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1. Contro i Cristiani raramente la giustizia romana si trovò a procedere di ufficio. Il rescritto di Traiano a Plinio Secondo (111-113) dice testualmente: “Nel modo che hai adottato, caro Secondo, nell’escursione delle cause di coloro che ti sono stati denunciati come Cristiani, sei stato nel giusto. Non si può infatti stabilire una norma universale che abbia una formulazione si cura. Non sono da ricercare ma se sono denunciati e confessano sono da punire. Così chi abbia negato di essere Cristiano e ne abbia dato prova di fatto cioè adorando i nostri dei, anche se sospetto per il passato, ottenga il perdono del pentimento. Le delazioni anonime non devono avere valore per nessun reato. Sarebbe infatti un pessimo esempio specie nei nostri tempi”
Dello stesso tenore è il rescritto di Adriano a Minucio Fundiano, proconsole in Asia.
Perché essere Cristiano era considerato un reato? Perché il loro comportamento contravveniva a quattro articoli del codice penale:
· Il senatusconsultum de bacchanalibus del 186
· la lex Iulia de collegiis illecitis
· la repressione dei crimina laesae maiestatis
· l’imputazione di crimen extraordinarium
La lex Julia in particolare, risalente al 7 a.C., condannava le ‘eterie’, associazioni delle più svariate categorie. Le eterie erano temutissime, in quanto capaci di esercitare pressioni politiche non indifferenti. La legge recitava: “Chiunque stabilisce un’associazione senza autorizzazione speciale è passibile delle medesime pene di coloro che attaccano a mano armata i luoghi pubblici e i templi”.
Apprendiamo da Minucio Felice, avvocato di famiglia pagana convertitosi al cristianesimo, la summa dei ‘flagitia’ dei quali dei quali i cristiani venivano accusati: veneravano la testa d’asino (forse allusione al simbolo messianico dell’asino del Cristo nell’ingresso a Gerusalemme), praticavano l’infanticidio e l’antropofagia (allusione alla trasformazione del pane e del vino nell’eucarestia), erano incestuosi (allusione allo scambio del bacio di pace tra fedeli che si consideravano fratelli e sorelle, sempre nell’eucarestia e nelle agapi), rifiutavano l’uso della cremazione, erano sostanzialmente atei, sia perché credevano in un “Dio unico, solitario, avvilito… che non riescono né a mostrare né a vedere”, sia perché “non hanno altari, né templi, né simulacri conosciuti”.
L’accusa più importante mossa ai cristiani era dunque quella di ateismo. Alle nostre orecchie può sembrare incredibile, ma è certamente la più fondata: ateismo nei confronti della religione dominante e slealtà nei confronti dell’imperatore, al quale non riconoscevano il culto divino. Lo storico Dione Cassio (67,14, 2) afferma che sotto Domiziano molti romani che avevano adottato i costumi giudaici (leggasi: cristiani) furono condannati ‘per ateismo’ :”Nello stesso anno Domiziano fece assassinare molti altri uomini, ed anche il console Flavio Clemente, sebbene fosse suo cugino e avesse sposato Flavia Domitilla, una parente dell’imperatore. Ad entrambi venne mossa l’accusa di empietà, per la quale furono condannati molti altri che simpatizzavano per il giudaismo, ed alcuni morirono, mentre altri furono comunque privati dei beni; Domitilla fu solo esiliata a Pantelleria. Fece inoltre mandare a morte Glabrione, il quale era collega di Traiano al consolato (nel 91), imputandogli, tra le accuse, le stesse che ricevettero molti, ed anche perché aveva combattuto come gladiatore contro le belve feroci” Acilio Glabrione probabilmente era anch’egli un cristiano, in quanto dopo il consolato fu mandato in esilio con l’accusa di essere molitor rerum novarum, e poi ucciso nel 95.
Giustino, indirizzando all’imperatore ‘Tito Elio Adriano Antonino il Pio Augusto Cesare e a Verissimo suo figlio filosofo’ la sua già nota I Apologia ( 6,1) scrive: “Ecco l’origine del fatto che siamo accusati di essere atei: ammettiamo certamente di essere atei rispetto a queste sedicenti divinità (gli dei pagani, che anche Giustino chiama demoni), ma non certamente rispetto al Dio della somma verità, Padre della giustizia, della sapienza e delle altre virtù, e lontano da qualsiasi contaminazione col male. Noi Lo veneriamo e Lo adoriamo insieme al Figlio suo, che da lui è venuto e che ci ha insegnato queste dottrine, insieme alla schiera degli angeli buoni, che lo seguono e si assimilano a Lui, e insieme allo Spirito profetico rendono loro ogni onore secondo ragione e verità; e noi trasmettiamo con generosità quanto abbiamo appreso a chiunque voglia imparare”.
L’accusa di ateismo era gravissima in quanto, se per le autorità essere ‘ateo’ significava essenzialmente mostrare disinteresse per la vita politica e quindi essere inaffidabile come cittadino, per il popolo la presenza di atei nel tessuto sociale comportava il rischio di indisporre gli dei, i quali avrebbero potuto vendicarsi inviando malattie, carestie o rovinando gli affari. In effetti gli acerrimi nemici dei Cristiani non furono le autorità costituite, ma il popolino. Ippolito (‘La tradizione apostolica’) e Tertulliano (‘La corona dei militari’) sostenevano che il cristiano non doveva uccidere nessuno in guerra, né doveva prestare giuramento, né portare gli stendardi imperiali, e neppure doveva arruolarsi volontariamente nell’esercito. Persino il magistrato supremo di una città (che aveva potere di vita e di morte) doveva dimettersi se cristiano. Questo per quanto attiene il reato commesso davanti alla legge. Ma negli atti del martirio di san Policarpo, vescovo di Smirne (giustiziato il 23 febbraio del 155, al tempo di Antonino il Pio) leggiamo che “la folla, sorpresa del coraggio della pia schiera dei cristiani (sottoposti a tormenti perché abiurassero la loro fede) cominciò a gridare: Morte agli atei!”.
