http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/05-Ottobre-2006/art7.html
Mario Alighiero Manacorda
Filippo Gentiloni mi ha dato qualche dispiacere, nel suo articolo del 4 luglio, E’ sempre più flebile la voce del Vaticano (in fondo vi sono articoli di Gentiloni sull’argomento), con le sue tesi su Leone XIII (1878-1903), cui anche egli fa risalire la famosa dottrina sociale della Chiesa che, scrive, oggi è ridotta «alle questioni morali sulla procreazione e poco più». L’enciclica Rerum novarum (1891), avrebbe rappresentato «una mediazione fra il capitalismo che in nome della libertà rischiava di minacciare i poveri, e il socialismo che in nome dei poveri rischiava di minacciare la libertà».
Non credo che allora il socialismo fosse visto come una minaccia alla libertà, era visto come minaccia alla ricchezza: il socialismo europeo era piuttosto anarchico che marxista, e Labriola scriveva i suoi saggi con accenti estremamente liberali.
Anch’io riconosco la novità di quella enciclica rispetto al Sillabo del 1864 di Pio IX, secondo il quale la Chiesa non sarebbe mai venuta a patti con la società moderna, la democrazia e il socialismo, Leone XIII apre alla borghesia liberale. Ma in funzione antisocialista, ammonendola a tenersi buoni gli operai dando loro la giusta mercede. (E quale sarà la mercede giusta?) Tutta qui la sua dottrina sociale.
E’ settaria questa mia interpretazione? Consideriamo il contesto. Due anni prima, il 14 luglio 1889 era stata fondata a Parigi la Seconda Internazionale. Leone XIII, che già nell’enciclica Libertas (1888) aveva denunciato ogni rivendicazione popolare come violenza della «torbida plebe, anelante di lanciarsi sui palazzi dei più doviziosi», nel 1891 ribadisce l’attacco contro i «sediziosi», anarchici e socialisti, che sobillano la classe operaia, e invoca: «Intervenga lo Stato!». E lo Stato intervenne in tutto il decennio successivo, reprimendo con l’esercito nel 1893 i fasci siciliani e i moti anarchici dell’Apuania, nel 1896 le manifestazioni contro la guerra in Eritrea, e nel 1898, i moti per fame dilagati dalla Puglia a Milano. Quella repressione (centocinquanta morti solo a Milano, pochi meno di quanti ne aveva fatti Radetzki cinquant’anni prima) fu premiata dal «re buono» Umberto I con la medaglia d’oro al generale Bava Beccaris. Seguirono le repressioni giudiziarie contro i socialisti e il primo barlume di una «democrazia cristiana» auspicata da Romolo Murri. A Leone XIII non dispiacquero.
Che ciò portasse poi all’uccisione del «re buono» a opera di Gaetano Bresci, prova il peso della repressione e l’immaturità storica dei ceti oppressi. Ma pochi conoscono la reazione al regicidio di un esimio prelato piemontese, succeduto al vescovo Franzoni nella cattedra soppressa negli anni ’50 da Rattazzi e Cavour e poi opportunamente ricostituita. Costui (per la cronaca, si chiamava Emiliano Manacorda), espresse la sua deplorazione scagliandosi anche contro la scuola di stato, dalla quale uscivano rivoluzionari e regicidi che non sarebbero mai usciti dalla scuola ecclesiastica. Dimenticava che dalla scuola ecclesiastica erano usciti i Mazzini, i Garibaldi, i Felice Orsini, i Ciro Menotti, i Tito Speri. E suggeriva l’alleanza tra borghesia liberale e Chiesa cattolica che si sarebbe conclusa undici anni dopo nel cosiddetto Patto Gentiloni. (Caro Filippo, stiamo parlando di nostri antenati). Nei venti anni che vanno dalla Rerum Novarum al Patto Gentiloni corre un filo che tesse ancora la storia nostra: per questo è importante non equivocare su certe vicende. L’intervento antisocialista a favore della borghesia è a parer mio una costante della Chiesa fino ad oggi. Per questo la Rerum novarum è piaciuta ai successori di Leone XIII, Pio XI che l’ha celebrata nella Quadragesimo anno e Giovanni Paolo II, che l’ha celebrata nella Centesimus annus.
