STORIA DEL CRISTIANESIMO PRIMITIVO

Enrico Galavotti 

Homolaicus

IL CRISTIANESIMO PRIMITIVO.

PREMESSA

Con la svolta costantiniana nasce il cesaropapismo, cioè la divinizzazione dell’imperatore in nome del cristianesimo, con la conseguente cristianizzazione integrale dello Stato e la politicizzazione della chiesa.

Era inevitabile questo processo? La storiografia cattolica dice di sì, in quanto nella tarda antichità religione e Stato non conoscevano che un’integrazione reciproca, un legame indissolubile. Semmai Costantino sbagliò -ma questo lo dice solo la storiografia cattolica, non quella ortodossa- quando volle affermare il dominio assoluto dell’imperium sul sacerdotium.

In realtà il processo non era inevitabile, e per due ragioni: una, in riferimento allo Stato, riguarda l’Editto di tolleranza di Milano e, prima ancora, quello di Sardica emanato da Galerio, i quali avevano posto le basi giuridiche per il superamento della religione di stato; l’altra, in riferimento alla chiesa, riguarda la celebre frase evangelica di Mc 12,17, secondo cui Dio e Cesare sono due realtà separate.

La Lettera a Diogneto spiegava molto bene come un cristiano potesse comportarsi contemporaneamente come cittadino nell’ambito dello Stato e come credente nell’ambito della chiesa. In questa direzione, d’altra parte, andava interpretata l’affermazione di Gv 18,36 secondo cui il regno di Cristo non è di “questo mondo”.

Dunque la possibilità di costruire uno Stato laico e una chiesa libera c’era, ma la storia, a causa delle debolezze degli uomini, procedette diversamente. La chiesa cristiana non sbagliò quando combatté con tutte le sue forze l’integralismo pagano dello Stato romano; sbagliò quando volle sostituire quell’integralismo con il proprio, eliminando d’autorità ogni voce dissidente.

L’ideologia politica del cesaropapismo, seppur modificata, col passar dei tempi, dalle teorie del costituzionalismo, del giusnaturalismo, del contrattualismo, della sovranità popolare, della democrazia rappresentativa, dello Stato laico ecc., è rimasta sostanzialmente immutata in quell’area geo-politica caratterizzata dalla religione cristiana, sia essa nella confessione ortodossa, cattolica o protestante (persino in quella islamica!). Sono soltanto cambiate le forme.

L’impero zarista infatti ereditò, in maniera ancora più accentuata, il cesaropapismo bizantino, che i bizantini hanno sempre definito col termine di “sinfonia” o di “sacra diarchia”. Dal canto loro, gli Stati cattolici e protestanti moderni, tra concordati, intese o taciti compromessi, non hanno mai smesso di servirsi della religione per fini di potere.

L’unico momento in cui tale ideologia politica ha subìto un colpo mortale, dal quale non si è più ripresa, è stato nel 1917, con la rivoluzione d’Ottobre, allorché l’idea di una separazione dello Stato dalla chiesa ha incontrato un’effettiva applicazione.

Oggi tuttavia anche il sistema del cosiddetto “socialismo reale” si è dissolto. In campo “religioso” il governo della perestrojka, per la prima volta, ha ammesso che la contrapposizione ideologica tra Stato e chiesa, usata in maniera politica, era stata uno sbaglio clamoroso. Nessuno aveva il diritto di imporre alla società un’ideologia opposta a quella religiosa. Abolendo l’ateismo di Stato (mascherato da una laicità fittizia), i paesi socialisti non hanno introdotto ovviamente il cesaropapismo: hanno semplicemente costatato che se la chiesa può essere tenuta separata dallo Stato, essa non può essere tenuta separata anche dalla società. E’ dunque nella società che devono democraticamente confrontarsi laicità e religione, lasciando che sia la storia a decidere l’esito finale.

Quanto alla storiografia cattolica, qui è bene precisare che la sua critica del cesaropapismo non è mai stata disinteressata, in quanto a quella ideologia politica essa ha sempre contrapposto il “papocesarismo”, cioè la monarchia pontificia e l’uso strumentale dei poteri dello Stato. Ambrogio di Milano, nei suoi rapporti soprattutto con l’imperatore Teodosio, darà un contributo decisivo a questa dottrina.

Se si esamina, senza pregiudizi di sorta, la storia dell’impero bizantino, ci si accorgerà facilmente che il cesaropapismo è riuscito a imporsi solo in maniera politica, non ideologica. Molti imperatori cercarono di piegare la chiesa ortodossa alla loro propria ideologia, ma non vi riuscirono. (Due grandi oppositori alle pretese ierocratiche degli imperatori furono Crisostomo e Massimo Confessore). La chiesa ortodossa è rimasta sostanzialmente fedele all’ideologia del cristianesimo primitivo.

Viceversa, se si esamina la storia della chiesa cattolica medievale, si noterà, con altrettanta facilità, che essa non solo ha cercato continuamente di subordinare a sé ogni potere statale, ma ha anche modificato gli elementi sostanziali dell’ideologia cristiana primitiva per potersi opporre più efficacemente sia contro lo Stato sia contro la stessa chiesa ortodossa (si pensi, ad es., al Filioque, ai dogmi sul primato del papa, sulla sua infallibilità, su Maria ecc.).

La chiesa cattolico-romana riuscì a creare nel Medioevo una situazione così gravosa e insopportabile che la Riforma protestante, pur con tutti i suoi limiti, costituì sicuramente un momento di grande emancipazione.

Enrico Galavotti – Homolaicus


FILOSOFIA E RELIGIONE NEL I SEC. d.C.

Quando, nel I sec. d.C., la filosofia si trasforma in una religione, si ritorna, in un certo senso, alle origini orfiche, pre-filosofiche, ma senza l’ingenuità di allora. La nuova religione vuole porsi come superamento di una filosofia astratta, aristocratica, isolata.

Ma ciò che propone la religione non è meno astratto, anche se, nell’immediato, essa appare come una filosofia “popolare”, con tanto di riti, dogmi e sacramenti: una vera consolazione sociale per l’aldilà.

Engels direbbe che, dati i tempi, cioè le condizioni storico-oggettive, questo era inevitabile. In realtà, invece di parlare d’inevitabilità bisognerebbe attribuire quei limiti a delle cause soggettive, cioè allo scarso livello di consapevolezza politica dell’alternativa.

Gli uomini (e questo è possibile anche oggi e lo sarà anche domani) non avevano sufficiente fiducia nelle loro capacità di trasformare le cose. Forse perché pensavano che le cose potessero trasformarsi da sole, o con l’aiuto di qualche leader carismatico.

Questa sfiducia è certo il prodotto soggettivo di un limite oggettivo, ma non si può sostenere che il limite oggettivo di allora fosse molto più grande di quello odierno. Questo è un modo di vedere le cose positivistico.

Bisognerebbe invece dire che i limiti oggettivi sono in relazione all’ambiente in cui gli uomini vivono. Non si può infatti sostenere che nei secoli passati la liberazione sociale non fosse possibile perché non ne esistevano ancora i presupposti materiali. Non si può condannare il passato in nome del presente, altrimenti si finisce col rimandare a un futuro imprecisato quella liberazione che nel presente non si è stati capaci di realizzare.

Le condizioni dunque c’erano: solo che gli uomini non le hanno sapute sfruttare. La liberazione era possibile in relazione al livello di consapevolezza raggiunto. La rinuncia (più o meno volontaria) a questa liberazione non ha affatto aumentato, storicamente, la consapevolezza della sua necessità, poiché tale consapevolezza resta sempre un frutto della libertà. Ai fini della liberazione gli uomini di oggi non sono più avvantaggiati di quelli di 2000 anni fa, solo perché ci sono 2000 anni di storia che li separano. La differenza fra gli uomini di oggi e quelli di allora sta unicamente in questo: la liberazione oggi riguarda il mondo intero.

FILOSOFIA PAGANA E TEOLOGIA CRISTIANA

La teologia cristiana ha spostato l’attenzione dalla natura delle cose alla natura di dio, ha cioè trasformato l’essere metafisico della filosofia idealistica (platoniana soprattutto) in un dio triadico, personale.

Tuttavia essa ha dato agli uomini una speranza che la filosofia greca non seppe dare. Come noto, infatti, tutta la filosofia greco-romana ed ellenistica era rimasta un’esperienza aristocratica, individualistica, sprezzante della condizione degli schiavi (a parte rarissime eccezioni). La teologia invece, forte di una complessa organizzazione socio-ecclesiastica (di derivazione ebraica), seppe dare alla vita degli oppressi un significato più liberatorio, benché sempre nei limiti idealistici della filosofia ellenistica (limiti in cui si è consumato il tradimento, più o meno immediato, dell’autentico messaggio del Cristo).

Questo almeno in un primo momento. Il secondo tradimento della teologia si è infatti verificato nel momento stesso in cui la chiesa ha accettato d’essere considerata come l’unica ideologia possibile. Questo tradimento fu strettamente connesso all’altro: l’aver trasferito nell’aldilà la liberazione dalla schiavitù.

L’aver trasformato la divinità da un ente più o meno astratto a una natura unica in tre persone, strettamente legate alla storia dell’uomo, non è stato il grande contributo del cristianesimo, ma la più grande illusione con cui esso ha potuto superare, sul piano dei contenuti di vita, la filosofia greca, che aveva risposto al tema dell’alienazione delle masse proponendo un dio astratto e metafisico.

A questa grande illusione del cristianesimo solo il socialismo scientifico è stato in grado di costituire un’autentica alternativa. Fino adesso, in verità, l’alternativa del marxismo s’è espressa più in forma teoretica che pratica, in quanto il socialismo amministrato ha fatto bancarotta, ma non si può certo dire che la realizzazione pratica del capitalismo abbia veramente costituito un’alternativa alla religione.

Il capitalismo non solo si serve di tutte le religioni per sopravvivere, ma ne crea anche di nuove, in forma laicizzata e secolarizzata. Non sono forse delle “religioni” o non vengono forse usate come tali la droga, lo sport, la moda, i films, le auto, il profitto, il potere, il sesso ecc.?

La religione cristiana ha avuto la pretesa di poter risolvere quei problemi lasciati insoluti dalla filosofia greca (e dalla società greco-romana), ma ha fallito il suo obiettivo. Non solo perché ha fatto regredire l’umanità sul piano tecnico-scientifico, ma anche perché ha sostanzialmente ingannato le masse, promettendo paradisi per l’aldilà e chiedendo rassegnazione per l’aldiqua.

IL DIO GRECO ED EBRAICO

Qualunque raffigurazione di dio si possa fare, essa è sempre a immagine dell’uomo, poiché l’uomo -in quanto parte della natura- è la vera realtà oggettiva, mentre tutto il resto è pura astrazione, fantasia più o meno repressa, più o meno sublimata.

Se un “dio” esiste, esso non è alla portata dell’uomo, almeno finché l’uomo, per credervi, è costretto ad elaborare sofisticate filosofie religiose e teologie. “Dio” era una maggiore evidenza quando l’uomo era primitivo, cioè quando l’uomo vi credeva spontaneamente. Nel momento stesso in cui l’uomo ha cominciato a riflettere su stesso, e soprattutto sull’alienazione che viveva, ecco che “dio” ha perso ogni evidenza, e gli uomini si sono sentiti indotti a cercarla in maniera speculativa, nell’ambito del pensiero, imponendo l’esito della ricerca alle masse oppresse e incolte. Non è singolare che l’uso strumentale della divinità (che è quanto di meno religioso si possa pensare) è iniziato proprio nel momento in cui l’uomo ha smesso di credere spontaneamente nella divinità?

Probabilmente deve essere esistito un periodo storico in cui gli uomini non avevano alcuna vera concezione della divinità, in quanto si rapportavano direttamente alla natura e non conoscevano tra loro conflitti di classe. Poi la nascita dei conflitti di classe ha fatto emergere la necessità di un “dio protettore”. Col tempo questo “dio” ha assunto sempre nuove fisionomie, adeguandosi alle condizioni sociali degli uomini. Il suo bisogno è relativo al bisogno che hanno non gli uomini in generale, ma quelli che sottostanno ai rapporti di classe, di sentirsi in qualche modo protetti; questo almeno fino a quando gli oppressi non si convinceranno che esiste un’alternativa realmente praticabile all’antagonismo di cui sono vittime.

In fondo, quando i greci s’immaginavano un dio immobile, freddo, lontano dalle vicende degli uomini, avevano una concezione religiosa più realistica, più spontanea e immediata. Si rendevano conto che nessun dio ha rapporti con gli uomini. Il loro difetto è che spesso si servivano di questa cruda immagine per giustificare l’oppressione della loro società. Essi infatti attribuivano al fato (cui persino gli dèi erano sottoposti), e cioè a una sorta di superdivinità, la causa delle contraddizioni sociali del loro tempo.

In tal senso, il dio ebraico era più interessante. Un dio che si lascia “coinvolgere” con la storia degli uomini, soffrendo con loro, è un dio che merita d’essere adorato. Ma una concezione religiosa di questo genere presuppone necessariamente l’unità del popolo e un certo senso del progresso, cioè una fiducia nel futuro. Il dio freddo e distaccato dei greci presupponeva invece l’individualismo e il fatalismo. D’altra parte se una popolazione come quella greca avesse risolto il problema della schiavitù non avrebbe avuto una concezione così amara della divinità (nel migliore dei casi, poiché nel peggiore la concezione era frivola): non avrebbe avuto alcuna concezione.

Un dio freddo e distaccato forse può non sembrare così spontaneo come sembra, poiché nelle tribù primitive, meno intellettuali dei greci e meno interessate alla scienza, la concezione religiosa della divinità era più “calda” (vedi ad es. le superstizioni, la magia, il feticismo, l’animismo ecc.).

E tuttavia, il fatto di percepire la divinità come lontana dai processi storici, costituisce un progresso rispetto alle superstizioni del mondo primitivo; un progresso che, se vogliamo, avvicina la civiltà greca a quella fase dell’epoca primitiva in cui ancora non si credeva in alcuna divinità. La filosofia greca, in tal senso, può essere considerata come una giustificazione teorica di quell’ateismo spontaneo dell’uomo primitivo.

La differenza dove sta? Nel fatto che mentre l’uomo primitivo spontaneamente religioso non avvertiva la propria religiosità come un peso di cui liberarsi, il filosofo greco invece doveva fare non poche dimostrazioni teoretiche per dimostrare, a se stesso, che dio non esisteva e, al potere costituito, che forse da qualche parte esisteva. L’ateismo rigoroso è sempre stato perseguitato nella Grecia di Platone e di Aristotele.

Che poi questa concezione “fredda” della divinità sia scaturita da un contesto sociale individualistico e fortemente diviso in classi, ciò è un altro discorso. La storia ha voluto che fossero gli ebrei e non i greci a sperimentare l’unità del popolo.

Peraltro la stessa cosa successe nel Rinascimento italiano, allorché i nostri intellettuali, divisi tra loro e nei confronti delle masse popolari, non riuscirono a realizzare, pur essendo i più progressisti d’Europa, né la Riforma protestante né l’unificazione nazionale.

FEDE E RAGIONE

La chiesa cristiana è stata responsabile dell’interpretazione unilaterale, in senso religioso, del concetto di fede. La fede religiosa -come noto- ha un vizio di fondo, quello di portare a credere che l’oggettività delle cose non stia nelle cose in sé ma in un’entità astratta. Questa fede è sempre un fideismo.

Ciò ovviamente non significa che il fideismo non sia possibile anche nel materialismo storico. In fondo, là dove esiste autoritarismo e dogmatismo, lì esiste pure cieca obbedienza, fanatismo (anche se, in questo caso, il materialismo è già divenuto metafisico o meccanicistico).

Tuttavia, il fideismo del materialismo volgare, deformato, consiste in un’applicazione sbagliata della teoria o in un’interpretazione errata di una teoria sostanzialmente giusta.

Viceversa, il fideismo della religione è sin dall’inizio un’errata posizione pratica e teoretica. Questo anche se le sue conseguenze sugli uomini possono essere meno gravi di quelle che può procurare un’altra forma di fideismo.

Di fatto, chiunque attribuisce al demonio le cause del malessere sociale o aspetta da dio la soluzione dei suoi problemi, non può accettare neanche per ipotesi ch’esista nelle cose un’oggettività da scoprire.

In tal senso, la fede deve riacquistare una propria dignità etica, superiore a quella quella religiosa. In fondo è facile aver fede in dio onnipotente e protettore o nella divina provvidenza. Si tratta soltanto di non lasciarsi scandalizzare troppo dal male del mondo, cioè di assumere nei confronti di questo male un atteggiamento distaccato, ai limiti del cinismo.

Molto più difficile è aver fede negli uomini così come sono, “santi e peccatori”, soprattutto in quegli uomini che, pur essendo condizionati dalle contraddizioni sociali, credono ugualmente di poterle risolvere.

