia … In seguito accadde che il principe della provincia e sua moglie fecero sacrifici per ottenere un figlio e Maria Maddalena che aveva parlato loro di Gesù Cristo gli impedì di compiere quei sacrifici … allora il principe disse io e mia moglie saremo lieti di adempiere a tutte queste cose se tu riuscirai ad fare in modo di farci avere un bambino attraverso le preghiere al tuo dio … il Signore ascoltò le sue preghiere e la donna concepì. Suo marito decise che sarebbe partito per andare da S. Pietro e verificare se era vero ciò che aveva ascoltato dalla Maddalena. Sua moglie … gli chiese di portarla con lui. Dopo che ebbero veleggiato un giorno ed una notte vi fu una grande tempesta … a causa del temporale e della tempesta il bimbo che portava in grembo morì … Ahimè disse, cosa farò? Desideravo avere un figlio e ho perso moglie e figlio … E pensarono che fosse meglio indirizzare la nave verso terra e seppellirlo lì per evitare che fosse divorato dai pesci del mare … Quando giunse da Pietro, egli vide la croce sulla sua spalla e gli chiese chi fosse e perché era giunto fin lì, così egli gli raccontò tutto quanto era accaduto … Quindi Pietro lo condusse a Gerusalemme e gli mostrò tutti i luoghi ove Gesù aveva predicato e fatto miracoli ed il posto ove aveva sofferto ed era morto e dove era asceso al cielo. Dopo che fu ben istruito nella fede da S. Pietro e dopo che furono trascorsi due anni egli ripartì per Marsiglia … Veleggiando sulla rotta di ritorno giunsero, per volere di Dio, nel luogo in cui aveva abbandonato i corpi della moglie e del figlio … Il piccolo che aveva ottenuto grazie a Maria Maddalena si alzò ed andò verso la spiaggia e come tutti i bimbi piccoli, prese delle piccole pietre e le lanciò in mare … Quando il bimbo li vide, non avendo mai visto altre persone prima, ebbe timore e corse a nascondersi sotto il mantello della madre … il padre sollevò il mantello e vide il bimbo che poppava al seno della mamma … Allora prese suo figlio tra le braccia e disse: Oh Maria Maddalena ora io so e credo davvero che sei stata proprio tu a darmi mio figlio, lo hai alimentato e tenuto in vita due anni su queste rocce ora ridonami sua madre e riportala così com’era a me. A queste parole la donna iniziò a respirare e prese vita … Giunsero in fretta a Marsiglia … e trovarono Maria Maddalena che pregava con i suoi discepoli … e le raccontò ciò che era accaduto … ricevette, così, il battesimo da S. Massimino. Distrussero i templi degli idoli a Marsiglia e costruirono le chiese di Gesù Cristo. S. Lazzaro fu scelto quale vescovo di quella città e dopo di ciò si trasferirono ad Aix … e lì S. Massimino fu ordinato vescovo … Egesippo con altri libri di Giuseppe, concordano abbastanza con la storia narrata … .Al tempo di Carlo Magno nell’anno di nostro signore 771, Gerard duca di Burgundia non aveva avuto figli da sua moglie sebbene avesse dato sempre elemosine e avesse costruito molte chiese e molti conventi. Dopo che ebbe costruito l’abbazia di Vesoul, egli e l’abate del convento spedirono un monaco per trovare e portare al convento, se possibile, le spoglie di Maria Maddalena. Quando giunse nella città la trovò distrutta dai pagani … Poi, per fortuna, trovò il sepolcro … quindi egli tornò … Presto il duca ebbe un figlio dalla moglie … Alcuni dicono che Maria Maddalena fosse sposata con San Giovanni quando Cristo lo chiamò dal matrimonio e quando egli fu chiamato via da lei ella si indignò per l’abbandono di suo marito e si diede ad ogni tipo di lussuria, ma poiché non era giusto che la chiamata di San Giovanni fosse occasione per lei di dannazione, nostro Signore la convertì …
Non voglio entrare nel merito della attendibilità storica della narrazione, ma è evidente che quest’opera costituisce una incredibile commistione di tutte le tematiche e le leggende, più o meno antiche, che ruotano intorno alla Maddalena. La sua collocazione cronologica ci suggerisce l’esistenza di un complesso substrato consolidato di tradizioni legate alla presenza della Maddalena in Provenza e che certamente erano patrimonio del colto monaco che redasse lo scritto. Va comunque avvertito che la Legenda Aurea fu scritta basandosi principalmente sui testi della ‘Storia Ecclesiastica’, della ‘Storia Tripartita’, ‘La vita dei Santi Padri’, ‘I dialoghi di San Gregorio’ e dei vangeli apocrifi. Va evidenziato inoltre che Jacopo copiò testualmente dalle fonti diversi brani come ne è esempio la storia di santa Paola. Numerose le incongruenze cronologiche, storiche e geografiche, come del resto comune a molti testi di narrazione sacra che tentano sempre la mescola di fatti storici con vari miti e leggende (ma lo stesso si può dire per ogni documento religioso, anche quelli che la Chiesa riconosce come autentici e veri). Per discutere di attendibilità storica, in ogni caso, è necessario prescindere da qualsiasi atto di fede che non può interferire su un sereno giudizio dei documenti. Nel caso dei documenti cristiani ci troviamo di fronte ad una scelta di documenti meramente funzionale alla costruzione di una religione a prescindere dal suo presunto fondatore.
In Francia Maria Maddalena avrebbe continuato l’opera di predica e di guarigione e trascorso lunghi anni in meditazione e in digiuno (nutrendosi esclusivamente della presenza degli angeli) in una grotta.
Il culto più attivo della Maddalena s’insediò poi a Rennes-le-Chateau, nella regione della Linguadoca. Ma anche altrove, in Francia, sorsero molti santuari dedicati a S.te Marie de Madelaine, fra cui il luogo della sepoltura a Saint Maximin-la-Sainte Baume, dove i monaci dell’ordine di San Cassiano vegliarono sul suo sepolcro e tomba in alabastro dall’inizio del 400. Un’altra importante sede del culto della Maddalena fu Gellone, dove l’Accademia di Studi Giudaici fiorì durante il IX secolo. La chiesa a Rennes-le-Chateau fu consacrata a Maria Maddalena nel 1059 e nel 1096, l’anno della Prima Crociata, ebbe inizio la costruzione della grande Basilica di santa Maria Maddalena a Vézelay. Nel redigere la Costituzione dell’Ordine dei Cavalieri Templari nel 1128, San Bernardo da Chiaravalle menzionò specificatamente il dovere di “obbedienza a Betania, il castello di Maria e Marta”. E’ quindi molto probabile che le grandi cattedrali di “Notre Dame” in Europa, tutte sorte per volere dei Cistercensi e dei Cavalieri Templari, fossero in realtà dedicate a Maria Maddalena.
L’eresia catara e la Crociata contro gli Albigesi
(da: http://66.102.9.104/search?q=cache:loUHG4bq7v4J:www.recensito.net/
dettaglio_insolito.asp%3Finsolito%3D91+Liber+de+duobus+principiis&hl=it)
Subito dopo il passaggio dell’anno 1000, la Chiesa di Roma era fortemente impegnata in questioni temporali come l’elezione dei vescovi e la gestione dei diritti feudali che esercitava in molti territori e si impegnava più in questioni politiche che spirituali. A causa di ciò, sorsero in tutta Europa svariati movimenti ereticali che criticavano aspramente la Chiesa Cattolica e la protestavano; tali proteste avevano per tema fondamentale la corruzione della Chiesa e del suo clero feudale, ricco e potente, che si era del tutto discostato dagli insegnamenti spirituali del Vangelo. Questi primi movimenti, sorti all’inizio dell’XI secolo nella Champagne e giunti attraverso Tolosa (1017) e Orleans (1022) fino a Monforte, in Piemonte (1034), erano peraltro caratterizzati da una sostanziale assenza di proposte filosofiche e teologiche, assenza dettata dalla generale scarsa cultura di coloro che professavano tali eresie (le cronache francesi dell’XI secolo li definiscono “uomini rustici, idioti e spregevoli”). Solo nel 1143, nella Renania, si hanno le prime avvisaglie di quella che sarebbe passata alla storia col nome di “eresia Catara”: in quell’anno Evervino di Steinfeld scrisse a Bernardo di Chiaravalle per informarlo sulla presenza nella Renania, a Colonia, di eretici, organizzati in uditori ed eletti, che accettavano solo il Padre Nostro come preghiera e si rifiutavano di frequentare le chiese e ricevere i sacramenti, eccetto una particolare forma di comunione. Gli eretici furono bruciati e Evervino si stupì che salissero serenamente, o addirittura con gioia, sul rogo. Di simili fatti narrò anche Ecberto di Schönau. Questo movimento ereticale, che fu di gran lunga il più importante nell’Europa medievale, differiva dai precedenti in quanto caratterizzato da un attento approfondimento filosofico e teologico, che consentì ai propri membri di discettare in più occasioni ad armi pari coi teologi cattolici. Il movimento si diffuse principalmente in Linguadoca ed Occitania, divenendo caratteristica peculiare della cultura occitana: poco tempo dopo i roghi di Colonia, lo stesso Bernardo accorse nella Francia meridionale, su invito del legato pontificio cardinale Alberico di Ostia, con lo scopo di intervenire contro le predicazioni di Enrico di Losanna a Tolosa, salvo poi rendersi conto dell’elevata diffusione del Catarismo nella zona. Ogni tentativo del Santo di convertire gli albigesi (come li chiamò dal nome della città di Albi) non ebbe successo e tre anni dopo, nel 1148, il concilio di Tours li condannò, stabilendo che, se scoperti, essi dovessero essere imprigionati e i loro beni confiscati. Tuttavia queste disposizioni non parvero sortire particolare effetto, anzi proprio in Francia meridionale, nella Linguadoca e in Provenza, i Catari si consolidarono maggiormente. Questa regione, a ridosso dei Pirenei, nota anche come Occitania, era stata parte dell’ex regno dei Visigoti durante l’alto Medioevo, si era sviluppata come cuscinetto tra il regno dei Franchi a Nord e gli Arabi a sud ed era, dal punto di vista politico, linguistico, culturale e della tolleranza, profondamente diversa dal resto dell’odierna Francia. Gli occitani parlavano la lingua d’Oc, e non l’Oïl come nel resto della Francia, avevano sviluppato la lirica dei trovatori (alcuni dei quali furono Catari), tolleravano gli ebrei e i pensatori eterodossi cristiani. Il movimento Cataro ebbe peraltro un cardine importante anche nell’Italia del nord, ove si generarono i più interessanti e raffinati apporti filosofici all’eresia Catara. Nel 1165 a Lombez fu tenuto un pubblico contraddittorio tra teologi Cattolici e Catari che si risolse in un nulla di fatto. Fu in quel periodo che i Cattolici iniziarono a chiamarli Catari, sulla cui etimologia gli autori dell’epoca hanno concepito due teorie: più probabilmente dal greco ‘Kàtharoi’ cioè puri, o più folcloristicamente dal latino medioevale catus, gatto, un classico travestimento di Lucifero, al quale gli eretici, durante i loro riti (secondo i loro detrattori), baciavano le terga. Furono anche denominati pubblicani o pobliciani o populiciani, in collegamento ad un’altra eresia medioevale dualista, il paulicianesimo. Un ulteriore nome fu “bulgari”, dal paese originario della setta dei bogomili o “manichei” per un collegamento con l’eresia di Mani, o impropriamente “ariani” (o arriani) per una connessione con le tesi cristologiche di Ario. Dal mestiere abitualmente svolto da molti dei credenti furono anche chiamati tixerand, dall’antico francese per tessitori, mentre grande confusione fanno ancora alcuni autori, specialmente anglosassoni, che si ostinano a chiamarli patarini, confondendoli con il noto movimento riformista, e non certo dualista, della Pataria dell’XI secolo. È d’altronde certo che i Catari non usassero chiamarsi con questo termine, preferendo semplicemente chiamarsi “buoni Cristiani”, poiché ritenevano di essere i veri depositari della sapienza evangelica. Nel 1167 essi tennero il loro concilio a Saint-Félix de Caraman (o de Lauragais), vicino a Tolosa, al quale parteciparono il vescovo bogomilo Niceta (impropriamente definito il “papa Cataro”), e i vescovi della Chiesa di Francia, Robert d’Espernon e di Italia, Marco di Lombardia, oltre a Siccardo Cellarius di Albi e Bernardo Catalanus di Carcassonne, in rappresentanza delle altre chiese Catare francesi. La presenza di Niceta servì ad avallare la tesi che il bogomilismo di tipo assoluto, tipico della Chiesa di Dragovitza, in Bosnia, avesse influenzato in maniera decisiva la dottrina Catara, se non fin dall’inizio, almeno da questo momento in avanti. Inoltre, il movimento nella Francia meridionale fu ristrutturato in quattro chiese: Agen, Tolosa, Albi e Carcassonne. Il periodo tra il 1178 ed il 1194 vide il fallimento di diversi tentativi di avvicinamento tra Cattolici e Catari in Linguadoca, mentre nel 1194 divenne conte di Tolosa Raimondo VI (1194-1222), che era favorevole ai Catari e sul cui territorio poterono svilupparsi indisturbate le diocesi Catare di Agen e Tolosa. Tuttavia anche quelle di Albi e Carcassonne non correvano particolari rischi, in quanto comunque in territorio amico, essendo sotto il controllo del visconte Raymond-Roger Trencavel, nipote di Raimondo VI. La svolta si ebbe nel 1198 con la salita al trono pontificio di Papa Innocenzo III (1198-1216), ideatore di una vera e propria campagna contro i Catari (1). Dopo i ben miseri esiti della quarta crociata, Innocenzo III rivolse le sue attenzioni al pericolo rappresentato dai movimenti ereticali, combattendoli dapprima con la predicazione e con provvedimenti, specie nella Francia meridionale, quali esilii, confische, scomuniche e interdetti, per arrivare fino alla dichiarazione di incapacità civile con la conseguente interdizione dai pubblici uffici, dai diritti di successione e dalla facoltà di testimoniare. Innocenzo III inviò in Provenza famosi predicatori come Domenico di Guzman e Diego d’Azevedo, vescovo di Osma, per cercare di convertire i Catari; ma i dibattiti pubblici, come già precedentemente quelli del 1165, non approdarono ad alcun risultato, anzi i teologi Catari, come Guilhabert de Castres, ne uscirono a testa alta. La predicazione non spense dunque i focolai Catari nel mezzogiorno francese: lo stesso Innocenzo III scriveva come si contassero in quei luoghi più discepoli di Mani che di Cristo, più di Simon Mago che di Simon Pietro. Vedendo che nemmeno la predicazione di S. Domenico di Guzman riusciva a riportare i Catari sui loro passi, nel 1209 Innocenzo III si risolse a ricorrere alla crociata contro gli albigesi, prendendo come pretesto l’assassinio (in realtà a sfondo politico e non certo dottrinale), a Saint-Gilles nel 1208, del legato pontificio e monaco cistercense Pietro di Castelnau, al quale forse non era estraneo lo stesso Raimondo VI, scomunicato dal legato stesso nel 1207. La crociata riscosse il consenso prima della piccola nobiltà, poi anche della corona francese (Luigi VIII), e, oltre ai motivi economici e politici che la caratterizzavano, tale crociata fu anche una vera e propria guerra alla cultura occitanica. In tali circostanze si creò il tribunale dell’Inquisizione per avversare l’eresia. Il 22 luglio 1209 la prima città ad essere posta sotto assedio, Béziers, fu espugnata dai crociati, e il legato pontificio Arnaud Amaury, abate di Citeaux, interrogato su come si potesse distinguere gli abitanti Cattolici da quelli Catari, pronunciò la famigerata e tremenda frase: “Uccideteli tutti, Dio saprà riconoscere i suoi”(2). Furono massacrate 20.000 persone e Amaury ricevette le congratulazioni dal Papa in persona. Stessa sorte toccò a Carcassonne, dove fu imprigionato e morì in carcere il visconte Raymond-Roger di Trencavel. Dal 1210 i crociati, con a capo Simon IV de Montfort, conquistarono una impressionante serie di città o cittadine Catare. Ogni signore locale di queste città lottò per la sua sopravvivenza, anche se questa significava passare per ‘faydit’, colui che era eretico o proteggeva gli eretici ed i suoi terreni venivano dati in ricompensa ai crociati. Nel 1212 intervenne nella crociata, prendendo le difese dei tolosani, anche il re d’Aragona, Pietro I (1177-1213), cognato di Raimondo, poiché molte delle terre in questione almeno formalmente facevano parte del suo regno. Fra gli Aragonesi ed i crociati la lite degenerò in guerra, ma all’assalto di Muret, con i crociati nel ruolo di assediati, Pietro fu ucciso. Il boccone più difficile per i crociati si rivelò l’assedio della capitale Tolosa del 1217-1218, dove Simon de Montfort venne ucciso da una pietra lanciata da una donna. Prese allora il comando della crociata l’inetto figlio di Simon, Amaury VI de Montfort, con scarso successo. La situazione politica comunque stava già cambiando tutta a favore del re di Francia, sia nel 1215, quando il futuro re di Francia Luigi VIII il Leone (1223-1226) era intervenuto personalmente nelle operazioni militari, che nel 1224 quando lo stesso, diventato sovrano, obbligò Amaury di fare dono di tutte le terre conquistate alla corona di Francia. Oltretutto l’incapacità di Amaury permise ai Catari ed ai conti di Tolosa di serrare le fila, prima della parte finale della guerra voluta da Papa Onorio III (1216-1227) e condotta da Luigi VIII in persona, e, per questo, denominata Crociata reale (1226-1228). Alla fine nel 1229, Raimondo VII di Tolosa (1222-1249) spossato da una guerra che aveva totalmente stravolto il Midi, accettò una pace, mediata da Bianca di Castiglia, madre del nuovo re minorenne Luigi IX (1226-1270), ratificata con il trattato di Meaux. Raimondo conservò parte delle sue terre, cedendo il resto alla Francia, dovette dichiarare la sua fedeltà al re, ma soprattutto negare ogni appoggio ai ‘boni homini’. Le ricche terre della Provenza furono devastate e saccheggiate e la regione fu duramente segnata da tale conflitto tanto da perdere anche la propria autonomia politica, venendo assorbita nell’orbita capetingia, e intellettuale, assistendo al tramonto della cultura occitanica. Tale crociata non fu peraltro un episodio limitato nel tempo: nel 1223 papa Gregorio IX (1227-1241) invocò nuovamente la crociata contro l’eresia Catara. Insieme alla crociata, si diffusero nel territorio provenzale gli inquisitori domenicani e francescani, la cui attività era stata ufficializzata nel 1233 da Gregorio IX come ‘Inquisitio heretice pravitatis’. Gli inquisitori, odiati dalla popolazione locale, imperversarono sul territorio per circa 100 anni (1233-1325), in realtà facendo uccidere meno persone di quanto si è portati a credere , ma utilizzando metodi di tortura e pressione psicologica di una sottile efferatezza. L’odio per gli inquisitori si concretizzò ad Avignonnet nel 1242, dove due di essi, Arnauad Guilhelm de Montpellier e Étienne de Narbonne, e il loro seguito furono massacrati. Questo fu il pretesto per scatenare un ultimo colpo di grazia ai Catari asserragliati nella fortezza di Montségur, il cui assedio nel 1243-1244 fu l’atto finale della guerra contro i Catari. Montségur era infatti diventata, dal 1232, l’ultimo baluardo della resistenza Catara, voluta da Guilhabert de Castres. Nel maggio del 1243 la fortezza, difesa da Raimond de Péreille e dal perfetto Bernard Marty, fu posta sotto assedio da parte delle truppe del siniscalco di Carcassonne, Hugues de Arcis, ma solo nel marzo del 1244 gli assedianti espugnarono la roccaforte. Il tragico epilogo di tale assedio fu la distruzione della rocca di Montségur e l’immediato rogo dei 225 Catari che vi si erano asserragliati. L’Italia settentrionale e centrale, assieme alla Francia meridionale, fu l’area geografica dove si sviluppò maggiormente il Catarismo: secondo l’ex Cataro Raniero Sacconi, erano circa 2.500 alla metà del XIII secolo, anche se questo dato si riferiva solo ai cosiddetti “perfetti”. Si suppone quindi che il movimento, includendo credenti e simpatizzanti, fosse molto diffuso. Il primo vescovo di tutti i Catari italiani fu, come si è detto, Marco di Lombardia e il suo successore fu Giovanni Giudeo, ma in seguito il movimento si frazionò in sei chiese locali: la Chiesa di Desenzano (sul Lago di Garda), l’unica che praticava un dualismo di tipo assoluto e i cui adepti si chiamavano albanensi, dal nome del primo vescovo Albano; altri vescovi degni di nota furono Belesinanza e soprattutto il massimo teologo Cataro Giovanni di Lugio; la Chiesa di Concorezzo, vicino a Monza, fu la maggiore in Italia e i cui membri si chiamavano garattisti, dal nome del loro primo vescovo Garatto. Seguirono Nazario e Desiderio, ma con l’abiura dell’ultimo vescovo, Daniele da Giussano, la Chiesa si estinse. Vi furono inoltre la Chiesa di Bagnolo San Vito (vicino a Mantova), i cui fedeli venivano chiamati bagnolensi o coloianni, dal nome in greco del loro primo vescovo Giovanni il Bello, e che si estinse con l’abiura degli ultimi due vescovi, Albertino e Lorenzo da Brescia; la Chiesa di Vicenza o della Marca di Treviso, fondata dal primo vescovo, Nicola da Vicenza, seguito da Pietro Gallo, noto per la confutazione delle sue dottrine da parte di S. Pietro Martire da Verona, che, secondo una leggenda, fu un Cataro pentito, diventato poi un inquisitore domenicano; la Chiesa di Firenze, fondata da Pietro (Lombardo) di Firenze e di cui si ricorda il famoso condottiero ghibellino Farinata degli Uberti, cantato nell’Inferno di Dante; la Chiesa di Spoleto e Orvieto, fondata da Girardo di San Marzano e proseguita da due donne, Milita di Marte Meato e Giuditta di Firenze: tale Chiesa si estinse con l’abiura dell’ultimo vescovo, Geremia. Le ultime cinque chiese praticavano un dualismo di tipo moderato, di origine bulgara (Concorezzo) o dalla Sclavonia (le altre quattro). Il Catarismo in Italia seguì un destino diverso rispetto alle chiese sorelle in Francia, e ciò era dovuto all’appoggio che spesso le fazioni ghibelline, in chiave antipapale, accordavano loro. Il tutto perdurò fino alla battaglia di Benevento del 1266, quando la sconfitta del partito ghibellino e l’affermarsi di quello guelfo degli Angioini fece mancare i potenti appoggi goduti dai Catari fino a quel momento. Iniziò il declino ed anche in Italia venne il momento della resa dei conti finale: una “Montségur” italiana avvenne nel 1276 con l’espugnazione della rocca di Sirmione, dove si erano asserragliati i vescovi delle chiese di Desenzano e Bagnolo San Vito e numerosi perfetti italiani e occitani. Tutti furono arrestati e portati a Verona, dove 174 perfetti furono bruciati sul rogo nel 1278. Infine, verso la fine del XIII secolo, si ebbe in Francia un nuovo rifiorire delle dottrine Catare, portate dai fratelli Guglielmo e Pietro Authier, da Amelio de Perles e da Pradas Tavernier, che si erano formati presso i Catari lombardi ed erano quindi tornati per predicare in Francia: Pietro fu catturato e bruciato nel 1310 per ordine del famoso inquisitore Bernardo Gui. L’ultimo Cataro ufficialmente riconosciuto fu Guglielmo Belibasta, tradito dal Cataro rinnegato Arnaldo Sicre e bruciato nel 1321 per ordine dell’inquisitore Jacques Fournier, che sarebbe poi diventato Papa Benedetto XII (1334-1342). A partire da quella data il Catarismo cessò di esistere, almeno esteriormente, mentre probabilmente proseguì in forma segreta e limitata a pochi adepti. La sistematica distruzione di tutto il materiale eretico da parte della Chiesa Cattolica ha lasciato molte zone oscure sulla vicenda Catara: tali incognite hanno nel corso del tempo stimolato la sete di ricerca non solo degli storici, ma anche di molti movimenti esoterici, specie per quel che riguarda l’insieme di leggende che legano il Santo Graal all’eresia Catara e quelle riguardanti il tesoro della Chiesa Catara perduto dopo la presa di Montségur. Le scuole ufficiali hanno contribuito poco ad acclarare la verità fattuale: già nel Medioevo le scuole teologiche e filosofiche non fanno incredibilmente alcun accenno al Catarismo ed ai problemi scottanti da esso posti, e anche oggi nei libri di filosofia medievale l’eresia Catara trova un posto alquanto marginale; tutto ciò, comparato con la effettiva ingente rilevanza storica che ebbe il fenomeno Cataro nell’Europa medievale, sottolinea ancor di più come il Catarismo sia stato un movimento del tutto singolare che, risultato scomodo a troppe autorità, ha subito una feroce rappresaglia seguita da una vera e propria ‘damnatio memoriae’ che ancor oggi fatichiamo non poco a superare. Inoltre, la maggior parte degli studi, generati dal grande interesse suscitato dal Catarismo a partire dal XX secolo, si è incentrata sull’analisi delle caratteristiche storiche della vicenda Albigese, lasciando come marginale, salvo rari casi, un’analisi prettamente filosofica e teologica dell’eresia Catara.
Dottrinalmente i Catari erano dei dualisti cristiani, che accettavano il Nuovo Testamento, e in questo si distinsero dai manichei, con i quali venivano spesso accomunati dai Cattolici. Essi credevano nell’esistenza di due principi contrapposti, il Bene ed il Male, impersonificati rispettivamente dal Dio santo e giusto, descritto nel Nuovo Testamento, e dal Dio nemico o Satana. Come si è detto, il Catarismo non era un movimento unitario, ma era diviso in due filoni principali, quello assoluto e quello moderato. Per i dualisti assoluti, i due Dei erano sempre esistiti in una eterna lotta ed avevano creato i loro due mondi, quello dello spirito contrapposto a quello imperfetto della materia, il mondo nel quale noi viviamo. Per i dualisti moderati, Satana non era un dio, ma un angelo ribelle caduto, che aveva comunque creato il mondo materiale. Alcuni degli angeli (circa un terzo), cioè gli spiriti, furono lusingati ad unirsi a Satana, che li intrappolò successivamente nei corpi umani, impedendo loro di ritornare dal Dio giusto. L’anelito continuo, quindi, dello spirito, dalla sua dolorosa prigionia nel corpo dell’uomo, era quello di poter tornare un giorno da Dio Padre, cosa che i Catari cercavano di fare attraverso il ‘Consolament’ durante la loro vita, perché altrimenti sarebbero stati costretti a subire una continua metempsicosi (passaggio dello spirito da un corpo all’altro, anche animale), fino a potersi riunire di nuovo con Dio. La figura di Cristo solo apparentemente coincideva con la dottrina Cattolica. In realtà non era affatto così: i Catari credevano che Cristo fosse un angelo di Dio, chiamato Giovanni, secondo Belibasta, che era sceso sulla terra sotto forma di puro spirito. Quindi anche i Catari aderivano al concetto docetista della mera apparenza della nascita, sofferenza e morte di Cristo sulla terra. Automaticamente venivano a cadere due simboli cristiani, legati alla vita terrena di Cristo: la croce, che i Catari negavano, se non odiavano, e la transustanziazione, la trasformazione cioè, del pane e vino in corpo e sangue di Cristo durante l’eucaristia, che i Catari respingevano con orrore.
Per quel che riguarda le ritualità, i Catari rifiutarono la maggior parte delle liturgie cristiane per utilizzare le proprie. La più importante ritualità Catara era il Consolament, una forma di rito complesso con imposizione delle mani, fatto ad adulti, che riuniva in sé il valore dei sacramenti cristiani del battesimo, della comunione, della ordinazione e della estrema unzione. Benché i Catari non aborrissero del tutto il battesimo dell’acqua conferito ai neonati, consideravano però fondamentale la piena coscienza del ricevente per attuare il valore salvifico del sacramento. Ecco che allora il Consolament si riceveva solo in età adulta, dopo almeno un anno di preparazione spirituale ed ascetica, ed era comunque la conseguenza di un lungo periodo di apprendimento, in cui al credente venivano insegnati i veri principi della conoscenza, la vera natura divina dell’uomo, veniva insomma messo a parte in modo approfondito di quello che si soleva definire “Mysterium o Secretum”. Il sacramento non era pertanto destinato a tutti, ma solamente a coloro tra i credenti che volessero diventare Buoni Cristiani, – Perfetti, secondo la terminologia usata dagli inquisitori – ed in ciò era assimilabile ad una sorta di ordinazione, regolata quindi da una ritualità ben precisa. Si trattava infatti di una cerimonia collettiva, della Chiesa di Dio, alla presenza di un pubblico di credenti. Gli officianti erano il decano o l’anziano della comunità o, se possibile, un Vescovo. Quando in tempi di clandestinità non fu più possibile radunare i fedeli in gran numero, il rito poté essere officiato anche da un solo Perfetto. Dopo la consegna al postulante del libro del Nuovo Testamento, che gli sarebbe servito in futuro per predicare la parola di Dio, e dopo la recitazione del “Pater”, veniva pronunciata, in forme diverse seppur simili, una formula di voti, una serie di impegni che il nuovo Perfetto si prendeva: non uccidere, non rubare, ma anche promesse più particolari, quali quella di vivere in castità, di non pronunciare giuramento e di attenersi strettamente ad una dieta vegetariana. Dopo tutto ciò il postulante, chiesto ed ottenuto perdono per tutti i suoi peccati, riceveva finalmente l’imposizione delle mani e del libro sul capo, con la recitazione da parte dei presenti di una vera e propria formula finale: “Padre nostro, ricevi il tuo servitore nella tua giustizia, ed invia la tua grazia ed il tuo Spirito Santo su di lui”. Molti credenti aspettavano di essere in fin di vita per chiedere il ‘Consolament’ e preferivano a quel punto lasciarsi morire per digiuno, per non rischiare di essere esposti alle possibilità di peccato. Questa pratica si chiamò ‘endura’ e divenne popolare nel periodo del tardo Catarismo, quando la scarsità di Perfetti poteva rendere impossibile una seconda cerimonia di ‘Consolament’, se fosse stata necessaria. Tra i riti praticati dai Catari vi era poi il ‘Melhorament’, un’elaborata forma di saluto tra Catari; l’ ‘Aparelhament’ o ‘Service’, una confessione pubblica dei propri peccati; la ‘Caretas’, un bacio rituale di pace; la recita del Padre Nostro, unica preghiera accettata dal Catarismo, benché con alcune significative correzioni del testo: il riferimento al “pane soprasostanziale” al posto del “pane quotidiano”, inteso non come cibo materiale ma come insegnamenti di Cristo, e l’aggiunta in fondo alla preghiera della postilla “perché Tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli dei secoli. Amen”. I Perfetti avevano l’obbligo di recitarlo più volte al giorno, solitamente in serie da sei (sezena), da otto (sembla) o sedici (dobla).
I Catari avevano inoltre molte norme che regolavano la loro esistenza. Dal punto di vista alimentare, i Perfetti Catari erano vegetariani, abolendo dalla loro dieta carne, uova, latte e derivati, ma curiosamente non il pesce e i crostacei, e praticavano spessissimo il digiuno a pane e acqua, nella Quaresima, nell’Avvento, dopo la Pentecoste e tre giorni alla settimana o come penitenza per peccati di lieve entità. Non potevano mentire ed erano inoltre casti, condannando il matrimonio e l’unione sessuale, che portava alla procreazione, come atto tipico del mondo materiale creato da Satana e che perpetrava continuamente la catena delle reincarnazioni, proprio quello che i Catari cercavano di spezzare. Infine essi erano tenuti al precetto di non uccidere, il che li mise spesso in forte crisi quando si trattava di difendersi durante le crociate e le successive campagne di persecuzioni dell’Inquisizione. Questi precetti, tuttavia, non si applicarono ai semplici fedeli e simpatizzanti, che poterono invece prendere le armi per difendere la propria causa. Per quanto concerne l’organizzazione sociale, il capo della comunità o della Chiesa assumeva il titolo di vescovo, secondo i cronisti Cattolici dell’epoca, mentre il Perfetto destinato a succedergli veniva denominato “figlio maggiore” e quello destinato a succedere, a sua volta, “figlio minore”. Pare invece improprio il titolo di “Papa” Cataro, attribuito a Niceta.
A parte il Nuovo Testamento, i Catari avevano prodotto una copiosa letteratura, per la maggior parte andata distrutta durante le persecuzioni. Nondimeno qualcosa è giunto fino a noi, come ad esempio il ‘Liber de duobus principiis‘, scritto da Giovanni di Lugio, vescovo della Chiesa di Desenzano e maggiore teologo Cataro; la ‘Interrogatio Iohannis’, un apocrifo bogomilo portato in Italia da Nazario, vescovo della Chiesa di Concorezzo, che si ispirava alla Genesi e agli apocrifi della Bibbia. Un altro apocrifo bogomilo che fu adottato dal Catarismo è la ‘Visione di Isaia’, tradotto in provenzale da Pietro Authier. Sono sopravvissute fino ai giorni nostro anche varie versioni dei rituali Catari, sia quello utilizzato dai francesi, denominato occitano, che quello usato dagli italiani, chiamato latino. Vi sono inoltre gli atti del concilio di Saint Felix de Caraman, trascritti in un testo, denominato Carta di Niceta, scritto tra il 1223 ed il 1226, di cui ci sono giunte delle copie del XVII secolo.
Gli studi più recenti che hanno interessato il movimento Cataro sono stati rivolti nella direzione di evidenziare affinità tra il Catarismo radicale e l’Origenismo: è stato in effetti mostrato che elementi condivisi tra questi due sistemi sono la preesistenza delle anime, da cui consegue la metempsicosi, la corporeità degli angeli, la doppia creazione e i mondi paralleli, uno dei quali opera del principio positivo e l’altro opera del principio negativo; entrambi i sistemi ritengono inoltre che il corpo di resurrezione dell’uomo sia diverso rispetto al corpo posseduto in vita, e negano l’onnipotenza e il libero arbitrio di Dio. A ogni modo, né Origene né i suoi eredi hanno mai ammesso l’esistenza di un altro principio, diverso da Dio, che abbia creato il mondo terreno; l’interpretazione manicheizzante dell’Origenismo nell’ambito del Catarismo radicale sembra dunque essere una proposta assolutamente nuova ed originale. Resta da definire l’origine di tale dualismo; in merito a ciò è stata avanzata l’ipotesi che il dualismo sia frutto di un’elaborazione autonoma, da parte dei Catari, degli scritti Agostiniani al riguardo.