Come definirla di alto livello, perfezionata da papa Wojtyla nella Laborem exercenses? Lascio da parte l’azione politica di quel papa nella sua patria, di cui oggi si vedono i risultati. La Centesimus annus elogiava la Rerum novarum come difesa dei lavoratori. Quella lettura, smaccata falsificazione storica, parve ai più veritiera e mirabile. Ma la Chiesa non ha nessuna comprensione dei rapporti sociali e non suggerisce nulla per mutarli. La Rerum novarum ammetteva la costituzione di sindacati, nei quali però fossero rappresentati insieme operai e padroni. Era un’idea medieval-cattolica che, ignara degli sviluppi del capitalismo industriale, pensava alle corporazioni artigianali del medioevo. Il suggerimento leonino fu poi teorizzato dall’economista cattolico Giuseppe Toniolo, dichiarato venerabile (se non sbaglio da Pio XI) e nel 1926 Bottai, ministro delle Corporazioni, la tradusse nella Carta del lavoro, creando le corporazioni fasciste. E’ vero che nella enciclica c’è una riga in cui si concede la costituzione di sindacati di soli operai. Ma come avevo visto alcuni decenni fa, è un’aggiunta inserita all’ultimo momento, forse per iniziativa di qualche prelato un po’ più illuminato, come ha confermato l’analisi, condotta in Vaticano, delle scritture originali del testo. In quell’anno erano sorte in Italia le prime Camere del lavoro a Milano, Torino e Piacenza, in qualche modo bisognava pur prendere atto della realtà. Basta per parlare di una dottrina sociale? Insomma, mi sembra che la Chiesa non abbia mai accolto una sia pur minima rivendicazione del socialismo. Del resto, che altro ci si può aspettare da una Chiesa costituita non come «assemblea» dei fedeli, ma come separazione del clero dalla massa? Può rappresentare le esigenze popolari? Il popolo cristiano deve rappresentarsi da sé. A meno che non si prenda sul serio l’invito a non eccedere nel lavoro, fatto proprio da papa Ratzinger sulla base delle parole di S. Bernardo che aveva davanti a sé aspetti del lavoro lontanissimi dai nostri. Con chi ce l’ha Benedetto XVI? Col lavoratore costretto a un doppio lavoro per sopperire ai più elementari bisogni o col capitalista che gli impone un lavoro stressante e mal remunerato?
Mario Alighiero Manacorda
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Risponde Filippo Gentiloni
Mario Alighiero Manacorda ha letto con grande attenzione quello che avevo scritto su queste pagine parecchio tempo fa (4 agosto:«E’sempre più flebile la voce del Vaticano»). Con attenzione e, aggiungerei, affetto e spirito correttamente critico. Lo ringrazio. Anche perché non mi capita spesso di essere criticato perché troppo favorevole alle posizioni vaticane: una eccezione, questa di Manacorda, particolarmente gradita. Nella prima parte della riflessione scrivevo che il Vaticano aveva trovato verso la fine dell’Ottocento, una voce un po’ nuova, quella della famosa dottrina sociale della chiesa (svariate encicliche, dopo la prima, la «Rerum novarum» di Leone XIII). Una voce che pian piano si era affievolita, soprattutto per la dominante paura del comunismo.
Manacorda critica la prima parte della mia riflessione, che – dice – potrebbe dare l’idea che la dottrina sociale della chiesa fosse stata vicina al socialismo. Vicina, incline, favorevole. Si potrebbe pensare – dice – a una specie di «svolta» a sinistra del magistero. Così non fu. Tutt’altro. Si è trattato, invece, di una mossa abile per rafforzare la borghesia che il socialismo – poi il comunismo – minacciavano.
Una analisi interessante ben motivata – aggiungo – condivisa da molti. Confermata dagli sviluppi anche recenti della dottrina «sociale»: penso alla teologia postconciliare della liberazione, che i palazzi vaticani hanno duramente contestato.
Comunque vorrei precisare che intendevo sottolineare la novità della posizione del Vaticano, non una eventuale svolta a sinistra. Dottrina sociale, non socialista. Per la prima volta l’attenzione vaticana si rivolge non ai dogmi o alle questioni decisamente religiose, ma alle questioni riguardanti la vita della gente: famiglia, occupazione, salari, lavoro e simili. Una – relativa – novità. Che, comunque, non comporta un giudizio positivo sulle posizioni attribuibili, più o meno direttamente, al socialismo che per il Vaticano rimane il grande avversario.