“Aver fede” che le cose possano cambiare è un segno di maturità. La ragione può aiutarci a capire in che modo, ma senza la fede, spesso le motivazioni della ragione (ai fini della mobilitazione pratica) non sono mai sufficienti. La verità oggettiva, finché non coinvolge il soggetto, è come una statua da contemplare.

COSCIENZA E PERSONA NEL CRISTIANESIMO

Il cristianesimo ha notevolmente sviluppato il concetto di “persona”, introducendo, per così dire, il valore della responsabilità personale, l’idea di libera scelta, il primato della coscienza…

Prima del cristianesimo era considerato “persona” solo l’individuo che disponeva di un certo potere o che ricopriva un qualche ruolo ufficialmente riconosciuto. Non si era “persona in sé”, a prescindere da tutto, ma soltanto in rapporto a qualcosa di estrinseco. Il valore di una persona era dato da qualcosa di “esterno”, che l’individuo doveva “possedere” per essere considerato qualcuno.

Nel mondo romano occorreva almeno lo status di cittadino libero: cosa che distingueva il romano dallo straniero, il libero dallo schiavo. Poi naturalmente vi erano i ruoli politici, sociali, culturali, religiosi.

Fra i cittadini liberi, l’uomo era più “persona” della donna, e il vecchio più del giovane.

Il cristianesimo invece, dando importanza al concetto di “persona in sé”, ha avuto il coraggio di affermare che l’essere umano, in coscienza, può essere “libero” anche se fisicamente o giuridicamente è “schiavo”.

Questo concetto fu rivoluzionario, poiché poteva impedire al potere costituito di servirsi del concetto di “ruolo” in maniera arbitraria.

E’ vero che il cristianesimo sosteneva che alle autorità bisognava obbedire non solo per “dovere” (come sempre era stato), ma anche per “motivi di coscienza” (col che si può pensare che il cristianesimo abbia legittimato eticamente il servilismo dei cittadini nei confronti delle autorità costituite); ma è anche vero che, una volta introdotto il concetto di “coscienza”, il cristianesimo veniva inevitabilmente a porsi in maniera concorrenziale col potere costituito, in quanto, se da un lato, il cristiano poteva predicare la subordinazione, dall’altro poteva anche predicare il contrario, a seconda delle circostanze contingenti, ovvero degli interessi in gioco.

In tal senso si può tranquillamente affermare che il cristianesimo, circoscrivendo il concetto di “coscienza” nell’angusto ambito della religione, ha fatto di questa uno strumento politico da poter usare anche in maniera eversiva (cosa che nell’ambito del paganesimo assai raramente avveniva: le religioni pagane che si opponevano al sistema, normalmente predicavano l’evasione dalla realtà).

La storia del cristianesimo ha dimostrato che ogniqualvolta le autorità cristiane chiedevano al credente di servirsi della propria coscienza per opporsi all’autoritarismo (vero o presunto) delle autorità laico-statali, lo scopo era anzitutto quello di aumentare i poteri politici della chiesa, cioè quello di servirsi dell’obiezione di coscienza per trasferire il totalitarismo da un potere istituzionale a un altro. Questo almeno è quanto è accaduto nell’ambito del cattolicesimo-romano.

Eccezioni se ne possono trovare nei primissimi secoli della nostra èra o in molti fenomeni ereticali, allorché i credenti si servivano della loro coscienza per opporsi anche al totalitarismo della chiesa.

Fintanto che il primato della coscienza sul ruolo è rimasto organico all’esperienza ecclesiale comunitaria, i vantaggi sul piano socio-culturale sono stati notevoli per la chiesa; e proprio in forza di questi vantaggi il cristianesimo ha potuto vincere la propria battaglia sul paganesimo.

I guai sono venuti quando il cristianesimo, nella forma storica del cattolicesimo-romano, ha rinunciato politicamente alla prassi comunitaria, trasformando il ruolo del pontefice in una monarchia teocratica assoluta. La conseguenza è stata la trasformazione del valore della persona in un concetto meramente astratto, oggetto di speculazione filosofica, cui appellarsi soprattutto quando la prassi individualistica comportava degli eccessi pericolosi.

Nel momento stesso in cui la contraddizione fra politica autoritaria e collettivismo più o meno democratico è giunta al culmine della tollerabilità, è nato il protestantesimo, che ha legittimato l’individualismo anche sul piano sociale. Ed è stato così che è poi nato il capitalismo.

Il capitalismo poteva nascere solo in un ambito che “cattolico” era più sul piano teorico che pratico, più sul piano politico che sociale. A questo punto le alternative erano due: o il cattolicesimo si trasformava in protestantesimo, permettendo al capitalismo d’imporsi con relativa facilità; oppure il capitalismo in fieri veniva politicamente costretto a ridimensionarsi, onde permettere al feudalesimo di sopravvivere. In Italia la chiesa cattolica scelse, attraverso la Controriforma, questa seconda strada.

A questo punto ci si può chiedere: perché il protestantesimo non ha promosso lo schiavismo invece del capitalismo? Perché lo schiavismo avrebbe potuto promuoverlo solo in termini non-cristiani, cioè solo là dove non fosse esistita alcuna coscienza cristiana (sul valore della persona).

Il capitalismo non è che la maschera cristiana dello schiavismo, cioè è il modo cristiano individualistico (e quindi protestante) di vivere lo schiavismo in un ambito dominato ideologicamente dal cristianesimo. Infatti, il capitalismo, a differenza dello schiavismo, garantisce formalmente la libertà a tutti i cittadini e lavoratori.

Questa maschera non è stata necessaria nei paesi extra-europei, dove, anche se sul piano pratico l’esigenza comunitaria si manifestava con un certo vigore, non si era ancora arrivati, in mancanza della profondità del cristianesimo, a elaborare un’ideologia del valore assoluto della persona. L’individuo veniva semplicemente considerato come una parte del tutto e mai, in nessun caso, come un elemento che, in virtù della propria consapevolezza di sé, poteva porsi al di sopra dei limiti comunitari e naturali.

Il cristianesimo ha vinto sulle culture non cristiane perché ha imposto il dominio politico e ideologico della persona astratta sul collettivo concreto, che ancora non aveva sufficiente consapevolezza della propria forza. Il dominio di una persona che di umano non ha più nulla, se non la consapevolezza di poter usare la libertà per compiere le azioni più negative.

Naturalmente c’è un rovescio della medaglia, che il cattolicesimo-romano non poteva prevedere: l’uso arbitrario del concetto di “persona” è possibile appunto perché questo concetto esiste. La sua esistenza può indurre gli esseri umani a considerare negativamente ogni forma di abuso e di arbitrio.

Le culture non cristiane, schiavizzate dal cattolicesimo-romano e dal protestantesimo, possono trovare nel cristianesimo originario la forza per emanciparsi, anche se la storia ha dimostrato, nel frattempo, che tale emancipazione può avvenire solo se i valori del cristianesimo vengono definitivamente laicizzati.

Enrico Galavotti – Homolaicus


IL TRADIMENTO DEL CRISTIANESIMO PRIMITIVO

(Dal Gesù storico al Cristo della fede)

Le autorità romane del I sec. -come risulta anche dagli storici Tacito e Svetonio- guardavano con sospetto i cristiani perché sapevano che Pilato aveva fatto giustiziare Gesù come ribelle contro il loro governo in Giudea. Era la stessa crocifissione che stava ad indicare il reato di sedizione. Numerosi erano stati gli ebrei (come tanti altri ribelli di cittadinanza non-romana) sottoposti a questo tipo di esecuzione.

Tuttavia, i quattro vangeli sono unanimi nel presentare Gesù falsamente accusato di ribellione dalle autorità ebraiche, le quali forzarono il procuratore (o prefetto) Ponzio Pilato a farlo giustiziare. La crocifissione, insomma, sarebbe stata un tragico errore giudiziario.

Il primo resoconto del processo e della condanna di Gesù è quello di Marco. I vangeli di Matteo e Luca non hanno alcun valore storico, avendo essi prevalentemente usato quello di Marco come modello. Decisive invece sono alcune parti del vangelo di Giovanni per comprendere Marco.

Il primo vangelo fu scritto dalla comunità cristiana di Roma verso il 60 d.C. Marco intervenne in maniera redazionale probabilmente dopo la catastrofe del 70, su un testo praticamente già completo. Oltre a questo “protovangelo” (di cui non abbiamo alcun originale), dobbiamo supporre l’esistenza di una produzione letteraria della comunità cristiana di Gerusalemme, scomparsa dopo che i romani distrussero la città nel 70. Questa produzione è andata in parte perduta, in parte censurata e manipolata dalla stessa chiesa cristiana ad indirizzo paolino.

La tradizione secondo cui i membri della chiesa cristiana fuggirono in massa prima della catastrofe del 70, rifugiandosi a Pella, città della Decapoli, va considerata leggendaria, poiché risale al IV secolo, quando apparve per la prima volta nella Storia ecclesiastica di Eusebio da Cesarea. Il quale sostiene che Gerusalemme fu risparmiata da Dio fino al 70 proprio in virtù della presenza degli apostoli, dopodiché venne distrutta per punire gli ebrei d’aver crocifisso il messia! E comunque, anche se i cristiani avessero effettivamente abbandonato la città, perché non condividevano l’estremismo zelota (con cui, a partire dal 66 d.C., si inaugurò la guerra decisiva contro Roma), dopo il 70 la teologia prevalente in seno al cristianesimo fu quella paolina. Lo attesta anche il fatto che la stragrande maggioranza delle Lettere neotestamentarie conservate sono quelle di Paolo o della sua corrente.

Probabilmente la prima parte del vangelo di Marco -fino all’ingresso messianico-, elaborata da cristiani di origine ebraica, non è stata modificata in modo sostanziale, a parte ovviamente tutti quegli aspetti su cui pesa di più l’influenza ellenistica della predicazione di Paolo, come ad es. il titolo che fa da prologo al vangelo (1,1), la descrizione della predicazione del Battista e del battesimo di Gesù (segno, questo, che le comunità paoline si erano avvicinate a quelle battiste, come da At 19,1ss.), i tre annunci della passione (in virtù dei quali si voleva sostenere il carattere “ineluttabile” della morte di Gesù per opera dei capi-giudei) e soprattutto la teoria del “segreto messianico”, che Marco ha usato per negare alla messianicità del Cristo qualunque valenza politica, mentre quella teoria in realtà era solo una tattica usata dal Cristo per togliere alla tradizione politica dell’ebraismo il carattere integralistico-teocratico. Il messaggio di Cristo è sempre stato, sin dall’inizio, di carattere “laico” e “universalistico”, in coerenza coll’obiettivo ch’egli si era posto di liberare politicamente la Palestina dall’imperialismo romano.

L’umanesimo laico lo si può notare, nel vangelo di Marco, in tantissimi episodi: violazioni del sabato, del precetto del digiuno, delle abluzioni rituali prima dei pasti, della proibizione a consumare cibi “impuri”; sfiducia nella assolutezza delle offerte sacre fatte a Dio; frequentazione dei pubblici peccatori; guarigioni senza invocazione dell’aiuto divino ecc.

L’universalismo invece lo si nota ove Gesù opera guarigioni in territori pagani (Gv 12,20s. afferma che nell’ultima Pasqua vi erano dei “greci” che volevano conoscerlo espressamente).

Viceversa, la seconda parte del vangelo di Marco -cioè la settimana di passione- è stata per lo più riscritta per far fronte alla situazione di disagio in cui la comunità cristiana di Roma era venuta a trovarsi dopo la fine di Gerusalemme. La comunità infatti doveva trovare qualche strada per eliminare lo scandalo della condanna di Pilato. La croce era stata sì uno scandalo per i giudei che attendevano un messia glorioso, ma dopo il 70 essa era diventata uno scandalo anche per i cristiani pagani, che, avendo rinunciato alla lotta rivoluzionaria, avevano bisogno di propagandare l’immagine di un Cristo assolutamente pacifico.

* * *

Secondo Marco il primo processo che subì Gesù fu quello davanti alle autorità giudaiche. Contrariamente alla sua versione, esso fu un processo del tutto informale, condotto non nell’apposita sala del Consiglio ma dapprima nella casa privata dell’ex-sommo sacerdote Anna o Anania (in carica dal 6 al 15 d.C.), poi -come dice Gv 18,24- in quella del sommo sacerdote in carica (dal 18 al 36 d.C.), Caifa: è da presumere che le autorità convocate, di notte, fossero tra le più intenzionate a volere la morte di Gesù.

A Marco interessava far notare che Gesù era sì il messia d’Israele, ma non quello politico-militare che Israele si attendeva. Il Cristo era anzitutto il “figlio di Dio” e il suo messaggio messianico era di tipo etico-religioso (in Giovanni sarà addirittura di tipo filosofico, metafisico).

Per sostenere questa tesi, Marco ha concentrato l’attenzione su due diversi aspetti: uno politico, l’altro religioso. Il primo riguarda l’accusa, rivolta a Gesù, di aver minacciato di distruggere il tempio: accusa che Marco vuol dimostrare essere “falsa e contraddittoria”(14,55ss.); il secondo riguarda la pretesa di Gesù di farsi “figlio di Dio”: pretesa che Marco ritiene pienamente legittima, al pari della condanna degli ebrei, da parte di Dio, per non averla riconosciuta.

Per quanto riguarda la prima accusa, Marco si era già premunito descrivendo la cacciata dei mercanti dal Tempio con un taglio di tipo “etico-religioso” (una sorta di purificazione simbolica). Marco non vede in quell’episodio alcuna finalità di tipo “politico”, soprassedendo al fatto che il sommo sacerdote veniva nominato dalle autorità romane, per cui un attacco contro il Tempio, indirettamente, significava un attacco contro Roma. (Non a caso gli zeloti nel 66 d.C. sostituiranno il sommo sacerdote in carica con uno scelto secondo la legge mosaica).

Il risvolto “morale” voluto da Marco sta appunto nel gesto fine a se stesso, compiuto dal solo Gesù, il quale, ancora una volta, suscita l’odio terribile dei sommi sacerdoti e degli scribi (i cui redditi e la cui autorità dipendevano anche da quei traffici), senza però riuscire a costruire con la folla un rapporto col quale porre fine a quegli abusi. La stessa collocazione temporale datagli da Marco (e condivisa da Matteo e Luca), e cioè pochi giorni prima della crocifissione, è servita semplicemente per confermare l’abisso “teologico” che doveva separare il Cristo dall’ebraismo.

Viceversa, in Gv 2,13ss. l’espulsione dei mercanti attesta la notevole popolarità di Gesù già agli inizi del vangelo (nessuno infatti intervenne per ostacolarlo: né la polizia giudaica né le truppe romane, insediate nella fortezza Antonia, che probabilmente vennero prese alla sprovvista. Cosa che non succederà in At 21,31ss., quando i romani interverranno subito per sedare l’aggressione contro Paolo nel cortile del Tempio). L’espulsione inoltre segna il distacco del movimento di Gesù da quello del Battista (che non avrebbe mai intrapreso un’azione del genere), ed è servita anche per verificare il livello di sensibilità democratico-rivoluzionaria presente nella Gerusalemme oppressa non solo dai romani ma anche da un governo giudaico corrotto o quanto meno collaborazionista. Gesù infatti dovrà per la prima volta costatare in Giudea la debole consapevolezza politica del movimento farisaico. Nicodemo -in Gv 3,1ss.- è l’eccezione che rappresenta una certa disponibilità al dialogo col movimento nazareno.

* * *

L’avversione nei confronti del Tempio e della legge mosaica è stata ripresa, in At 6,13ss., dall’ebreo ellenista Stefano, divenuto cristiano, che non aveva mai visto Gesù e non aveva alcun desiderio di combattere i romani, e che voleva la fine del primato del culto nel Tempio proprio perché odiava a morte i giudei, rei di aver crocifisso il messia-figlio di Dio. Viceversa, gli apostoli più stretti di Gesù, che continuarono a guidare il movimento dopo la sua morte, stranamente ripresero, stando ad At 2,46, a frequentare il Tempio, tanto che in occasione della persecuzione anticristiana scoppiata a Gerusalemme dopo il linciaggio di Stefano, solo loro poterono tranquillamente restare in città (At 8,1).

In effetti, il cristianesimo primitivo oscillò continuamente fino al 70 d.C. tra queste due posizioni contrapposte: quella filo-ellenistica di Stefano e poi di Paolo, che era avversa al culto del Tempio e al rispetto integrale della legge mosaica, e favorevole alla spoliticizzazione del messaggio evangelico, nonché alla sua apertura universalistica ai pagani in nome della fede mistica nella resurrezione di Gesù; e quella corrente filo-ebraica degli apostoli di Gesù, che, pur partendo dalla medesima fede nella resurrezione, si era posta in attesa di una imminente parusia trionfale del Cristo, sperando ancora in una liberazione politico-militare della nazione. Questa corrente, dopo la tragedia del Golgota, aveva ripreso col giudaismo un dialogo di tipo religioso che al tempo di Gesù (e i vangeli lo dimostrano) era già stato superato. Al rapporto rivoluzionario con le masse essa aveva sostituito il rapporto diplomatico con le istituzioni (si veda soprattutto il ruolo di Giacomo fratello di Gesù).