Il capo della polizia, un certo Erode (destino di un nome!), non arresta Policarpo, ma gli va incontro con il proprio padre, lo accoglie sul suo cocchio e gli chiede: “Che male c’è a dire: Cesare signore, offrire incenso, compiere altri riti atti a salvare la vita?”. Policarpo non risponde e affronta il suo destino. Per i romani, politeisti senza alcun pregiudizio, pareva inconcepibile la negazione degli dei altrui, e sommamente degli dei istituzionali: venerati i quali, il fedele era libero di adorare i propri. Erano talmente timorati degli dei da innalzare un altare “al dio ignoto” (Atti degli apostoli, 17,22 e seg.) nel timore di dimenticarne qualcuno, per non parlare del Pantheon romano giunto sino a noi miracolosamente intatto. E’ opportuno precisare che ciò che veniva richiesto ai cristiani non era propriamente un riconoscimento della divinità dell’imperatore: nemmeno i cittadini romani ritenevano l’imperatore un essere divino, considerazione peraltro pretesa in pratica solo da Nerone, Domiziano e pochi altri, quanto piuttosto un ossequio alla sua ‘Fortuna’ o al suo ‘Genio’, una specie di nume tutelare personale o – potremmo dire con molta approssimazione – una specie di angelo custode che sovrintendeva alla vita della persona e con essa intimamente connesso.
Non era poi così vero che il mondo classico fosse politeista come la tradizione ci insegna. Esisteva sicuramente un culto ‘politico’, quale in Roma la Triade Capitolina, ufficiale, signora e patrona delle sorti dell’Urbe e poi dell’impero, ma la classe colta, studiosa di Platone e vicina agli stoici, aveva bene in mente l’unicità del vero Dio, pur ammettendo la coesistenza di divinità minori dedicate a proteggere le sorti di una istituzione o di una città o anche di una singola famiglia, come i Lari domestici. Anche nel mondo cattolico città, eserciti e istituzioni vengono messi sotto la protezione non direttamente di Dio, ma di qualche santo oppure della Madonna, in fondo non dissimili – per quanto concerne la pietà popolare, non certamente secondo la Dottrina – dagli antichi semidei, dotati non solo di capacità di intermediazione, ma anche di virtù miracolistiche e taumaturgiche loro proprie, invocabili con il culto e le offerte alle immagini e alle reliquie.
Oltre a ciò la fede cristiana rivolta ad uno strano Dio unico ma padre di un Figlio terrestre morto di spregevole morte, fomentatore di disordini, negatore dell’olimpo imperiale, doveva sembrare un inammissibile sproposito. Proprio l’obbrobrio della morte del Cristo sulla croce rappresentava per Celso una delle motivazioni principali di confutazione della validità della dottrina cristiana. Negli atti dei martiri, ancora in Potino troviamo un’ulteriore spiegazione di tanto accanimento contro i cristiani: “quelli che gli stavano vicino lo colpirono con pugni e calci, senza alcun riguardo per la sua età; quelli che erano più lontani gli scaraventavano addosso tutto ciò che capitava loro fra le mani, pensando che avrebbero commesso una colpa ed avrebbero peccato d’empietà se non lo avessero oltraggiato. Credevano in questo modo di vendicare i loro dei”.
Diocleziano, che era almeno a parole assai pio, in un testo di legge del 295 sui matrimoni tra consanguinei (Codice Gregoriano V,1) scrisse: “Gli déi immortali saranno ancora benigni e favorevoli al nome romano, se avremo cura che tutti i nostri sudditi conducano una vita pia, tranquilla, rispettosa della morale… La maestà di Roma è pervenuta a tanta altezza col favore di tutti gli déi, solo perché ha dedotto tutte le sue leggi da una vita casta e pia”, ed è probabile che la massa pagana si comportava veramente secondo questi precetti, mentre i cristiani continuavano ad essere considerati dei perversi. Nel martirologio di san Sabino è scritto che mentre si celebravano i giochi nel Circo Massimo alla presenza di Massimiano, la folla scandiva il grido: “Christiani tollantur! Christiani non sint!”.
E’ qui evidente il principio che sarà poi enunciato molti secoli dopo da Bernardo di Clairvaux: “Il soldato della croce quando uccide un malfattore non deve essere reputato un omicida ma, come dire, un malicida e cioè vindice di Cristo”. Anche i romani la pensavano nello stesso modo, naturalmente dal loro punto di vista, e questo spiega l’efferatezza delle condanne e dei supplizi inflitti ai rei, cristiani compresi.
Dal canto loro la temerarietà e la pervicacia dei martiri non deve stupire. In ogni tempo, anche in quello presente, sono numerosi quelli che offrono la vita per i più svariati ideali, da quelli sublimi a quelli apparentemente futili. E’ certo comunque che nel tempo che consideriamo vi furono momenti di autentico delirio mistico, come scrive Eusebio (Storia Ecclesiastica, 8,9,5) descrivendo la condanna dei Martiri della Tebaide: “Fu allora che noi osservammo una meravigliosa brama e un vero potere divino e zelo in coloro che avevano posto la loro fede nel Cristo di Dio. Appena emessa la sentenza contro il primo, alcuni da una parte e altri da un’altra si precipitarono in tribunale davanti al giudice per confessarsi cristiani, non facendo attenzione quando erano posti davanti ai terrori e alle varie forme di tortura, ma senza paura e parlando con franchezza della religione verso il Dio dell’universo, e ricevendo la sentenza finale di morte con gioia, ilarità e contentezza, così che essi cantavano e innalzavano inni e ringraziamenti al Dio dell’universo, pur ormai all’ultimo respiro”.
Che dire poi di questo episodio narrato da Eusebio (Storia Ecclesiastica IV,26,3)? Nella città di Pergamo, in Asia Minore, erano posti tra le fiamme i martiri Carpo e Papilo. “Tra gli spettatori c’era una donna di nome Agatonice, che vedendo Carpo in contemplazione della gloria del Signore, comprese che era una chiamata del Cielo e disse ad alta voce: Questo banchetto è preparato anche per me, debbo parteciparvi anch’io, voglio gustare questo cibo di gloria. Le si gridò da ogni parte che avesse pietà del figlio, ma la santa rispose: Egli ha iddio che si prenderà cura di lui. Spogliandosi quindi del mantello, colpì quanti guardavano la sua bellezza e si distese giubilante sul palo. I presenti non potevano trattenere le lacrime e dicevano: Terribile giudizio e ingiusti decreti!” Agatonice, lambita dalle fiamme per tre volte gridò: Signore, Signore, vieni in mio, in te mi sono rifugiata! Poi rese la sua anima a Dio e consumò il martirio tra i santi. I cristiani raccolsero di nascosto i loro resti e li custodirono a gloria di Cristo e a lode dei martiri”
Tra i fulgidi esempi di confessioni di fede non mancarono, come si vede, i soliti esaltati che si gettarono volontariamente tra le braccia del boia, al punto che il vescovo di Cartagine Mensurio ordinò che chi aveva affrontato il martirio senza necessità non fosse venerato come martire e santo.