Ha ragione Manacorda. La borghesia domina la situazione; domina anche le stanze vaticane. Le quali pensano e sperano che la borghesia possa salvare la fede. Il Vaticano scende su un terreno che prima non gli era proprio ma non cambia posizioni e alleati.
Lo conferma, qualche decennio dopo la prima enciclica, il «patto Gentiloni» (il quale non era, però, un mio antenato ma un lontano parente dei miei antenati).
Comunque le osservazioni di Manacorda valgono ancora: il Vaticano sempre più strettamente vicino ai ricchi e potenti del mondo. Le voci che contestano il dominio di Bush e dei suoi non mancano, ma rimangono deboli, spesso ambigue, sempre flebili. Confermerei, comunque, quello che scrivevo un mese fa: il grido della beatitudine dei poveri non è più, come allora, legato all’ateismo. Forse la chiesa domani potrà accoglierlo e farlo suo. Oggi non ancora.
Filippo Gentiloni
Ma il Vangelo non è solo amore. Rossana, sei diventata buonista?
Mario Alighiero Manacorda
Un dispiacere mi è venuto anche da Rossana Rossanda, che recensendo il libro della Fumagalli, Cristiani in armi (il manifesto 30 giugno, recensione riportata in fondo), commenta che all’immagine di un Dio terribile il cristianesimo ha aggiunto quella di un Dio amoroso, anzi «nei Vangeli non c’è che questo. Più che un paio di frustate Gesù non somministra ai mercanti nel tempio, invita l’offeso a porgere l’altra guancia e a non ferire di spada, conversa con gli infedeli». Non credo. Nei Vangeli c’è anche il contrario. Ad esempio, soprattutto in Matteo il buon Gesù manda all’inferno quanti non gli piacciono (spesso con buone ragioni). Per almeno sette volte invoca per loro la «geenna, dove è pianto e stridore
di denti», che è un invocare dal Padre la vendetta che Rossana non vede. Ci manda città intere: oltre Sidone e Tiro, anche Corizim, Betsaida, Cafarnao, che non si sono convertite (Mt. 11,20-25; e Luca 10,15); i seminatori di zizzania (Mt.13,42-50; e Lc. 13, 27): «Allontanatevi da me, voi tutti operatori di iniquità! Là ci sarà pianto e stridore di denti»; i cattivi che gli angeli separeranno dai buoni (13,50); il commensale alle nozze che si presenta senza abito nuziale (22-13) e il servo fannullone (25-14); un altro servo che scandalizza i piccoli: «Sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino e fosse gettato negli abissi » (18,69). Non c’è male, per un dio amoroso. Quanto al conversare con gli infedeli si pensi allo scambio di cortesie tra lui e i giudei: «Sei figlio del demonio… Siete figli del demonio». Contro i farisei scaglia sette maledizioni: «Guai a voi… Guai a voi…!» (Mt. 13-30: e Lc. 11,39.48). «Ogni pianta che non è stata piantata dal mio Padre celeste, sarà sradicata. Lasciateli! Sono ciechi e guide di ciechi! E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso» (Mt.15,14 e 23,15-24, e Gv. 9,38,41). Che piacevole conversare! E quanto al porgere l’altra guancia, dichiara: «Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No,
vi dico, ma la divisione» (Mt. 12,51). Neanche le folle che lo seguivano erano tanto pacifiche, né accolte pacificamente dagli altri ebrei: Gesù è minacciato di lapidazione, e il suo assalto ai mercanti nel tempio ricorda un po’ le spese proletarie per non dire peggio. Nell’orto del Getsemani Gesù invita i suoi: «Chi non ha una spada, venda il suo mantello e ne compri una» (Mt. 10,34.22,36); e si prepara a una zuffa armata. Ci sarà stata? Era cosa comune a tutti ipopoli. Svetonio, che si giovava degli archivi di stato, racconta che i romani dovettero espellere da Roma gli ebrei perché, «sobillati da Cristo, si azzuffavano continuamente» (Judaeos impulsore Chresto adsidue tumultuantes, Roma expulit). E come altrimenti leggere molti discorsi di Paolo e l’episodio di Stefano protomartire? Insomma, Gesù era un profeta ebraico, un mistico sanguigno, pronto all’odio e all’amore, non un buonista. Rossana non mi convince neanche quando scrive che Costantino sogna, vince e «dichiara il cristianesimo religione di stato». No:Costantino non sogna un bel niente, e con l’editto del 312 consente a tutti i sudditi, cristiani e pagani, di venerare il dio che vogliano; e lo ripete
due volte, parlando di «libertà delle menti», formula liberale, in quanto politeistica e pagana. Sarà settant’anni dopo l’imperatore cristiano Teodosio che imporrà «alle menti» dei sudditi di venerare la Santissima Trinità insegnata dagli
apostoli Pietro e Paolo. I quali, sulla Trinità, non avevano insegnato niente.