Saranno la mancata apocalisse, la predicazione mistica di Paolo e la distruzione di Gerusalemme a mettere fine, irreversibilmente, a questa speranza, facendo di un episodio (la tomba vuota), tutto sommato marginale ai fini della liberazione politica d’Israele, il pilastro fondamentale della nuova fede religiosa.

Ora, nella cacciata dei mercanti dal tempio, descritta da Gv 2,13ss., risulta chiaro non che Gesù volesse “distruggere” il Tempio, ma che il Tempio era già “moralmente” distrutto (in quanto la religione veniva usata per traffici commerciali e a fini di potere), e che se i farisei avessero riconosciuto a Gesù l’autorità per distruggerlo anche “politicamente”, cioè togliendo il potere ai sacerdoti (i sadducei), egli, con l’aiuto del popolo, avrebbe accettato immediatamente di porsi come “nuovo referente” per l’unificazione nazionale del movimento di liberazione.

I farisei però risposero che l’avrebbero aiutato se prima lui avesse dimostrato con un “segno” d’essere veramente la persona autorevole di cui Israele aveva bisogno (Gv 2,18). In pratica chiedevano a Gesù di compiere un atto di forza (terroristico, militare…) contro i romani, che inequivocabilmente attestasse la sua superiorità su ogni altra formazione politico-militare. Gesù naturalmente rifiutò: non perché fosse un “pacifista ad oltranza”, ma perché non era quello il modo di costruire la “democrazia popolare” in Israele.

* * *

In secondo luogo, come si è detto, Mc 14,61ss. è particolarmente preoccupato a evidenziare le ragioni per le quali il sommo sacerdote condannò Gesù non per sedizione, ma per bestemmia, in quanto che egli aveva avuto la pretesa (empia per i giudei) di farsi “figlio di Dio”.

Qui bisogna anzitutto premettere che l’idea di Marco di collegare “messianicità” a “divinità” non ha alcun senso storico, sia perché gli ebrei non si attendevano un “messia divino”, sia perché la cosiddetta “divinità” del messia-Gesù fu un’acquisizione apostolica post-pasquale; anzi, il primo a proclamare “Gesù Figlio di Dio”(At 9,20), non fu nessun apostolo, ma Paolo di Tarso, il quale applicò un appellativo in uso nel mondo ellenistico al Cristo scomparso dalla tomba, sostenendo che lui e solo lui era “il figlio di Dio”.

Marco, che ha scritto il vangelo in una comunità dominata dall’ideologia paolina (Le Lettere di Paolo furono scritte almeno 10 anni prima del suo vangelo) non solo ha voluto avallare la più grande mistificazione del cristianesimo, ma ha dato anche origine a un vergognoso antisemitismo, basato -questo sì- su accuse del tutto infondate.

Oltre a ciò va chiarito che se l’accusa di “autodivinizzarsi” può essere stata mossa a Gesù (e in Gv 10,33ss. lo è stata, ma da parte dei farisei in uno dei tanti dibattiti pubblici), essa non aveva il significato che le attribuiamo noi oggi. Dirsi “Figlio di Dio” per un ebreo equivaleva a dirsi “senza dio”, cioè “ateo”, poiché nessuno in particolare poteva avere una pretesa così grande al cospetto di Dio. Non la ebbe il giusto sofferente Giobbe, il quale affermò che “davanti a Dio l’uomo ha sempre torto”, e nemmeno la ebbero i re dell’antico Israele, che -a differenza delle monarchie pagane- non vennero mai considerati delle “divinità”.

In Gv 10,35s. Gesù afferma che tutti gli uomini devono potersi considerare degli “dèi”, cioè non dipendenti da alcun dio. Era questo che portava i farisei ad accusarlo non di aver la pretesa di essere il figlio “esclusivo” di Jahvé (questo concetto andava aldilà di qualunque immaginazione), bensì di portare gli uomini a non credere nella loro dipendenza assoluta dall’unico vero Dio. E i farisei, dal loro osservatorio “legalistico”, avevano ragione. Persino molti racconti di guarigione riportati da Marco lasciano trapelare l’ateismo di Gesù (si veda ad es. il fatto ch’egli non invoca mai il nome di Dio per guarire o non usa mai strumenti, riti, formule, scongiuri… di tipo religioso).

Se dunque è verosimile che i giudei abbiano potuto vedere in quell’affermazione una sorta di “empietà religiosa”, è assolutamente da escludere ch’essa vada interpretata -come vuole la chiesa cristiana, a partire da Marco o, se si vuole, da Paolo- nel senso che i sommi sacerdoti non hanno voluto riconoscere nel Cristo la sua natura divina: questa è davvero una sciocchezza colossale. Né ha senso ritenere che in virtù di essa si deve necessariamente dedurre che Gesù non è stato anzitutto condannato per motivi politici. Il dibattito sull’atteggiamento da tenere verso le questioni religiose dev’essere stato ben poca cosa, nella vita del Gesù storico, rispetto a quello sulle questioni politiche.

In altre parole, se Gesù poteva anche essere condannato alla lapidazione per empietà, di fatto la sua popolarità era troppo grande perché potesse essere veramente condannato solo per questo. Gv 11,57 lascia chiaramente intendere che persino la semplice libertà che Gesù si era preso di guarire in giorno di sabato, era considerata una violazione delle leggi divine (o mosaiche) e quindi un motivo sufficiente di condanna a morte, ma non per questo le autorità riuscirono a catturarlo. Ciò stava a significare che in alcune leggi tradizionali e soprattutto in alcune interpretazioni rabbiniche erano sempre meno gli ebrei che credevano.

In ogni caso Gv 18,19ss, nel descrivere il processo in casa di Anna, non riporta minimamente l’accusa che Gesù avesse minacciato di distruggere il Tempio, né afferma che il sommo sacerdote avesse chiesto a Gesù se fosse il messia-divino. Di “religione” proprio non si parla e neppure, quindi, del reato di bestemmia. Giovanni è l’unico dei quattro evangelisti ad avere la netta convinzione che Gesù sia stato giustiziato per motivi politici. Forse per questa ragione il suo vangelo aveva bisogno di un’altissima filosofia spiritualistica per essere “censurato”.

Nel momento in cui Gesù fu condotto davanti a una parte del Sinedrio (e non a “tutto”, come vuole Mc 14,55), ai capi religiosi -se vogliamo- non interessava nemmeno più verificare se egli pretendesse d’essere un messia politico-nazionale. Lo sapevano già. Gli scribi inviati in Galilea (Mc 3,22ss.) per verificare il suo operato, avevano già capito che lui (a differenza del Battista) pretendeva un potere di tipo politico. In Gv 18,19 il sommo sacerdote Anna lo interrogò per sapere anzitutto chi erano i suoi “seguaci” più fidati e solo in secondo luogo qual era la sua “dottrina”. Ecco perché al momento dell’interrogatorio -qui ha ragione Gv 18,21 ma vedi anche Mc 14,60s. e 15,4s.- Gesù rimase praticamente in silenzio. In effetti l’unica cosa che poteva fare era quella di aspettare che il popolo si sollevasse e lo liberasse, dai sacerdoti e dai romani.

Se dunque nel corso del processo avessero rivolto a Gesù la domanda riportata in Mc 14,61ss.: “Sei tu il Cristo?” (Marco aggiunge, apologeticamente, “il figlio del Benedetto”), Gesù non avrebbe potuto rispondere di “no” neanche se avesse voluto, perché fino a quel momento egli si era comportato proprio come un messia politico-nazionale. E il suo “sì” non sarebbe servito ai capi-giudei per cominciare a stabilire con lui delle trattative per liberare Israele. Essi lo detestavano perché a partire dalla cacciata dei mercanti sino alla persistente violazione del sabato avevano capito che un compromesso non era possibile.

Resta comunque storicamente inspiegabile -in Marco- il motivo per cui il Sinedrio, pur potendo condannare e giustiziare Gesù per aver bestemmiato (come in At 8,57s. farà con Stefano), decise invece di consegnarlo a Pilato. La natura dell’accusa presentata contro Gesù dai capi ebraici al tribunale romano non è riportata da Marco. L’elemento dal quale, per deduzione, si traggono indicazioni circa la motivazione della condanna è il titolo applicato sulla croce (Mc 15,26). Come noto, Gv 18,31 sostiene che il Sinedrio non poteva far giustiziare una persona colpevole di un delitto che comportasse la pena capitale, ma proprio l’esecuzione di Stefano, nonché quella di Giacomo fratello di Gesù, voluta nel 62 con decreto sinedrita -come scrive Giuseppe Flavio- attestano il contrario. Lo stesso Paolo aveva l’autorizzazione a fare “strage” di quei cristiani che non accettassero di farsi processare davanti al Sinedrio (At 9,1).

Tuttavia, Giuseppe Flavio dice chiaramente che l’ultima parola nelle questioni di vita e di morte spettava al procuratore romano. Evidentemente i giudei, sul piano formale, dovevano rispettare l’approvazione di Pilato, nel senso che pur potendo pronunciare sentenze di morte, avevano bisogno della convalida del procuratore.

E’ probabile però che nei casi concreti i capi-giudei si sentissero sufficientemente liberi, se sapevano che ciò non sarebbe dispiaciuto alle autorità romane, di ricorrere al linciaggio o ad altre forme di persecuzione nei confronti dei loro connazionali giudicati “eretici”. (In At 12,1-3, non fecero alcuna obiezione, anzi se ne rallegrarono, quando il re Erode Agrippa I nel 44 d.C, condannò a morte senza processo Giacomo Zebedeo e decise di arrestare Pietro).

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Il popolo ebraico, nel vangelo di Marco, compare all’improvviso durante l’ultima settimana di Gesù (Mc 15,8), senza una vera spiegazione (se si eccettua l’ingresso messianico, dove però scompare altrettanto improvvisamente). Questo popolo rivolge a Pilato una petizione (Mc 15,8 e Gv 18,39 dicono che era un’abitudine propria di Pilato durante la Pasqua) con la quale chiede di amnistiare un detenuto (Marco precisa che si trattava di un prigioniero politico).

Pilato -dice Mc 15,9- desiderava liberare Gesù, perché lo riconosceva innocente e politicamente inoffensivo (nel senso che sapeva, in qualche modo, che il regno di Gesù non si sarebbe imposto con la forza, al pari di quello del Battista. In Gv 18,36 Gesù afferma a chiare lettere che il suo regno non è di questo “mondo”).

Tuttavia Pilato preferisce far scegliere alla folla tra Gesù e Barabba (quest’ultimo era un capo zelota, il cui nome, in questa occasione, venne suggerito -come vuole Mc 15,11- dagli stessi sommi sacerdoti). Incitata dai capi religiosi, che erano “invidiosi” di Gesù (Mc 15,10), la folla chiede di liberare Barabba e di condannare Gesù. In tal modo il racconto amplifica la colpevolezza degli ebrei, scagionando quella di Pilato, che viene fatto passare per un debole e un opportunista.

Ora, lasciando da parte il mistero per cui la folla non si sia limitata a chiedere la liberazione di Barabba, ma abbia anche preteso la condanna di Gesù (le due cose in Gv 19,1ss. sono divise nel tempo, al punto che la richiesta di condannare Gesù viene formulata solo dopo la flagellazione), almeno per una ragione questa versione dei fatti non può essere attendibile: offrendo alla folla una scelta fra il patriota Barabba che aveva rischiato la vita contro i dominatori romani, e il pacifico Gesù che aveva consigliato di pagare il tributo a Cesare (Mc 12,13ss.), Pilato non aveva alcuna possibilità di salvare Gesù.

Per gli ebrei di allora questo pagamento costituiva una sorta di banco di prova del loro patriottismo, della loro lealtà alle migliori tradizioni profetiche e di resistenza popolare al nemico. In realtà Gesù, se mai la domanda di pagare o no il tributo a Roma gli sia stata rivolta e soprattutto in quei termini, non può aver dato una risposta così diplomatica: “Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”(Mc 12,17), che al massimo avrebbe potuto dare una comunità già spoliticizzata, o comunque non intenzionata a contrastare sino in fondo il potere costituito.

Di fronte a quella questione Gesù può semplicemente aver detto che era la forza di Cesare a obbligare gli ebrei a pagare il tributo e che il rifiuto di pagarlo poteva essere sostenuto solo da una forza opposta e superiore a quella romana: cosa che in quel momento ancora non esisteva, almeno nei termini di lotta terroristica o di azioni estremistiche e isolate in cui la resistenza veniva condotta. Quanto poi a distinguere la “proprietà” di Dio da quella di “Cesare”, questo è assolutamente irrealistico se riferito al Gesù storico. In verità, tutte le espressioni di Cristo in favore della fede in una divinità vanno considerate spurie e prodotte da un’ideologia mistica post-pasquale.

Ma c’è di più. Nel racconto di Marco, Barabba viene descritto con evidente disprezzo: uno dei “ribelli” che aveva partecipato a una rivolta antiromana ingiustificata. Questo modo di vedere le cose -come si può facilmente notare- fa sì che la scelta del popolo ebraico di preferire un “volgare assassino” all’innocente e “divino” Gesù appaia ancora più inspiegabile (o meglio appare spiegabile solo pensando che i giudei, “per natura”, fossero perfidi e malvagi!).

* * *

In realtà le cose devono essere andate ben diversamente. Anzitutto Pilato, al pari dei sacerdoti del tempio, non vedeva l’ora di catturare e giustiziare Gesù (la sommossa antiromana di Barabba doveva aver suscitato un certo fermento in città). In secondo luogo egli si rendeva conto che, data la popolarità di Gesù, non sarebbe stato facile eliminarlo (quando Gesù entrò trionfante nella capitale in groppa a un asino, che era il simbolo della messianicità, i romani devono aver tremato, perché sapevano che in caso d’insurrezione generale nella capitale non avrebbero avuto alcuna possibilità di successo). Non dimentichiamo che la coorte stanziata a Gerusalemme durante la Pasqua non superava i 600 uomini. Essa al completo fu radunata quando i soldati condussero Cristo dentro il pretorio, la residenza ufficiale del prefetto. Gv 18,12 addirittura afferma che fu tutta la coorte, guidata dal tribuno, insieme alle guardie dei giudei, a catturare Gesù nel Getsemani.

In terzo luogo l’idea di metterlo in alternativa a un estremista e terrorista politico come Barabba, doveva servire appunto per far condannare Gesù. Cioè a dire, Pilato, per eliminare il ribelle più pericoloso (perché più popolare), aveva bisogno di convincere la folla che il più temuto dai romani in realtà non fosse Gesù ma Barabba, proprio a causa del suo estremismo. A tal fine egli si servì anche della collaborazione del clero reazionario.

Il fatto stesso che la prima domanda posta da Pilato a Gesù: “Tu sei il re dei Giudei?”(Mc 15,2), sia stata proprio questa, attesta che tra il potere romano e quello giudaico vi era una certa intesa. Probabilmente l’intesa si sarà spinta sino alla scelta del detenuto da liberare: in Gv 18,3ss. è chiarissimo che addirittura l’arresto nel Getsemani, fatto da soldati romani e dalle guardie del Tempio, fosse un’operazione concordata tra i due poteri ufficiali.

Va inoltre detto che, siccome dell’usanza pasquale di liberare un prigioniero politico, non esiste altra testimonianza oltre quella evangelica, probabilmente essa non è mai esistita, anche se può essere del tutto realistica la decisione di Pilato di offrire al popolo la possibilità di una scelta (illudendolo di avere un certo potere). Dicendo che era un’usanza annuale, Marco sperava di togliere il sospetto che l’avesse escogitata lì per lì lo stesso Pilato. Cercò di togliere anche il sospetto che il processo non fosse giudiziario ma politico. In realtà il processo non solo era politico, ma per poter essere concluso senza “incidenti” di sorta, aveva necessariamente bisogno di un vasto consenso popolare (persino tra coloro che avevano simpatizzato per Gesù!).

Infine, Mc 15,10 non solo non spiega perché Pilato ritenne motivata dall'”invidia” l’azione dei grandi sacerdoti, ma usando una motivazione del genere toglie alla condanna di Gesù ogni rilevanza politica. Gesù in pratica sarebbe stato ucciso, secondo Marco, non perché era in gioco il destino della nazione ebraica, che doveva liberarsi dal dominio romano (e sulle cui modalità di liberazione di scontravano varie posizioni politiche, più o meno contrapposte), ma perché i capi religiosi temevano di perdere il loro potere sul tempio (e i farisei quello nelle sinagoghe), mentre Pilato, dal canto suo, preferiva “dare soddisfazione alla folla”(Mc 15,15), per timore che potessero scoppiare incidenti ancora più gravi.

Viceversa Gv 11,49s. fa chiaramente intendere che la preoccupazione principale delle autorità giudaiche non riguardava affatto gli aspetti religiosi della predicazione di Gesù, bensì quelli politici. Essi temevano che l’attività del movimento nazareno avrebbe finito col provocare un intervento romano che sarebbe risultato catastrofico per le sorti del Paese. In sostanza essi non credevano nella possibilità di una sollevazione popolare di massa o comunque dubitavano ch’essa avrebbe potuto sconfiggere l’imperialismo dello Stato più forte del mondo.