2. Quanti furono i martiri cristiani in Roma? Non tanti quanti generalmente si è portati a credere: la Depositio Martyrum del 354 annovera trentadue martiri venerati dalla comunità cristiana; un elenco stilato un secolo dopo ne aggiunse altri settantadue. Malgrado ciò l’Urbe divenne nei secoli successivi una fiorente esportatrice di reliquie. La traslazione delle salme deposte nelle catacombe si rese necessaria, nei secoli successivi, sia per il crollo di molti cunicoli catacombali, sia per le continue distruzioni conseguenti alle invasioni barbariche, anche se non mancarono tentativi di restauro, iniziati con Paolo I (757-767). I cristiani ‘parvenu’ delle lande nordiche iniziarono a pretendere la loro parte di reliquie, ed i resti dei sepolti, martiri o no che fossero, vennero esportati più o meno lecitamente. Anche questo contribuì a fare di Roma il faro della Cristianità occidentale (lo scisma greco avvenne nel 1054, al tempo di Leone IX).
Nerone fu il primo imperatore che agì contro, ma il suo fu piuttosto un eccidio e non una persecuzione, ma da quel momento il nome di cristiano fu bandito e bollato come criminale e degno di morte.
La prima vera persecuzione fu quella di Domiziano che condannò i cristiani come «atei» negli ultimi anni del suo regno quando, forse in preda alla follia, decise (nel 90) di farsi chiamare «signore e dio». Naturalmente i cristiani, fedeli a Cristo, rifiutarono. Soprattutto nell’Asia Minore i cristiani vennero spogliati dei loro beni e molti di loro furono giustiziati (95-96).
Sotto Traiano (a.98-117), valente capo di stato e rigida tempra di soldato, scoppia una nuova persecuzione legata alla proibizione di costituire società non autorizzate. Simeone, il vecchio vescovo di Gerusalemme e parente di Gesù, è crocefisso nel 107 e Ignazio, vescovo di Antiochia, esposto alle belve nello stesso anno, a Roma.
I due imperatori che succedono a Traiano, Adriano e Antonino Pio, si mostrano meglio disposti verso i cristiani. Tuttavia continuano localmente i processi e le condanne: Policarpo, vescovo di Smirne, subisce il martirio nel 155.
La terza persecuzione avviene al tempo di Marco Aurelio (a.161-180), ottimo imperatore, che vede nel cristianesimo stolta follia [Meditazione XI, 3]. Fra i martiri di questo periodo a Roma, nel 165 l’apologeta Giustino insieme con sei compagni e a Lione, nel 177, il vescovo Fotino, la giovane schiava Blandina ed una cinquantina di cristiani.
Settimio Severo eletto imperatore nel 193, annovera tra le maggiori cariche dello Stato molti cristiani e li protegge dall’odio popolare, ma nel 202, irritato dalle sommosse ebraiche e diffidando anche dei ceti più elevati per il numero crescente di cristiani, emana un editto che vieta la conversione sia al giudaismo che al cristianesimo. La quarta persecuzione fa molte vittime in Egitto e in Africa del nord, dove il cristianesimo si era rapidamente sviluppato. Negli anni successivi
la Chiesa si organizza e penetra sempre più nelle gerarchie dello stato e nella società: «Siamo di ieri e già riempiamo tutto: città, isole, fortezze, municipi, borghi, campi militari, tribù, decurie, corte, senato, foro… Non vi abbiamo lasciato che i templi» [Tert., Apol. XXXVII, 4].
Le dure persecuzioni ordinate da Filippo Arabo, Decio e Diocleziano annoverano fra i martiri il papa Fabiano e Origene. I martiri furono numerosi a Roma, nell’Asia Minore, in Egitto e in Africa.
Con l’avvento di Valeriano (a.253-260) ritornò la pace. Ma quando Macriano, ministro delle finanze, si diede alla ricerca di fondi per continuare la guerra in Oriente, i cristiani furono di nuovo perseguitati e i loro beni confiscati. Nel 258, a Roma papa Sisto II, venne decapitato con quattro suoi diaconi e quattro giorni dopo fu arso vivo il suo diacono Lorenzo; a Utica, in Africa, Cipriano, il grande vescovo di Cartagine, fu decapitato con molti fedeli.
Diocleziano (284-305), negli ultimi tre anni di regno scatenò l’ultima e più dura repressione, indirizzata soprattutto alla distruzione dei testi sacri. Tra le vittime illustri Maurizio e i suoi commilitoni della «Legione Tebana», reclutata nella provincia egiziana della Tebaide, uccisi ad «Agaunum» (St. Maurice, in Svizzera) e in altre città sul Reno.
Nel 324 sale al trono Costantino, e fu il Cristianesimo a trionfare sulle altre religioni.
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“MARTIRI” e “SANTI”
Attenti a criticare la Chiesa di Dio: molti ci hanno già provato, e hanno mangiato tutti la polvere.
Desmond Tutu.
Il presupposto ontologico di base del cristianesimo è costituito dal senso di compassione, di commiserazione, di “altruismo”, di sacrificio, e (si crede) auto-sacrificio; in esso non esiste il senso del bene in sé, ossia l’azione spassionata, improntata ad una morale positiva che dovrebbe portare all’effetto benefico, poiché tale obiettivo dovrebbe essere conseguito (credevano i suoi teorici) attraverso queste funzioni, che fanno capo alla sofferenza in previsione di un premio ultraterreno.
Al fine d’attestarsi, alle origini il cristianesimo ha fatto leva sul senso di pietà: i martiri ne sono stati il cavallo di battaglia, e continueranno ad esserlo senza sosta alcuna nei secoli venturi. Oggi, quando la chiesa sta attraversando un periodo di crisi, e si riscontra parimenti una febbrile attività per rientrare in corsa, si rispolverano queste tecniche proponendo i nuovi “martiri”, dai giustiziati nei lägers ai missionarii uccisi in terra altrui, anche questi “semplicemente per essere cristiani” o “per aver portato la parola di cristo”, mentre ai tetri imperatori romani si sostituiscono più convenientemente nazisti, fascisti, comunisti, giacobini, garibaldini, franchi tiratori et varia similia.
Molti resoconti offerti in pasto al pubblico omettono, però, quel che riportano con gran dovizia di dati i reportages pubblicati nei luoghi in cui si verificano questi fatti (molto spesso informati all’islamismo o a religioni orientali, quindi “prevenute” apriori): ossia, che i cristiani compiono opera ingerente di proselitismo, desiderando imporre la loro religione come unica e vera, pur dicendo ipocritamente che ogni religione abbia pari dignità; che con le loro teorie sconclusionate offendono il raziocinio e tendono a frammentare il tessuto sociale basato su delle tradizioni millenarie, nel pretesto che si tratti di stili di vita “superati” che necessitano d’aggiornarsi alla lieta novella; infine, omettono che — come ad es. per parecchi casi verificatisi in Cina, Giappone e Sudamerica — questi “santi” sono stati responsabili di traffico illegale, violenze, defraudazione ed altri crimini.