E poi, sempre Rossana: «Nella predicazione cristiana… è fondativo l’amore per l’altro e la guerra non era neppure contemplata». Be’, c’è l’amore per l’altro (ma un solo Vangelo dice di amare i nemici) ma c’è l’ossessione di guerra in Paolo, Ambrogio, Agostino (uomo davvero di guerra e in quanto tale uno dei maggiori padri della Chiesa). E ancora: «I cristiani vivevano senza esporsi» e solo dopo Costantino «escono allo scoperto».
In realtà i cristiani per secoli poterono esporsi, discutere coi pagani, divulgare i loro testi, trattare con gli imperatori (che spesso tra gli dèi veneravano anche Cristo), e subirono non tanto persecuzioni religiose quanto politiche quando alcuni
di loro (di solito noni vescovi) rifiutarono l’omaggio a «l’Imperatore Nostro Signore», dichiarando «Nostro Signore è Gesù»: così i dodici martiri scillitani. E poi: «c’è voluto papa Wojtyla per condannare senza mezzi termini la guerra, anche se essa resta però come extrema ratio, tale e quale la pena di morte nel catechismo». Dunque, i mezzi termini ci sono, e come! Papa Wojtyla non ha detto parola contro le guerre locali combattute nei suoi anni dalla potenza
statunitense, né contro i massacri che i tanti dittatori anticomunisti d’Asia, d’Africa e di America latina hanno perpetrato contro i loro popoli. Anzi, è andato a stringere la mano a Pinochet, per dirne uno, condannando il cristianesimo della liberazione. Quando smetteremo di parlare di lui come un uomo di pace e di amore?
Mario Alighiero Manacorda
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Risponde Rossana Rossanda
Caro Mario Alighiero, io persisto e firmo. Nei Vangeli non si trovano inviti alla guerra, alla rissa, alla vendetta personale. Non sono tali i passi che tu citi: della geenna, sono minacciati i peccatori dopo la morte; l’idea della dannazione è forte, ma non ha nulla a che vedere né con la guerra, né con la punizione in terra, né con la vendetta personale. La spada che Gesù viene a portare è metaforica, è la divisione nella dottrina – per il mio nome vi dividerete, sarete odiati. E in che somiglia la cacciata dei mercanti al tempio a un esproprio proletario (che poi non è il peggio che sia avvenuto da noi negli anni ’70)? Gesù non si appropria dei beni e dei profitti dei mercanti, li butta fuori da quella che è la casa del Padre. Quando nell’orto del Getsemani un discepolo estrae la spada e ferisce uno dei soldati, Gesù gliela fa riporre e ammonisce di non ricorrere alla spada mai. Né chiede al Padre vendetta per sé – le pagine del Getsemani sono di grande solitudine e angoscia. E’ un uomo che muore e vorrebbe che fosse allontanato da lui quel calice, ma lo deve accettare.
Questa immagine di dio fatto uomo, e sofferente e impotente, cambia l’idea del divino, ed è molto più audace delle libertà del politeismo. E’ una proiezione di tempi terribili. La Palestina ribolle di predicatori in attesa d’un messia che non viene e colui che viene non promette alcuna vittoria in terra, enuncia beatitudini paradossali, non suggerisce né chiede violenze. Muore fra i delinquenti. Chi aveva ed ha un’idea onnipotente di Dio rifiuta del cristianesimo proprio questo.
Ma che senso ha che noi due, vecchi compagni e non credenti, ci palleggiamo le citazioni? Il cristianesimo è una cesura tale che dopo i primissimi tempi, la discussione sul canone è complessa e fin drammatica. Ma è un momento alto, che la chiesa non reggerà.