Il Catarismo, per la sua vastità e per l’impatto che ebbe sull’Europa medievale, non può essere costretto dalla denominazione riduttiva di ‘eresia cristiana’. Infatti i Catari non volevano affatto riformare la Chiesa Cattolica, né con essa volevano avere qualcosa a che fare: essi ritenevano invero che la Chiesa Cattolica non fosse la Chiesa originaria descritta dai testi neotestamentari, né di questa l’erede legittima, né che ne possedesse la natura. A questa conclusione i Catari giungevano partendo da una critica dei costumi nei confronti della Chiesa dell’epoca, sempre più coinvolta negli intrighi politici e sempre meno interessata all’aspetto che le avrebbe dovuto competere, la fede; con una logica stringente, molto più stringente di tutti i compromessi cui un qualunque cristiano doveva adeguarsi, i Catari rifiutavano qualunque cosa provenisse dalla Chiesa stessa, come le gerarchie ecclesiastiche o i sacramenti. L’influenza della Chiesa ufficiale sulla vita politica del periodo è pressoché inimmaginabile al giorno d’oggi; la Chiesa ed il suo ordinamento erano, sotto certi aspetti, la società stessa: quindi delegittimare l’ordinamento religioso significava attentare all’ordinamento sociale. Tale delegittimazione, oltre che da motivazioni di carattere pratico, trovava nei Catari anche giustificazioni di carattere religioso che erano legate principalmente al modo tipico in cui erano interpretati il Nuovo Testamento (unica sacra scrittura unanimemente accettata dai tutti i Catari) che per certi versi capovolgeva il punto di vista dai cristiani Cattolici. Il Catarismo fu dunque una religione alternativa al cristianesimo Cattolico, da esso non derivava né con esso intendeva aver niente in comune: e data l’importanza del consenso che il Catarismo riscosse e la potenzialità deflagrante delle tesi religiose, morali e sociali che sosteneva, si comprende come la Chiesa Cattolica, reduce dal grave smacco dello scisma d’Oriente del 1054, temesse la formazione di una Chiesa del tutto alternativa anche nell’Europa occidentale. La Chiesa Catara, catalizzando in sé tutti i movimenti di protesta contro la dissolutezza delle gerarchie ecclesiastiche, aveva avuto un successo e una diffusione assolutamente straordinaria in Italia e soprattutto in Occitania, e non voleva scendere a nessun compromesso con il cristianesimo Cattolico: essa rappresentava pertanto un pericolo reale ed imminente per il mantenimento dello status quo politico e sociale nell’Europa occidentale; la prova di questo fatto è lampante se si considera l’entità dello sforzo profuso da Roma insieme alle potenze temporali Cattoliche nel compito di cancellare quella che, anche se definita spregiativamente eresia, fu in realtà una vera e propria Chiesa pericolosamente concorrente ed alternativa.
Ricapitolando, in termini religiosi la dottrina dei catari era essenzialmente gnostica: erano persone dotate di grande spiritualità e credevano che lo spirito fosse puro, ma che la materia fisica fosse contaminata. Sebbene le loro convinzioni fossero poco ortodosse, il timore del Papa in realtà era causato da qualcosa di molto più minaccioso. Si diceva che i Catari fossero i custodi di un grande e sacro tesoro, associato ad un’antica e fantastica conoscenza. La regione della Linguadoca corrispondeva sostanzialmente a quello che era stato il regno ebraico di Septimania nell’VIII secolo, sotto il merovingio Guglielmo de Gellone. Tutta la zona della Linguadoca e della Provenza era impregnata delle antiche tradizioni di Lazzaro (Simone Zelota) e di Maria Maddalena e gli abitanti consideravano Maria la “Madre del Graal” del vero cristianesimo occidentale. Al pari dei Cavalieri Templari, i Catari erano apertamente tolleranti verso la cultura ebraica e musulmana e sostenevano anche l’uguaglianza dei sessi. Come livello di apprendimento e di educazione, i Catari erano tra i più colti nell’Europa di quel periodo, permettendo uguale accesso all’istruzione ai ragazzi e alle ragazze. Di tutti i culti religiosi nati in epoca medievale, il catarismo era il meno minaccioso, ma la tradizione sviluppata in Provenza, già dal I secolo, sulla storia dei discendenti di Gesù alla Chiesa romana non piaceva. Al pari dei Cavalieri Templari, i Catari non volevano assolutamente sostenere la tesi che Gesù fosse morto sulla croce. Si riteneva così che possedessero sufficienti informazioni attendibili per smentire clamorosamente la storia della crocifissione. C’era soltanto una soluzione per un regime disperato che aveva paura di perdere credibilità. Dalla Chiesa di Roma fu impartito un ordine: “Uccideteli tutti”.
La Maddalena medioevale
Dal Medioevo si afferma la figura della Maddalena come “contro-eroina” in un mondo di oppressione maschile.
Ella era ammirata come
1) la donna che fu la prima testimone della resurrezione
2) la donna che insegnava agli apostoli quando questi si distraevano
3) la donna che predicava, in un momento in cui alle donne era vietato predicare
4) la donna che sconfisse l’opposizione maschile
La devozione alla Maddalena cominciò a diffondersi. La troviamo in statue, dipinti, fregi, pannelli dell’altare e illustrazioni dei manoscritti. Era usualmente rappresentata o al momento di ricevere l’incarico da Gesù o mentre predicava alle folle.
Si diffuse in tutta Europa il racconto del suo arrivo in Francia attraverso la “Legenda Aurea”, il testo citato del XIII secolo sulle vite dei santi che veniva letto in ogni chiesa e monastero.
NOTE
(1) Nel Quarto Concilio Lateranense vi fu contro i Catari una risoluzione apposita:
http://www.monasterovirtuale.it/Concili/laterano4.html
Quarto Concilio Lateranense
Dall’11 al 30 novembre 1215
Papa Innocenzo III (1198-1216)
Tre sessioni. Settanta capitoli
Tema: confessione di fede contro i Catari; transustanziazione eucaristica; confessione e comunione annuale.
…………………………..
III
Degli eretici
Scomunichiamo e anatematizziamo ogni eresia che si erge contro la santa, ortodossa e cattolica fede, come l’abbiamo esposta sopra. Condanniamo tutti gli eretici, sotto qualunque nome; essi hanno facce diverse, male loro code sono strettamente unite l’una all’altra (14), perché convergono tutti in un punto: sulla vanità. Gli eretici condannati siano abbandonati alle potestà secolari o ai loro balivi per essere puniti con pene adeguate. I chierici siano prima degradati della loro dignità; i beni di questi condannati, se si tratta di laici, siano confiscati; se fossero chierici, siano attribuiti alla chiesa, dalla quale ricevono lo stipendio.
Quelli che fossero solo sospetti, a meno che non abbiano dimostrato la propria innocenza con prove che valgono a giustificarli, siano colpiti con la scomunica, e siano evitati da tutti fino a che non abbiano degnamente soddisfatto. Se perseverano per un anno nella scomunica, dopo quel tempo siano condannati come eretici. Siano poi ammonite e, se necessario, costrette con censura le autorità civili, di qualsiasi grado, perché, se desiderano essere stimati e creduti fedeli, prestino giuramento di difendere pubblicamente la fede: che essi, cioè, cercheranno coscienziosamente, nei limiti delle loro possibilità, di sterminare dalle loro terre tutti quegli eretici che siano stati dichiarati tali dalla chiesa. D’ora innanzi, chi sia assunto ad un ufficio spirituale o temporale, sia tenuto a confermare con giuramento, il contenuto di questo capitolo.
Se poi un principe temporale, richiesto e ammonito dalla. chiesa, trascurasse di liberare la sua terra da questa eretica infezione, sia colpito dal metropolita e dagli altri vescovi della stessa provincia con la scomunica; se poi entro un anno trascurasse di fare il suo dovere, sia informato di ciò il sommo pontefice, perché sciolga i suoi vassalli dall’obbligo di fedeltà e lasci che la sua terra sia occupata dai cattolici, i quali, sterminati gli eretici, possano averne il possesso senza alcuna opposizione e conservarla nella purezza della fede, salvo, naturalmente il diritto del signore principale, purché questi, non ponga ostacoli in ciò, né impedimenti.
Lo stesso procedimento si dovrà osservare con quelli che non abbiano dei signori sopra di sé.
I cattolici che, presa la croce, si armeranno per sterminare gli eretici, godano delle indulgenze e dei santi privilegi, che sono concessi a quelli che vanno in aiuto della Terra Santa. Decretiamo, inoltre, che quelli che prestano fede agli eretici, li ricevono, li difendono, li aiutano, siano soggetti alla scomunica; e stabiliamo con ogni fermezza che chi fosse stato colpito dalla scomunica, e avesse trascurato di dare soddisfazione entro un anno, da allora in poi sia ipso facto colpito da infamia, e non sia ammesso né ai pubblici uffici o consigli, né ad eleggere altri a queste stesse cariche, né a far da testimone. Sia anche “intestabile”, cioè privato della facoltà di fare testamento e della capacità di succedere nell’eredità. Nessuno, inoltre, sia obbligato a rispondergli su qualsiasi argomento; egli, invece, sia obbligato a rispondere agli altri. Se egli fosse un giudice, la sua sentenza non abbia alcun valore, e nessuna causa gli venga sottoposta. Se fosse un avvocato, non gli venga affidata la difesa; se fosse un notaio, i documenti da lui compilati, siano senza valore, anzi siano condannati col loro condannato autore. Lo stesso comandiamo che venga osservato in casi simili a questi.
Se poi si tratta di un chierico, sia deposto dall’ufficio e dal beneficio: infatti chi ha una colpa maggiore, sia punito con una pena più grave. Chi trascurasse di evitarli, dopo la dichiarazione di scomunica da parte della chiesa, sia colpito dalla scomunica fino a che non abbia dato la debita soddisfazione.
I chierici non amministrino a questi uomini pestilenziali i sacramenti della chiesa; né osino dare ad essi sepoltura cristiana; non accettino le loro elemosine o le loro offerte. Diversamente, siano privati del loro ufficio, e non tornino mai più in suo possesso, senza un indulto speciale della sede apostolica. La stessa disposizione va applicata a qualsiasi religioso, senza tener conto dei loro privilegi in quella diocesi, in cui avessero avuto l’ardire di provocare tali eccessi.
Ma poiché alcuni, sotto l’apparenza della pietà, negano però (come dice l’Apostolo) la sua essenza (15), e si attribuiscono la facoltà di predicare, mentre lo stesso Apostolo dice: Come potranno predicare, se non sono mandati? (16), tutti quelli cui sia stato proibito, o che senza essere stati mandati dalla sede apostolica o dal vescovo cattolico del luogo, presumessero di usurpare in pubblico o in privato l’ufficio di predicare, siano scomunicati, e, qualora non si ravvedessero al più presto, siano puniti con altra pena proporzionata.
Inoltre ciascun arcivescovo o vescovo deve personalmente o per mezzo dell’arcidiacono o di persone capaci e oneste, visitare due o almeno una volta all’anno, la sua diocesi se vi è notizia della presenza di eretici, ed ivi costringa tre o anche più uomini di buona fama, o addirittura, se sembrerà opportuno, tutti gli abitanti dei dintorni, a giurare se vi sono degli eretici, o gente che tiene riunioni segrete, o che si al- lontana nella vita e nei costumi dal comune modo di comportarsi dei fedeli. Il vescovo convochi gli accusati alla sua presenza; e se questi non si saranno giustificati dalla colpa loro imputata, o, se dopo l’espiazione ricadranno nella loro primitiva perfidia, siano puniti secondo i canoni. Chi rifiutasse il carattere sacro del giuramento e con riprovevole ostinazione non volesse giurare, per questo stesso motivo sia considerato eretico.
Vogliamo, dunque, e ordiniamo, e comandiamo rigorosa- mente in virtù di santa obbedienza, che i vescovi vigilino diligentemente nelle loro diocesi all’efficace esecuzione di queste norme, se vogliono evitare le pene canoniche. Se qualche vescovo, infatti, si mostrerà negligente o troppo lento nel liberare la sua diocesi dai fermenti ereticali quando la loro presenza fosse certa, sia deposto dall’ufficio episcopale e sia sostituito da un uomo adatto, il quale voglia e sappia confondere la malvagità degli eretici.
Nell’aprile del 1233 la bolla di Gregorio IX <<Ille humani generis>>, ufficializza il via dei tribunali dell’Inquisizione, incaricandoli della lotta contro l’eresia, conferendo il potere all’ordine dei Domenicani, che con il sostegno dei Francescani, organizzano una delegazione generale per esercitare le loro funzioni. Non senza difficoltà riescono a sradicare parecchie dissidenze religiose, sconfinando più tardi in una devianza fino ad allora rimasta nell’ombra: la magia.
(2) CROCIATA CONTRO IL GRAAL
“UCCIDETELI TUTTI, DIO RICONOSCERÀ I SUOI!”[1]
Alessio Di Benedetto
da http://www.alexmusicanalysis.com/wagner.htm
Era il 16 Marzo del 1244. Capitolava all’alba, con dignità e coraggio, l’ultimo baluardo della democrazia, della libertà all’autodeterminazione e della parità dei diritti fra donna e uomo. Tra bagliori apocalittici, terminava nel “Campo dei Cremati”, ove oggi è una lapide, la speranza della convivenza civile fra i popoli in Occitania. Con il castello di Montségur[2], abbarbicato sul pog dei Pirenei orientali a 1200 metri di altezza, dominatore incontrastato della piana dell’Ariège, quel giorno, capitolavano anche la struggente musica e poesia dei trovatori e dell’armoniosa provincia della Linguadoca.
L’alleanza ignobile tra il Papato e i Franchi, quel giorno deviò il destino dell’intera Europa, verso tempi grevi in cui la delazione, la menzogna e i roghi divennero lo spettacolo edificante del Cattolicesimo. Uno sterminio calcolato, minuzioso e vile si abbatté contro una delle più ricche e più progredite civiltà del Mediterraneo, fiorite in quel paese meraviglioso che gli antichi Romani chiamarono Romania; le cui terre assolate, multicolori e profumate di tulipani, rose e vigneti s’estendevano dalla Provenza a Rennes Le Château, dal Rossiglione alla contea di Tolosa e da qui, risalendo il fiume Ariège fino al limitare del Regno d’Aragona, sui Pirenei orientali, luoghi sacri ai Celti, ai Druidi, ai Bardi cantori, le cui melodie cantavano l’immortalità dell’uomo e dei suoi universi paralleli!
L’operazione di pulizia etnica, si chiamò – nel gergo ufficiale – Crociata contro gli Albigesi, dalla città d’Albi, centro mistico del movimento ereticale, che, nel breve volgere di un decennio, a cavaliere del XII e XIII secolo, conquistò al suo credo la quasi totalità della popolazione occitanica, senza distinzione di ceto, di razza e di cultura. Gli inquisitori della Santa Chiesa di Roma, con malcelato disprezzo, ribattezzarono gli eretici Catari, ossia Puri e Perfetti. È ben chiara oggi la provenienza di costoro, anche se gli storici ufficiali continuano a nascondere – con ipotetici dubbi, più menzogneri che reali – una discendenza (Albi-Gens) che atterrisce ancora, con la sua conoscenza superiore d’antichi misteri – ereditata dalla dottrina di Giovanni Battista, dal Manicheismo e dallo Gnosticismo alessandrino – i possessori dei documenti obliati o svaniti nel nulla e poi nascosti nelle segrete della Biblioteca Vaticana.
Ma perché mai tanto accanimento omicida dei Cattolici contro i Cristiani linguadochiani? In un’epoca in cui gli eserciti feudali contavano solo alcune centinaia d’unità, e in una terra nella quale i musici – presso le corti dalle rigogliose architetture – intessevano le lodi della Dama e dell’Amor, si abbatté un uragano distruttore costituito da 200.000 fanti e da 30.000 cavalieri, al grido di “Guai a te Provenza, Dio è con noi”!
Ebbene sì, le domande, oggi, si fanno impellenti e perfino ossessive. Non è possibile dimenticare, dopo 757 anni, una delle storie più nere del Cristianesimo romano.
Non importa se alcune risposte presenteranno un quadro raccapricciante e lugubre fatto di stragi, torture e follia omicida, poiché la maledizione degli uomini è che essi dimenticano sempre.
Le ombre della storia dei Secoli Bui bisogna fugarle con risposte chiare che vanno al cuore del problema. Di là dalle considerazioni accademiche forniremo una motivazione ben precisa alle seguenti domande.
Quali sono le radici del Catarismo e che cos’è? Quali le occulte motivazioni che spinsero i cattolici a perseguitarlo per quasi due secoli? Perché mai un’intera civiltà ha conosciuto un olocausto così terribile? Come mai si tenta di nascondere un eccidio di massa ben più terribile di quello ebraico? C’erano forse dei legami fra i discendenti del Re Davide e i Catari? E con i Musulmani? Perché gli adepti Albigesi furono ammazzati, dapprima in massa e poi uno per uno, con una meticolosità allucinante, affinché nessuno potesse sfuggire allo sterminio? Come mai tutti i documenti ed i testi della loro dottrina sono stati accuratamente distrutti? Erano forse a conoscenza di segreti tanto imbarazzanti per la Chiesa di Roma?