Non godono di gran dispiego di pubblicità casi che, dopo una fugace comparsa nei media italiani, cadono subito nel dimenticatoio, come quelli delle persecuzioni degli hare-krsna in Polonia (con aggiunta diffamazione; tuttora impunite), e certi altri, ben più allucinanti, come quelli del Rwanda e della Croazia ustasha, ove i martiri furono mietuti tra i non-cristiani per mano non già di fanatici laici, bensì di sacerdoti e suore cattolici.
Questa pretesa ha una tradizione sistematica bimillenaria. Documenti inflati quanto surreali, i martirologi, supportati da apporti “storiografici” compilati da “cronisti” e propagandisti di stato quali Eusebio da Cesarea o apologeti (perlopiù stranieri) come Tertulliano, Lattanzio, Geronimo e svariati altri più o meno noti, ci hanno presentato una schiera abnorme di santi morti per “difendere dio”, dei quali parecchi sarebbero volontariamente passati a miglior vita, altri per mano di biechi attori pagani; questi ultimi, molto spesso, si stupivano di siffatta determinazione, e non potevano far altro che condannarli pur senza motivo, dato che essi stessi lo richiedevano irremovibilmente. Ad esempio, il buon “padre” Tertulliano ci narra il “martirio” di una folla di scalmanati in Siria, presentatisi dinnanzi al prefetto locale per chiedere la morte: “O disgraziati, o poveri infelici! Se desiderate così tanto privarvi della vita, mancano forse i dirupi, da cui potreste gettarvi?”, fu la vana risposta del magistrato. Ebbene si: il vile pagàno non poteva comprendere la sublimità di tale eroica richiesta. A quei tempi, era in voga l’idea che il martirio (“battesimo di sangue”) garantisse un accesso diretto al paradiso: ci tenevano così tanto, che, quando l’imperatore Giuliano proclamò l’editto di tolleranza, il suo acerrimo avversario, Gregorio Nazanzieno, per poter aggiungere il paradosso al fango gratuito gettato sul grande sovrano, lamentò che avesse privato i fedeli della gioia del martirio!
Li si sarebbe giustiziati — era la giustificazione classica — “semplicemente per essere cristiani”: in realtà, di là da accentuazioni, dietro le motivazioni delle “persecuzioni” v’erano motivi politici, economici e sociali ben più gravi, che contemplavano a buon diritto i cristiani come elementi destabilizzatori della sicurezza, dell’ordine e del welfare dell’impero, ma è chiaro che, essendo seguaci della “religione vera”, essi avessero tutto il diritto di destabilizzare un sistema falso. Si arrivò al punto di ritenerli responsabili delle ire degli dèi, causa del malessere dell’impero: sono accuse balzane, ma non inaudite, poiché i cristiani faranno lo stesso contro chi non era del loro gregge.
Sia come sia, i “martiri” ci furono sicuramente, eziandio per cause completamente diverse, e non certo milioni. Qui diremo che, ad onor del vero, già diversi esponenti cristiani dubitavano dei dati propagandati, che apparivano costruiti da “ignote mani profane, e riempiti di circostanze inutili e sospette”, a detta di papa Gelasio; Origene stesso, il fondatore della teologia cristiana, che pur perse il padre nelle persecuzioni e subì il carcere, asserì che fino al suo tempo (il III secolo inoltrato) i martiri si contavano sulle dita.
Osserviamo la lista dei “persecutori”, alla luce dei dati storici, e non mitici.
Tralasciamo Nerone, il cosiddetto “iniziatore della persecuzione”, a carico di “cristiani” allora non bene distinguibili dagli ebrei nell’Urbe, e sin troppo pochi per poter dar adito ad una persecuzione “universale”, di cui nemmeno Traiano sa alcunché ancora al suo tempo. Non poteva essere altrimenti, dato che nella sua famosa epistola, sovente apportata a malaccorta “prova” dell’esistenza di Gesù, lo stesso Plinio ci fa vedere come i cristiani, con questo termine, fossero ancora degli illustri sconosciuti a Roma, in quanto egli ignorava chi fossero già in Bitinia. Né ci restano altri documenti sulla presunta politica anticristiana di Nerone, di là delle farneticazioni di Tertulliano ed epigoni (come ben annotato dal pur cattolico Bourgery, a proposito del fantomatico editto neroniano cui allude solo il Cartaginese): Nerone era un imperatore amatissimo dal popolo, come ci indicano persino storici non certo teneri, quali Cassio Dione, cronista comunque ben più imparziale del fiammeggiante Sallustio, e sicuramente meno plagiato di Tacito.
Il “sinistro” Domiziano (altro sovrano poco simpatico al senato…), d’indole comunque avversa alla guerra, si limitò ad agire a Roma, e si scagliò soltanto contro gli irriducibili, fomentati dai prelati; anzi, morì per mano di un liberto, cristiano, aizzato dalla cugina, cristiana. Si dice che sotto di lui sia morto il famoso Epafrodito e nientemeno che Giovanni l’evangelista: ma se così fosse, Diocleziano avrebbe condiviso questo onere con qualche altro despota, dato che la data di morte di “Giovanni” non è a tuttora certificabile.
Traiano e Marc’Aurelio erano uomini d’altra pasta; ma, essendo stoici, non tolleravano una superstizione disgregante. Eppure, non promulgarono editti di persecuzione; anzi, cercavano di tenere a bada i pagani che minacciavano i cristiani. Cento anni dopo il primo, Settimio Severo cercò di limitare la crescente defezione delle classi alte al cristianesimo, seguendo la politica dei due predecessori (Tertulliano ipse ci attesta che avesse arrestato persecuzioni popolari ai danni dei cristiani), e soprattutto contro “propaganda giudaica” (ma ce lo dice l’Historia Augusta, della quale ci beneficiamo di dubitare); nessun martire a Roma, e si dubita sulla “mole spropositata” di “vittime” in Africa, diversamente da quel che vorrebbero ancora il Cartaginese, Clemente ed il solito Eusebio. Così pure con Massimino Trace, che anzi pare spoliò i templi pagani.
Con quel “poco di buono” di Caracalla (d211), seguìto da Macrino, Elagabalo e Alessandro Severo (che teneva un busto di Gesù nella sua cappella privata, dice ancora l’Historia e Lampridio), tornò la calma: iniziano a fioccare vittime con Massimino, ma la storia extra-cristiana non ci attesta alcuna persecuzione.