Tanto più dopo Costantino. Ma ti sono grata per la correzione. Tuttavia l’Editto di Milano garantisce i cristiani, perché prima non erano sicuri come tu dici, e sulla leggenda (leggenda non è vulgata) e la restituzione dei beni si basa il potere temporale della Chiesa. E’ questo che ne fa anche un potere politico in senso proprio, che come tale gioca nei rapporti di forza, copre o esige conflitti, teorizza con non pochi giuristi la guerra giusta, se non addirittura santa. Quando Wojtyla dirà che la guerra è sempre una sconfitta dell’umanità, dirà qualcosa mai detto prima, anche in contrasto con il catechismo (di Ratzinger). Perché negare che la Chiesa ha una sua terrestre e interessante storia? Della quale non fa parte che Agostino fosse un guerriero, né grande né piccolo, e non so se si possa dirlo di Ambrogio, già funzionario dell’impero, che fulminerà di scomunica proprio quel Teodosio per il massacro di Tessalonica.
C’è nell’ateismo tuo e di altri amici una passione che definirei religiosa e che a me manca del tutto… Con questa freccia del Parto, ti abbraccio.
Rossana Rossanda
La recensione di Rossana Rossanda dal manifesto del 30 giugno 2006
L’eterna bestemmia in nome di Dio
Guerre sante. Quando una religione monoteista si investe del potere terreno oppure vi si accorda, la strage in nome di Dio è sicura
«Cristiani in armi. Da sant’Agostino a papa Wojtyla» la ricostruzione di come cristianesimo e pace non sono sinonimi. Il saggio di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri per l’editore Laterza
Rossana Rossanda
Impugnando il vessillo della croce nella mano sinistra e nella destra una spada sguainata, un angelo biondo si libra con ali immense sopra i crociati sulla strada di Gerusalemme, simile all’uccellaccio che in un turbinio di vesti, ali e spade minaccia Roma dagli spalti di Castel Sant’Angelo. E’ Michele, l’arcangelo guerriero, simbolo di un dio vendicatore e sterminatore. Lo ha scelto Maria Teresa Fumagalli Beonio Brocchieri per la copertina del suo Cristiani in armi (Laterza, 226 pagine, euro 16), dedicato con speranza ai nipotini perché riflettano, suppongo, come cristianesimo e pace non siano sinonimi. La tradizione belligerante viene dai fratelli maggiori. In un passo del Deuteronomio Jahvé, assicurandogli la vittoria, invita il suo popolo a prendere d’assedio una città, e poi: «Passa a fil di spada ogni maschio, prendi per te le donne i bambini le bestie e tutto quel che vi trovi … non lasciare in vita nessuno, votali tutti allo sterminio, demolisci i loro altari, spezza le loro stele, brucia le loro sculture…». Ma si potrebbe andare molto avanti: le conquiste di Giosuè, a cominciare da quella che a scuola mi raccontavano come pacifica (le mura che crollano al suono di tromba) è seguita dallo stesso sterminio, e così le altre vittorie di quel generale di Dio. Grondano di sangue le visioni dei più fra i profeti. La Jihad non ha inventato niente di nuovo, né parole né fatti. E anch’essa è persuasa di avere Dio dalla sua parte.
La parola di Cristo non ha segnato dunque una discontinuità? Non lo ammette il biblista Giuseppe Barbaglio, che pure ne ha scritto Il dio violento (1990): egli vede correre anche nel Vecchio Testamento, come un filo rosso, accanto all’immagine del Dio terribile quella d’un Dio amoroso.