Forse il più spinoso mistero, riguardante indirettamente le genti occitaniche, è quello scaturito dalle ricerche di tre incaricati della BBC, mentre essi indagavano, nel 1979, sul tesoro del Tempio di Gerusalemme e dei Templari[3]. Emerse, allora, una realtà sconcertante. I Templari, come i Musulmani, erano a conoscenza dell’apparente crocifissione di Gesù sulla croce: una messa in scena organizzata da Pilato, pagato lautamente da Giuseppe d’Arimatea, fratello di Cristo. Poi, la fuga verso Marsiglia del Messia con la sua sposa Maria Maddalena, Maestra ed Iniziatrice della mistica androgina. Da loro discese la dinastia dei Merovingi, tenuta in grand’onore dai Visigoti ariani, in un territorio protetto nel V secolo dalle minacce di Roma[4].
Anche Lawrence Gardner, Priore della Chiesa Celtica, puntualizza che Maria Maddalena “fuggì in esilio recando in seno il figlio di Gesù [il secondogenito]. Giovanni, nella Rivelazione 12:1-17, descrive Maria e suo figlio e narra della sua persecuzione, della sua fuga in esilio e della caccia al ‘resto del suo seme’ (i suoi discendenti), condotta senza tregua dai Romani. (…) Vedasi più avanti!
Oltre a Maria, fra gli emigrati in Gallia nel 44 d. C. c’erano Marta e la sua serva Marcella. C’erano anche l’apostolo Filippo, Maria Iacopa (moglie di Cleofa) e Maria-Salomè (Elena). Il luogo dove sbarcarono in Provenza era Ratis, divenuto poi noto come Les Saintes Maries de la Mer”[5].
“Aix-en-Provence, dove Maria Maddalena morì nel 63 d. C., era l’antica città di Aquae Sextiae (…). In alcune tradizioni, Maria è ricordata come la Dompna del Aquae, ‘Signora delle Acque’”. (Idem, 127).
Per i Celti e per gli gnostici – non a caso – le donne profetesse erano associate con sorgenti e fontane. Si rammenti La Signora del Lago, Morgana e i Re Pescatori che furono discendenti di Gesù e Maria. Ne derivò, nella regione di Rennes Le Château, una venerazione che tutt’oggi ha dell’incredibile, per Maria Maddalena e per i Merovingi, sua progenie.
Va ricordato, inoltre, che l’Arianesimo[6] non era ostile né all’Ebraismo né all’Islamismo. È bene chiedersi allora: furono questi antichi patti fra Arabi (Ismaeliti) e Templari[7] a far sì che i primi evitassero di penetrare nella contea del Razès, ove i secondi avevano costruito dodici masserie che, a circolo, dominavano la zona? E perché mai i Cavalieri di Cristo protessero i Catari? Come mai tale evidente significato zodiacale dei dodici castra, con Rennes Le Château il tredicesimo centro? Perché i Templari, soggetti al reame d’Aragona, non vi misero mai piede? Come mai le masserie furono dislocate proprio nelle zone di Coustassa, Campagne sur Aude, Lavaldieu, Blanchefort, Couiza, Bezu, Alet, Bugarach, Bernots, Quillan, Peyrolles e Limoux?
Il libro Le serpent rouge comprende 13 poesie e “ognuna corrisponde a un segno dello Zodiaco: uno Zodiaco di tredici costellazioni, perché la tredicesima, Ofiuco o Serpentario, è inserita tra lo Scorpione e il Sagittario”[8]. Ed il 13 è il simbolo del matriarcato occitanico. Esso portò le profetesse catare a rivestire ruoli fondamentali, com’era nel Cristianesimo originario, ruoli che la Chiesa di Roma distrusse completamente, non solo per salvaguardare il potere assoluto maschile, ma per nascondere la stirpe reale o Sangréal della famiglia messianica, stirpe basata sulla progenie matrilineare di Maria Maddalena.
Un’altra risposta attuale, dopo anni di ricerche attinenti all’insegnamento graalico, la fornisce il già nominato genealogista di famiglie reali e di cavalieri Lawrence Gardner, in un libro – da poco pubblicato per i tipi della Newton & Compton – il cui titolo suona come un’arpa gaelica che accompagna una “Chanson de geste”, volutamente dimenticata dai detentori del potere ecclesiastico e politico, Il Regno del Signore degli Anelli – Mito e Magia del Santo Graal:
“Al tempo di Erode il Grande tutti i documenti relativi alla genealogia della famiglia di Gesù (i Desposyni) furono ufficialmente distrutti su ordine dello stesso re. (…) Lo storico palestinese del II secolo Esegippo nella sua opera Hypomnemata (Memorie) riferisce che durante il regno dell’imperatore romano Domiziano (81-96 d. C.) la persecuzione degli eredi desposyni della successione davidica venne messa in atto su apposito decreto imperiale. Tuttavia, sebbene molti venissero catturati, compresi i discendenti di Giuda, un fratello di Gesù, molti altri riuscirono a scappare o vennero rilasciati, così che ‘Appena liberi, essi divennero i capi delle chiese, sia perché erano noti testimoni sia perché erano proprio loro i Signori della famiglia’. Questo viene ulteriormente confermato da Eusebio (ca. 260-340 d. C.) vescovo di Cesarea nella sua opera Storia della Chiesa da Cristo a Costantino, Libro 3:17.
Lo storico Giulio Africano di Edessa in Anatolia (da non confondere con l’Edessa greca), che visse tra il 160 e il 240 d. C., scrisse che a seguito della distruzione sistematica avvenuta nel I secolo della documentazione attestante la genealogia di Gesù ‘… solo pochi privati conservavano ancora qualche testimonianza nelle loro case, preoccupandosi di riscrivere a mente quanto potevano ricordare e di ricavare copie dai pochi originali ancora disponibili, con lo scopo preciso di riuscire a preservare per quanto possibile la memoria di quella nobile origine. Si trattava di quella gente… che viene chiamata Desposyni in virtù della sua relazione di parentela con la sacra famiglia del Salvatore’. Ivi, Libro 1:7, p. 22.
Giulio Africano è giunto fino a noi soprattutto per la traduzione in latino di una serie di epistole ascrivibili al I secolo, di un discepolo di nome Abdia, vescovo nazarita di Babilonia. Il testo I Libri di Abdia si compone di 10 volumi in cui si raccontano storie apostoliche di prima mano. Ciò malgrado, anche questa testimonianza, come moltissime altre parimenti affidabili e coeve, furono rigettate dalla Chiesa come apocrife, quando nel corso del IV secolo si ebbe una prima versione del Nuovo Testamento [Vulgata]. (Abdia è ricordato come uno dei 70 discepoli di Gesù, così come detto in Luca: 10. Fu il primo vescovo di Babilonia, consacrato da Simone e Giuda, i fratelli di Gesù).
Solo i discendenti di Gesù per linea matriarcale erano qualificati come Desposyni (termine che significa ‘coloro che appartengono [gli eredi] al Signore’). Essi e tutti i loro discendenti vennero accanitamente perseguitati per decreto dall’Impero Romano e sistematicamente eliminati. Tuttavia, nell’anno 318 d. C. (come confermato da Martin Malachi, professore gesuita per anni al servizio a Roma del Cardinale Agostino Bea e del papa Giovanni XXIII) una delegazione di Desposyni giunse a Roma, presso l’appena inaugurato Palazzo Laterano, dove furono ricevuti dal vescovo Silvestro. Tramite il loro portavoce Giosia (un discendente diretto di Giuda, fratello di Gesù) i delegati riferirono al Papa che la centralità della Chiesa avrebbe dovuto essere trasferita nella città di Gerusalemme, lasciando Roma.
Dissero che il vescovo di Gerusalemme era il vero erede della dinastia cristica e a esso avevano da rapportarsi tutti gli altri delle chiese di Alessandria, Antiochia ed Efeso. Ovviamente, le loro richieste caddero nel vuoto e non solo, essi corsero anche un grave rischio, dal momento che Silvestro avrebbe potuto esercitare con la stessa autorità i decreti imperiali di persecuzione. Ma, gli insegnamenti di Gesù erano ormai stati sovrastati da una nuova dottrina, modellata sulle esigenze e le aspettative dell’impero, e dunque Silvestro non aveva avuto esitazione a dichiarare impudicamente ai pellegrini che in verità il potere di salvazione era passato dalla figura del Cristo a quella, altrettanto mirabile, dell’imperatore Costantino!”[9]. A questo presunto imperatore della cristianità, che mai e poi mai fu cristiano se non per motivi politici di convenienza, fu attribuita la cosiddetta Donazione di Costantino (Constitutum Constantini). In base ad essa, l’imperatore stesso riconosceva al Papa la funzione di rappresentante di Cristo sulla Terra (Vicarius Filii Dei), con l’autorità di eleggere i re e di considerarli come suoi sottoposti. Peccato, però, che il documento, già in base alle accurate analisi storiche del Rinascimento italiano, si dimostrò un falso redatto intorno alla metà dell’VIII secolo d. C. e non nel 313, anno dell’editto di Milano. Con codesto Imperial Decreto, la Chiesa romana, ad ogni modo, diveniva – di fatto – una forza militare con i propri possedimenti terrieri[10] e tutti i privilegi tipici dei regimi più totalitari. D’allora in poi, la sua forza si basò non solo sul potere temporale ma anche su quello ben più schiavizzante dell’imposizione spirituale. Con quel falso Decreto, i Vescovi di Roma si auto-concedevano – molto democraticamente e con estremo spirito di sacrificio – il primato assoluto e quello della loro chiesa su tutte le altre. Creavano altresì una gerarchia clericale derivata da quella militare dell’Impero[11], di cui – pertanto – divenivano in Occidente gli effettivi discendenti, poiché la Città Eterna, le province d’Italia e quelle occidentali passavano (dopo il trasferimento di Costantino a Bisanzio-Costantinopoli) sotto il controllo assoluto del vescovo di Roma. I primi a dubitare dell’autenticità del documento furono gli imperatori della casa di Sassonia (sec. X), mentre Arnaldo da Brescia (XII-XIII sec.)[12] l’attaccò senza remore, cui seguirono Nicolò Cusano (1401-64)[13] e soprattutto Lorenzo Valla (1407-57)[14]. I primi dubbi sorsero, perché nel documento si fa riferimento alla Vulgata, la Bibbia di Gerolamo, nato nel 340, 26 anni dopo la presunta Donazione. Gli studiosi moderni, presso i quali essa non gode di alcun credito, ne hanno persino rilevato le difformità stilistiche col latino del IV secolo. E poi – chiediamoci – per quale motivo, quella “donazione” fu mostrata al mondo, solo 400 anni dopo? Fu il papa Zaccaria, nel 751 a mettere in pratica quanto era scritto nel documento appena confezionato, necessario per deporre la dinastia messianica dei Merovingi a favore dei filocattolici Carolingi; il che ci farà meglio capire l’intesa perfetta tra Roma e Parigi nella Crociata contro il Graal. Oltretutto, il fatto più preoccupante fu che, con quel provvedimento, si capovolse tutta la tradizione messianica e graalica del Cristo, ossia che la Albigens (la Razza Superiore Cristica) si dovesse porre al servizio del popolo; invece – d’allora in poi – la Chiesa di Roma si mise solo ed esclusivamente “al servizio di se stessa” e dei suoi accoliti, anche in barba al termine katholikòs che significa universale!
Citiamo per intero l’ultima norma della Donazione di Costantino, dal momento che essa fa presagire, in nuce, il programma politico di distruzione totale di tutti coloro i quali si opporranno al progetto dittatoriale e disumano che la sottende:
“Decretiamo, dipoi, che tutte queste cose, (…) che abbiamo ora stabilito, restino intoccate e inviolate per sempre, fino alla fine dei tempi. (…) Qualora mai qualcuno (…) provi a contrastare o a intralciare questa norma, venga egli cacciato e condannato alla eterna dannazione e sappia che i santi capi degli apostoli di Dio, Pietro e Paolo, gli si opporranno oggi come nei tempi che verranno. E bruciando egli nel più terribile e tetro degli inferni, sia condannato a vivere in eterno con il diavolo e tutti gli empi come lui”[15].
Torniamo però alla nostra storia sugli eretici Catari o Albigesi.
L’espressione “Catari”, usato spesso dagli eresiologi, deriva dal greco katharoí e significa “i puri”. In realtà essi si chiamavano boni christiani o boni homines (dall’occitanico bon ome). Questi termini, così impiegati, configurerebbero la loro derivazione dalle eresie orientali e balcaniche, quali quelle dei Pauliciani prima e dei Bogomili dopo. Ma noi andremo oltre i fatti. Dapprima, faremo riferimento ai brandelli di storia, sfuggiti alla sistematica distruzione di chi aveva tutto l’interesse a nascondere la verità dei Templari e della discendenza regale dalla Sapienza graalica. Di poi, proporremo un’ipotesi audace, che cercherà di leggere di là dei documenti, per rivelare le intime coincidenze tra visione catara e trobadorica. Le analisi desolanti di certi storicisti odierni non c’interessano, quando sono condotte col bisturi della menzogna. Esse, infatti, invece di riunire, in una visione harmonica eventi analoghi e persino coincidenti, dividono le misere vestigia che ci sono miracolosamente pervenute, svolgendo – oggi – lo stesso ruolo delle fiamme dell’Inquisizione d’allora.
Risaliremo, pertanto, dal sangue vivo degli adepti catari alle ideologie che li animarono; dai luoghi del tolosano, ove più forte fu la loro presenza, agl’intrecci più prolifici i quali, dai popoli celtici ai bardi, giunsero ai primi focolai segnalati nella Champagne (inizio XI sec.), a Tolosa (1017) e fino a Monforte (Piemonte, 1034). Nel ventennio che va dal 1143 al 1163, ci furono le prime sicure presenze di culti catari fra Renania e Fiandra, tra Liegi e Colonia, soffocate nelle fiamme dei roghi. Poi la diffusione, a macchia d’olio, del Catarismo in Italia, Catalogna, Paesi Bassi e Germania. Proprio nel nostro paese fu particolarmente numerosa la chiesa di Concorezzo a nord est di Milano[16], ma anche quella di Desenzano sul Garda, Mantova-Bagnolo, nella Marca trevigiana ed in Toscana, Verona, Milano e Piemonte in genere. A Chieri abitarono dei Catari “Perfetti” fino al 1370.
Il carattere già multirazziale del paese d’Oc fece poi il resto nell’elaborazione di un credo, il quale riassumeva, in sé, secoli d’iniziazioni misteriche e di eresie sincretistiche. È indubbio, infatti, che, sebbene non vi siano legami storici ufficiali, quelli mitici – invero – svelano i Catari, quali eredi del Buddhismo e dei Druidi, delle dottrine iniziatiche di Pitagora e Platone, ma soprattutto dell’insegnamento gnostico e manicheo in senso lato, in quanto dualità sia del Creatore sia della Creazione. La fede dualistica rintraccia, poi, le sue origini nella concezione bipolare zarathustriana (VII sec. a. C.), quando lo “Spirito cattivo” (Angra Mainyu) si oppose alla parola divina di Ahura Mazda (“Il Saggio Signore”).
Del pari, il messaggio di Mani (III sec.) appare compreso in un dualismo categorico, nel quale il mondo è preda del Male. Bisognerà però arrivare al VII secolo dell’èra volgare, per rintracciare il gruppo dei Pauliciani, il quale dall’Armenia si stanziò in Anatolia. Quando essi ne furono espulsi, si riversarono in Tracia ed in Bulgaria. Qui diedero luogo ad un altro credo religioso, il Bogomilismo, così denominato dal loro fondatore, il pop Bogomil che in Bulgaro significa amico di Dio. I Bogomili professavano la negazione dell’incarnazione di Cristo[17] ed il bisogno di un ascetismo rigoroso per sconfiggere il Male. Dal Vangelo di Giovanni, unico testo sacro adoperato anche dai Catari, essi derivavano la dottrina emanativa dello gnosticismo. Di conseguenza, respingevano l’intermediazione della Chiesa nella ricerca della scintilla divina ch’è in noi, rifiutavano i sacramenti, le preghiere ed il culto della croce, della Vergine, delle icone e dei santi. Il loro rito era di una tale semplicità che vi si ammetteva solo il “Padre Nostro”[18], esposto dal Vangelo di Giovanni (Interrogatio Johannis), quale unica preghiera insegnata da Gesù stesso, ed intonata in cielo dagli angeli come inno, prima della caduta.
Dunque, non solo molte affinità, fra il Bogomilismo ed il Catarismo, portano verso una dipendenza tra le due credenze, ma anche migrazioni storiche di popoli e dottrine. Codeste migrazioni condussero i Bogomili dai Balcani all’Italia attraverso la Dalmazia, ed infine in Aquitania nel 1022, per opera di una donna italiana. La nostra patria è chiave di volta per la comprensione del movimento. Anche perché, quasi tutti i protocatari processati ad Arras, nel 1025, erano d’origine italica. Circa cento anni dopo, la fede albigese trovava adepti in gran parte dell’Europa occidentale. Nel 1167 si tenne a Saint-Félix de Caraman, vicino Tolosa, un concilio cataro presieduto dal pop Niceta, che fece il punto sulla consistenza dei Bogomili (Romania, Serbia, Bulgaria e Dalmazia). I compagni di fede linguadochiani s’organizzarono in modo analogo e stabilirono ad Albi la loro sede più importante. Perciò il nome Albigesi, dato a tutti i Catari dell’Occitania.