Quanto a Decio, Valeriano e Diocleziano, questi furono in un certo qual senso “persecutori” a carattere politico economico, ma non certo degli stragisti; i loro erano provvedimenti diretti al welfare, in un periodo di crisi ed attacchi esterni, che il cristianesimo continuava ad aggravare. Decio promulgò tolleranza, a patto di sacrifici a pro della patria, senza pene massime; Valeriano proibì con la morte le riunioni nei cimiteri, e poi estese le pene (mai applicate, a quanto noto) direttamente ai vescovi ed ai maggiorenti, non certo al popolo.
Con Valeriano, la blanda repressione aveva colpito prevalentemente le gerarchie vescovili senza molestare il popolo, ma solo dodici su oltre ottanta vescovi furono giustiziati, visto che la maggioranza si dava alla fuga e alla corruzione dei funzionarii, una pratica comune a quel tempo, tant’è che proprio Tertulliano la condannerà in un apposito libello: fra questi, pure figure già familiari come Clemente, Gregorio Taumaturgo, Dionigi d’Alessandria ed Eusebio. Proprio quest’ultimo narra la vicenda del martirio alludendo soltanto alle lotte interne dei cristiani, alle invidie ed ingiurie reciproche, contemplando in certi casi la persecuzione come un castigo di dio per la loro viltà: essendosi riservato nel capitolo precedente della sua opera omnia di “introdurre in questa storia soltanto gli eventi che riteniamo utili a noi ed alla posterità”, il Cesarita si occupa piuttosto, quasi facendo atto di colpa, della riluttanza dei capi, delle diatribe intestine e della codardia di “infiniti altri, che cedettero al primo schianto”, dividendosi fra relapsi e libellatici che compravano attestati di testimonianza falsi per aver salva la vita (v. Historia 8.3.1).
In effetti, in parecchi casi si ricorreva pure alla menzogna, ma i cristiani resistevano “stoicamente”: come nel caso di papa Callisto, che rifiutò l’appoggio del potente Carpoforo, accorso in suo aiuto giurando il falso per salvarlo. Ciò non gli impedì d’essere prima condannato alla macina, per risarcire Carpoforo e la delusa comunità cristiana, e poi d’essere deportato. Marcia, concubina di quel poco di buono di Commodo e simpatizzante cristiana, ottiene la grazia da quest’ultimo per tutti i condannati, la cui lista le era stata fornita da Vittore I, pontefice straniero; il bravo Callisto non era stato incluso nell’elenco, ma riesce a scamparla comunque, convincendo i funzionari di un suo presunto rapporto con Marcia… che sarà poi l’organizzatrice della congiura che porterà alla morte di Commodo. Callisto morirà poi per una sedizione popolare, insorta durante gli alterchi contro papa Ippolito, non per colpa di qualche imperatore, come avrebbe voluto il martirologio romano.
Tra i molti altri falsi degli Acta Martyrum sono segnalati gran copie di pontefici: di diciassette, la chiesa antica ne indicò undici già solo fino alla persecuzione di Decio, benché nessuno di loro sia stato martirizzato. Per il periodo successivo fino ai tempi di Costantino, tutti i papi passarono per martiri: ve ne furono parecchi morti tranquillamente nel loro letto, come Cornelio e Clemente I (graziato in quanto parente dell’imperatore, e poi esiliato da Nerva, che gli storici cattolici però hanno in lode…), i quali, dopo una vita del tutto immacolata, furono elevati all’onore di beatitudine. Il numero dei testimoni di cristo iniziò ad aumentare a dismisura quando le persecuzioni ebbero termine, cosicché si posero sullo stesso piano dei martiri pure quegli alti presuli che non morirono per la “causa”, dato che con la loro condotta improntata all’ascetismo e alla verginità, da loro stessi scelta, avevano sofferto comunque un martirio.
Per quel che riguarda la tracimazione di morti della roboante grande persecuzione di Diocleziano e Galerio, che proclamò la liceità del cristianesimo ed ordinò addirittura un editto di tolleranza, nella speranza che i cristiani “abbandonata la religione antica, tornino alla ragione” (“bestia più che ursina”: così lo apostrofò il “pio” Lattanzio), possiamo arginarne notevolmente le straripanti pretese: la maggior parte dei rei confessi furono banditi o condannati ai lavori forzati nelle miniere, col permesso di poter ricevere corrispondenza e doni in ogni occasione, mentre le donne tutt’al più finirono nei lupanari (una sorta di “taglione”). In totale, in nove anni d’epurazione Diocleziano ne avrebbe mandato a morte circa duemila, ossia meno di un decimo della stima in difetto delle vittime mietute nel corso dei primi dieci secoli di sole lotte teologiche interne al cristianesimo.
Henry Melvill Gwatkin, decano di storia della chiesa a Cambridge, nell’Encyclopædia of Religion and Ethics così ermeticamente sigillava la questione: “Non è necessaria alcuna critica ulteriore […] Decio e Diocleziano, nel III e IV secolo, ci andarono moderati con la persecuzione generale, e Valeriano fece la medesima cosa, in termini più miti. Quanto al resto, si trattava semplicemente di agitazioni popolari contro di loro”.
Tutto ciò non impedì agli agiografi di costruirsi i loro eroi. Le modalità di supplizio con cui gli esegeti presentavano queste “vittime”, superano le più selvagge allucinazioni del miglior Bosch: in verità, la facilità con cui riuscivano nell’intento non deve meravigliare, dacché le morbose descrizioni di queste torture ricalcano le tecniche con le quali, nei secoli successivi, i cristiani tormenteranno chiunque avesse rifiutato la “lieta novella”. La macabra fantasia non aveva limiti: certuni sono fatti passare sotto il giudizio di una decina di inquisitori, che, tolti i personaggi completamente ignoti alla storia, si avvicendarono nell’arco di un decennio, talché lo stesso “martire” subiva per anni lo spellamento, l’abbruciamento, il piombo fuso, l’accecamento, la mutilazione, l’impalamento, l’estirpazione delle unghie, della lingua, dei denti o quant’altro. Sovente accadeva che il misero morisse e resuscitasse per intervento divino, ma semplicemente per riprendere daccapo il supplizio nei modi più svariati ed ingegnosi, finché (com’era di regola) la lama del boia metteva fine ai tormenti, ma a quanto pare non sempre: certi altri, addirittura, erano trovati ancora vivi nelle pance delle belve che li avevano divorati, a voler prestar credito alle fantasie di Eusebio.