Sta di fatto che nei Vangeli non c’è che questo. Più che un paio di frustate Gesù non somministra ai mercanti nel tempio, invita l’offeso a porgere l’altra guancia e a guardarsi dal ferire di spada, conversa con gli infedeli come con chi ancora non sa, non invoca dal Padre suo alcuna vendetta – messaggio che in quei tempi calamitosi e nel ribollire della Palestina dovette suonare scandaloso, ma fu certo all’origine della sua straordinaria diffusione. Ma ecco che mille anni dopo il cristianissimo vescovo Guglielmo di Tiro descrive così le gesta dei crociati una volta presa Gerusalemme: «… Coperti di elmi e corazze percorsero strade e piazze della città uccidendo indistintamente tutti gli infedeli che capitavano, senza riguardo né all’età né al rango. Da ogni parte si vedevano nuove vittime, teste staccate dai corpi, non era possibile camminare senza traversare mucchi di cadaveri … Poi, avendo saputo che gran parte della popolazione s’era rifugiata al di là dei bastioni del Tempio corsero sul posto in grande moltitudine colpendo con le spade chiunque incontrassero e inondando di sangue le strade. Essi compivano così i giusti decreti del signore … poi si cambiarono le vesti, si lavarano le mani e camminando a piedi nudi con cuore umile gemevano e piangevano con devozione». Questo succedeva nel 1099, poco prima che Gregorio nascesse, per cui il pio vescovo si dette molto da fare per la terza crociata. Scene simili si producevano anche fuori della Terra Santa per il fiorire di pellegrinaggi, diciamo così, non autorizzati, nei quali qualche nobile raccoglieva tutto quel che trovava per strada e in cammino verso il Santo sepolcro faceva strage degli ebrei che capitavano a tiro. Di questa temperie selvaggia partecipano anche, nelle predicazioni, uomini di spirito elevato come Bernardo di Clairvaux e Pietro l’Eremita. Come è accaduto?
E’ accaduto che nel 312 – mentre i cristiani erano ancora in clandestinità – l’imperatore Costantino sogna, la notte prima della battaglia di ponte Milvio, il solito angelo che gli addita la croce: In hoc signo vinces. Vince, e dichiara il cristianesimo religione di stato. I cristiani, che allora vivevano senza esporsi in un loro costume di solidarietà e preghiera, escono allo scoperto e la loro chiesa si scambia favori con l’imperatore. Essa ordina ai fedeli di esser soldati (garantendogli che se muoiono ammazzando il nemico volano dritti in paradiso) mentre domanda al potere di interdire le altre religioni. Da allora al secolo scorso i rapporti fra chiesa e impero o stato restano stretti, anche se fra non pochi conflitti non di fedi ma di potere, e c’è voluto papa Wojtyla per condannare senza mezzi termini la guerra (che resta però come extrema ratio, tale e quale la pena di morte, nel catechismo).
Insomma, quando una religione monoteista si investe del potere terreno o vi si accorda, la strage in nome di Dio è sicura. Non che per il cristianesimo sia stato semplicissimo. L’antico interdetto del V comandamento, non ucciderai, assume un’altra valenza nella predicazione cristiana, per la quale è fondativo l’amore per l’altro, e la guerra non era neppure contemplata. La cultura di allora vede ogni conflitto in termini militari, scrive Maria Teresa Fumagalli, neanche Paolo vi sfugge e ogni conflitto anche interiore, fra fede e non fede, bene e male, culto di Dio e culto di sé, lotta a Satana e perfino nel famoso «Morte, dov’è la tua vittoria?» prende con naturalezza il linguaggio bellico. Ma con Paolo siamo soltanto alla forma. Più tardi i Padri si interrogano. Si interroga Ambrogio: perché, mio Signore, mi dici di vendere la tunica e comprare la spada, ma mi interdici di usarla? Sarà – prima scivolata – per legittima difesa? Agostino, suo discepolo e animo tragico, va molto oltre: se c’è il male nel mondo deve essere stato previsto dall’infinita sapienza di Dio, dunque è in qualche modo concesso – quasi obbligato. Il pessimismo di Agostino è radicale. Nella notte tenebrosa del creato dopo la Caduta c’è dunque anche la guerra, scriverà al dubbioso Fausto, essa è inevitabile come la tempesta, la sofferenza, la morte. Affermazione fatale, perché se connessa alla umana natura per volere di Dio, potrebbe anche, in certi casi, essere giusta.
In quali casi, che non siano la difesa – anch’essa non contemplata dai primi cristiani? Su questo si piegheranno i giuristi, specie dopo secoli di conflitti efferati e in seguito alla conquista spagnola delle Indie, per la quale, dopo un breve tentativo di dimostrare che gli indiani non sono specie umana, non esiste legittimazione alcuna. Il grande legittimatore sarà il domenicano Francisco de Vitoria, argomentatore inquieto la cui dottrina attraversa i secoli, e influenzerà anche i gesuiti inducendoli a rovesciare una loro prima posizione in difesa degli indigeni: il molinismo non lascerà scampo.