La loro dottrina dualistica faceva risalire tutto il Male alla materia, creata da Satana, mentre il Bene riguardava solo lo Spirito, emanante direttamente dalla Divinità Primaria. Ecco perché, nel mondo materiale, nel quale viviamo, nulla è buono. Ne derivava il rifiuto del matrimonio e della procreazione, al fine d’eliminare il mondo delle apparenze. La riproduzione, infatti, imprigiona l’anima nel corpo. L’obbligo per i “Parfaits”, ossia per il clero militante, era quello della completa castità. Per i fedeli, invece, l’invito era: “Se non potete fare a meno del piacere carnale, perlomeno non lo santificate con il matrimonio ed evitate di procreare”. Paradossalmente, i risultati di simili indicazioni furono l’unione libera e le tecniche contraccettive, ma – nel contempo – un’estrema moralità regolava ogni cosa.
Sebbene vi fosse nel loro insegnamento l’invito a non concepire e procreare, al tempo stesso i Catari furono i maggiori difensori d’ogni forma di vita, poiché ogni corpo, persino quello animale, ospitava – per loro – un’anima. Non violenti per missione e convinzione, i “puri” erano vegetaliani e rifiutavano ogni cibo proveniente da qualsiasi essere vivente. Dalla loro dieta erano perciò esclusi non solo la carne, ma anche le uova ed il latte, giacché questi erano pur sempre dei derivati della procreazione. Il divieto d’uccidere, per qualsiasi motivo, valeva finanche nel caso della legittima difesa. Necessari furono, perciò, i mercenari ed i simpatizzanti per la difesa personale degli adepti. In alcuni casi furono i Templari a svolgere questo compito. Tra i “Puri” si ricordano – per la loro vita ed onestà esemplari – Guilhabert de Castres, Guilhelm Vidal e Bertrand Marti, mentre fra le “perfette” spiccano i nomi di Esclarmonde de Foix, Galharda del Mas o Marquesia de Lantar.
Otto Rahn[19], nella sua indagine intitolata Crociata contro il Graal (I^ edizione 1933) e pubblicata, in traduzione dal tedesco (Kreuzzug Gegen den Gral), per i tipi della Società Editrice Barbarossa (Milano, 1991), riassume alcuni rigidi precetti dei “Buoni uomini” e dei “Consolatori” nella maniera seguente: “Essi si interdicevano qualsiasi possesso di beni materiali e non appartenevano più a se stessi, essendosi votati, corpo e anima, alla Chiesa d’Amore. I beni e le donazioni che la Chiesa riceveva, li amministrava e li impiegava al servizio della carità. La vita dei catari era un séguito di privazioni e di rinunce. Non rinunciavano solamente a tutti i legami della famiglia e dell’amicizia; erano anche tenuti, tre volte l’anno, a quaranta giorni di digiuno e al pane e all’acqua tre giorni la settimana. Il loro motto era quello di San Giovanni (XII, 25): ‘Colui che rifugge la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna’”.
Inoltre: “Era proibito di uccidere, anche un vermicello. La dottrina catara della migrazione delle anime lo interdiceva loro. Così non avevano mai diritto di prendere parte a una guerra. Quando l’era delle persecuzioni si aprì per la Romania [Provincia romana, nome latino della Linguadoca], li si vide, la notte, errare sui campi di battaglia, ma per curare i feriti e donare ai morenti il Consolamentum. I catari erano ugualmente buoni medici e avevano la reputazione di astrologi infallibili. (…)
I catari si vestivano con lunghe vesti nere, simbolo del lutto della loro anima, condannata al soggiorno infernale di questo basso mondo; coprivano la loro testa con una tiara persiana (…) e portavano sul petto un rotolo di cuoio che conteneva l’Evangelo secondo San Giovanni”. (In: op. cit., 117-8).
Tra l’altro, la cosiddetta caduta dell’Uomo non derivava, per il credo cataro, da un ipotetico peccato originale, ma dal potere aggressivo del Demonio. Dal canto suo, la via della salvezza consiste nel liberarsi dalle spire materiche; il che avviene durante le varie esistenze che seguono la legge delle reincorporazioni, fino alla riunione completa colla divinità di Luce. In questo panorama, Gesù perdeva il suo ruolo centrale nel processo della redenzione, e non gli si riconosceva la realtà effettiva dell’incarnazione, della crocifissione e della resurrezione.
Solo la conoscenza (gnosi) può condurre all’illuminazione, la quale s’ottiene con i riti d’iniziazione contenuti nella Cena segreta, ossia nell’Interrogatio Johannis[20]. Il primo passo è il distacco dal mondo materiale e quindi la rinuncia ad ogni possedimento terriero e ad ogni forma di ricchezza. Una logica conseguenza di ciò, fu il ripudio della Chiesa storicizzata, dei suoi sacramenti, del dogma trinitario e delle gerarchie ecclesiastiche; ed anche, la condanna della croce in quanto strumento di tortura. Inoltre, la confessione, come nel Cristianesimo originario, era pubblica. Gl’incontri, tra i fedeli, avvenivano in campagna, nei castelli, nei boschi e nelle case private. La morale catara riecheggiava le parole che Giacomo il Giusto pronunciò al cospetto di Paolo di Tarso: “La fe sens obras morta es” (“La fede, senza le opere è una fede morta”).
Il consolamentum[21], costituiva il battesimo spirituale del Fuoco. Dopo una lunga preparazione (abstinentia), esso innalzava il credente al rango di “puro”, ed all’obbligo di non tradire mai i segreti della propria chiesa, neppure di fronte a morte certa. Infine, per accelerare l’uscita dalla dimensione materiale, i Consolatori praticavano l’Endura. Al pari dei bardi cantori e dei Druidi, alcuni dei “Parfaits” bruciavano le tappe della vita terrena lasciandosi morire di fame o di freddo. Sembra, però, che tale pratica riguardasse soltanto le zone a nord della valle dell’Ariège e le regioni di Ussat-les-Bains.
Dal V secolo della nostra èra, i Cattolici e i Cristiani edificarono basiliche nella Provenza e nell’Occitania, adoprando pietre e colonne dei templi pagani. Non riuscirono, però, a raggiungere i Druidi e i Vates dei Pirenei. Per costoro era impensabile considerare come loro divinità un Cristo giudeo, della stirpe di David. Essi continuarono ad adorare la loro divinità della Luce, Abellio, immaginando che un Dio non potesse volere l’eccidio e la persecuzione di coloro che la pensavano diversamente. Alcuni anni prima, arrivò nei boschi e nelle caverne, ai piedi del castello di Montségur, una schiera di Cristiani gnostico-manichei, perseguitata dai fratelli Cattolici. I suoi esponenti raccontarono del loro maestro Priscilliano giustiziato a Treviri nel 385. Fu il primo caso di condanna a morte per eresia. I Druidi accolsero in modo ospitale i Priscilliani, i quali ricevettero in dono, come nuova patria, i boschi di Serralunga (alta valle dell’Ariège), fra il Sabarthés e l’Olmes. Da allora, le selve sottostanti al pog di Montségur si chiamarono dei Priscilliens. Il culto priscilliano rigorista, basato sugli scritti apocrifi, e l’antica sapienza druidica prepararono, per alcuni versi, il terreno alla nascita della fede catara, mentre i bardi cantori iniziarono la tradizione dei trovatori…
La non violenza, però, la tolleranza e l’ospitalità non potevano frenare la sete di potere di Roma e dei Franchi “cattolicizzati” nei confronti delle ricchezze della Linguadoca. Tra l’altro, non solo in Occitania in particolare, ma in tutto il resto del mondo cristianizzato, il Cattolicesimo attraversava un periodo di nera decadenza morale negli anni compresi fra l’XI ed il XIII secolo. La vita dei canonici era identica a quella dei laici: prostitute d’ogni genere, figlioli e concubine, bravi e palafreni, vesti sontuose e gioielli adornavano la loro doviziosa esistenza. Le funzioni liturgiche, i canti e le offerte per i defunti, insieme con l’insopportabile decima[22], servivano ad alimentare il potere temporale dei preti e dei vescovi e le loro perversioni. La predicazione dei “Buoni uomini”, pertanto, fra la gente d’ogni ceto, ebbe un successo sì grande che Roma vide la fine del suo dominio in Provenza, in Guascogna ed in Linguadoca. Non solo il popolo tutto, ma anche i nobili appoggiavano l’eresia ed affidavano i loro figli e figlie all’educazione dei Perfetti: i visconti di Béziers, Albi e Carcassonne, così come i conti di Foix o i Trencavel di Tolosa.
Bernardo di Chiaravalle prima e Domenico di Guzman dopo, cercarono – con la predicazione – di riportare sotto il potere di Roma i Catari occitani. La sconfitta fu totale. La stessa Esclarmonde, viscontessa di Foix, accoglieva nel suo castello, situato alla foce dell’Ariège, gli eretici che decifravano con lei l’ermetismo platonico e l’esoterismo di Giovanni l’Evangelista. Aria di guerra, però, si respirava in ogni luogo. Roma non avrebbe atteso più a lungo. Per questi motivi, allorché il Razès (con Rennes Le Château) divenne un possedimento di Raymond-Roger Trencavel, i Catari chiesero ad Esclarmonde di fortificare il castello di Montségur, fin dall’inizio dell’anno 1204.
Roma era disposta a scatenare anche il finimondo, pur di ricondurre sotto il suo dominio gli eretici. C’era solo bisogno che quel tanto chiacchierato soglio di Pietro cadesse sotto le grinfie di un individuo senza scrupoli. E la cosa avvenne puntualmente nel 1198 con Innocenzo III, al secolo Lotario, discendente d’una delle famiglie più potenti ed intrallazzatrici dell’epoca, quella dei Conti di Segni. E fu la fine per la democrazia municipale dell’Occitania e per la civiltà cavalleresca più nobile che l’Europa avesse mai conosciuto, basate su Joie e Parage.
Scrive Simone Weil, ricordando i momenti drammatici dell’assedio di Tolosa: “Il conte non fa nulla senza consultare tutta la città, ‘li cavalier el borgez e la cuminaltaz’, e non le dà ordini, le chiede il suo appoggio; appoggio che tutti gli accordano, artigiani, mercanti, cavalieri, con la stessa dedizione gioiosa e totale. (…) L’unione di un simile spirito con il sentimento civico, un attaccamento ugualmente intenso alla libertà e ai signori legittimi, ecco qualcosa che probabilmente si è visto solo nel paese d’Oc durante il XII secolo. (…) Lo spirito cavalleresco forniva il fattore di coesione di cui lo spirito civico è privo. (…)
Nel poema [La Chanson de la croisade] il passo più toccante è quello in cui la città libera di Avignone si sottomette volontariamente al conte di Tolosa vinto, spogliato delle sue terre, privo di ogni risorsa, pressoché ridotto alla mendicità. Il conte, (…) trova gli abitanti in ginocchio, che gli dicono: ‘Tutta Avignone si rimette alla vostra signoria – ciascuno vi consegna il suo corpo e il suo avere. (…) Signore legittimo e amato – Noi daremo i nostri beni e sacrificheremo i nostri corpi – Affinché recuperiate la vostra terra o che noi moriamo con voi’”[23].
Il papa Innocenzo III, l’Anticristo per eccellenza, il mostro dalle Sette Teste dell’Apocalisse di Giovanni, scrisse lettere di fuoco a tutti i governanti d’Europa, affinché costoro appoggiassero il Vaticano contro l’eresia. In particolare si rivolse ai baroni della Francia (solo il paese a nord della Loira portava allora questo nome), baroni che avevano sempre covato mire espansionistiche verso la ricchissima e meravigliosa Linguadoca. I premi promessi furono la remissione dei peccati, il bottino assicurato, protezione della Chiesa, estinzione dei debiti contratti con gli ebrei. Altrimenti, a chi rifiutava di dare man forte, anatema e scomunica[24].
Cattolici e Carolingi, inoltre, auspicavano la distruzione della democrazia federativa e municipale e della cavalleria cantate dai trovatori. Sia l’una sia l’altra stavano creando non pochi problemi al regime feudale, monarchico e repressivo della terra dei Franchi (a nord della Loira), i quali si sarebbero annessi nuovi possedimenti terrieri, dietro il vessillo della Croce Vaticana. Tutto ciò attrasse i feudatari ed i monarchi della Borgogna, della Lorena e della Francia, dell’Ungheria, della Frisia e dell’Austria. Il 24 giugno del 1209 iniziò la Crociata contro gli Albigesi (i discendenti delle Regine Graaliche e del Sangue Reale Messianico) e la civiltà mediterranea più avanzata dei Secoli Bui, l’Occitania. Un esercito spaventoso per quell’epoca feudale, si radunò a Lione (200.000 fanti e 30.000 cavalieri) e da lì, costeggiando il Rodano, discese verso Béziers. Otto Rahn, archeologo e studioso tedesco della letteratura e delle eresie medioevali, così scrive nel suo studio Crociata contro il Graal (Grandezza e caduta degli Albigesi):
“Ma quale accozzaglia in questa armata di Gesù Cristo!… (…) Vi era posto per la teppaglia di ogni genere: i ribaldi, i teppisti e, nei ‘Templi di Venere’ montati su quattro ruote, le sgualdrine di tutti i paesi possibili…”[25].
Di poi è lo storico navarrese, d’osservanza cattolica, Guillaume de Tudéle a ricordare i tragici avvenimenti:
“Béziers attende la crociata. Un dragone che sputa fuoco e morte si avvicina, strisciante… Un prete anziano domanda di entrare nella città (e grida): ‘consegnateci gli eretici; altrimenti morirete tutti’.
‘Tradire i nostri fratelli? Che ci si getti piuttosto nel fondo del mare!’”, fu l’unanime risposta[26].
Dopo non molto, le porte delle mura di cinta cedettero, ed iniziarono le devastazioni e gli eccidi, durante i quali, narra Devic-Vaissète:
“Gli abitanti sperduti si rifugiano in folla nelle chiese, nella speranza di trovarvi asilo sicuro, i più vanno nella cattedrale
di S. Nazario e vi si mettono sotto la protezione dei canonici i quali, ricoperti dei loro vestiti da coro, fanno suonare le campane per incitare i vincitori alla compassione. Gli altri si rifugiano nella chiesa della Maddalena; ma nulla arresta i crociati, che inseguono i loro nemici nei luoghi santi e ne fanno una orribile carneficina, di guisa che si conta che sette mila abitanti perirono in questa sola chiesa”[27].
Molti dei crociati si vergognarono, entrando nel duomo dove si erano rifugiati perlopiù donne, vecchi e bambini, dello scempio che s’accingevano a commettere. Stupiti si rivolsero al legato del Papa Arnaud-Amaury, abate di Citeaux. Gli chiesero come distinguere i cattolici dagli eretici. La risposta fu terribile:
“UCCIDETELI TUTTI, DIO RICONOSCERÀ I SUOI!”.
Nei resoconti di Guilhem De Tudéle[28], autore della Chanson de la croisade contre les Albigeois, si legge ancora:
“Niente può salvarli, né croce, né altare, né crocifisso. E questi ribaldi folli e ladroni sgozzano preti, donne e fanciulli. Non uno solo, io credo, ne sfuggì”[29].
Ventimila morti a Béziers. Poi fu la volta di Carcassonne, Minerve (1210), Termes (1211), Lavaur e Castelnaudary (1211), Muret (1213) e Tolosa (1215). E nuovi roghi s’accendono.
La città di Lavaur pullulava di trovatori in fuga e di cavalieri proscritti. Qui s’allestì un gran falò che bruciò 400 Catari. Tutti i suoi abitanti furono passati a fil di spada dall’armata di Cristo comandata da Simone di Monfort. Ottanta nobili cavalieri e trovatori furono impiccati. La castellana Donna Geralda, che portava in grembo un bimbo, fu buttata in un pozzo e lapidata fino a che si spensero i suoi lamenti.
Dalle testimonianze della gente del luogo, raccolte nella terra selvaggia del Thabor pireneo, Otto Rahn ricorda le fasi del martirio dei Catari:
“Si danno reciprocamente il bacio della pace, e, al grido di ‘Dio è Amore’, si gettano nelle fiamme. Le madri mettono le mani davanti agli occhi dei loro fanciulli, fino al momento in cui le fiamme li chiudono per l’eternità, restituendo loro il Paradiso.
Come un dito accusatore levato verso il cielo, Montségur, sulla sua roccia altera e splendida, si drizza, nitido a ovest, al di sopra di questa nube di sangue, di bracieri e di città fumanti. Dito che accusa e che nello stesso tempo mostra la strada del Signore ove non si avrà altro che Luce, Amore e Giustizia”[30].
E quello che non fecero i massacri fu completato dall’Inquisizione, organizzazione speciale fondata da Innocenzo III ed affidata ai domenicani, guidati da Domenico di Guzman, amico intimo di Simone di Monfort, lo sterminatore. Si narra che il “santo” disse messa a Lagrasse, nei pressi di Carcassonne, dall’alto di un pulpito, innalzato seduta stante, mentre quattro bracieri fumigavano nell’attesa degli eretici. Accuse d’eresia, anche solo da parte di prostitute ed assassini, potevano mandare al rogo chiunque. Quanto terrore in Occitania: 140 persone arse vive a Minerve (1210), 94 a Cassès e 400 a Lavaur (1211), 210 a Moissac (1234)…
Dopo tanti orrori, si può solo avallare la credenza catara, che considerava il XVII capitolo dell’Apocalisse di Giovanni come riferito senz’altro a Roma, una città la cui storia evoca simboli e contenuti che rappresentano l’esatto contrario dell’AmoR[31]:
“E la donna era vestita di porpora scarlatta e tutta brillante d’oro, di pietre preziose e di perle; e teneva nella mano una coppa d’oro, riempita dall’orrore e dal sudiciume della sua lussuria. (…)
E io vidi la donna inebriata dal sangue dei santi e dal sangue dei testimoni di Gesù. (…)
E l’Angelo mi disse: ‘la donna che tu hai visto è la grande Città che regna sui re della terra’”[32].