Ciononostante, proprio Gv 12,42 afferma che molti capi giudaici credevano in Gesù, anche se non lo ammettevano pubblicamente per timore che i farisei li cacciassero dalle sinagoghe. La corrente farisaica che dominava al tempo di Gesù era infatti quella che faceva capo alla scuola rigorista di Shammai, che sosteneva la necessità di radicalizzare la legge. Quella della scuola di Hillel, più “liberale” e preoccupata della coerenza pratica (ad essa appartenevano lo stesso Paolo di Tarso, come da At 23,6, e Giuseppe Flavio), si affermerà solo dopo la caduta di Gerusalemme nel 70. Probabilmente anche il notabile Giuseppe d’Arimatea (Gv 19,38) e l’archisinagogo Giairo (Mc 5,22) erano farisei. Luca dice in At 23,7 che sul tema della resurrezione dei morti i farisei parteggiavano coi cristiani contro i sadducei, ma questa intesa aveva già assunto un carattere regressivo.

* * *

La preoccupazione di Marco è stata dunque quella di protestare l’innocenza di Gesù in quanto “figlio di Dio” e di mostrare che gli ebrei non gli avevano creduto (nonostante tutti i suoi miracoli) perché volevano un messia politico-militare che trionfasse su tutti i nemici d’Israele, invece di un “uomo-dio” che insegnasse a tutto il mondo la legge dell’amore del prossimo.

L’attesa del suo ritorno glorioso “in Galilea”(Mc 16,7), di cui parla il “giovane” seduto sulla tomba vuota (simbolo della fede nella resurrezione), non va perciò intesa nel senso che gli apostoli avrebbero dovuto riorganizzarsi contro il sistema dominante, ma come un invito ad abbandonare la Giudea e quindi l’idea stessa di una rivoluzione politica. Gli ebrei non meritavano d’essere liberati dai romani, perché avevano ucciso l’unico leader che poteva veramente farlo. D’ora in avanti il cristianesimo avrebbe dovuto essere predicato ai gentili. Infatti il primo a riconoscere la “divinità” del Cristo è proprio il centurione romano ai piedi della croce, il quale, con la sua fede religiosa, riscatta, in un certo senso, il comportamento indegno di Pilato (Mc 15,39).

Ecco perché nella chiusura posticcia del vangelo di Marco, si sono potuti tranquillamente aggiungere, in luogo del “ritorno in Galilea”(espressione troppo ebraica), la “predicazione universale del vangelo” e il “giudizio universale” da parte del “Signore Gesù asceso al cielo, alla destra di Dio”(16,15ss.).

Enrico Galavotti – Homolaicus


PAOLO DI TARSO E LA SPOLITICIZZAZIONE DEL CRISTO

Paolo di Tarso, elaborando la teoria secondo cui il Cristo doveva morire per essere annunciato ai Gentili, in modo tale che il nazionalismo politico-religioso degli ebrei fosse sostituito dall’universalismo pagano della salvezza religiosa, contribuì fortemente a spoliticizzare la figura del Cristo, trasformandolo da “liberatore” a “redentore”.

L’idea della necessità della morte violenta di Cristo fa da pendant all’idea che il suo messaggio politico di liberazione non poteva essere realizzato nell’ambito della nazione israelitica.

Ora, poiché questa si poneva come semplice considerazione negativa (sul ruolo politico del Messia), in virtù della quale sarebbe stato impossibile formulare un progetto alternativo a quello classico del nazionalismo ebraico, Paolo ritenne necessario portare tale considerazione a conseguenze metafisiche, che le masse popolari avrebbero dovuto passivamente accettare.

E la conseguenza principale -secondo il “vangelo” di Paolo- fu questa: il Cristo morì di morte violenta perché così doveva essere.

La ragione di questa necessità metastorica viene motivata, nelle sue Lettere, da un fatto indubitabile: la conversione religiosa dei Gentili al cristianesimo; in maniera aprioristica invece essa viene fatta dipendere esclusivamente dalla imperscrutabile volontà divina.

Ovviamente Paolo non si è mai chiesto se, una volta realizzata la liberazione politica d’Israele, sarebbe stato possibile per i Gentili recepire positivamente il messaggio politico del Cristo storico. Un’eventualità del genere s’era incaricata la stessa storia a renderla irrilevante.

Paolo insomma non accettando l’idea che il messaggio del Cristo potesse avere ancora un valore politico-nazionale per i suoi seguaci e che potesse essere universalistico proprio nella sua politicità, ha preferito ridurre le esigenze politiche a esigenze religiose e abbinare l’universalismo a una spiritualizzazione astratta del Cristo.

LA QUESTIONE DELLO SCHIAVISMO

Perché Paolo non predicò mai nelle sue Lettere la liberazione degli schiavi? Semplicemente perché la riteneva inutile ai fini della salvezza personale, ch’egli intendeva in chiave etico-religiosa.

Il ragionamento di Paolo in sostanza si riduceva in questi termini: la liberazione della Palestina dai romani non è possibile perché non ci sono le condizioni; se la civiltà ebraica vuole sussistere in maniera originale deve trasformarsi profondamente, il che significa dover cercare un’integrazione con la civiltà ellenistica, che è nettamente dominante; la principale integrazione è quella di spostare l’attenzione dalla salvezza politico-nazionale a quella etico-personale; la salvezza dunque dipende non da ciò che si fa contro il sistema oppressivo, ma dalla fede in ciò che supera il sistema in un’altra dimensione: il regno dei cieli. Ora, se la salvezza dipende dalla fede in questo regno dei cieli, frutto della volontà di dio (cosa che secondo Paolo è stato dimostrato una volta per tutte dalla resurrezione di Cristo), la salvezza può essere acquisita in qualunque condizione o formazione sociale, poiché la fede è un atto di coscienza, il frutto di una libertà interiore, che chiunque può avere. Si tratta semplicemente di credere che solo dio può salvare o liberare.

Se il Cristo, pur potendolo, ha rifiutato di realizzare il regno di giustizia sulla terra, allora ciò significa che nessun regno di giustizia è possibile sulla terra e che la terra stessa non è il luogo di una liberazione possibile. 

Paolo non solo rifiuta di considerare il problema della salvezza-liberazione in termini socio-politici (il che poteva far comodo ai regimi autoritari), ma relativizza anche qualunque pretesa umana di realizzare questo obiettivo sulla terra (il che può risultare scomodo alla demagogia degli stessi regimi autoritari, oltre che ovviamente nocivo agli interessi di una vera liberazione).

Paolo aveva a disposizione alcuni modi per convincere gli schiavi e gli oppressi ad accettare il cristianesimo: 1) dimostrare che con l’aiuto reciproco interno alle comunità cristiane, i ceti marginali avrebbe potuto affrontare meglio le contraddizioni del sistema; 2) garantire che tra gli appartenenti non ci sarebbero state discriminazioni di sorta sul piano culturale; 3) invitarli a combattere il regime autoritario attraverso lo strumento della “resistenza passiva”, il cui principio fondamentale era questo: “solo Cristo è dio, solo in lui c’è la salvezza”.

Ovviamente Paolo chiedeva anche agli schiavisti divenuti cristiani di trattare bene i loro subordinati, specie se cristiani come loro, nella consapevolezza che “non c’è preferenze di persona presso Dio”(Ef. 6,9).

Da parte dei cristiani avversi al paolinismo era difficile contestare una simile ideologia, in quanto di fatto il potere romano, che si trovava nella fase di dover gestire con la massima durezza un impero vastissimo, la perseguitava non meno delle ideologie rivoluzionarie.

L’ideologia di Paolo comincerà ad avere un vero successo popolare solo quando, sotto Costantino, il potere si vedrà costretto, pur di salvare l’impero dalla forza d’urto delle etnie barbariche, a cercare compromessi d’ogni sorta.

Paradossalmente il paolinismo apparve un’ideologia rivoluzionaria non tanto perché riuscì a coinvolgere i ceti marginali, quanto perché il sistema romano era schiavista al 100% e non tollerava interferenze di alcun tipo; quando anche gli schiavisti cominciarono ad accettare il cristianesimo, trasformandosi in signori feudali, lo schiavo, trasformato a sua volta in servo della gleba, continuerà ad avere l’impressione che il paolinismo meritava d’essere considerato un’ideologia vincente. L’illusione insomma si perpetuò per un incredibile numero di secoli.

Il cristianesimo non riuscì mai a teorizzare che la posizione dello schiavista prima e del feudatario dopo era oggettivamente votata allo sfruttamento del lavoratore, a prescindere dagli atteggiamenti di tipo personale, ovvero che quel ruolo oggettivo impediva, in ultima istanza, di assumere un atteggiamento troppo benevolo e tollerante nei confronti del lavoratore subordinato.

Un atteggiamento del genere avrebbe dovuto portare col tempo al superamento e dello schiavismo e del servaggio: superamento “vero” di entrambi e non “fittizio”, come fu quello dello schiavismo per opera del servaggio. Se il padrone è davvero “buono”, che bisogno c’è che qualcuno gli faccia da schiavo o da servo? Al cospetto di una classe di proprietari così “democratica”, la schiavitù avrebbe ancora avuto un senso se fosse stata “facoltativa”, a discrezione cioè di colui che voleva accettarla come stile di vita: il che non ha senso e non è mai avvenuto da nessuna parte.

Se vogliamo, il fallimento del cristianesimo medievale è dipeso anche dal fatto che i feudatari non si sono rivelati così democratici come il cristianesimo li voleva dipingere o come si sperava che diventassero.

La trasformazione dello schiavo in colono e servo della gleba è senza dubbio avvenuta sulla base di necessità economiche (in quanto l’attività dello schiavo non era più redditizia come al tempo in cui tale manovalanza si poteva trovare sul mercato con relativa facilità), e tuttavia molti intellettuali e lavoratori cristiani devono aver sperato che in tale trasformazione potessero democratizzarsi, anche in virtù del cristianesimo, i rapporti socioeconomici.

I fatti purtroppo diedero torto a queste speranze. Gli schiavisti e i feudatari non si lasciarono impensierire più di tanto dall’idea che nell’aldilà esiste un giudizio universale che premia i buoni e punisce i cattivi. Lo schiavo e il servo della gleba potevano anche fidarsi della magnanimità dei loro padroni, ma in ultima istanza nulla si poteva fare quando tale benevolenza veniva meno per una serie sfortunata di circostanze: cattivo raccolto, siccità, carestia, epidemie ecc., che a quei tempi erano all’ordine del giorno.

Schiavo e servo della gleba dovevano accettare la loro condizione come frutto di una decisione divina, indipendente da qualunque considerazione storica, sociale e politica. Nel momento stesso in cui si comincerà a mettere in dubbio la necessità di questa rassegnazione, nascerà l’epoca moderna. 

La trasformazione del servo della gleba in operaio salariato aprirà poi un nuovo capitolo nel libro delle illusioni.

Enrico Galavotti – Homolaicus


L’OPPOSIZIONE DI PRINCIPIO FRA STATO ROMANO E CHIESA CRISTIANA

E’ nota agli studiosi di storia romana la classica tesi della storiografia cattolica secondo cui solo nel III secolo l’opposizione tra Stato e chiesa cristiana divenne di principio. Prima di allora le persecuzioni – si sostiene- furono un’eccezione, caratterizzate da una grande disparità di motivazioni e di procedure. Stando a Tertulliano, furono soprattutto gli ebrei fontes persecutionum dei cristiani.

Uno Stato di diritto come quello romano -dice sempre tale storiografia- non poteva essere un persecutore ope legis. Lo dimostra il fatto che già nel II secolo fu possibile a comunità di cristiani acquistare dei fondi per costruire delle chiese; a Giustino erigere a Roma una propria scuola pubblica; a tanti scrittori produrre una vasta letteratura edificante e apologetica.

Le stesse vessazioni subìte da Paolo di Tarso non furono volute direttamente dal potere romano, ma dall’odio dei giudei ortodossi, che seppero avvalersi dell’appoggio delle autorità locali. Paolo, infatti, diversamente dai giudei, divideva nettamente la religione dalla politica (Dio da Cesare), e se sul piano religioso predicava, come gli ebrei, un monoteismo che allo Stato romano poteva non piacere, sul piano politico invece, diversamente dagli ebrei, mostrava nei confronti delle istituzioni un lealismo tale da rendere incomprensibile ogni persecuzione (cfr Rm 13,1ss., 1 Tm 2,1s., Tt 3,1).

Insomma le persecuzioni si possono spiegare solo pensando che a causa della predicazione paolina i giudei provocavano tumulti, nei quali tendevano a confluire le masse oppresse di religione non ebraica, che s’illudevano di poter modificare le cose organizzando pogrom contro cristiani ed ebrei. A parte questo, le persecuzioni anticristiane non furono che il frutto di un tragico malinteso (come da un tragico errore giudiziario dipese la crocifissione del Cristo). Se l’opposizione fosse stata di principio lo Stato, ufficialmente, avrebbe cominciato a perseguitare i cristiani sin dal I secolo. Lo Stato romano invece tollerò il cristianesimo perché non vedeva in esso un vero nemico. Esso acconsentì ai soprusi per accontentare la società pagana.

Che lo Stato fosse tollerante nei confronti del cristianesimo è dimostrato -dice ancora tale storiografia- da due cose: 1) le persecuzioni non furono mai sistematiche ma alternate a periodi di grande tolleranza; 2) con la svolta costantiniana lo Stato, in cambio della legalizzazione, non pose alcuna condizione al cristianesimo, anzi lo privilegiò su tutte le altre religioni.

Detto questo, la storiografia cattolica non può offrire altre spiegazioni del motivo per cui, posta l’inesistenza di un’opposizione di principio, le persecuzioni più gravi avvennero non all’inizio dell’impero romano ma alla fine, cioè proprio quando le masse popolari pagane vi acconsentirono senza convinzione.

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In effetti, le persecuzioni anticristiane volute con editto imperiale vanno solo da Decio a Diocleziano. L’Institutum neronianum di cui parla Tertulliano non è mai esistito, anche se il pogrom organizzato da Nerone costituì un importante precedente che permetterà non solo alla popolazione pagana, ma anche alle autorità statali di continuare, più o meno indisturbate, sulla via dell’intolleranza.

Ma questo non significa che l’opposizione di principio maturi solo a partire dal III secolo. Lo Stato cominciò a intervenire motu proprio quando s’accorse che a livello di società civile non esistevano più le forze per una opposizione spontanea alla diffusione del cristianesimo. Esso era convinto che la società pagana sarebbe riuscita da sola ad arginare il fenomeno (così come aveva saputo fare con l’ebraismo). Lo Stato cioè era talmente scollato dalla società che non si rendeva conto quanto questa fosse moralmente debole per vincere la forza (ideale soprattutto) del cristianesimo. I pagani si opponevano al cristianesimo sostanzialmente solo attraverso i linciaggi, le calunnie, le delazioni e altre cose spregevoli. Non esisteva un vero confronto culturale, anche se non dobbiamo dimenticare la barbara distruzione dei testi pagani anticristiani ad opera della chiesa costantiniana e soprattutto teodosiana.

Ma quando lo Stato comincerà a intervenire le sue angherie appariranno ancora più insensate di quelle della società civile. Pur avendo gli strumenti della legge, dell’apparato poliziesco-amministrativo e persino della forza militare, con cui organizzerà nel III secolo una repressione generalizzata, ordinaria e straordinaria, contro la religione più irriducibile, meglio strutturata e più diffusa, esso non riuscirà ad ottenere assolutamente nulla.

E quando smetterà d’intervenire? Quando s’accorgerà che l’opposizione era solo ideologica non politica, cioè quando s’accorgerà che il cristianesimo, pur mettendo teoricamente in discussione tutto l’esistente, in pratica voleva conservarlo. Fu questo dualismo di teoria e prassi -incomprensibile a un filosofo come Celso o come Porfirio- che determinò l’inizio delle persecuzioni e la loro fine. In nome della teoria le persecuzioni erano giuste, in nome della prassi erano sbagliate, perché sotto questo aspetto il cristianesimo era più o meno come le altre religioni.

In questo senso appare limitata anche l’affermazione di A. Donini, secondo cui “non è l’impero che si è convertito al cristianesimo, all’inizio del IV secolo; ma all’inverso, il cristianesimo ha fatto proprie le nuove strutture statali, destinate a perpetuare in modo più articolato le antiche forme di dominio di classe, attraverso un controllo non meno duro e sanguinoso sugli strati subalterni”(Storia del cristianesimo, ed. Teti, p.188).

E’ vero, il cristianesimo sin dai tempi di Paolo era disposto ad accettare l’impero, ed è anche vero che quando potrà ufficialmente accettarlo esso subentrerà al paganesimo di stato con molta naturalezza, ma è anche vero che l’impero si convincerà ad accettare questa generosa offerta solo con Costantino. Cioè occorrerà una decisa e reciproca convergenza d’interessi, politici ed ideologici, prima che maturi l’intesa, e questa maturò dopo due secoli di dura ostilità, nel corso dei quali morirono centinaia di martiri che molto probabilmente non avrebbero affatto desiderato una svolta come quella “costantiniana”.