Così, se è rimasto sempre fra i cristiani chi non accetta la liceità della guerra, si troverà di regola fra i malpensanti o gli eretici. Contro la «peste» degli albigesi Innocenzo III reclama l’intervento dell’imperatore. E così dopo lunghe guerre periranno i catari. L’arcivescovo di Milano, scoperta nella diocesi di Torino una comunità pacifica, che perdipiù metteva i beni in comune, li manda al rogo tutti. Un punto particolarmente dolente accompagna la condanna della guerra: il suo più lucido contestatore, John Wyclif di Oxford e i suoi seguaci, i lollardi, la collegano alla volontà di dominio, che si radica nella proprietà. La persecuzione di Wyclif e dei suoi seguaci non avrà fine. Insomma il filone pacifista sarà assai minoritario nella chiesa. E per lungo tempo anche in quella riformata.
Ma non è diffuso neanche fra i pensatori laici. Esita il lucido Erasmo da Rotterdam, la guerra sta anche nell’Utopia di Tommaso Campanella; soltanto Marsilio Ficino, credente, non demorde e sarà condannato. Nel Seicento e nel Settecento la più brillante intellettualità francese non è pacifista. Ma il lavoro della Fumagalli Beonio Brocchieri riguarda soprattutto la chiesa e arriva fino ai nostri giorni. Nessuno dei grandi pacifisti, da Milani a Balducci, per non parlare di Capitini e Buonaiuti, è stato amato. Della posizione dei papi davanti alle guerre è meglio tacere. Quanto è appassionante, e fin tragica, la discussione fra i Padri dopo l’editto di Costantino, tanto è fredda sotto il profilo religioso quella che segue con la modernità. Gli atei devoti vi possono trovare materia di consolazione.
Per non parlare degli stolidi araldi delle guerre di civiltà. E’ roba nostra, europea, quella che ci torna in quelle che sentiamo come farneticazioni di Bin Laden o Al Zarkawi. La chiesa le aveva benedette quando con l’impero si scambiavano reciproci doni. Soltanto Agostino, credo, ha inserito la guerra nella sua tragica teologia della Caduta – peraltro sempre all’orlo dell’eresia – appena si lascino i suoi pensieri, nella banalità della storia anche ecclesiale, la guerra si rivela sempre passione di dominio. Che fra dominio e dominio ci possa essere una guerra giusta, è una terrestre e non altissima, controversia. Che possa essere Santa, come talvolta ha detto il Sacro soglio, è una bestemmia. Quanto alla guerra umanitaria è un ossimoro del presente – neanche ai papi più virulenti era venuto in mente.
La dottrina revisionata
Filippo Gentiloni
il manifesto – 30-10-2004
E’ uscito, dopo cinque anni di gestazione, il «Compendio della dottrina sociale della Chiesa»: circa 500 pagine di cui 200 di indici, con cui la chiesa cattolica cerca di far sentire ancora una volta la sua voce in un momento per lei non facile, come dimostra il rifiuto della menzione delle radici cristiane nella carta costituzionale europea. La dottrina sociale della chiesa cattolica era era stata codificata da leone XIII nella «Rerum novarum» (1891). No sia a una destra di stampo liberale, sia, e soprattutto, a una sinistra di stampo socialcomunista. I papi successivi l’avevano confermata e precisata, soprattutto dopo la tragedia delle guerre mondiali. I vari partiti che vi si erano ispirati, soprattutto la Dc, avevano cercato di metterla in pratica. Il suo luogo era, ovviamente, il centro, proprio quel centro che gli odierni bipolarismi mettono in dubbio. La chiesa poteva ancora avere voce in capitolo in campi che riteneva suoi, fondamentali per la vita sociale di credenti e non? Era logico un ripensamento e una rielaborazione. Il testo non presenta grandi novità. Sugli stessi temi il magistero cattolico si era già espresso più volte negli anni recenti, soprattutto su quelli riguardanti la vita, la famiglia, il sesso, proprio quelli che gli sembrano più scottanti e discussi. Qualche esempio dal Compendio: «Il diritto alla vita, dal concepimento fino al suo esito naturale, condiziona l’esercizio di ogni altro diritto e comporta l’illiceità di ogni forma di aborto procurato e di eutanasia». No assoluto al terrorismo e anche alla guerra «di aggressione». Ma «i responsabili di uno stato aggredito hanno il diritto e il dovere di organizzare la difesa anche usando la forza». La guerra preventiva «non può che sollevare gravi interrogativi sotto il profilo morale e giuridico». Bush e Blair se la cavano così, con i «gravi interrogativi».