Rimaneva soltanto Montségur e le vallate antistanti il Thabor, come estremo rifugio per i Catari ed i trovatori, nonché per gli ultimi esponenti d’una civiltà che ebbe per antenati gli Elleni, i Celti e gli Iberici e che raccolse i messaggi conclusivi dei misteri egizi, greci e persiani. Colà, già dal 1240, si erano stabilite circa 500 persone. Fra loro, vi era il vescovo cataro di Tolosa Guilhabert de Castres e la figlia di Ramon de Perella, Esclarmonde, discendente dei goti, come si evince dal suo nome Is-Kla-Mun = Luna di Cristallo, la custode della Manisola o del Luminoso Graal (i Discendenti Regali, Servitori del Popolo).
Diecimila armigeri, nel maggio 1243, iniziarono l’assedio al “nido degli eretici” e ci vollero ben undici mesi, per costringerli alla resa. Il primo marzo del 1244 ci fu la capitolazione. I Catari chiesero una tregua di due settimane ed il 14 marzo, equinozio di Primavera, celebrarono una cerimonia che convertì alla “fede pura” parecchie guardie mercenarie al loro servizio. Il 16 ci fu il gran rogo dei Parfaits che preferirono il martirio piuttosto che abiurare il loro credo: “Pusleù cremar que renonciar!” (“Piuttosto bruciare che abiurare”). Duecentoquindici persone bruciate vive in un luogo ai piedi del castello, ove oggi una stele ricorda il supremo sacrificio, avvenuto nel Prat dels Cremats (Campo dei Bruciati) con l’iscrizione in lingua occitana: “Ai Catari, martiri del puro amore cristiano”.
Durante la notte fra il 15 ed il 16 marzo, dopo la resa, quattro Perfetti si calarono con funi, attraverso gli strapiombi più pericolosi della parete occidentale della montagna[33]. Tanti rischi per sé, per la guarnigione e per gli ostaggi? Il “Tesoro” degli Eretici bisognava consegnarlo al figlio di Bélissena, Pons-Arnaud. Ciò che stavano portando via, il segreto della Chiesa catara, non doveva in alcun modo cadere nelle mani degl’Inquisitori. Costoro, il giorno dopo, distrussero il villaggio di baracche antistante il castello e bruciarono tutte le prove ed i libri che avrebbero potuto testimoniare dell’esistenza dell’ultima civiltà mediterranea, la quale aveva coltivato le arti, la libertà, la conoscenza, la dignità, il valore individuale, la fierezza e la fratellanza fra i popoli.
La feroce persecuzione, che si abbatté per oltre un secolo sugli eretici, li aveva costretti ad organizzarsi in società segrete ed in gruppi clandestini. Fu necessario, pertanto, predicare il messaggio della Chiesa d’Amore tramite una simbologia esoterica (trobar clus), i cui contenuti erano a conoscenza di pochi eletti. E tale simbologia trovò il terreno più fertile nei canti dei trovatori (trobadors, in lingua d’Oc). Costoro, dall’XI al XIII secolo, diffusero la loro estetica e le leys d’amors in gran parte dell’Europa e dell’Italia, talché i poeti d’ogni nazione si trovarono ad essere permeati – fin nelle più intime fibre – di cultura provenzale e linguadochiana. Nasceva così la prima lingua neolatina, che ebbe – nel tolosano – il suo nucleo originario. In essa confluivano, in modo multiforme e variegato, l’eccellenza creativa della società multirazziale dell’Occitania: elementi celtici e greci, espressioni latine ed iberiche, nonché richiami gotici ed arabi.
Le leys d’amors imponevano la domnei, vale a dire la sottomissione totale alla Donna Angelicata, oggetto di contemplazione e d’amore puro (Minne). L’ideale dell’Amor cortese (fin’amors) esigeva peraltro due comportamenti essenziali da parte del poeta: il rifiuto del contatto corporeo ed il disprezzo del matrimonio[34]. Questi due atteggiamenti erano tipicamente catari. Così suonano le parole del trovatore tolosano Guillaume Montanhagol:
“Gli amanti dovranno essere di cuore puro e non pensare che alla Minne, poiché la Minne non è affatto peccato, ma una virtù, che rende i cattivi buoni e i buoni migliori. E d’amor mou castitaz (E dall’amore viene castità)”[35].
Nei confronti della Domina, la sottomissione del poeta era totale. Egli s’inginocchiava ai piedi della dama e le giurava fedeltà, come si faceva con un feudatario. Ciò era tanto più comprensibile, nel mondo municipale e federativo dell’Occitania, dal momento che le donne, d’antica ascendenza celtiberica, avevano una loro autonomia economica e sociale, privilegio delle principesse irlandesi, scozzesi e britanniche.
Peire Vidal[36] canta all’inizio di una sua canzone:
“Il mio cuore gode della primavera così piacevole e dolce, e del castello di Fanjeaux, che mi sembra il paradiso; perché vi dimorano amore e gioia e tutto quello che conviene all’onore, e sincera e perfetta cortesia”[37].
Le analisi che vanno per la maggiore, quelle cosiddette asettiche, da conteggio ragionieristico, ossia meccaniche e quindi non sentite, sono incapaci d’individuare alcunché di cataro nella lirica testé riportata. E questo accade, poiché i materialismi specialistici e classificatori odierni hanno nozioni precise, solo d’un punto disposto su un universo infinito (specializzare, alienare, dividere…). Essi non s’avvedono, però, che proprio quel punto fa parte di quel macrocosmo, e trascurano così la globalità della ricerca, in cui infiniti fili collegano ogni cosa visibile ed invisibile, materiale e spirituale. Ergo, le prove vanno cercate nelle pieghe più riposte, e pure in ogni fugace accenno.
Nella fattispecie, si paragona il castello di Fanjeaux al paradiso, ove la cortesia non è solo perfetta, bensì sincera. Ma gli aggettivi sincero, vero oltreché puro sono già, per se stessi, quantomeno indicativi d’una cultura velatamente eretica. “Puro Amore” e “Perfetta Signora” erano termini adoprati per indicare la Chiesa Catara, basata sulla libertà, sull’individualismo e sulla scelta volontaria degli adepti (Aíresis)[38]. Atteggiamento affatto diverso, perciò, dalle pratiche impositorie e repressive, adottate dalla Chiesa del “Sacro romano impero”. E poi, perché mai, nel 1245, una bolla d’Innocenzo IV dichiarò eretica la lingua provenzale, interdetta d’allora agli studenti?
D’altronde, il castello di Fanjeaux, sito nella contea di Foix, era meta ed asilo per numerosi gruppi d’esponenti catari e di boni homines o di bons hommes. Fra loro, un nutrito gruppo di trovatori, impiegava il trobar clus e le cosiddette “espressioni ambigue” o a “doppio senso”, il cui significato nascosto era noto solo agli eretici. Guihalbert de Castres, uno dei vescovi più attivi della “Chiesa d’Amore”, fondò a Fanjeaux un centro cultuale ed iniziatico, da lui diretto fino al 1193. Nello stesso castello la diaconessa Esclarmonde, duchessa di Foix, si farà promotrice delle dispute filosofiche e religiose più sentite del mondo civile d’allora.
Peire Vidal, nelle sue liriche, rimembra i luoghi ameni, ov’è stato accolto con gioia e amore: le contee dell’Albigeois e del Carcassès, così come i castelli di Saissac e Montréal, oppure di Gaillac e Laurac, Castres e Termes. Egli ricorda con prorompente ardore “il dolce riso” di Madonna Louve, la famosa “eretica contessa Stéphanie”, soprannominata la Loba (Lupa)[39], la “Parfait” del castello di Hautpoul. Ella, con Ermengarda de Saissac (La Bell’Albigese dei cantori d’amore) e con Brunissenda di Cab-Aret ispirarono i maggiori trovatori della Linguadoca. Esse erano le “Vergini Madonne” della discendenza Reale del Graal. Fra quei poeti-cantori si ricordano Guilhelm de Dufort, Aimeric de Péguilhan (1175-1230), morto in un convento cataro della Lombardia, dopo aver ricevuto il consolament, e Mir Bernart di Laurac, soppresso dall’Inquisizione dopo la presa di Montségur.
Lo studioso Michel Roquebert, nel suo scritto L’épopée cathare (Tolosa, 1970, 313-8), evidenzia le presenze di Peire Vidal e di Raimon de Miraval – lo testimoniano i loro Lai – nei castelli del Laugarais, del Cabardès e del Minervois, ov’essi conobbero le famiglie eretiche dei Dufort, Montréal, Miraval e Mirepoix, Aragon, Laurac, Cabaret e Saissac, nonché dei Pënnautiers. Inoltre, soltanto gli storici scientisti della più bell’acqua, ossia coloro i quali hanno bisogno che i vincitori di turno gli “passino” i cosiddetti “documenti ufficiali”, sarebbero sfrontati a tal punto da negare un più che naturale incontro e proficuo intreccio fra eresia e poetica “cortese”.
I castelli degli Hautpoul e dei Visconti di Saissac e di Cab-Aret, erano immersi nell’allora impenetrabile Foresta Nera, nelle cui caverne, gli Albigesi celebravano il Consolamentum. Questo rito o Battesimo del Fuoco consisteva nell’imposizione delle mani da parte dei “perfetti” sul capo dell’iniziato, che si era ormai distaccato dalle cose terrene e s’era messo in contatto col suo Spirito di Luce. Questa scintilla divina, la quale risplende – secondo l’insegnamento di Mani o dello gnosticismo – nella parte spirituale dell’uomo, appare nel giorno del suo trapasso terreno e lo bacia. Un sol bacio, come faranno le Dame occitane con i loro trobadors, finché l’angelo custode gli tende la mano e lo conduce verso lo splendore originario. È ciò che si narra, non solo nei rituali catari, ma anche nel cap. X dei Képhalaia o Capitoli di Manes, scoperti nell’Alto Egitto, a Faiyum nel 1930.
Dopo quaranta giorni di digiuno, il neofito prometteva, durante la cerimonia d’iniziazione, “di non avere mai contatto con una donna, di non uccidere nessun animale, di non mangiare carne e di non vivere che di frutta. (…) [Nella formula finale si diceva peraltro] Io prometto ancora di mai tradire la mia fede, quale che sia la morte di cui mi si minacci”. Dopo altri gesti rituali, l’assemblea recitava il Pater ed il sacerdote declamava i primi diciassette versi del Vangelo secondo San Giovanni. Infine il neofito riceveva il “bacio della pace” che “egli restituiva al suo vicino più prossimo”. Seguivano altri quaranta giorni di digiuno. Alla fine il “parfait”, nel pieno delle sue facoltà e nel momento di “gioia suprema”, poteva decidere – come i Bardi e i Druidi – di lasciarsi morire “in uno stato di perfetto distaccamento dalla materia”, senza alcuna paura nell’anima, bensì in una “visione momentanea e mistica della Bellezza e della Bontà divina”. Questo era l’epilogo.
Dapprima, però, durante la vita terrena, la dottrina catara imponeva di: “Amare il proprio prossimo come se stessi (…) di non fargli del male e soprattutto non ucciderlo”. Dopodiché doveva intervenire la più alta spiritualizzazione, in modo tale da lasciare questo mondo, nell’ora del trapasso, senza alcun rimpianto: “Se non si è vissuti invano, umanamente parlando, se non si è fatto che il bene e se si è diventati se stessi il bene, allora, dicevano i catari, si ha il diritto, perché si è ‘Parfaits’, di compiere il passo decisivo.
Essi effettuavano l’Endura sempre in due. Questo fratello [o sorella], al lato del quale il cataro aveva passato, nella più ideale amicizia, anni di sforzi continui e di spiritualizzazioni intensive, voleva, in concreto con lui anche nell’altra vita, la vera vita, godere delle bellezze intraviste dell’Al-di-Là e delle rivelazioni delle leggi divine che muovono il mondo”[40]. Il raggiungimento della serenità più assoluta era l’altra ragione del “suicidio di coppia”. Il dolore della separazione non doveva ritardare i processi di purificazione delle scorie materiche ed animiche, di stella in stella verso la Montagna Divina della redenzione luminosa. Alla fine del percorso, s’incontrava l’Albero della Vita, quando Shiva e Shakti indù ristabiliscono l’unione primeva, e la Sophia gnostica si ricongiunge al Cristo di Luce. Insomma, ritorno all’Energia Pura o Fuoco Originario, quando Materia ed Antimateria si riuniscono nel Buco Nero dell’Oblio!
Il conte di Tolosa, Raimondo V, presso la cui magnifica corte Peire Vidal fece risuonare i suoi sirventes, proclamò – nel 1177 – con toni accesi e “preoccupati” che
“L’eresia è penetrata d’ovunque. (…) I preti stessi cedono alla tentazione. Le chiese sono deserte e cadono in rovina… Le personalità più importanti della mia terra si sono lasciate corrompere. La massa ha seguito il loro esempio e ha abbandonato la fede [cattolica]”[41].
Se Raimondo V fa riferimento ai preti, alle personalità più importanti ed alla massa dei cattolici, il movimento occitanico di rinnovamento religioso, in questione, fu allora di tipo totale, ossia investì ogni ordine sociale della municipalità linguadochiana. I difensori del Cattolicesimo, Bernardo di Chiaravalle prima e Domenico di Guzman[42] poi, cercarono di recuperare il terreno perduto, a causa della corruzione e dell’immoralità del clero romano. Imitarono – a tal fine – gli Albigesi ed i loro modi di predicazione. Furono però affrontati e derisi a viso aperto dai Puri e dalle Perfette, la cui preparazione dialettica, nonché conoscenza religiosa non temevano confronti.
Oggi i tempi sono cambiati? Per fortuna! Lo speriamo! Ma quanto sangue sparso inutilmente ed a causa di una mentalità duale, basata sulla paura e sull’aggressione, sull’odio e non sull’Amor. Una mentalità che tuttora guida le azioni dei potenti della Terra e dei suoi schiavi: sopraffare e non riunire, dividere, specializzare, alienare, sopprimere, distruggere, ignorare, negare, disturbare, violentare, odiare…
Non facciamoci neppure ingannare dalle scuse ufficiali e dalle false apparenze. Alle ammissioni di colpa dell’Autorità religiosa, seguiranno le considerazioni degli storici ufficiali e di coloro che si fregiano dei titoli altisonanti dell’Accademismo di Stato. Costoro, poco per volta, riusciranno a dimostrare, lentamente e senza che nessuno se n’avveda, che i colpevoli erano coloro che hanno subito il torto.
Ancora oggi, infatti, leggiamo con rammarico e con orrido spavento, per il futuro, ciò che lo storico bretone Jean Markale (per molti versi, fine studioso) scrive sul suo libro Santi o eretici? L’enigma dei Catari, (trad. it. A. Di Bello, Milano, Sperling & Kupfer, 1999, 38-9):
“Era normale a quei tempi bruciare esseri umani per le loro opinioni religiose: rientrava nelle regole eliminare tutto quanto non fosse ortodosso per il bene della maggioranza dei credenti. Si pensava di applicare in tal modo il detto evangelico: tagliare e bruciare i rami secchi. Gli inquisitori non ebbero mai l’impressione di commettere ingiustizie mandando uomini e donne al rogo dopo averli fatti torturare. Altri tempi, altri costumi. D’altronde, se i catari avessero dominato l’Occitania, probabilmente avrebbero agito allo stesso modo con i cattolici che non avessero voluto abiurare la loro fede”. Questo è troppo, egregio signor Markale!
1) Ci rifiutiamo di comprendere, anche mediante tutti i più perversi sofismi, il fatto che fosse normale, a quell’epoca, arrostire dei cittadini per questioni d’idee. Sappia, chi è troppo lontano da simili misfatti, che l’eretico non moriva subito, ma dopo che numerosi pezzi di carne s’erano staccati dal suo misero corpo. Quindici o venti minuti di sofferenze infernali, di fronte alle quali l’“ignezione letale” appare il Giardino di Eden! D’altronde, la normalità di “quei tempi” (XIII sec.) ha fatto sì che – pure nel XVI secolo ed oltre – i roghi s’accendessero contro il Paganesimo scientifico del Rinascimento italiano e contro gl’Indios pagani dell’America del sud, ai quali gl’inquisitori insegnarono solo le più perverse torture. Ci spieghi il signor Markale in che cosa consistesse allora “il bene della maggioranza”, quando un’accolita di sessuomani della Chiesa cattolica faceva colare del piombo fuso sulle parti intime delle donne? Durante il Rinascimento, ricordiamolo sempre, sei milioni ne bruciò la Santa Inquisizione con l’accusa di stregoneria. Questo signor Markale è – semmai – il bene della minoranza minorata che voleva a tutti i costi comandare su chi reclamava libertà, conoscenza, tolleranza ed Amor!!!