Non solo, ma l’intesa, così come l’aveva voluta Costantino, poté essere continuata, proseguendo sulle tradizioni romane, solo in Oriente, poiché in Occidente lo Stato romano era consapevole che la chiesa cristiana non gli avrebbe permesso quella autonomia di cui esso aveva bisogno per non tradire quelle tradizioni.

Infine va detto che il cristianesimo, pur con tutti i suoi limiti (che sono quelli di ogni religione), contribuì alla democratizzazione della politica e alla umanizzazione della cultura del tempo (specie nell’area bizantina), favorendo il passaggio dallo schiavismo al colonato e da questo alle comuni agricole del feudalesimo (con o senza servaggio).

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La storiografia cattolica sostanzialmente non comprende questo, che lo Stato romano non poteva avere nei confronti del cristianesimo la stessa opposizione di principio che doveva avere nei confronti di un’ideologia rivoluzionaria (come ad es. quella zelota o probabilmente quella del movimento nazareno di Gesù Cristo).

Lo Stato romano sapeva bene che raramente in nome di una religione i suoi aderenti fanno opposizione politica al sistema. Anche in questo caso l’ebraismo -con la sua idea teocratica e nazionalistica- costituiva un’eccezione. Fra le religioni ellenistiche vi potevano certamente essere atteggiamenti ribellistici, ma di regola essi restavano entro una forma pre-politica (anche immorale, come nei baccanali).

Generalmente una persona legata a una religione non è mai politicamente ostile al sistema dominante, al punto da organizzarsi per cercare di rovesciarlo (cfr 1Pt 2,13ss.). Già i primi cristiani nelle loro funzioni pregavano per l’impero e per l’imperatore (cfr la Lettera ai Corinti, 60-61, di papa Clemente romano, che pur essendo stata scritta nello stesso periodo dell’Apocalisse di Giovanni contrasta notevolmente per i suoi contenuti).

Gli stessi ebrei usavano sì la loro religione per opporsi politicamente all’impero, ma non per rovesciare il potere dominante. Essi volevano solo una nazione libera dai romani, quindi la loro religione era nazionalistica. Essi ottennero il privilegio della religio licita proprio per questa ragione, e non per questa ragione lo Stato romano rinunciò a distruggere Gerusalemme e qualsiasi opposizione politica dei giudei.

Ecco perché inizialmente lo Stato romano non attaccò subito il cristianesimo, o meglio si limitò ad attaccarlo in quanto lo confondeva con una delle sette dell’ebraismo. Lasciò che fosse la popolazione a decidere come comportarsi. E la popolazione pagana capì che del cristianesimo non ci si poteva fidare.

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Perché la religione pagana era così strettamente legata alla politica? Perché giustamente la società riteneva che il fine del cives fosse quello di lottare per modificare al meglio il presente. In tal senso la religione doveva essere uno strumento al servizio della politica, per realizzare degli ideali politici. Lo jus sacrum era parte integrante dello jus publicum. La libertà religiosa classica era la facoltà del cittadino non di scegliere in coscienza la propria religione e di aderirvi in base a una fede personale, ma era di partecipare al culto delle istituzioni religiose pubbliche. Il paganesimo, in questo senso, era molto più concreto di quel che non sembri. Il giovane Hegel lo comprese perfettamente.

Perché allora il cristianesimo ebbe la meglio? Perché la politica romana era classista e la religione, essendo subordinata alla politica, non faceva che avvalorare lo status quo, cioè una situazione sociale del tutto estranea agli interessi dei ceti marginali. Schiavi, meteci, liberti, stranieri… erano esclusi dalla religione ufficiale romana, mentre i plebei cittadini romani dovettero lottare moltissimo per non essere esclusi dalle cariche sacerdotali. Di qui l’importazione clandestina dei culti orientali, che offrivano la possibilità di credere in un’alternativa. Fino agli Antonini, non dimentichiamolo, la legge non riconoscerà agli schiavi alcun diritto civile e religioso.

La contraddizione tra teoria e prassi nella religione pagana era sicuramente superiore a quella del cristianesimo, ed essa si manifestò molto di più sotto l’impero, dove lo Stato, per contenere lo sviluppo delle contraddizioni del sistema schiavistico, fu costretto, sul piano culturale, da un lato ad accettare tutte le religioni (anche quelle orientali), sperando di poterle usare per fini politici; dall’altro a rifiutarle tutte puntando in primis sul militarismo e sul culto imperiale per tenere unito l’Impero. Esso perseguitò il cristianesimo perché pensava che il monoteismo assoluto avrebbe acutizzato i conflitti di classe. Lo perseguitava nell’illusione appunto di placare tali conflitti.

Le repressioni contro il cristianesimo servirono alle autorità romane come valvola di sfogo per le contraddizioni sociali dell’impero. A tale scopo si può dire che ad esse parteciparono anche i ceti sociali oppressi, almeno in un primo momento. Il cristianesimo era odiato da tali ceti per due ragioni: 1) perché vedevano i cristiani disinteressarsi alle sorti dell’impero; 2) perché, nonostante la crisi economica dell’impero, vedevano che i cristiani -grazie alla loro efficiente organizzazione sociale- riuscivano a sopportarla con minore fatica.

Tuttavia, fra i ceti marginali, quelli che non avevano più nulla da perdere (gli schiavi) o quelli che rischiavano di perdere tutto (piccoli proprietari) potevano sentirsi indotti ad abbracciare questa nuova religione (cfr l’episodio di Anania e Saffira in At 5,1ss.). E’ un’illusione quella di credere che i ceti marginali, solo perché tali, dovessero necessariamente simpatizzare per i cristiani. Occorreva anche fare un salto culturale non indifferente per quell’epoca. Ecco perché all’inizio il cristianesimo potè diffondersi solo nelle città, tra quei ceti che pur non essendo particolarmente benestanti, non erano neppure così sprovveduti sul piano culturale da non capire la portata innovativa della nuova religione.

Ma se questo è vero, non è però vera la tesi che la più recente storiografia cattolica sostiene, secondo cui è bene scagionare le autorità statali dalla responsabilità di aver preso tutte le iniziative delle rappresaglie anticristiane, addebitandola invece ai pregiudizi e all’ignoranza delle masse popolari di religione pagana. Gli imperatori o i governatori locali -essa dice- non erano mossi da un fanatico integralismo che li portasse a perseguire i cristiani per la loro fede: piuttosto si adattavano alle esigenze del momento.

In realtà è da escludere che, nell’affermata identità di politica e religione pagana, non vi potessero essere persecuzioni direttamente volute dallo Stato. Lo Stato poteva anche non essere intenzionato a volere tali persecuzioni, ma per escludere, con relativa sicurezza, tale eventualità, esso aveva bisogno di verificare una semplice cosa, che la modalità d’esistenza di una determinata religione rientrasse nei due canoni tradizionali: lealismo politico e politeismo religioso.

E’ assolutamente da escludere l’idea che lo Stato romano fosse favorevole alla libertà di coscienza e di culto. La religione non era affare esclusivamente privato. Qui ha perfettamente ragione Donini, quando dice che “col passaggio dalla società gentilizia allo Stato schiavista… e poi al principato, la religione romana è sempre più diventata un fatto politico… La religiosità degli strati subalterni era intensa e differenziata, ma nei limiti di una prassi rigorosamente controllata dall’alto”(op.cit., p.188).

La separazione di Stato e chiesa è un principio mutuato dal cristianesimo, per quanto proprio il cristianesimo, con la svolta costantiniana, sia stato il primo a tradirlo. Tale separazione implicava una concezione apocalittica della storia, cioè la convinzione che il cristiano doveva considerarsi come un pellegrino sulla terra, in attesa della fine dei tempi (vedi La lettera a Diogneto). Senza la fede assoluta in un aldilà decisamente migliore dell’aldiqua, la separazione non sarebbe mai nata. Il motto evangelico “Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”(Mc 12,17), nonostante si presentasse come un tradimento dell’istanza di liberazione politica dall’imperialismo romano, costituiva pur sempre una novità assoluta rispetto all’integralismo romano del tempo.

L’opposizione era quindi di principio sin dall’inizio dell’impero. Sotto un regime schiavistico non solo era impensabile tollerare delle ideologie politiche che prevedessero ribellioni contro il sistema, non si potevano neppure tollerare delle religioni che separassero Dio da Cesare. Benché in virtù di tale separazione si dovesse escludere il carattere rivoluzionario di una religione, lo Stato romano non poteva assolutamente tollerare che potesse esistere una religione indipendente dalla sua politica. Nel III secolo vi fu solo un aggravamento quantitativo delle persecuzioni, nonché una definitiva legittimazione giuridica.

Tale opposizione, contro una religione che pretendeva d’essere alternativa a quelle ufficiali, non poteva essere condotta immediatamente con strumenti giuridici e politici. Aveva bisogno di vari pretesti costruiti ad arte, in cui una buona parte della popolazione avversa al cristianesimo fosse coinvolta. Di qui l’incendio di Roma sotto Nerone. Di qui le accuse di infanticidio, di antropofagia, di incesto, di adorazione di un asino ecc., senza considerare le attribuzioni di responsabilità ai cristiani ogniqualvolta accadevano calamità naturali o sconfitte militari. I pregiudizi e le calunnie aumentavano in proporzione alla crisi della società pagana e al successo della religione cristiana, anche se ad un certo punto cominciarono a nascere fiducia e comprensione. Agostino, con la sua De Civitate Dei, era ancora alle prese con questo problema.

La storiografia cattolica che non accetta questo modo di vedere le cose, inevitabilmente tende:
1) ad attribuire alla svolta costantiniana, nonostante i suoi limiti “cesaropapisti”, un ruolo favorevole all’affermazione dell’identità cristiana;
2) a escludere recisamente che il cristianesimo primitivo sia nato in antitesi alle idee di Cristo;
3) a negare al cristianesimo, nonostante il suo tradimento del messaggio di Cristo, qualunque caratterizzazione eversiva (tipica p.es. dell’Apocalisse di Giovanni);
4) ad attribuire all’ebraismo una parte dei motivi che opponevano cristiani e pagani, cioè a non riconoscere all’ebraismo neppure il diritto ad avere una nazione libera dal dominio dello straniero.

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Perché dunque vinse il cristianesimo?

1) Perché offriva agli oppressi non solo una speranza in più, seppure nell’aldilà, di liberazione definitiva dall’ingiustizia (mentre il paganesimo classico riponeva -come dice Minucio Felice nel suo Octavius- “nel fato la ragione delle colpe o dell’innocenza degli uomini”), ma offriva anche un anticipo, una caparra di questa giustizia, nella storia beninteso, rivendicando il diritto di coscienza, contro il conformismo dominante, che caratterizzava anche le religioni orientali, incapaci di opporsi all’assolutismo statale.

Il cristianesimo si rivolgeva alla responsabilità personale del singolo credente, al quale chiedeva uno stile di vita il più possibile irreprensibile (ad es. il cristiano non poteva vendicarsi del suo persecutore). Sulla base di questo stile di vita si chiedeva al credente di rinunciare a tantissime cose, persino a molti mestieri remunerativi (cfr La tradizione apostolica di Ippolito) e anche ai legami di parentela; si chiedeva addirittura di resistere fino al martirio al potere statale, se questi voleva obbligarlo all’abiura.

2) Perché sul piano sociale il cristianesimo garantiva agli oppressi, agli emarginati, alle categorie più deboli un’esistenza migliore di quella offerta dalla società pagana e dallo Stato romano. Pur non predicando mai la rivoluzione, né opponendosi, in linea di principio, alla schiavitù, la chiesa metteva in atto princìpi umanitari come p.es. l’assistenza ai malati, alle vedove, agli orfani. Essa era contraria al suicidio, all’adulterio, all’esposizione dei neonati, a ogni forma di vizio o di dissolutezza. Viceversa, lo Stato romano passò alla trasformazione dello schiavo in colono non per motivi umanitari ma perché, con la fine dell’espansione militare dell’impero, non era più possibile procurarsi degli schiavi a buon mercato. Tutta la filosofia umanistica dello stoicismo -che caratterizzerà proprio gli imperatori più anticristiani- non portò mai a una vera democratizzazione della vita sociale.

3) Perché, pur essendo meno sofisticato sul piano culturale (filosofico), il cristianesimo garantiva una maggiore coerenza fra teoria e prassi. I documenti del Nuovo Testamento (soprattutto i vangeli), essendo frutto di un’opera collettiva pluridecennale dell’ebraismo della diaspora, in stretto contatto con l’ellenismo, contenevano spunti di riflessione particolarmente stimolanti per le masse popolari, anche perché più realistici di tante altre fonti di carattere mitologico-religioso: la figura di Gesù Cristo superava per concretezza e drammaticità tante altre divinità orientali.

In questo senso la teologia si poneva come riflessione sopra un’esperienza in atto e non come speculazione filosofica del singolo intellettuale (gnosticismo, stoicismo, neoplatonismo). L’élite filosofica, sotto l’impero, ha sempre fatto distinzione tra le opinioni teologico-filosofiche (in cui credeva) e il comportamento cultuale (in cui non credeva, perché lo riteneva del tutto formale, adatto al popolo, anche se lo praticava per puro opportunismo). Cicerone, che derideva senza pietà, nei suoi scritti, gli dèi e le loro favole, era augure in maniera scrupolosa. Il cristianesimo non ammetteva tale doppiezza. Esso dimostrò che l’astensionismo al culto pagano non comportava di per sé indifferentismo alle questioni etico-sociali.

Dove fallì il cristianesimo?

1) Nell’aver trasformato il messaggio laico-umanistico e rivoluzionario del Cristo in uno di tipo religioso-ecclesiastico, politicamente conservatore e quindi nell’aver ridotto lo scontro tra cristianesimo e impero a uno scontro giuridico-culturale tra cristianesimo e paganesimo (come fecero gli apologisti). Minucio Felice (nell’Ottavio) e Tertulliano (nell’Apologetico) documentano che i cristiani si difendevano dall’accusa di essere adoratori della croce. Questo simbolo della punizione dello schiavo ribelle scandalizzava i cristiani non meno dei pagani e degli ebrei. Sino agli inizi del V secolo non si troverà nell’arte e neppure nella liturgia l’abbinamento della persona del Cristo allo strumento del suo martirio politico.

2) Nell’aver preteso di sostituirsi al paganesimo, diventando la nuova religione di stato e tradendo così il principio di separazione tra chiesa e Stato. Di qui le persecuzioni di tutte le religioni non-cristiane e delle cosiddette “eresie”.

3) Nell’esser venuto meno (in Occidente soprattutto) anche all’aspetto più trasgressivo ch’esso aveva in quanto “religione”: l’escatologia, il profetismo, l’apocalittica, il distacco dalle cose terrene ecc. Tutte le eresie sorte in ambito cristiano o le contestazioni di tipo monastico, eremitico ecc., nasceranno dalla constatazione di questa sfasatura.

Ma allora, ci si può chiedere, da dove proveniva la radicalità teorica del cristianesimo? Solo da una cosa: dalla reminiscenza del messaggio autentico del Cristo. Il cristianesimo non fu semplicemente uno svolgimento universalistico dell’ebraismo o una concretizzazione socio-umanistica delle filosofie e religioni ellenistiche. Fu anche il prodotto di un’esperienza assolutamente originale, che però venne immediatamente tradita, seppur non in maniera integrale. Qui sta la grandezza e la miseria del cristianesimo, che forse è la miseria e la grandezza dell’uomo che con Paolo dice: “c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo”(Rm 7,8).

LE PERSECUZIONI ANTICRISTIANE NELLA STORIA DI ROMA

I

Generalmente, nel periodo imperiale, lo Stato romano era tollerante nei confronti di tutte le religioni, ma solo a due condizioni: 1) che si accettasse il culto dell’imperatore (no quindi al ribellismo); 2) che non si fosse esclusivi di altre religioni (no quindi al monoteismo). Lo Stato infatti voleva poter influenzare anche attraverso le proprie divinità gli usi e i costumi dei popoli sottomessi, fino ad arrivare a una certa omologazione culturale, giuridica, politica e persino religiosa (lo Zeus greco, p.es. s’identificò con Giove, il Baal cartaginese con Saturno, il Teutate dei Galli con Marte e così via). La stessa città di Roma doveva essere considerata nelle province come una divinità. Questo condizionamento, nelle province occidentali, caratterizzate da religioni più primitive di quelle orientali, allo Stato romano riusciva con relativa facilità.