Il testo, non soltanto in questo caso, cerca le mediazioni. Anche nel caso della condanna della pena di morte: «La Chiesa vede come un segno di speranza la sempre più diffusa avversione dell’opinione pubblica alla pena di morte». Sembra che si sia fatta attenzione affinché nessun governo ne esca apertamente condannato (forse soltanto Zapatero). Neppure Berlusconi, neppure per la legge Bossi-Fini sulla immigrazione.
Si alla democrazia «che non è soltanto il risultato di un rispetto formale di regole, ma è il frutto della convinta accettazione dei valori che ispirano le procedure democratiche». Non si dice, però, che la vera democrazia richiede una certa eguaglianza anche economica: forse l’ombra lunga del comunismo mette ancora paura, ma è vero che «i beni, anche se legittimamente posseduti, mantengono sempre una destinazione universale». Forse, un po’ poco, di fronte alla capacità distruttiva del grande capitale. «La dottrina sociale, pur riconoscendo al mercato la funzione di strumento insostituibile di regolazione all’interno del sistema economico, mette in evidenza la necessità di ancorarlo a finalità morali». Basterà?
Il «Compendio», forse per essere accettato da tutti, nei temi economici e politici sembra talvolta ispirato più a un largo buon senso che alla radicalità evangelica. Quella che beatificava gli ultimi e condannava il ricco Epulone. A programmare le mediazioni pensano già molte autorità, forse troppe. C’è proprio bisogno che lo facciano anche le chiese?
Nei temi di etica familiare e sessuale, invece, il compendio rivendica la classica specificità cattolica. Una specificità discutibile e, in effetti, sempre più discussa anche all’interno del mondo cristiano.
Filippo Gentiloni
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Encicliche usa e getta
Filippo Gentiloni
il manifesto – 22-01-2006
Imass media esaltano, ancora prima di averla letta, la prima enciclica di Benedetto XVI, attribuendole una importanza al di là del tempo e delle vicende storiche. Forse è bene ridimensionare. Come è noto, i media esaltano ma dimenticano presto. Lo conferma una occhiata alle encicliche precedenti: tutta quella serie, ad esempio, che va sotto il nome di «encicliche sociali», ieri citatissime, oggi quasi dimenticate. La serie era stata iniziata dalla famosa Rerum novarum di Leone XIII (1891). Fu accolta come una novità sconvolgente: la chiesa diceva di no al socialismo, ma affrontava per la prima volta la questione operaia. Metteva i piedi per terra. Poi è venuta tutta una serie di documenti: il Vaticano confermava e precisava. Fra le altre vennero la Quadragesimo anno di Pio XI, radiomessaggi e altre encicliche, fino alla Centesimus annus di Giovanni Paolo II. Una serie che, a suo tempo, sembrava destinata ad orientare tutto l’impegno cattolico. Una via intermedia, fra il socialismo-comunismo, più o meno anticlericale ed ateo, e il capitalismo, almeno quello «sfrenato», come si era soliti dire in Vaticano. Su questa linea, stimolati dalle encicliche vaticane, si sono mossi per decenni i vari partiti «democratico cristiani» in Europa e anche in America Latina. Oggi non più: oggi quelle encicliche sono un ricordo storico. Come mai? Che cosa è successo? Molte cose, dal crollo dei muri al crollo dell’Urss. Spariva la via intermedia, proprio quella delle encicliche sociali. Non restava che il capitalismo abbracciato più o meno da tutti , mentre il papa di Roma rischiava di apparire come il cappellano della Casa Bianca.
Il Vaticano non aveva più una «sua» dottrina sociale: predicava o un amore spirituale, disincarnato, o un amore che avrebbe il suo luogo soltanto nella famiglia regolare. Una oscillazione della cui ambiguità sembra che risenta anche la nuova enciclica di Benedetto XVI.
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