2) “Si pensava di applicare il detto evangelico?!”. “Gli inquisitori non ebbero mai l’impressione di commettere ingiustizie?!”. Queste sono affermazioni da manicomio criminale! Non c’è bisogno di leggere i Vangeli romani o apocrifi, non è necessario studiare teologia, per comprendere che quelle sono azioni nelle quali non solo l’intelligenza del cuore, bensì anche quella della mente sono strumento della perversione malefica pura!
3) Ci meraviglia alquanto, poi, come uno storico, che invita sempre a cercare le prove degli accadimenti, poi divaghi con asserzioni tipo “i Catari probabilmente avrebbero agito allo stesso modo con i cattolici”.
Questo è troppo signor Markale! Le prove della convivenza civile fra Catari, Cattolici, Musulmani, Manichei, Ariani, Ebrei, Templari, Greci, Fenici, Egizi, Volsci, Priscilliani, Celti, Druidi, Francesi, Italici, Spagnoli, Catalani, Linguadochiani, Provenzali… le trova nell’antica Occitania, quella distrutta e genocidiata dai “suoi” Inquisitori!
È con profondo rammarico e con terrore atavico che leggiamo simili affermazioni, le quali promettono solo sventura per gli anni a venire. Le braci dell’Inquisizione vaticana sono ancora accese sotto le ceneri!
A questo punto ci chiediamo pure: quale perversa volontà politica di mistificazione storica c’è dietro il caparbio disconoscimento dell’adesione dei trobadors all’etica degli eretici? Perché mai gli storici ufficiali tendono a spostare le loro indagini sul versante formale, estetico o addirittura pornografico? A chi giova?
Un minimo di dignità e rispetto dei valori etici e morali imporrebbero ben altro atteggiamento. È pur vero che, in questa sede, non si potrà condurre una disamina approfondita del problema, ma è semplicemente indecente e fuori luogo passare – sotto silenzio – i legami tra l’ideologia catara e quella trobadorica (in alcuni testi di Storia della Musica, si parla addirittura di fuoriuscita forzata dei Trovatori dalla Provenza, poiché costoro impiegavano, nelle loro liriche, un linguaggio troppo scurrile, che offendeva l’Ecclesia?!). Capovolgeremo, quindi, l’assunto tradizionale, giacché è errato e specioso tentare di dividere due manifestazioni storiche che nacquero nello stesso periodo, nelle stesse terre, negli stessi castelli e nello stesso humus culturale.
Qualche notizia e talune testimonianze scampate alla distruzione totale dei roghi ci soccorrono. Alcuni Catari confessarono, davanti agl’Inquisitori di Tolosa, che “Nostra Signora non è e non è mai stata una donna di carne; essa è il simbolo della nostra religione e del nostro Ordine”. Così recita un documento dell’epoca, che può essere letto da chiunque abbia voglia di conoscere e di dire il vero[43]. Tra l’altro, solo in considerazione della simbologia ereticale, s’arriva a comprendere, fino in fondo, le allusioni trobadoriche e – ad un tempo – a sanare molte incongruenze d’interpretazione, le quali hanno lasciato interdette intere schiere di commentatori.
Si analizzino allora, con questa mentalità rinnovata e libera dai gravami scientisti, i passi delle liriche di Guiraud de Borneilh. In essi, la Sua Dama è invocata quale Vera Luce e Pura Consolazione[44]. Pure Uc de Saint-Cirq canta la Notre-Dame con un linguaggio allegorico, il cui significato velato rimanda alla Chiesa Catara ed alla Fratellanza Universale. Il valore gnostico della conoscenza mistica, come unica Sorella d’Illuminazione è così intuibile nei seguenti versi:
“Prendete la mia vita,
Dama è così duro servire,
Purché per voi al cielo arrivi”[45].
Del resto, le motivazioni di siffatte allegorie ermetiche sono facilmente intuibili. È accaduto in tutte le tradizioni esoteriche, dall’antico Egitto alla Grecia, dagli Gnostici ai Templari[46], fino agli Albigesi ed oltre. Misure di sicurezza e ragioni di sopravvivenza imposero un codice segreto, espresso con falsi contenuti mondani ed erotici, i quali sviavano gli ascoltatori e gl’inquisitori e – nello stesso tempo – soddisfacevano la curiosità morbosa degl’ignari profani. Giacché non violenti, i Catari, al posto della spada, impugnarono l’arpa e la viella, e cantarono l’Amor e la conoscenza mistica come beni supremi in Occitania, ove nacque la lirica trobadorica, e da lì si diffuse in Italia. Qui i suoi seguaci s’appellarono Fedeli d’Amore, ed in Germania Minnesänger (Cantori della Dea dell’Amore). Non mancarono trovatori che esplicitamente denunciarono la corruzione e la depravazione dei chierici e del papato, come nel caso illustre di Guilhem Figueira, nel suo sirventese, scritto a Tolosa tra il 1227 ed il 1229, a causa del quale dovette riparare in Puglia presso la corte di Federico II nel 1240. Senz’altro, appartennero al movimento cataro i trovatori Mir Bernat, Raimon de Miraval, Peire Vidal, Raimon Jordan, Guilhem de Durfort, Pierre Rogier de Mirepoix.
Gli “storici materialisti di stato”, con tutto il loro scetticismo, continuano però a smentire ufficialmente i vincoli fra estetica dels trobadors e dottrina catara, addirittura capovolgendo – con gran sagacia – il rapporto di simulazione fra sesso e sua divinizzazione mitica. Insomma, per costoro saremmo di fronte ad una vera e propria fornicatio humana, traslata e camuffata col simbolismo divino. È bene allora porsi le seguenti domande, con Denis de Rougemont, autore di uno studio, esaustivo ed a tutto campo, sul rapporto fra Eros e Morte nella letteratura europea:
“Può essere semplice coincidenza che i trovatori, come i Catari, esaltino, pur non esercitandola sempre, la virtù della castità? Semplice coincidenza che, come i ‘puri’, essi non ricevano dalle loro dame che un solo bacio d’iniziazione? E che nel domnei distinguano due gradi (il pregaire, o preghiera e l’entendeire), come la Chiesa d’Amore distingue i ‘credenti’ e i ‘perfetti’? E che deridano i vincoli del matrimonio, questa jurata fornicatio, come la definiscono i Catari? Che lancino invettive contro i chierici e i loro alleati, i feudatari? E che vivano di preferenza alla maniera nomade dei ‘puri’ che se ne andavano per le strade a due a due? E che infine si ritrovino in alcuni loro versi espressioni tratte dalla liturgia catara?”[47].
Molti trovatori, in quanto preti e chierici, si trovarono persino ad avere legami ufficiali con il Cattolicesimo. Essi dovettero pertanto dissimulare la loro segreta propensione per il Catarismo, operante nella struttura sociale della propria terra con effettive opere di carità, al contrario della Chiesa del Sacro Romano Impero, sempre pronta a tassare con le decime i suoi sudditi. È questo il caso paradigmatico di Gottfried von Straßburg. In particolare nella sezione del suo poema Tristano, laddove si decanta la vita degli eterni Amanti nella Minnegrotte o “Grotta d’Amore”[48]. Il luogo e la caverna – egli narra – non sono, tra l’altro, raggiungibili facilmente. Vi si perviene, anzi, solo dopo molte difficoltà. In seguito appare, agl’innamorati, l’Antro originario. Qui, levigatezza e rotondità alludono alla perfezione dell’amore nell’“Altare” di Cristallo, evocante la Coppa graalica dell’Abbondanza, quel calice del Dio d’Amore e del Paradiso perduto, la cui tradizione appartiene alla credenza di matrice gnostica[49].
Più avanti, la descrizione assume i toni simbolici delle prove iniziatiche, poiché la “Grotta” si situa in un deserto. L’amore diviene il loro solo alimento, siccome nelle descrizioni mitiche e romanzate, laddove la Coppa del Graal nutre chiunque l’ammiri:
“Si portavano nascosto
sotto i loro abiti stessi
il miglior cibo del corpo
che mai sia esistito al mondo.
Da se stesso gli si offriva
sempre fresco e rinnovato:
era l’intima lor fede”[50].
Gottfried prosegue, contestando molta gente, la quale avanza la “stolta pretesa” che, per una tal vita d’amore, “ben occorre altra vivanda”. Egli stesso ha dovuto percorrere il duro calle verso l’Amor, contenuto nel Tempio graalico dell’Uomo:
“Io ho condotto un certo tempo
un tal genere di vita:
e tal cibo mi bastava”[51].
Séguita la descrizione dell’amore puro; e lo si contrappone al matrimonio feudale, imposto per questioni dinastiche. Si continua col riferimento alla forza d’innalzamento spirituale attraverso l’onestà, adombrata dalla “parete bianca e liscia”. Emergono via via i simboli della costanza (“marmoreo pavimento”) e della saggezza druidica, rappresentata dal colore verde. Infine si canta la porta di bronzo, evocante il periodo matriarcale che solo l’Amor può schiudere. Di là da quella porta, vi sono due sigilli: l’uno di cedro che vuol dire saggezza, l’altro d’avorio che indica “la purezza e castità”[52]. E la castità ingenera bontà, umiltà, educazione ed il vero amore “per noi martiri d’amore”[53]. Insomma, Gottfried vede, nella sessualità, non solo una potenza cieca e tirannica ma – ad un tempo – “una forza divinizzante che pone cioè l’uomo contro Dio, non appena ci si risolve a cederle”[54]. Cosicché, nel suo poema, l’idea fondamentale è inizialmente manichea, eppoi androgina: se la legge della vita è l’eros, il superamento di tale stadio consiste nella morte risanatrice che elimina la dualità, ricostituendo l’Universo ed il Tutto-Uno. “Amare con pura passione anche senza contatto fisico (la spada che divide i corpi [di Tristano e Isolda], e le separazioni), ecco la virtù suprema e la vera via divinizzante”[55].
Forse per simili contenuti eretici ed anticattolici, Gottfried stesso dovette subire le persecuzioni delle autorità religiose, e chissà che proprio per le sue idee eterodosse sulla Discendenza Graalica non fosse ucciso, mentre la sua esistenza è tutt’avvolta nel mistero. I primi processi ad eretici, svoltisi a Strasburgo, risalgono al 1212, anno presunto in cui morì il nostro autore.
Ancora sui simboli più specifici del Catarismo, della castità e morte, così suonano le parole del trovatore Aimeric de Belenoi:
“Più mi è gradito dunque morire
che gioire di gioia volgare
perché la gioia che volgarmente sazia
non ha potere né diritto di piacermi tanto”[56].
Jaufré Rudel è molto esplicito, riguardo alla sua Donna e Sophia, in quanto amica del suo spirito. Ella appare nella Notte indistinta della Creazione Primeva, svanendo col sopraggiungere dell’Alba:
“Tutto ciò che il fratello [il corpo] mi rifiuta, sento che la sorella [l’anima] me l’offre”[57].
Sulla stessa lunghezza d’onda, Rambaut d’Orange, accentua il significato spirituale del “suo” Amor, nonché la segretezza e la fede che l’animano:
“Non mi voglio crucciare per le donne più che se fossero tutte mie sorelle. (…) Nulla io amo, tranne quest’anello che mi è caro, perché è stato al dito… Ma troppo mi avventuro: taci, lingua! Poiché il parlar troppo è peggio che peccato mortale”[58].
La propensione verso lo Spirito di Luce e verso la Gnosi è poi confermata nella lirica di Peire de Rogiers:
“Né mai mi è dato intravedere la promessa
di gioia, dolcezza o bene:
se pure cento gioie conquistassi con la mia prodezza
non ne farei nulla, perché non so volere che lei”[59].
E, per strano che possa sembrare, siffatti rimandi simbolici avevano degli antecedenti più specifici: il misticismo arabo e lo Zadjal islamico. Non dimentichiamo che l’Occitania ha sempre avuto, al suo interno, nuclei molto attivi di cultura araba da Narbona all’Andalusia. Nondimeno si abbia presente che, al contrario delle derivazioni correnti del termine Trovatore, esso ha la radice più specifica araba in Ta ra B = musica e canto e ador = farcitore. Il vero significato è, pertanto, “autore di musica o di canzoni” o, più semplicemente, “cantautore” (Ta Ra B-ador), così come puntualizza Philip K. Hitti nel suo testo History of the Arabs[60]. Alcuni fatti storici confermerebbero tali affinità elettive, oltre alle analogie formali e contenutistiche fra la lirica araba e trobadorica.
Fondamentale è la riconquista di Toledo da parte del re cristiano Alfonso VI di Castiglia e di León nel 1085; il che ristabilì quel florido e creativo scambio d’idee fra Oriente ed Occidente. Si approdò in tal maniera ad una sintesi vitale di Zoroastrismo e Manicheismo, Islamismo e misticismo orientale, oltreché di neoplatonismo. Correnti spirituali e culturali del genere si omogeneizzarono e si estesero da Baghdad all’Andalusia e fino alla Linguadoca o antica Septimania. Ed è molto probabile – afferma Joseph Campbell – che “un flusso di idee si sia mosso dalla Spagna moresca verso il nord, e in particolare, attraverso il mare, abbia raggiunto l’Irlanda celtica, il Galles, la Cornovaglia e la Bretagna (le terre del romanzo di Tristano e Isotta), dove un’epoca d’oro di poesia e di sapienza cristiana e pagana amalgamate risplendeva con una strana luce proprio nell’oscura notte del primo Medio Evo cristiano”[61].
[1] Da Libro: Richard Wagner – “Tristan und Isolde” Storia Mito Leggenda Simbolismo harmonicale. In preparazione presso la Carisch-Warner Bros, sito internet http://www.carisch.com; E-Mail: info@carisch.it
Chiunque sia interessato ad aprire un dibattito sullo spinoso problema, proposto nel presente articolo e sull’opera wagneriana (dal cui studio è scaturita la ricerca collaterale qui presentata), potrà prendere contatto con l’autore al 347/6704846; oppure all’E-Mail: aldibe@jumpy.it
Due altri articoli su Richard Wagner, che fece un pellegrinaggio a Rennes Le Château e da lì al castello di Montségur, sono già apparsi nella presente rivista. Nel 2000: “Tristano e Isolda gli eroi dell’isola di Man”, Oggi e Domani 3-4, 7-10. Nel 2001: “Wagner Nazista? A chi giova?”, Oggi e Domani 11, 7-18.
[2] Fatto costruire dal re dei Visigoti Alarico (370-410), era ormai in rovina, quando i Catari decisero di restaurarlo nel 1204, per opera dell’architetto Arnaud de Baccalaria, in seguito alla richiesta di tre Perfetti: Raymond Blasco, Raimond de Belissen ed Esclarmonde de Foix, la proprietaria.
[3] Ordine religioso-militare fondato nel 1119 dal francese Hugo de Payns. Si chiamarono Templari, poiché il primo nucleo si stanziò nelle scuderie del Tempio di Salomone, col preciso intento di cercarvi una sacra reliquia. La loro Regola, dopo il riconoscimento ufficiale nel 1128 da parte di Bernardo di Chiaravalle, imponeva – fra i 72 articoli – i voti di povertà, modestia, castità, rifiuto della mondanità, ubbidienza e difesa armata dei pellegrini. Essi divennero, ben presto, una potenza economica e militare. Il Tesoro Vero dei Templari, però, rimase sempre la loro libertà di pensiero, un bene d’inestimabile valore, specialmente durante il Medioevo. Le conoscenze dell’arabo e dei testi greci, egizi, apocrifi ed eretici, dei libri di fisica, matematica, astronomia, scienza delle costruzioni, geometria, musica e medicina fecero sì che essi apprendessero i massimi segreti delle civiltà arcaiche e classiche, segreti che senza la loro intermediazione sarebbero finiti nell’eterno oblio.
[4] Cfr.: M. Baigent – R. Leigh – H. Lincoln, Il santo Graal, una catena di misteri lunga duemila anni, trad. it. R. Rambelli, Mondadori, Milano, 1999, 415-6.
[5] La linea di sangue del Santo Graal, trad. it. M. E. Morin, Roma, Newton Compton, 1997, op. cit., 114.
“Le donne dell’Ordine di Dan erano nazaree laiche. Maria Maddalena, come ‘Miriam’, era una superiora dell’ordine (equivalente a un vescovo anziano) e aveva il diritto di vestire di nero, come i nazarei e i sacerdoti di Iside. È anche accertato che in parallelo con l’antica venerazione per Maria Maddalena, un culto noto come quello della ‘Madonna nera’ scaturì a Ferrières nel 44 d. C. (…)
La Madonna nera ha la sua tradizione nella regina Iside e le sue radici nella Lilith pre-patriarcale. Rappresenta quindi la forza e la parità della donna: una figura fiera, schietta e maestosa (…)”. (Idem, 118-9). Simili concetti emergono – a chiare lettere – nella cultura occitanica, catara e albigese, come vedremo più avanti.
[6] Fu così denominata un’altra corrente del Cristianesimo primitivo che approdò ad interpretazioni delle sacre scritture, differenti da quelle fornite dalla Chiesa di Roma. Il termine deriva dal prete che le professava, Ario (256-336), originario della città egizia di Baucali. Austero asceta, vestito solo di una tunica, egli stupì il vescovo di Alessandria, con alcune idee sulla natura del Cristo: se Gesù fu creato dal Padre, ciò avvenne nel tempo, perciocché non poteva essere a Lui coeterno. Egli è dunque il Logos, da cui deriva lo Spirito Santo, che scaturisce, a sua volta, da una sostanza meno divina. Il processo emanativo da cui Esso discendeva è, infatti, di secondo grado. Risuonano così, nell’Arianesimo, elementi desunti dal pensiero neoplatonico della Divinità Primaria, immacolata ed inaccessibile, dalla quale derivarono gli altri Principii, i quali – però – non possono essere a Lei consustanziali (della stessa sostanza del Padre-Madre).