Che dire, ad esempio, del maggiore dei cosiddetti proto-martiri, Ignazio d’Antiochia, maestro del “testimone” Policarpo? Ci viene chiesto di credere che, al tempo in cui Roma si trovava in guerra contro i pàrti, nientemeno che il buon Traiano avesse approntato l’arena giusto per la sua esecuzione, e, anziché farlo fuori ad Antiochia, lo fa scortare per tutto l’impero fino a Roma: nel tragitto, il “martire” ha il tempo di visitare un sacco di amici e di scrivere ben quindici lettere (delle quali parecchie oggi sono accertate come false) indirizzate a Maria Vergine ed a vescovi non ancora nati al suo tempo. E che aggiungere, poi, sul favoloso martirio di Sisto II, non per nulla patrono dei cuochi (fu arrostito alla graticola), il quale, nonostante l’atroce supplizio, era ancora capace di dileggiare il boia dicendogli: “Girami dall’altra parte: da questa sono già cotto”!
Ma sono bazzecole, al confronto con vicende come, ad esempio, quella di santa Cristina: per essersi rifiutata di bruciare incenso agli dèi, la giovane viene rinchiusa in una torre dal padre, che la espone ad ogni tipo di sevizie, ma pur fustigata, straziata con uncini, le membra spezzate, Cristina getta in faccia al padre pezzi della propria carne. Incendiato dalla sfrontatezza, l’aguzzino la cosparge d’olio, la arrostisce a fuoco lento su una ruota, ed infine la butta a mare con una macina al collo. Gli angeli la salvano, ma solo per riportarla dal padre (!), il quale la rimette al giudice Elio: questi la soffrigge su una sedia arroventata, e di poi la passa al collega Giuliano, il quale la getta in una fornace ardente, la inghirlanda con serpenti velenosi, le taglia i seni e la lingua, che la stoica Cristina raccatta e gli tira in un occhio, accecandolo. Infine, Giuliano la uccide scagliandole addosso tre frecce.
Taciamo pietosamente, poi, sul fatto che la prima vittima delle persecuzioni neroniane, semmai ve ne fu alcuna fuori delle fantasticherie di Tertulliano e colleghi, fu un tal san Paolino, detto governatore di Toscana, il che sarebbe come asserire che Bismark sia stato un cacique della Nuova Zelanda vissuto al tempo di Marco Polo; e per non esser tacciati d’irridenza sistematicamente iterata, soprassediamo anche sul fatto che Pietro, presunto capostipite della stirpe papalina, non fu mai martirizzato, perlomeno non a Roma. Certo è che nell’Urbe sarebbero state trovate le sue reliquie, ma tolti ossa di donna (forse i resti della matrona Priscilla, allora leader storica della “chiesa” di Roma), d’animali ed oggetti di repertorio medievale, non è chiaro quale fra i tre scheletri sinora scoperti sia quello del principe degli apostoli.
Invero, tutto ciò può essere facilmente creduto proprio perché supera il livello di guardia dell’assurdo (“credo quia absurdum”). La letteratura agiografica brulica di temi del genere, che si alternano ad altri con proposito edificante, spinti ad un’ingenua maliziosità abbastanza adeguata all’ignoranza dei primi secoli del cristianesimo: il martirio che rende la purezza all’anima in peccato, lo sposo che abbandona la moglie appena impalmata per vivere in miseria, l’innocenza perseguitata fino alla morte, il perdono delle offese spinto fino all’autolesionismo, il martirio della carità che fa sostituire un innocente a un condannato, la vergine nascosta sotto vesti maschili in un convento di monaci, la cui vera identità è svelata dopo la morte…
Queste tematiche seguono una metodica d’estrapolazione del fatto storico, abbellito in chiave mitica “evemeristica”, quasi costituendo un doppiofondo della storia: che i credenti non vanno, però, ad indagare. Lo stesso accadeva già per i cosiddetti apostoli: non ci si chiede come mai una tradizione riferisce che Pietro è stato martirizzato a Roma, e un’altra a Edessa; Matteo in Etiopia o in Persia; Filippo e Andrea in Grecia o in Scizia; Bartolomeo a Cipro o a Milano; Simone in Egitto o in Mauritania, Tommaso in India o in Scizia. La truculenza del fatto, unita al vittimismo ed agli exploits straordinarii, annichila l’interrogativo.
Ci sono casi di trasposizione da manuale come quello di “san” Giorgio, sul quale è distensivo spendere qualche parola per sommi capi. La tradizione vuole che il martirio di costui avvenne sotto il persiano Daciano (che però in molte recensioni è sostituito da Diocleziano), il quale convoca settantadue re per decidere le misure da prendere contro i cristiani, ma Giorgio, rifiutatosi di sacrificare agli dèi, distribuisce i beni ai poveri e si confessa cristiano dinnanzi alla corte. Il santo viene fustigato e gettato in carcere, dove ha una visione del Signore che gli predice sette anni di tormenti, tre volte la morte e tre la resurrezione; uscito di prigione, Giorgio ha la meglio sul mago Atanasio, che come ricompensa si converte e viene martirizzato.
Segato in due con una ruota acuminata, Giorgio resuscita e converte il magister militum Anatolio con tutte le sue schiere, che vengono giustamente ricompensate a fil di spada. La scena si sposta poi dinnanzi a re Tranquillino, a cui gentile richiesta il santo riporta in vita diciassette persone morte dalla bellezza di quattrocentosessant’anni, le battezza e le fa sparire; poi entra in un tempio pagano, e con un alito abbatte gli idoli. Colpita dai prodigi, l’imperatrice Alessandra si converte e… viene martirizzata; dopo ciò, stranamente, l’infaticabile ammazzasette si lascia tranquillamente spiccare la testa dal collo, promettendo protezione a chi onorerà le sue reliquie, non prima che l’Onnipotente abbia incenerito i suoi persecutori.
Fin qui con la leggenda, assai simile a tante altre negli effetti speciali (v. il caso di sant’Ansano); fuori da dettagli simbolicamente sospetti — i settantadue re etc. — e da chiare attestazioni di violenza vittimistica in aperto contrasto con l’ufficiosa propaganda di mansuetudine cristiana, si tratta, eziandio, di esagerazioni ad captandum che sovvertono le reali basi storiche. La storia esterna al mito intessuto dagli agiografi vuole che Giorgio di Cappadocia, oltre ad essere stato in sostanza uno speculatore di derrate alimentari militari e un eretico ariano, sia morto non già a causa di Diocleziano o Daciano che dir si voglia, bensì per mano delle fazioni ortodosse guidate dal vescovo cattolico Atanasio d’Alessandria, qui trasformato nel “mago” di cui sopra, poi esiliato nientemeno che da Giuliano l’Apostata appunto per questo misfatto. In secondo luogo, la leggenda del drago è una chiara rielaborazione locale dovuta al ritrovamento (citato da Plinio e altri) di uno scheletro di balena sulle coste di Lidda; infine, il 23 aprile era già stata una festa romana dedicata piuttosto a Marte, anziché al martire Giorgio.