Gli ebrei, così rigidamente monoteisti, erano l’eccezione che confermava la regola, ma solo perché la loro religione era poco sentita dal mondo pagano (era etnico-nazionalistica), inoltre perché non faceva proselitismo o, se lo faceva, non incontrava molti seguaci, specie fra il sesso maschile (si pensi all’ostacolo della circoncisione). Gli ebrei (come gruppo religioso) praticamente vivevano appartati dal mondo romano (erano gli unici a rifiutare i matrimoni misti). Loro stessi, d’altro canto, si sentivano “diversi” dagli altri (si pensi p.es. alle minuziose regole alimentari). Quando fu organizzato il culto imperiale, gli ebrei furono esentati da tale obbligo, ma poiché tale concessione comportava un aumento del peso finanziario per gli altri sudditi, essi vennero obbligati a contribuire all’erario con un sacrificio quotidiano, offerto al loro Dio in nome del sovrano. Caligola cercherà di mettere in discussione questo modus vivendi, obbligando gli ebrei ad apostatare, ma Claudio lo ristabilirà.

E comunque gli ebrei erano spesso soggetti a ondate di antisemitismo, proprio perché i pagani guardavano con sospetto al loro spirito di gruppo, alla pretesa di avere speciali privilegi (si pensi p.es. al riposo sabatico) e soprattutto al loro potere economico. Provvedimenti di espulsione contro i giudei (e i caldei) erano già stati presi nel 139 a.C. e proseguiranno per tutto il I secolo sino alla distruzione di Gerusalemme nel 70 (conseguente al rifiuto di pagare il tributo a Cesare) e alla loro definitiva sconfitta in Palestina nella seconda guerra del 132-135.

Il culto dell’imperatore cominciò ad essere tributato ad Augusto nelle province orientali. Augusto l’aveva vietato per l’imperatore in carica, benché lo stesso titolo di augustus implicasse la sacralità del principe e quindi la necessità di venerarlo. In Occidente tale culto, almeno fino a Caligola, avveniva solo post-mortem, anche se Tiberio pretese la pena di morte per chiunque offendesse l’imperatore (crimen lesae maiestatis).

Caligola fu il primo che cercò d’imporre con la forza la propria divinizzazione mentre era ancora in vita. Dopo la parentesi che va da Claudio a Tito, tale culto venne ripreso da Domiziano (81-96), che si fece chiamare dominus et deus (“signore e dio”). Il titolo di dominus implicava anche la proprietà imperiale delle terre pubbliche, del fisco e dei beni patrimoniali del principe. Con Domiziano la divinizzazione divenne una pietra di paragone della lealtà civile e del patriottismo. Lo storico Dione Cassio racconta nella sua Storia romana, a proposito del processo a carico del console Flavio Clemente e di sua moglie Domitilla e di “molti altri” che sotto Domiziano avevano adottato costumi giudaici (ovvero cristiani), che il crimine in questione era quello di “ateismo”, equivalente a quello di “lesa maestà”.

Tra le vittime, Dione ricorda anche il console Acilio Glabrione: il che fa pensare a una prima diffusione del cristianesimo, alla fine del I secolo, anche tra i ceti più elevati. La stessa Pomponia Graecina, matrona processata sotto Nerone per superstitio externa -di cui parla Tacito- non appartenava certo a famiglia di modeste condizioni.

Probabilmente l’improvvisa persecuzione inaugurata alla fine del principato domizianeo (nella quale furono coinvolti anche i seguaci dello stoico Trasea Peto), nasceva dalla preoccupazione di veder affermarsi il cristianesimo nell’ambito della stessa famiglia imperiale. Lo stesso vescovo di Roma, Clemente I, era un parente dell’imperatore: fu questa, probabilmente, la ragione che lo salvò.

Oltre a ciò non va dimenticata la decisione presa da Domiziano di estendere la tassa che i giudei circoncisi e praticanti pagavano al tempio di Giove Capitolino (dopo il 70), per conservare il privilegio della religio licita, anche a tutti i circoncisi non praticanti e persino agli incirconcisi che vivessero alla maniera giudaica, in una parola anche ai giudei apostati, ai pagani proseliti e ai cristiani. Difficile dev’essere stata la situazione dei cristiani di origine ebraica, indecisi se pagare (e quindi rischiare d’essere confusi coi giudei) o se dichiararsi non-ebrei mentendo (e quindi rischiare d’essere accusati di ateismo appunto in quanto “cristiani”). Probabilmente essi scelsero la seconda strada e forse questo si può ricollegare alla persecuzione domizianea.

D’altra parte quanto più le contraddizioni del sistema schiavistico si acuivano e si diffondevano per tutto l’impero, tanto più lo Stato aveva bisogno di coesione sociale. Non potendola ottenere in modo democratico, esso era costretto a usare l’autoritarismo. La religione, inevitabilmente, veniva ad essere sempre più considerata un instrumentum regni.

Con Nerva (96-98) il Senato cercò di riprendersi i poteri che gli aveva sottratto Domiziano, ma le coorti pretorie, che uccisero -contro la volontà dell’imperatore- i mandanti dell’assassinio di Domiziano, glielo impedirono.

La storiografia cattolica ha sempre dato un buon giudizio del principato di Nerva, soprattutto perché egli revocò le condanne per ateismo, richiamò in patria gli esuli cristiani, mise a morte i delatori domizianei. Tuttavia, Nerva fu debolissimo nell’opporsi alla partecipazione militare nella direzione politica. Egli dovette persino subire l’umiliazione di recarsi a ringraziare pubblicamente i pretoriani ammutinati, che avevano compiuto l’opera di vendetta. E’vero, peraltro, ch’egli concesse l’esenzione della tassa a coloro che negavano d’essere giudei, ma riconfermò contro quest’ultimi il fiscalismo odioso di Domiziano. Nerva inoltre esiliò il vescovo di Roma, Clemente I, nel Chersoneso.

* * *

Come noto, la storiografia cattolica sostiene che lo Stato romano, in fatto di religione, fosse più tollerante sotto l’impero che non sotto la repubblica, poiché qui si guardò sempre con sospetto all’accettazione dei culti esotici orientali (vedi p.es. la questione dei riti orfico-dionisiaci vietati nel 186 a.C. dal Senatusconsultum de Bacchanalibus di cui parla Livio nelle sue Storie). Anche contro il culto di Iside vennero emanate delle ordinanze senatorie dal 59 al 48 a.C.: solo con Caligola la statua di Iside entrò in Campidoglio.

In realtà la tolleranza, tanto sotto la repubblica quanto sotto l’impero, fu sempre circoscritta entro le due suddette condizioni del lealismo politico e del pluralismo teistico. Il decreto del 186 a.C., che sciolse le associazioni segrete bacchiche -i cui affiliati provenivano soprattutto dai ceti marginali- partiva dalla costatazione che si stava turbando l’ordine pubblico. L’accusa d’immoralità era più che altro un pretesto.

La differenza nell’atteggiamento verso la religione stava semplicemente in questo, che sotto la repubblica non si riponevano nella religione (l’unica eccezione fu appunto quella dell’orfismo) tutte quelle speranze di riscatto individuale e spirituale dalle alienazioni della vita sociale, che caratterizzeranno l’atteggiamento del credente in età imperiale, allorché egli comincerà ad accettare le religioni misterico-orientali a sfondo messianico-soteriologico.

La religione romana è sempre stata molto primitiva (antropomorfica e animistica), formalista (perfezione del rito) e contrattualista (si venerava non la divinità ma -secondo il principio del do ut des- la sua funzione, in riferimento soprattutto all’attività agricola). Non c’era un vero rapporto personale tra credente e dio, ma una credenza assai diffusa in tante superstizioni. Il più antico codice romano di leggi -le “Dodici tavole”- era strettamente civile, a dimostrazione che il culto religioso non era qualcosa che incidesse granché sulla personalità del credente.

Solo quando Roma venne a contatto con l’Oriente (Egitto, Grecia, Mesopotamia…) ci si accorse della superiorità delle religioni mistiche, ascetiche, estatiche e perfino sensuali di quelle aree geografiche e, siccome le contraddizioni sociali erano molto acute, ci si convinse ad accettarle. Paradossalmente il mondo romano si trovò ad essere tanto più religioso quanto più aumentava il suo potere politico-militare (religione come “oppio” non solo come strumento di potere).

Sotto la repubblica il Senato temeva che una religione diversa da quelle tradizionali potesse minacciare la stabilità dello Stato; sotto l’impero invece il princeps aveva la consapevolezza che tutte le religioni potessero essere un ottimo strumento proprio per garantire quella stabilità.

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Già abbiamo visto che disposizioni penali extra-giudiziarie vennero prese a partire da Traiano (98-117), con il suo rescritto spedito a Plinio. La stessa lettera di Plinio, che parla di processi a carico dei cristiani, allude a una prassi giudiziaria allora consueta, seppur non formalizzata da speciali leggi persecutorie. La prassi era appunto quella della coercitio, usata non solo dall’imperatore, ma anche, a livello decentrato, dagli alti magistrati (prefetto, procuratore, proconsole…), soprattutto in relazione ad accuse specifiche: ateismo (nei confronti delle divinità tradizionali e del genius dell’imperatore) e attività sociale non autorizzata. Questo potere dava loro facoltà di procedere per via sommaria, senza applicare le norme processuali consuete contro i sudditi accusati di turbare l’ordine pubblico. Spesso l’accusa si concludeva con la pena di morte, anche se il cittadino era romano, come accadde ad Ignazio d’Antiochia (107-108), o all’ex-vescovo di Roma, Clemente I, che venne gettato nel mar Nero con un’àncora al collo, o al papa Alessandro I, martirizzato insieme a due sacerdoti e al prefetto di Roma, Ermete.

E’ vero che con l’imperatore e divi filius Adriano (117-138), che amava identificarsi, ancor più di Traiano, con Giove capitolino, vi fu maggiore tolleranza nei riguardi dei cristiani, ma solo incidentalmente, come riflesso di una tolleranza più generale a livello sociale. Sotto il suo principato infatti vi fu la necessità di non dissipare le risorse di manodopera schiavistica, essendosi conclusa l’espansione militare dell’impero. Sicché s’impedì ai padroni di uccidere gli schiavi o di venderli per gli spettacoli gladiatorï. Adriano, che era il maggior latifondista dell’impero, emanò delle leggi riformiste a vantaggio degli schiavi e dei contadini, che porteranno praticamente all’istituzione del colonato.

Ma fu proprio lui che, con un decreto, vietò la circoncisione, la pubblica lettura della legge mosaica e l’osservanza del sabato. Fu lui che represse nel sangue la seconda guerra giudaica (132-135), ordinando che Gerusalemme fosse ribattezzata col nome di Elia Capitolina e ricostruita come colonia romana. A quell’epoca i cristiani furono risparmiati dalle persecuzioni semplicemente perché l’attenzione dell’impero era prevalentemente concentrata verso il Medioriente. Inoltre tutto il principato di Adriano fu caratterizzato dalla preoccupazione di difendere i confini in Inghilterra, dove egli fece costruire la grande barriera del vallo, e quelli in Oriente, dove, dopo aver rinunciato alle province conquistate da Traiano, adottò definitivamente una linea difensiva.

Quindi si può anche ritenere autentico il rescritto (124-6) ch’egli inviò al proconsole della provincia d’Asia, Minucio Fundano, nel quale per la prima volta si afferma che il cristiano, pur non escludendosi che possa essere incriminato per la sua fede, doveva essere processato solo se l’accusatore dimostrava con prove concrete la trasgressione delle leggi (e la condanna doveva essere in rapporto al reato effettivamente commesso), altrimenti sarebbe stato il querelante a subire i rigori della legge. In pratica si vietavano i linciaggi e le denunce anonime, che si prestavano facilmente a calunnie e vendette private. Ma non si può assolutamente pensare che ai tempi di Adriano il problema cristiano avesse per l’amministrazione romana un’importanza così minore rispetto a quella che aveva ai tempi di Traiano, tanto da arrivare a distinguere fra la semplice adesione al cristianesimo (nomen christianum) -fino a quel momento sempre perseguita- e gli eventuali crimini (flagitia) ad essa connessi.

O Il rescritto -riportato peraltro solo da Giustino nella sua Apologia e da Eusebio- va considerato come un omaggio che la chiesa fece a se stessa per dimostrare la giustezza della posizione legalistica assunta nei testi degli apologisti, oppure si deve pensare che esso sia stato voluto da Adriano solo per un motivo “tattico”, contingente alla situazione critica del momento, soprattutto nella parte orientale dell’impero. E’ difficile credere che Adriano s’illudesse di poter risolvere l’espansione del cristianesimo con strumenti meramente giuridici, restando entro i limiti della legalità.

Il rescritto comunque non servì a risparmiare la vita, nel 135-6, del vescovo di Roma Telesforo, che lo stesso Eusebio, stranamente, fa morire sotto Antonino Pio (138-161), e che la chiesa romana, ancor più stranamente, ha cancellato dal proprio Calendario universale. Eusebio, come noto, è inattendibile per molte cose, tra cui sicuramente il rescritto dello stesso Antonino Pio, che proibiva ogni accusa di ateismo contro i cristiani. Proprio sotto Antonino muore il vescovo Policarpo di Smirne con altri 11 cristiani. Nel Martyrium Polycarpi, che è la narrazione più antica di martirio che possediamo dai tempi delle persecuzioni, il vescovo viene ucciso semplicemente perché si rifiutava di dire “Signore imperatore” (Kyrios). Lo stesso Antonino vietò, sotto pena di castrazione, la circoncisione ai pagani d’origine.

Il problema delle fonti -qui si può aprire una parentesi- non è di secondaria importanza. In effetti, ci mancano quasi completamente i testi degli editti anticristiani imperiali: la raccolta compilata verso il 215 dal giureconsulto Domizio Ulpiano è andata perduta (lo dice Lattanzio). Gli accenni tramandatici da Eusebio nella sua Storia ecclesiastica spesso non hanno riscontri. La maggior parte delle notizie pervenuteci non sono che espressioni cristiane di autodifesa e di accusa contro lo Stato, e pertanto fortemente indiziate. La chiesa -come spesso succede quando, dopo secoli di opposizione, si giunge al potere- non solo ha distrutto molte opere contrarie alla propria ideologia e ai propri interessi politici, ma ha pure proceduto a profonde manomissioni in altri testi che per la loro notorietà non poteva distruggere. Altro che conservazione dell’antichità ad opera degli amanuensi!

II

Sotto i successori di Adriano, Antonino Pio (138-161) e Marco Aurelio (161-180), la situazione degli schiavi migliorò (ad es. il padrone era costretto a venderlo se lo sottoponeva a eccessivi maltrattamenti, e il libero che uccideva uno schiavo di proprietà altrui veniva punito). Ma l’opposizione di principio al cristianesimo non diminuì, anzi aumentò, traendo pretesto dalla diffusione delle idee estremiste del montanismo. Marco Aurelio non fece mai nulla per impedire i pogrom pagani contro ebrei e cristiani, come quello di Lione nel 177, ove morì il vescovo, o quello di Pergamo o di Vienna in Gallia. A nulla valsero le quattro apologie che i cristiani inviarono all’imperatore per sottolineare la loro netta distinzione dai montanisti.

Il suo rescritto del 176 non era espressamente diretto contro i cristiani, ma, minacciando di esilio i nobili e di morte i plebei che turbassero la pace introducendo nuovi culti, poteva facilmente essere adoperato contro di loro. Infatti sotto il suo regno (e quindi sotto la filosofia stoica) morirono molti vescovi e il filosofo apologista Giustino.

Paradossalmente quanto più l’ideologia pagana si umanizzava, sul piano teorico, tanto più perseguitava sul piano pratico quella cristiana, che vedeva sempre più come una temibile concorrente. Gli stoici infatti, in campo religioso, tentarono di costruire una specie di monoteismo sincretistico: il loro dio-logos subordinava a sé, trasformandole in simboli, tutte le divinità tradizionali, imperniate su forme esteriori di culto, che comunque venivano considerate valide per il popolo, non certo per il filosofo.

Con suo figlio Commodo (180-192), fervente cultore di Mitra, ufficialmente designato come “figlio di Giove”, i cristiani poterono beneficiare dell’appoggio della concubina Marcia, la quale intercesse per liberare quelli che languivano nelle miniere di piombo della Sardegna. Tuttavia, fra le persone che congiurarono per uccidere Commodo vi fu la stessa Marcia.

In quel periodo, inoltre, si poterono tenere in parecchie province dei sinodi per discutere sulla data in cui festeggiare la Pasqua. La chiesa greca, che già da tempo la celebrava, s’era conformata al computo ebraico del 14 Nisan; la chiesa romana invece, proprio per differenziarsi dalla tradizione ebraica, aveva prescritto che la si celebrasse nella domenica seguente al plenilunio di marzo. Proprio in occasione di questo problema, il vescovo di Roma, Vittore (forse il vero primo “papa”, eletto nel 193), minacciò per la prima volta di scomunica coloro che fossero stati in disaccordo con lui. Gli si oppose però il vescovo di Lione, Ireneo, che rivendicò l’autonomia delle chiese locali. Tuttavia, al concilio di Nicea (325) i cristiani d’oriente, per non creare inutili spaccature, decideranno di accettare la proposta dei “romani” e degli “alessandrini”.