La dottrina ariana risaliva, in tal modo, alle antiche tesi dello Gnosticismo alessandrino di Basilide e Valentino, tesi filtrate dagli stoici Filone, Plotino ed Origene. La risposta del potere costituito, capeggiato da Costantino il Grande, il quale aveva già programmato l’impiego della religione di stato (Chiesanesimo) per prolungare la vita ad un impero che scricchiolava dappertutto, fu il concilio di Nicea nel 325, che decretò la scomunica di Ario e dei suoi seguaci. Ancora una volta, l’individualismo e la ragione dovettero sottomettersi al “mistero dell’unità trinitaria”. Si decretò che tutti i libri di Ario fossero bruciati e che ai possessori di quei testi si comminasse la pena capitale. Ciononostante l’Arianesimo ebbe molta popolarità, dapprima nelle chiese orientali e, in seguito, nei domini romano-barbarici dei popoli germanici e franchi. Presso costoro, ad ogni modo, sopravvisse il Paganesimo con le sue superstizioni, secondo le quali la natura era governata da forze demoniache. L’Arianesimo si diffuse a tal punto nel nord Europa, a partire dall’XI secolo, da mettere in pericolo la sopravvivenza del Cattolicesimo. Il quadro della situazione politico-religiosa di quell’epoca buia (resa tale dall’ignoranza storica causata dai roghi dell’Inquisizione) diviene allora meno frammentario, tanto da farci intuire le motivazioni della Crociata contro il Graal!
[7] La tolleranza divenne l’etica dei “Cavalieri di Cristo”, tanto che a Gerusalemme, durante l’occupazione cristiana, vi erano Moschee nelle quali i Musulmani potevano andare a pregare. Stessa comprensione si riscontrò poi, dall’altra parte. Per questi accordi pacifici il papato, in combutta con il re di Francia Filippo IV (il Bello), reagì con scomuniche e con il tradimento finale nei confronti dei Templari. Era venerdì 13 ottobre del 1307. Molti Cavalieri di Cristo, che sperarono invano nell’intercessione del Papa, furono arrestati e poi bruciati vivi. Il potere adotta sempre la stessa tattica: screditare l’avversario, prima di colpirlo a morte!
Adorano un idolo di nome Baphomet. Così affermarono gl’Inquisitori. È forse una testa o una coppa? Il Graal? È Satana! Nient’affatto, era solo l’amore fraterno fra i popoli di ogni cultura e di ogni religione!
[8] Cfr.: M. Baigent – R. Leigh – H. Lincoln, Il santo Graal, op. cit., 97-8.
[9] L. Gardner, Il Regno del Signore degli Anelli, trad. it. F. Ossola, Roma, Newton & Compton Editori, 2001, 22-3.
[10] È l’Imperatore Costantino il Grande, nella “sua” tanto amorevole Donazione, che scrive, resuscitato dopo ben quattro secoli, grazie alle superstiziose pratiche da negromanti, messe sempre in atto presso il soglio di Pietro: “(…) Per il tramite di un nostro imperiale decreto, abbiamo loro [ai Papi] concesso possedimenti di terra a oriente come a occidente, sulla costa a nord come a sud, per meglio dire in giudea, Grecia, Asia, Tracia, Africa e Italia e nelle diverse isole, proprietà che saranno tutte bene amministrate dal nostro benedetto padre il pontefice Silvestro e, quando sarà il momento, dai suoi successori”. Cit. in: L. Gardner, Il Regno del Signore degli Anelli, op. cit., 267.
[11] Ancora nella Donazione si legge: “Stabiliamo, poi, che al pari del corpo militare anche il clero della santa Chiesa di Roma sia adornato e distinto in gradi; allo stesso modo in cui accade per il potere imperiale che è distinto per gli uffici (…) come dovrà essere per gli uomini della Chiesa”. (Idem, 268).
[12] Come i Catari, Arnaldo predicava l’ascetismo, la povertà evangelica, denunciando la mondanità ed il concubinaggio dei sacerdoti, il potere politico dei vescovi ed il clero simoniaco, ossia tutta quell’attività commerciale che ruotava intorno alla vendita delle immagini sacre, dei sacramenti e dei gradi ecclesiastici. La punizione non si fece attendere, poiché il perdono non è mai stato di casa tra i vescovi romani, ai quali Arnaldo ricordava alcuni principii morali, che perfino la gente comune doveva rispettare. Purtroppo, però, il messaggio arnaldiano era diretto ad un gruppo di potere che aveva fatto della religione un mero scudo per la sua impunità civica, politica e morale. Nient’altro. La pecora fu così sbranata dai lupi. Bontà loro, il povero Arnaldo fu bruciato, solo dopo essere stato impiccato, e le ceneri disperse nel Tevere (1155), affinché i suoi discepoli non avessero reliquie da adorare.
[13] L’azione concussiva (direbbero oggi i giudici) da parte del papa Silvestro II arrivò subito a concordare con Cusano il pieno appoggio alla causa papale, in cambio di un cardinalato che il teologo e filosofo ottenne nel 1448.
[14] L’eminente linguista Valla era stato incaricato dal papa Niccolò V di tradurre in latino le opere di Erodoto e di Tucidide. Imbattutosi però nell’analisi della Vulgata (ossia l’edizione “comune” della Bibbia di Gerolamo, poi divenuta quella ufficiale dei Cattolici), lo studioso ne denunciò gli errori, chiaramente voluti dai vescovi romani, che – in quel modo – manipolavano le parole di Cristo e del Testo Sacro, rendendole più consone al potere temporale dei papi. Comprese così che pure la famigerata Donazione non potesse essere stata redatta nel IV secolo: “Sono certo che era da tempo che gli uomini onesti aspettavano di udire le accuse che ora io muovo alla Chiesa Romana e ai pontefici. E assicuro che si tratta di un’offesa davvero tremenda”. (Cit. in: Idem, 31).
[15] Idem, 269.
[16] Nel capoluogo lombardo, si chiamavano Patarini o Patari, forse dal dialetto milanese pattée, ossia straccioni! Sorto nell’XI secolo, per combattere la corruzione e la ricchezza smodata del clero, il movimento dei Patari sopravvisse fino al 1300 inoltrato.
[17] Il Bogomilismo postulava un dualismo cosmico. Due erano i figli di Dio: Satanael, il dominatore del mondo materiale e Gesù, inviato per combattere il male. Il bisogno d’escludere ogni contaminatio materica fece negare – ai Bogomili – l’incarnazione di Cristo, sì come affermavano i Pauliciani. Egli rimase, pertanto, puro spirito. Inevitabile pure – da parte dei Bogomili – la negazione delle chiese, storicizzate e fisicizzate, dominate, perciò, da Satanael. I fedeli recitavano solo il Pater, e si dividevano in “perfetti” e “credenti”. L’influenza bogomila arrivò in Linguadoca, dopo la diffusione in Slavonia, Asia Minore, Russia e paesi slavi (Bulgaria, Bosnia, Erzegovina).
[18] In questa preghiera catara, al posto di panem quotidianum (il pane materiale, prodotto del demonio), si recitavano le parole panem supersubstantialem, il pane spirituale e metafisico, del quale l’uomo ha bisogno per liberarsi dalla prigione del corpo.
[19] Archeologo e studioso tedesco che giunse nella regione di Ornolac nel 1932 e che – per sei anni, fino al 1938 – visitò, a più riprese, la zona di Rennes Le Château, del Razès e di Montségur. Raccolse così le notizie sugli Occitani e sui Catari, perfino dalla viva voce degli abitanti del luogo ed investigando in lungo ed in largo i siti più inaccessibili frequentati dagli eretici. Scomparve misteriosamente nelle Alpi svizzere. Era il 1939, quando si accingeva a dare alle stampe il suo terzo volume sul Graal. Oltre a Kreuzzug Gegen den Gral, l’autore pubblicò – poco dopo – Luzifers Hofgesinde (La Corte di Lucifero, ed. Barbarossa).
[20] Titolo per esteso: Interrogatio Iohannis apostoli et evangelistae in cena secreta regni coelorum de ordinatione mundi istius et de principe et de Adam. In: M. Craveri (a cura di), I Vangeli apocrifi, Torino, Einaudi, 1990, 570.
[21] Era l’iniziazione spirituale catara o Battesimo dello Spirito. La parola deriva da cum solus e significa rendere intero, ristabilire l’androginia originaria, l’unione eterna di Femmina e Maschio e l’eliminazione, pertanto, d’ogni polarità nell’Universo Tutto.
[22] Il dieci per cento del ricavato “dei campi” andava obbligatoriamente “donato” alle chiese ed alle basiliche.
[23] S. Weil, I Catari e la civiltà mediterranea, trad. it. G. Gaeta, Marietti, Genova, 1997, 21-3.
[24] La famosa “Canzone della Crociata” così recita: “E chi non si farà crociato, non berrà più vino, / né mangerà a tavola su una tovaglia, di sera o di mattina, / né vestirà mai tela di canapa o lino, / né, se mai muore, verrà seppellito meglio di un cane”. Da: R. Nelli, F. Niel, J. Duvernoy e D. Roché, Les Cathares, trad. it. G. Gonnet, Paris, s. d., 28-35. Cit. in: AA. VV., G. Gonnet (a cura di), Le eresie e i movimenti popolari nel Basso Medioevo, Messina-Firenze, G. D’Anna, 1976, 181.
[25] Società Editrice Barbarossa, Milano, 1991, 157.
[26] Cit. in: O. Rahn, Crociata contro il Graal, op. cit., 158.
[27] Devic-Vaissète, Histoire générale du Languedoc. Cit. da, F. Niel, “Le sac de Béziers”, in: Le Cathares, op. cit. Cit. in: AA. VV., G. Gonnet (a cura di), Le eresie e i movimenti popolari nel Basso Medioevo, op. cit., 184.
[28] Denominato anche G. de Tudela, chierico spagnolo, nettamente favorevole ai crociati.
[29] V.: O. Rahn, Crociata contro il Graal, op. cit., 158.
[30] Idem, 170-1.
[31] Un tipo di tortura molto in voga, contro gli eretici, consisteva nel bruciare lentamente la vittima, arto dopo arto, dopo averla cosparsa di grasso!
[32] Apocalisse di San Giovanni (XVII, 3 seg., 18). Cit. in: O. Rahn, Crociata contro il Graal, op. cit., 190.
[33] Essi erano gli ultimi discendenti dei Druidi Celtiberi: Peytavi, Raimon du Mas, Raimon Mercier e Pierre Sabartier, rimasti fino a quel momento nascosti sotto la cisterna dell’acqua, cisterna ubicata nella parte bassa del castello.
[34] Maria di Champagne, con mentalità celtico-matriarcale, scrive, in maniera lapidaria, frasi storiche contro l’istituzione matrimoniale, che nel secolo decimosecondo serviva ai re per impossessarsi di nuove terre e castelli. Difatti, nell’Île de France, il popolo carolingio aveva imposto la successione feudale solo al primogenito maschio, al contrario che nell’Occitania, ove anche le donne ereditavano, come nell’antico costume pitto, irlandese e celtico.
Si chiamò Legge salica quella dei Germani e dei Franchi, legge che escludeva la donna dalla successione ereditaria e dalla successione al trono. Perciò l’affermazione di Maria suona: “Gli amanti si concedono ogni cosa reciprocamente e gratuitamente, senza alcuna obbligazione di necessità, mentre gli sposi son tenuti per dovere ad assoggettarsi reciprocamente alla volontà dell’altro. (…) Stesa nell’anno 1174, il terzo giorno dopo le calende di maggio, VII riunione”. (V.: D. de Rougemont, L’amore e l’occidente, trad. it. L. Santucci, Milano, Rizzoli, 1996, 387).
[35] Cfr.: O. Rahn, Crociata contro il Graal, op. cit., 16.
[36] Per quanto attiene agl’intrecci fra lirica trobadorica ed eresia, si ricorda che Peire Vidal (1160 ?-1205) visse dapprima alla corte di Raimondo V di Tolosa, poi di Alfonso II d’Aragona, quindi a Marsiglia, presso il visconte Raimon Barral e fu pure al servizio di Alfonso VIII di Castiglia.
[37] D. de Rougemont, L’amore e l’occidente, op. cit., 129.
[38] Aíresis (eresia). Esso indica il procedimento mentale, secondo il quale si ha inclinazione o si sceglie un insieme d’idee corrispondenti alla propria spiritualità, nonché ai propri convincimenti.
[39] Il lupo è nella coscienza collettiva l’animale notturno per eccellenza. Tale nome simbolico, come pure quello d’Esclarmond (Is-Kla-Mun = Luna di Cristallo), rimanda al Regno della Dea Notturna, alle maree come ai cicli mestruali. È il mondo dei sentimenti che, dimentico dell’apparenza del Giorno freddo e razionale, si richiama alla conoscenza segreta della discendenza matrilineare delle Donne Dragone del Graal, portatrici del Seme Divino. Nell’antico Egitto, la città di Licopolis (il cui animale totemico era proprio il Lupo, da cui licantropia) era il centro della sapienza esoterica e della predizione del futuro. Perciò i Cattolici affibbiarono a tale animale simbolico un senso negativo e s’inventarono di sana pianta la figura terrificante del lupo mannaro, dal quale bisogna stare ben lontani, giacché “il tempo che verrà” deve essere solo nella mente del loro dio. E dai Licantropi, come dai Vampiri e dalle Streghe può liberarci solo la Chiesa. Così, il gioco era fatto. La paura genera cieca obbedienza! La paura genera ignoranza e cecità, egoismo e tristezza, aggressività e noia!
[40] Cfr.: O. Rahn, Crociata contro il Graal, op. cit., 114-6.
[41] Cit. in: D. de Rougemont, L’amore e l’occidente, op. cit., 128.
[42] Canonizzato dalla Chiesa di Roma. Non dimentichiamo che fu uno dei maggiori assertori dei roghi per dirimere la questione degli eretici. Fu lui il principale fautore dell’Inquisizione, il capo ideologico dell’assiduità dello sterminio (“Che le sciagure della guerra riportino i perversi alla verità”). È come se – ed il paragone non suoni forte – i comunisti odierni decidessero di consacrare Milosevic oppure addirittura Stalin, il quale ha fatto assassinare quaranta milioni di compagni in Russia. È elementare quindi intuire che, dietro la maggior parte delle beatificazioni, avvenute durante i Secoli Bui, ci sia la volontà ideologica di nascondere i misfatti più turpi, su cui la “Santità” impedisce d’investigare. Insomma, questo riconoscimento chiesastico appare come una sorta di Top-Secret sulle stragi, che i servizi segreti odierni appongono per proibire le indagini, in modo tale che non s’arrivi mai alla verità ed alla condanna dei responsabili!
[43] AA. VV., Cesare Ambesi (a cura di), Europa Misteriosa, trad. it. J. B. Giampietro e M. Silvani, Milano, Reader’s Digest, 1983, 76-7. Cfr. anche: D. de Rougemont, L’amore e l’occidente, op. cit., 130. Oppure: O. Rahn, Crociata contro il Graal, op. cit., 15-6.
[44] I termini vero e puro, specialmente davanti a Chiesa, Luce e Fede, acquisiscono dei connotati catari.
[45] AA. VV., Europa Misteriosa, op. cit., 77.
[46] I Gran Maestri Templari sostennero il sincretismo religioso. Si riunivano così nella loro coscienza, in un abbraccio fraterno ed illuminante, le concezioni gnostiche della Santa Sophia (parte femminile della divinità), riscontrabile anche nella Cabala ebraica (Shekinah), nel Sufismo islamico (Sakina) ed in alcune interpretazioni del Graal (amoroso grembo materno e discendenza messianica dalle Donne Dragone).
[47] D. de Rougemont, L’amore e l’occidente, op. cit., 130.
[48] Nei culti solari di Mitra, diretti antagonisti pagani del Cristianesimo, almeno fino a Teodosio (IV sec. d. C.), riportando in merito le considerazioni di Joseph Campbell: “I riti venivano di solito celebrati in una grotta, che rappresentava la caverna del mondo, in cui veniva illustrato l’antico tema mitologico dell’unità di macrocosmo (l’universo), mesocosmo (la liturgia) e microcosmo (l’anima). E riflettendo sulla dottrina dell’immanenza di Dio, l’adepto veniva condotto per gradi ad un’esperienza finale della trascendenza del proprio essere”. In: Mitologia occidentale, trad. it. C Lamparelli, Milano, Mondadori, 295.
[49] Gottfried von Straßburg, Tristano, L. Mancinelli (a cura di), Torino, Einaudi, 1994, 420-1, vv. 16707-16731.
[50] Idem, 423-4, vv. 16828-34.
[51] Idem, 426, vv. 16924-6.
[52] Idem, 429, vv. 17030.
[53] Idem, 430, v. 17089.
[54] D. de Rougemont, L’amore e l’occidente, op. cit., 183.
[55] Idem, 186.
[56] Cit. in: Idem, 132.
[57] Cit. in: Idem, 144.
[58] Cit. in: Idem, 145.
[59] Cit. in: Idem, 135.
[60] Pubblicato a New York nel 1951. Il riferimento è a p. 562.
[61] J. Campbell, Mitologia creativa, vol. I, trad. it. C. Lamparelli, Milano, Mondadori, 1996, 84.
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