Aneddoti del genere convergono nelle procedure di deformazione della storicità a vantaggio del fantastico. Altri casi analoghi sono quello di Apollonio, che si vede mutato il nome in Apollo, mentre il prefetto Perenne diventa tal Perermio, un proconsole d’Asia peraltro sconosciuto ai Fasti provinciali; nella versione armena, Apollonio conserva il suo nome, mentre il proconsole d’Asia diventa prefetto, ed è chiamato Terenzio. Molto spesso, onde cattivare l’accodiscendeza delle classi militari, ancora piuttosto legate al mitraismo, si ricorreva a temi epici e a metafore militaresche, nelle quali il santo combatte spargendo sangue in nome di dio e per l’onore del miles christi: a cominciare dalle figure militari dei vangeli, circa un quarto dei “martiri” e dei santi cristiani sono ex pagani impiegati nell’esercito, soprattutto stranieri come il san Maurizio della misteriosa Legione Tebana, mentre per gran parte della media si tratta di vergini e madri esemplari, temi cari alle matrone.
Per fornire tangibile attestato della remissività che derivava loro dalla contemplazione dell’Agnello, i santi padri gioivano nell’additare questi esempi e nell’immaginare quali atroci ricompense avrebbero atteso i feroci persecutori nell’aldilà: grazie a questi virtuosi del calamaio, uomini come Nerone, Diocleziano, Adriano, Decio, Domiziano, che siano stati o meno degli stinchi di santo per i casi loro, diventarono dei mostri efferati e sanguinarii il cui unico scopo era quello di seviziare i pacifici cristiani, per mero piacere personale.
Su tutto campeggiavano le “profezie” del Signore Gesù, il quale, forse consapevole dell’eccessiva sublimità delle sue dottrine, s’era premunito di prevedere le persecuzioni dei suoi futuri soldati; potremmo anche dubitare del fatto che qualcuno possa aver aggiunto queste puntuali profezie molto avanti nel tempo, vista la reale datazione della redazione dei vangeli più antichi, ma già parecchi grandi del calibro di Celso dubitavano di un dio “sconfitto dal demonio e da lui punito”, il quale inoltre
“ci insegna a disprezzare questa stessa punizione, profetizzando che Satana, dopo che sarà apparso agli uomini, esibirà grandi meraviglie, arrogandosi la gloria di dio; però, chi desidera essere salvato non deve prestar fede alle opere di Satana, bensì confidare solo in Gesù”.
Simili pretese, concludeva acutamente il grande filosofo neoplatonico
“sono chiaramente le parole di un illuso che cerca di pararsi le spalle contro coloro i quali lo osteggiano”.
Espedienti teatrali siffatti avevano lo scopo di foraggiare il senso dello stupefacente tramite l’iperbolico, e al contempo fiaccare gli avversarii guadagnando parimenti il consenso non solo delle classi umili, ma anche di quelle élites stanche e critiche: gradualmente, la resistenza fu fiaccata, assestando il colpo di grazia una volta che gli avversarii, impietositi e sgomenti, ebbero abbassato la guardia, così che i cristiani presero piede nella Cosa Pubblica sostituendosi alla vecchia gestione. Questo cambio di consegne fece sì che, come accade in tutti i casi del genere, l’anarchismo pro tempore si trasformò a sua volta in una forma d’intransigenza centralizzata oltremodo spietata, attuando — e stavolta storicamente — nel corso di ben due millenni delle straordinarie crudeltà quali gli imperatori romani e i loro sottoposti, per quanto “dissoluti” e spietati, poterono compiere solamente nella fantasia dei loro vili detrattori. Erano comunque autorizzati a farlo, poiché erano seguaci del vero dio; lo facevano “per amore”, come ci spiega Agostino nella lettera CLXXXV:
“C’è una persecuzione ingiusta, ossia quella inflitta dagli empii contro la chiesa di cristo, e una giusta, che è quella inflitta dalla chiesa agli empii. Tra l’altro, essa perseguita nello spirito dell’amore: gli empii in quello dell’odio” (2.11).
SANTO STEFANO MARTIRE ? SOLO VITTIMA DI FAIDE TRA CREDENTI
La celebrazione liturgica di s. Stefano è stata da sempre fissata al 26 dicembre, subito dopo il Natale, perché nei giorni seguenti alla manifestazione del Figlio di Dio, furono posti i “comites Christi”, cioè i più vicini nel suo percorso terreno e primi a renderne testimonianza con il martirio.
Così al 26 dicembre c’è s. Stefano primo martire della cristianità, segue al 27 s. Giovanni Evangelista, il prediletto da Gesù, autore del Vangelo dell’amore, poi il 28 i ss. Innocenti, bambini uccisi da Erode con la speranza di eliminare anche il Bambino di Betlemme; secoli addietro anche la celebrazione di s. Pietro e s. Paolo apostoli, capitava nella settimana dopo il Natale, venendo poi trasferita al 29 giugno.
Del grande e veneratissimo martire s. Stefano, si ignora la provenienza, si suppone che fosse greco, in quel tempo Gerusalemme era un crocevia di tante popolazioni, con lingue, costumi e religioni diverse; il nome Stefano in greco ha il significato di “coronato”.
Si è pensato anche che fosse un ebreo educato nella cultura ellenistica; certamente fu uno dei primi giudei a diventare cristiani e che prese a seguire gli Apostoli e visto la sua cultura, saggezza e fede genuina, divenne anche il primo dei diaconi di Gerusalemme.
Gli Atti degli Apostoli, ai capitoli 6 e 7 narrano gli ultimi suoi giorni; qualche tempo dopo la Pentecoste, il numero dei discepoli andò sempre più aumentando e sorsero anche dei dissidi fra gli ebrei di lingua greca e quelli di lingua ebraica, perché secondo i primi, nell’assistenza quotidiana, le loro vedove venivano trascurate.
Allora i dodici Apostoli, riunirono i discepoli dicendo loro che non era giusto che essi disperdessero il loro tempo nel “servizio delle mense”, trascurando così la predicazione della Parola di Dio e la preghiera, pertanto questo compito doveva essere affidato ad un gruppo di sette di loro, così gli Apostoli potevano dedicarsi di più alla preghiera e al ministero.
La proposta fu accettata e vennero eletti, Stefano uomo pieno di fede e Spirito Santo, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmenas, Nicola di Antiochia; a tutti, gli Apostoli imposero le mani; la Chiesa ha visto in questo atto l’istituzione del ministero diaconale.