A parte questo, le esecuzioni continuarono: di rilievo quelle del senatore Apollonio e di sei cristiani della cittadina africana di Scilli, nel 180, i quali inutilmente dichiararono al proconsole di pagare l’imposta, di riconoscere l’autorità statale e di obbedire alle leggi.

La “personificazione del Sole”, l’iniziatore della dinastia “siriaca”, in quanto aveva sposato la discendente di una famiglia di re-sacerdoti del dio El Gabal in Emesa, Settimio Severo (193-211), che si fece chiamare espressamente dominus, pretendendo un potere assoluto su tutte le attività di produzione e di scambio, proibì, con un decreto che aveva sicuramente valore universale, il proselitismo e quindi le conversioni, colpendo i catecumeni e i neobattezzati. Ciò che più lo spaventava era la renitenza alla leva di molti cristiani. Con i suoi decreti l’attività della chiesa cominciò ad essere controllata da vicino, quotidianamente. Qualunque lavoro missionario veniva impedito dalla polizia. Anch’egli vietò il passaggio formale al giudaismo mediante la circoncisione. Forti persecuzioni avvennero in Egitto e nella provincia d’Africa. Nulla invece accadde a Roma.

Con i suoi successori, a partire da Caracalla (211-217), che concederà, per motivi di introiti fiscali, il diritto di cittadinanza a tutti i sudditi liberi dell’impero (constitutio antoniniana), i culti misterico-orientali ottengono piena legalizzazione in Occidente. Si forma così la concezione statale-sincretista delle religioni: tutte, essendo sostanzialmente uguali, hanno diritto alla cittadinanza, benché Caracalla aspiri a farle convergere verso il culto del Sole (Sol invictus Mithras), il quale, unito sempre a quello dell’imperatore, verrà ripreso da Aureliano (270-275), divenendo per un certo tempo una sorta di religione di stato.

La suddetta Constitutio (212) sarà considerata, più tardi, da Agostino d’Ippona favorevolmente, poiché, col passare del tempo, insieme alla cittadinanza, era stato esteso anche il diritto di partecipare alle distribuzioni di generi alimentari e di altri beni economici, riservati un tempo alla sola popolazione cittadina dell’Urbe. Tuttavia, ai tempi di Caracalla, tale editto implicava anche il dovere, da parte dei cittadini dell’impero, di onorare gli dèi di Roma.

Ad Alessandria, in questo periodo, sorge il neoplatonismo, filosofia che cercherà di affermare una sorta di monoteismo cristiano dal punto di vista del platonismo, in chiave puramente metafisica. A Roma invece la comunità cristiana comincerà a servirsi di catacombe per seppellire i propri morti, non tanto per ragioni di sicurezza -come spesso si è creduto- (le agàpi e tutte le altre riunioni catacombali non potevano essere un mistero per nessuno), quanto perché, essendo le comunità prive di riconoscimento legale come enti di culto, nessuno poteva contestare la legittimità di tali riunioni se fatte in un’area cimiteriale, dai membri di un collegium funeraticium. Sarà appunto attorno al nucleo cimiteriale che la chiesa organizzerà la propria struttura assistenziale.

Con Elagabalo (218-222) lo Stato fa un tentativo alquanto originale di sostituire il cristianesimo, ma fallirà miseramente. Poiché si era diffusa notevolmente tra le masse la religione mitriaca, che col suo culto nell’aldilà, nella resurrezione generale alla fine dei tempi, nel dualismo di spirito e materia ecc., sembrava non solo rispondere all’ansia di salvezza dei ceti popolari, ma anche costituire una valida alternativa al cristianesimo, in quanto affermava un assoluto lealismo verso il principato e ossequio a tutte le leggi in cui vi era rapporto fra principato e condizione religiosa, l’imperatore Elagabalo volle imporre come fondamento della società imperiale a Roma questo culto solare.

Senonché -forse per presunzione o per ingenuità- egli scelse come forma attuativa del nuovo culto ufficiale e universale, quella, locale, del culto della meteorite nera considerata il Baal El Gabal di Emesa in Siria, rendendosi altresì disponibile ad accogliere nel tempio del Sole, da lui eretto sul Palatino, il culto di Cristo. Questa fu appunto una delle ragioni, certo non l’unica, che indusse senatori e pretoriani a volere la sua tragica fine. Sotto il suo regno fu comunque martirizzato papa Callisto I e, sotto Alessandro Severo, successore di Elagabalo, papa Urbano I.

Massimino Trace (235-238), il primo “barbaro” sul trono dei Cesari, pretese atti ufficiali di giuramento alla sua fortuna (altra divinità, al pari del genius, preposta a guidare il destino del principe) e sacrifici obbligatori alla divinità del Sole Invitto, che, attraverso il culto mitriaco, era molto cara anche agli ambienti militari. Il governo si stava lentamente trasformando in una monarchia teocratica.

Massimino si limitò a perseguitare l’alto clero e non per molto tempo. In effetti, dalla morte di Marco Aurelio lo Stato romano sembrava voler offrire ai cristiani la speranza di una relativa coesistenza pacifica, per quanto sotto il suo principato furono martirizzati i papi Ponziano e Antero. La chiesa peraltro si stava progressivamente mondanizzando: non solo perché era sempre più presente tra gli ambienti nobiliari e i funzionari statali, ma anche perché acquisiva sempre maggiori proprietà immobiliari, al punto che in una causa a proposito di una proprietà appartenente a una comunità cristiana di Roma, contestata dal collegium professionale degli osti, il magistrato diede ragione alla comunità, provando, in tal modo, che il diritto di tali comunità a possedere beni immobili era riconosciuto di fatto, pur se non ancora di diritto.

Addirittura con Filippo l’Arabo (245-49), considerato da Girolamo il primo imperatore cristiano, in Africa qualche vescovo poté cumulare le sue funzioni pastorali con quelle di procuratore imperiale. Questo benché nel 249, ad Alessandria, l’imperatore permise alla folla pagana di linciare alcuni cristiani, saccheggiandone le proprietà.

L’inizio delle repressioni di massa, estese a tutto l’impero, avvenne col principato di Decio (249-251), il quale fu costretto a tale decisione perché lo sviluppo delle proprietà ecclesiastiche poneva la chiesa in contrasto con la tendenza governativa all’accentramento economico e patrimoniale nelle mani del principe. La sua persecuzione infatti avrà come obiettivo fondamentale non tanto quello di affermare gli elementi teocratici della legittimità del suo principato, quanto quello di procedere al sequestro di tutti i beni ecclesiastici, il cui possesso peraltro poteva facilmente essere considerato illegale, in quanto la chiesa non aveva ancora personalità giuridica. In effetti, verso il 250 il vescovo di Roma appariva già come un praefectus urbis e Decio affermava di temerlo più di un rivale nell’impero. Lo stesso vescovo di Cartagine, Cipriano, spesso sosteneva che ogni vescovo, non solo quello di Roma, siede sulla cathedra Petri.

A tale scopo Decio ordinò di partecipare ai sacrifici indetti in tutto l’impero per implorare la protezione degli dèi. Per poterlo dimostrare il cittadino doveva presentarsi davanti a una commissione di cinque membri e offrire un sacrificio agli dèi: in cambio avrebbe ricevuto un certificato o libellus. In caso contrario vi sarebbero stati il carcere, la confisca dei beni, l’esilio, i lavori forzati, la tortura ed eventualmente la pena di morte. I martiri furono moltissimi in Africa (a Roma il papa Fabiano), ma si verificarono anche abusi da parte di chi si procurava il certificato con la corruzione o l’aiuto d’intermediari, nonché defezioni di massa ad Alessandria, Cartagine, Smirne, Roma, ecc. Furono presi di mira soprattutto i vescovi (Antiochia, Gerusalemme…) e molti cristiani apostatarono (lapsi). La chiesa fu colta alla sprovvista.

Le misure ostili di Decio furono mantenute da Valeriano (253-260), ma indirizzate soprattutto contro i capi delle comunità: il clero, le assemblee delle comunità, i giudici e i senatori cristiani. (Sotto Decio morì martire Fulvio P. Emiliano, già due volte console). Valeriano, approfittando delle pesanti sconfitte militari subìte contro i Persiani, i Franchi e gli Alamanni, obbligò il clero, con l’editto del 257, a riconoscere le divinità pagane, permettendogli di praticare la fede cristiana solo in privato, mentre con l’editto del 258 ordinò a tutti i cristiani, chierici e laici, di abiurare, pena la confisca dei beni e la decapitazione. Inoltre radiò dagli albi del senato e dell’ordine equestre tutti gli elementi dichiaratamente cristiani. Da ricordare la morte di papa Sisto II a Roma e dei vescovi Cipriano a Cartagine e Fruttuoso in Spagna. Questa volta i lapsi furono pochissimi.

Gallieno (260-268) invece abrogò gli editti di persecuzione del padre, che si era consegnato ai Persiani, dopo numerose sconfitte, per timore che i propri soldati lo uccidessero, e restituì ai cristiani -stando ad Eusebio- gli edifici sequestrati e i cimiteri. Addirittura con Aureliano (270-275) si verificò un importante precedente per i futuri rapporti di Stato e chiesa. La comunità d’Antiochia s’era appellata all’imperatore affinché il vescovo, Paolo di Samosata, che accusato d’eresia si rifiutava di cedere il posto al nuovo eletto, fosse rimosso d’autorità. La richiesta fu accolta.

Tuttavia, proprio Aureliano, mettendo in atto la riforma teocratica iniziata da Elagabalo, affermò che il suo potere derivava direttamente dal Sol Invictus, non dal senato né dall’esercito. E per questa ragione riprese le persecuzioni anticristiane, benché da tempo la popolazione pagana non fosse più disposta, come in precedenza, a parteciparvi.

L’ultima, la più grande persecuzione, venne sferrata da Diocleziano (284-305) e Galerio (293-311), col proposito -come si legge nell’editto di tolleranza di Galerio (vedi sotto)- di “riformare tutto secondo le antiche leggi e l’ordinamento dei romani e provvedere che anche i cristiani, che avevano abbandonato la religione dei loro padri, tornassero a nutrire buone intenzioni…”. I cristiani vengono qui accusati di “grande ostinazione” e di “grande follia”, di darsi “proprie leggi” e di attirare moltissimi seguaci.

Sia Diocleziano, che ritenuto vero “uomo-dio” si paragonava a Giove, sia Galerio che s’identificava con Ercole, figlio di Giove, erano oggetto di adoratio: ogni persona ammessa a vedere l’imperatore era tenuta a prostrarsi. Il cerimoniale di corte si tramutava in un rituale di derivazione persiana. L’imperatore non era più un semplice “principe”, ma diventava un “signore” (dominus). Probabilmente sia Diocleziano che Galerio erano giunti alla convinzione che per tenere unito l’impero occorresse dare un’assoluta sacralizzazione all’accentramento totale dei poteri, tanto più che il cristianesimo, lentamente ma inesorabilmente, si stava impadronendo dello Stato. Non a caso Diocleziano, pochi anni prima dell’ascesa al potere di Costantino, dichiarerà che il dio Mitra andava considerato come protettore dell’Impero.

Ideologia portante dell’impero era il neoplatonismo, che raccoglieva le suggestioni di un diffuso misticismo per ricondurle a un rigoroso itinerario filosofico, ove le più diverse divinità, interpretate simbolicamente, apparivano come semplici e progressive manifestazioni di un principio uno e trino (Uno, Intelletto e Anima) da cui tutto emana.

Ideologo ufficiale era Porfirio, discepolo di Plotino, che dirigeva a Nicomedia una specie di ufficio di propaganda anticristiana. Egli scrisse 15 libri contro i cristiani intorno al 270-75, successivamente andati perduti, in esecuzione di un ordine tassativo dell’imperatore cristiano Teodosio II del 488 di darli alle fiamme.

Le “prove generali”, con tanto di “roghi”, vennero fatte, nel 297, a carico degli estremisti manichei, che, pur provenendo dalla lontana Persia, si stavano velocemente diffondendo negli ambienti romani. L’anno dopo veniva epurato l’esercito. Significativo il fatto che da almeno un quindicennio il servizio militare dei cristiani veniva considerato “naturale” della chiesa, in quanto nessun rito pagano veniva imposto a questa categoria di militari.

Contro i cristiani si promulgarono ben quattro editti (303-304), coi quali s’imposero la distruzione o l’abbandono degli edifici ecclesiastici, la consegna dei libri sacri, il divieto di tutte le riunioni di culto, l’obbligo dell’abiura per il clero, la destituzione dalle cariche pubbliche per i laici. S’interdiva ai cristiani di portare cause in tribunale o comunque si permetteva l’uso della tortura nelle inchieste giudiziarie contro di loro. Si minacciavano i liberti imperiali di ridurli in schiavitù se fossero rimasti cristiani. Nell’ultimo decreto s’impose a tutti i cristiani di sacrificare, altrimenti sarebbero stati privati dei diritti civili, incarcerati, torturati e finanche giustiziati.

In Oriente in effetti fu una strage (fino al 311), soprattutto in Siria, Palestina ed Egitto. In Nicomedia (ove Diocleziano aveva trasferito la sede imperiale) vi furono molti martiri: anche qui -come nella Roma neroniana- la causa degli incendi scoppiati nella residenza imperiale fu attribuita ai cristiani. Lattanzio racconta che l’autore fu lo stesso Galerio, per far decidere Diocleziano a una più energica persecuzione (i suoi primi 18 anni di regno, infatti, era stati caratterizzati da una certa tolleranza).

Subirono il martirio il vescovo di Nicomedia, numerosi membri del clero, i papi Caio e Marcellino e funzionari di corte. I papi Marcello I ed Eusebio morirono in esilio. In Occidente vennero soprattutto distrutte le chiese, mentre la repressione (fino al 305), -grazie (si fa per dire) alla tolleranza di Costanzo Cloro, che aveva la prefettura della Gallia- si limitò a colpire i ceti medio-bassi della popolazione.

Tuttavia la persecuzione venne condotta con poca convinzione: la popolazione pagana non vi partecipò attivamente e le autorità locali, al massimo, si limitarono a fare il loro dovere. Diocleziano, già nel 305, si era ritirato a vita privata e, per suo ordine, anche il collega Massimiano. E’ vero che dopo queste due abdicazioni le persecuzioni, soprattutto in Oriente, si fecero più intense, ma alla file lo stesso Galerio, sul letto di morte, fu indotto a emanare un editto di tolleranza (Sardica, 311) -riportato da Lattanzio nel suo De mortibus persecutorum– col quale si riconosceva il cristianesimo, sia pure con una clausola restrittiva: “purché nulla facciano contro l’ordine pubblico” e invochino nelle preghiere al loro Dio il bene dell’imperatore e dello Stato. Per la prima volta la fede cristiana veniva equiparata agli altri culti, e si dava così una base giuridica reale all’idea di tolleranza. L’editto fu sottoscritto da Costantino, Licinio e Massimino Daia.

Enrico Galavotti – Homolaicus


LE PERSECUZIONI ANTICRISTIANE NELLE FONTI STORICHE PIU’ ANTICHE

L’epistola di Plinio il Giovane

Uno dei documenti più antichi, giuntoci probabilmente senza le solite interpolazioni di copisti cristiani, che ci aiuta a capire in quale clima, ideologico e politico, avvenivano le persecuzioni a carico dei cristiani, sotto l’impero romano, è la celebre Epistola (X,96) di Plinio il Giovane (61/62-114 d.C.), scritta verso il 112 d.C. all’imperatore Traiano, che aveva inviato Plinio come legatus pro praetore nella provincia di Bitinia e Ponto (Asia Minore) tra il 111 e il 113, allo scopo di reprimere le “eterie”, cioè le associazioni segrete, che turbavano l’ordine pubblico.

Nella lettera Plinio dimostra come le autorità romane conoscessero sia il nome di Christus che quello di christianus. Egli dichiara di aver dovuto prendere delle misure a carico dei cristiani perché non rispettavano l’ordinanza imperiale contro la libertà di associazione. E descrive il modo in cui ha proceduto.

Sulla base di liste anonime egli aveva fatto arrestare diversi cristiani. Le accuse non vengono riportate, ma si possono facilmente immaginare. Generalmente esse venivano fatte o da giudei ortodossi o da pagani i cui redditi erano legati alla religione politeistica (probabilmente allevatori di bestiame e venditori di offerte per i templi. Vedi anche il tumulto di Efeso contro Paolo in At 19,23ss., di cui abbiamo parlato nel n.487/1986 del Calendario del popolo).

Minucio Felice, avvocato di famiglia pagana convertitosi al cristianesimo, elenca molti flagitia nel suo Octavius: venerano la testa d’asino (allusione al simbolo messianico dell’asino del Cristo nell’ingresso a Gerusalemme), praticano l’infanticidio e l’antropofagia (allusione alla trasformazione del pane e del vino nell’eucarestia), sono incestuosi (allusione allo scambio del bacio di pace tra fedeli che si consideravano fratelli e sorelle, sempre nell’eucarestia e nelle agàpi), rifiutano l’uso della cremazione, sono sostanzialmente atei: sia perché credono in un “Dio unico, solitario, avvilito… che non riescono né a mostrare né a vedere”, sia perché “non hanno altari, né templi, né simulacri conosciuti”.