Nell’espletamento di questo compito, Stefano pieno di grazie e di fortezza, compiva grandi prodigi tra il popolo, non limitandosi al lavoro amministrativo ma attivo anche nella predicazione, soprattutto fra gli ebrei della diaspora, che passavano per la città santa di Gerusalemme e che egli convertiva alla fede in Gesù crocifisso e risorto.
Nel 33 o 34 ca., gli ebrei ellenistici vedendo il gran numero di convertiti, sobillarono il popolo e accusarono Stefano di “pronunziare espressioni blasfeme contro Mosè e contro Dio”.
Gli anziani e gli scribi lo catturarono trascinandolo davanti al Sinedrio e con falsi testimoni fu accusato: “Costui non cessa di proferire parole contro questo luogo sacro e contro la legge. Lo abbiamo udito dichiarare che Gesù il Nazareno, distruggerà questo luogo e cambierà le usanze che Mosè ci ha tramandato”.
E alla domanda del Sommo Sacerdote “Le cose stanno proprio così?”, il diacono Stefano pronunziò un lungo discorso, il più lungo degli ‘Atti degli Apostoli’, in cui ripercorse la Sacra Scrittura dove si testimoniava che il Signore aveva preparato per mezzo dei patriarchi e profeti, l’avvento del Giusto, ma gli Ebrei avevano risposto sempre con durezza di cuore.
Rivolto direttamente ai sacerdoti del Sinedrio concluse: “O gente testarda e pagana nel cuore e negli orecchi, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo; come i vostri padri, così anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete divenuti traditori e uccisori; voi che avete ricevuto la Legge per mano degli angeli e non l’avete osservata”.
Mentre l’odio e il rancore dei presenti aumentava contro di lui, Stefano ispirato dallo Spirito, alzò gli occhi al cielo e disse: “Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo, che sta alla destra di Dio”.
Fu il colmo, elevando grida altissime e turandosi gli orecchi, i presenti si scagliarono su di lui e a strattoni lo trascinarono fuori dalle mura della città e presero a lapidarlo con pietre, i loro mantelli furono deposti ai piedi di un giovane di nome Saulo (il futuro Apostolo delle Genti, s. Paolo), che assisteva all’esecuzione.
In realtà non fu un’esecuzione, in quanto il Sinedrio non aveva la facoltà di emettere condanne a morte, ma non fu in grado nemmeno di emettere una sentenza in quanto Stefano fu trascinato fuori dal furore del popolo, quindi si trattò di un linciaggio incontrollato.
Mentre il giovane diacono protomartire crollava insanguinato sotto i colpi degli sfrenati aguzzini, pregava e diceva: “Signore Gesù, accogli il mio spirito”, “Signore non imputare loro questo peccato”.
Gli Atti degli Apostoli dicono che persone pie lo seppellirono, non lasciandolo in preda alle bestie selvagge, com’era consuetudine allora; mentre nella città di Gerusalemme si scatenò una violenta persecuzione contro i cristiani, comandata da Saulo.
Tra la nascente Chiesa e la sinagoga ebraica, il distacco si fece sempre più evidente fino alla definitiva separazione; la Sinagoga si chiudeva in se stessa per difendere e portare avanti i propri valori tradizionali; la Chiesa, sempre più inserita nel mondo greco-romano, si espandeva iniziando la straordinaria opera di inculturazione del Vangelo.
Dopo la morte di Stefano, la storia delle sue reliquie entrò nella leggenda; il 3 dicembre 415 un sacerdote di nome Luciano di Kefar-Gamba, ebbe in sogno l’apparizione di un venerabile vecchio in abiti liturgici, con una lunga barba bianca e con in mano una bacchetta d’oro con la quale lo toccò chiamandolo tre volte per nome.
Gli svelò che lui e i suoi compagni erano dispiaciuti perché sepolti senza onore, che volevano essere sistemati in un luogo più decoroso e dato un culto alle loro reliquie e certamente Dio avrebbe salvato il mondo destinato alla distruzione per i troppi peccati commessi dagli uomini.
Il prete Luciano domandò chi fosse e il vecchio rispose di essere il dotto Gamaliele che istruì s. Paolo, i compagni erano il protomartire s. Stefano che lui aveva seppellito nel suo giardino, san Nicodemo suo discepolo, seppellito accanto a s. Stefano e s. Abiba suo figlio seppellito vicino a Nicodemo; anche lui si trovava seppellito nel giardino vicino ai tre santi, come da suo desiderio testamentario.
Infine indicò il luogo della sepoltura collettiva; con l’accordo del vescovo di Gerusalemme, si iniziò lo scavo con il ritrovamento delle reliquie. La notizia destò stupore nel mondo cristiano, ormai in piena affermazione, dopo la libertà di culto sancita dall’imperatore Costantino un secolo prima.
Da qui iniziò la diffusione delle reliquie di s. Stefano per il mondo conosciuto di allora, una piccola parte fu lasciata al prete Luciano, che a sua volta le regalò a vari amici, il resto fu traslato il 26 dicembre 415 nella chiesa di Sion a Gerusalemme.
Molti miracoli avvennero con il solo toccarle, addirittura con la polvere della sua tomba; poi la maggior parte delle reliquie furono razziate dai crociati nel XIII secolo, cosicché ne arrivarono effettivamente parecchie in Europa, sebbene non si sia riusciti a identificarle dai tanti falsi proliferati nel tempo, a Venezia, Costantinopoli, Napoli, Besançon, Ancona, Ravenna, ma soprattutto a Roma, dove si pensi, nel XVIII secolo si veneravano il cranio nella Basilica di S. Paolo fuori le Mura, un braccio a S. Ivo alla Sapienza, un secondo braccio a S. Luigi dei Francesi, un terzo braccio a Santa Cecilia; inoltre quasi un corpo intero nella basilica di S. Loernzo fuori le Mura.
La proliferazione delle reliquie, testimonia il grande culto tributato in tutta la cristianità al protomartire santo Stefano, già veneratissimo prima ancora del ritrovamento delle reliquie nel 415.
Chiese, basiliche e cappelle in suo onore sorsero dappertutto, solo a Roma se ne contavano una trentina, delle quali la più celebre è quella di S. Stefano Rotondo al Celio, costruita nel V secolo da papa Simplicio.
Ancora oggi in Italia vi sono ben 14 Comuni che portano il suo nome; nell’arte è stato sempre raffigurato indossando la ‘dalmatica’ la veste liturgica dei diaconi; suo attributo sono le pietre della lapidazione, per questo è invocato contro il mal di pietra, cioè i calcoli ed è il patrono dei tagliapietre e muratori.
Autore: Antonio Borrelli
da http://www.santiebeati.it/dettaglio/22050
Categorie:Religione
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