Dal complesso delle fonti pagane le due principali accuse che si rivolgevano ai cristiani erano le seguenti: 1) ateismo nei confronti della religione dominante e slealtà nei confronti dell’imperatore, al quale non riconoscevano il culto divino. Lo storico Dione Cassio afferma che sotto Domiziano molti romani che avevano adottato i costumi giudaici (leggi: cristiani) furono condannati “per ateismo”(Storia romana 67,14); 2) disinteresse per la vita politica e quindi inaffidabilità del cristiano in quanto “cittadino”, suo scarso “patriottismo”. Ippolito (cfr La tradizione apostolica) e Tertulliano (cfr La corona dei militari) sostenevano che il cristiano non doveva uccidere nessuno in guerra, né doveva prestare giuramento, né portare gli stendardi imperiali, e neppure doveva arruolarsi volontariamente nell’esercito. Persino il magistrato supremo di una città (che aveva potere di vita e di morte) doveva dimettersi se cristiano.

Per cercare di verificare la fondatezza delle accuse, Plinio interpellò gli imputati e sottopose a tortura due diaconesse per aver la conferma delle dichiarazioni rilasciategli, ed anche per sincerarsi che i cristiani avessero effettivamente smesso di riunirsi nelle agàpi, dopo che egli aveva emanato l’editto che vietava le fazioni, seguendo appunto gli ordini di Traiano.

Sulla base delle confessioni spontanee e di quelle estorte con la forza egli aveva ottenuto di sapere: 1) che i cristiani celebravano l’agàpe il sabato sera e l’eucarestia la domenica mattina, ove consumavano “cibo ordinario e innocente” (e non carne di bambini uccisi); 2) essi cantavano inni a Cristo quasi deo, cioè considerandolo come una divinità (non erano quindi “atei” in senso assoluto); 3) s’impegnavano col giuramento del battesimo a non rubare, non usare violenza, non commettere adulterio, non tradire la parola data, non rifiutare un prestito quando richiesto (cadevano le accuse di immoralità e di qualunquismo).

Plinio si era limitato a chiedere l’abiura sulla base di tre condizioni, soddisfatte le quali lasciava in libertà gli inquisiti: 1) invocazione degli dèi pagani, secondo una formula da lui stesso suggerita; 2) sacrificio con incenso e vino al genius di Traiano (la cui statua era stata posta da Plinio insieme ai simulacri degli altri dèi), 3) maledire il Cristo. Plinio sapeva che queste cose un “vero cristiano” non le avrebbe mai fatte. Se non otteneva l’abiura procedeva con l’esecuzione, a meno che i colpevoli non fossero cittadini romani, nel qual caso li inviava a Roma. (Le fonti dell’epoca, tuttavia, non riportano nomi di cristiani che in Bitinia siano stati martirizzati, né si conosce la sorte di quelli inviati a Roma per il processo).

Plinio fa capire a Traiano che per i reati confessati non ci sarebbero gli estremi di una condanna a morte. Alcuni imputati avevano affermato di non essere mai stati cristiani o di non esserlo da vari anni (anche venti! cioè dai tempi della persecuzione di Domiziano) ed erano disposti a venerare gli dèi. Conclusione? I cristiani -fa capire Plinio- meritano più disprezzo che incriminazione, semplicemente perché credono in una “perversa e smodata superstizione” (qui Plinio ripete un cliché interpretativo dell’epoca, che si ritrova anche in Tacito, Svetonio ecc.).

Egli aveva deciso di sospendere le inchieste e di scrivere a Traiano per avere un consiglio su come comportarsi. Naturalmente, sapendo di essere stato inviato per reprimere le società segrete, non poteva sostenere che i cristiani meritassero di vivere anche se negavano la divinità dell’imperatore e la religione tradizionale. Però egli si rendeva conto che se avesse dovuto uccidere, in quella provincia, tutti i cristiani solo per un reato del genere, i processi non sarebbero finiti mai, essendo il “contagio” della “malefica superstizione” molto diffuso. In tal senso egli si rendeva conto che il cristianesimo rischiava di diventare più pericoloso dell’ebraismo.

Il fatto che nella lettera egli si dolga di non aver mai assistito di persona a un processo contro i cristiani non può essere considerato come una motivazione convincente per non procedere contro di loro. Sarebbe stato davvero strano che Traiano avesse inviato in Bitinia un governatore che non sapesse come regolarsi sul piano giudiziario. Plinio in realtà sapeva bene di avere “carta bianca” riguardo alla repressione delle “eterie” (era la prassi della coercitio che nei casi di disturbo della quiete pubblica glielo permetteva). Certo i processi in Italia (a Roma) contro i cristiani non erano stati numerosi nel corso del I sec., ma Plinio, proprio con la sua lettera, dimostra che agli inizi del II sec. bastava dirsi “cristiano” per essere ucciso senza un vero processo, trattandosi di un “reato di opinione” che portava molto facilmente alla morte.

Egli quindi scrisse a Traiano perché aveva costatato come una legge, che deve rispondere alle esigenze di una società ufficialmente pagana, sia poco utile in una società che sta diventando sempre più cristiana. Ciò che più lo preoccupa infatti è che i cristiani vivono nelle città, nei villaggi, nelle campagne, sono di ogni ceto sociale, di diverse età, di entrambi i sessi (qui stava la loro differenza dall’ebraismo!). Questa estrema varietà di casi (plures species) lo aveva, per così dire, messo in difficoltà.

L’ordinanza di Traiano avrebbe potuto funzionare se la superstitio non fosse stata molto diffusa. Plinio addirittura sembra far capire che il culto ufficiale del paganesimo era entrato in crisi ben prima che si diffondesse il cristianesimo, cioè che il cristianesimo andava considerato come uno degli effetti e non come la causa di questa crisi. (Resta tuttavia singolare che già agli inizi del II secolo i templi pagani della Bitinia fossero spopolati. Ciò peraltro stride col fatto che Plinio si fosse accorto della presenza dei cristiani solo attraverso una denuncia anonima).

In sostanza Plinio, da un lato, conferma l’opinione delle autorità statali secondo cui i cristiani dovrebbero essere condannati per motivi morali e politici, in quanto atei (nel senso del monoteismo assoluto e dell’estraneità al culto imperiale) e apolitici (perché seguaci del regime di separazione tra Stato e chiesa e appartenenti a collegia illegali), dall’altro però ritiene che sul piano giuridico sia difficile trovare dei capi d’accusa convincenti, per cui se non vi sono motivazioni particolarmente gravi -fa capire, con molta circospezione, a Traiano- è meglio non perseguitare il cristiano in quanto “cristiano”.

La proposta ch’egli fa è la seguente: si dia ai cristiani la possibilità di ravvedersi, senza usare subito dei metodi drastici se non si pentono, altrimenti le sentenze sortiranno l’effetto contrario.

Plinio anzi vuole dimostrare che con la persuasione ragionata ha già ottenuto la riapertura dei templi e la ripresa delle cerimonie rituali di un tempo, a testimonianza che i cristiani, tutto sommato, sono più malleabili degli ebrei. Naturalmente egli si vanta di questo successo perché spera di ottenere più facilmente da Traiano una risposta positiva.

Il rescritto di Traiano

La risposta dell’imperatore, sebbene indirizzata al governatore di una provincia, aveva validità per tutto l’impero, ed essa probabilmente fece testo per molti anni. Quindi il suo valore è considerevole. Fu una delle fonti, peraltro, che ispirarono l’Apologetico di Tertulliano, scritto nel 197.

Traiano afferma subito che, non essendoci ancora una legislazione anticristiana dello Stato, non si può stabilire una “norma universale” dal punto di vista giuridico. Il che, in altre parole, significa che bisognava seguire la prassi della coercitio, quella che permetteva all’autorità locale (prefetto, procuratore ecc.) di poter amministrare la giustizia arbitrio suo, quando era in causa l’ordine pubblico, salvo rendere conto direttamente all’imperatore del proprio operato.

Traiano afferma che i cristiani non devono essere ricercati in quanto “cristiani” (cioè lo Stato non deve dare l’impressione di essere un “persecutore”, di voler creare per forza dei martiri). I cristiani vanno puniti solo se denunciati e convinti, cioè se al cospetto di forti malumori sociali essi sono ostinati a credere nella loro religione. L’essere cristiano di per sé è un reato, ma il reato diventa tale se c’è un accusatore. Il cristianesimo -come si può notare- viene tollerato solo fino al punto in cui la società pagana non interviene chiedendo di reprimerlo.

Per scagionare il cristiano è sufficiente che veneri degli dèi pagani. Non occorrono torture, né ch’egli sacrifichi all’imperatore (Traiano non lo dice esplicitamente, ma è probabile che lo dia per scontato. E’ vero ch’egli si considerava anzitutto un generale, ma non disdegnava chi lo paragonava a Giove. Lo stesso Plinio si rivolge a lui col titolo di dominus). In pratica il cristiano può restare cristiano se pubblicamente dimostra d’essere “pagano” come gli altri. Traiano qui sembra non rendersi conto che i cristiani irriducibili erano la “regola” e non l’eccezione, soprattutto in Oriente.

All’inizio del II secolo lo Stato romano, che aveva già sferrato nel 70 un durissimo colpo alla superstitio più ostinata -quella ebraica-, nutriva sentimenti di forte ottimismo anche nei confronti di quella cristiana. Era cioè convinto che il giorno in cui avesse veramente cominciato a scatenare delle persecuzioni su vasta scala, avrebbe avuto ragione di ogni resistenza.

Le denunce anonime vanno assolutamente rifiutate -dice Traiano-, perché si può rischiare di condannare qualcuno ingiustamente. Questa è l’unica critica che l’imperatore rivolge a Plinio, il quale evidentemente sapeva che nei processi a carico dei cristiani il giudice poteva procedere anche in presenza di denunce anonime.

Per Traiano la religione è al servizio dello Stato: chi la rifiuta viene considerato sleale, inaffidabile dal punto di vista anche politico. Non è neanche il caso di parlare di libertà di culto o di obiezione di coscienza.

Traiano era avverso ai processi di lesa maestà causati dal rifiuto del culto imperiale, ma era anche profondamente conservatore: i cristiani andavano appunto perseguitati in quanto minacciavano la stabilità dello status quo. Aveva un bel dire Tertulliano a considerare la sentenza di Traiano necessitate confusam: dal punto di vista politico-imperiale essa era perfettamente logica e coerente.

I cristiani non potevano rientrare in un normale codice penale, in quanto andavano perseguitati per motivi politico-religiosi. Non potevano essere puniti per delitti comuni, poiché le autorità ormai sapevano bene che le denunce erano false (di qui il divieto di accettare quelle anonime), né sulla base di una legge speciale, che ai tempi di Adriano -essendo molto forte la pressione popolare contro giudei e cristiani- non era ancora ritenuta necessaria. Per il resto egli non poteva avere difficoltà ad accettare la proposta di Plinio: fatti salvi determinati princìpi ideologici, l’umanitarismo, nella gestione del potere politico, non costituiva certo un problema.

Due notizie di Svetonio

Svetonio (70/75-140 d.C.), in Vite dei dodici Cesari (circa 120 d.C.), afferma che l’imperatore Claudio (41-54) “cacciò i giudei da Roma perché si sollevavano continuamente su istigazione di un certo Cresto (impulsore Chresto)”(Vita di Claudio, 25,4). Si era nel periodo tra il 49 e il 51 d.C. Gli Atti degli apostoli (18,2) confermano l’editto di Claudio: un ebreo, Aquila, costruttore di tende, e sua moglie Priscilla furono cacciati da Roma e andarono a Corinto. Partigiani del messia-Gesù, diedero ospitalità a Paolo.

Misure antigiudaiche analoghe erano già state prese da Tiberio nel 19 e nel 30-31, ma ovviamente non sotto l’impulso di Cresto. Lo stesso Claudio, nel 41, pur difendendo gli ebrei dai pogrom dei cittadini pagani, si era opposto a una loro eccessiva diffusione ad Alessandria d’Egitto.

A Roma le discordie dovevano essere sulla natura messianica di Gesù, tra i giudei ortodossi che la negavano e i giudei cristiani che invece l’affermavano. Nell’espulsione furono coinvolti entrambi i partiti, perché, sotto questo aspetto, né le popolazioni pagane né le autorità romane facevano particolari distinzioni nel I secolo.

Il nome di Cristo (Christos) poteva essere confuso da Svetonio con quello di Cresto (Chrestos), perché la pronuncia di entrambi i nomi era uguale e la grafia interscambiabile nella koiné, cioè nel greco universale parlato in tutto l’impero. Questo benché nella lettera di Plinio il Giovane a Traiano la dicitura sia esatta. (At 11,26 sostiene che il nome ha avuto origine in Antiochia).

La critica ateistica ha creduto di ravvisare in questo “Cresto” un personaggio reale, diverso dal Cristo, per cui il passo di Svetonio non servirebbe affatto a dimostrare l’esistenza di Gesù. In effetti, tale nome era comunissimo tra gli schiavi e i liberti, o comunque tra gli immigrati asiatici. Si trova citato almeno 80 volte nelle iscrizioni latine di Roma.

Assolutamente da escludere è che il termine “cristiani” sia stato coniato dalle stesse autorità romane -come vuole Tertulliano- nella discussione del Senato seguita alla proposta dell’imperatore Tiberio di legalizzare il cristianesimo (cfr Apologetico, V,2). Quel dibattito -nel 35!- non c’è mai stato.

Né ha senso pensare che il nome di Cristo sia stato modificato da un copista cristiano per togliere il sospetto che i cristiani fossero coinvolti in quei tumulti. Oppure che i cristiani usassero il nome di Cresto per non essere riconosciuti come tali e sfuggire quindi alle persecuzioni.

Come che sia, resta senza dubbio curioso un errore del genere da parte di uno storico amico di Plinio il Giovane, filologo e avvocato, uno dei collaboratori più stretti di Traiano, capo dell’ufficio-studi sotto Adriano, prefetto delle biblioteche e perfetto conoscitore del greco.

Lo storico Dione Cassio afferma che gli ebrei a Roma erano così numerosi che non si poteva cacciarli senza provocare tumulti, sicché Claudio si limitò a proibire le loro riunioni (Storia romana 59,6). Ma difficilmente le popolazioni pagane prendevano le difese degli ebrei quando questi venivano perseguitati o esiliati o espulsi definitivamente. E’ però vero che l’editto di Claudio ebbe scarsi risultati, anche perché, nel complesso, la sua politica nei confronti dei giudei fu tollerante. I Druidi celtici o gli astrologi orientali subirono, in questo periodo, ben altra sorte.

* * *

In Vita di Nerone Svetonio afferma che (nel 64 d.C.) “furono inviati al supplizio i cristiani, razza di uomini dediti a una nuova e malefica superstizione”(16,3). Questo brano può essere stato desunto da Tacito, che aveva parlato della persecuzione neroniana, anche se Svetonio non la collega all’incendio della città di Roma.

Superstitio qui viene intesa in senso spregiativo di fanatismo, fideismo ecc. Il termine tecnico per indicare i provvedimenti repressivi è coercita.

Benché Svetonio usi il termine christiani, si deve supporre che al supplizio fossero inviati gli ebrei in senso lato, cristiani e ortodossi. I cristiani venivano generalmente coinvolti nelle accuse che il mondo romano rivolgeva agli ebrei. La stessa tradizione cristiana non è in grado di ricordare alcun nome di martire “cristiano”, in occasione del progrom, a parte quelli di Pietro e Paolo, la cui fine però è completamente avvolta nella leggenda. Non è però da escludere che Svetonio, nel momento in cui scriveva, avesse capito che i cristiani erano più pericolosi degli ebrei, anche perché questi avevano subìto la catastrofe del 70.

L’antisemitismo dei pagani, sotto Nerone, era senza dubbio aumentato. Nel 71 Roma festeggerà in modo solenne il trionfo di Tito e Vespasiano sulla Giudea ribelle. Nerone poté facilmente perseguitare la comunità ebraica (che la sua seconda moglie, Poppea, proteggeva) appunto perché i conflitti di classe erano diventati molto acuti: nel 61 d.C. 400 schiavi furono condannati a morte perché uno di loro aveva ucciso il suo padrone, il prefetto dell’Urbe Pedanio Secondo. Nel momento dell’esecuzione una gran folla cercò di liberarli, ma le truppe romane lo impedirono.

Probabilmente l’incendio di buona parte della città fu voluto dalle autorità (dall’imperatore) per causare il pogrom antiebraico, col quale i ceti marginali potevano trovare una risposta fittizia alle loro frustrazioni sociali. Sempre nel 61 Nerone aveva già decretato che i giudei non godessero degli stessi diritti degli altri gruppi etnici, e permise che a Cesarea ne venissero massacrati ventimila. D’altra parte sarà lui stesso che chiederà al generale Vespasiano di porre fine ai disordini in Giudea.

Il resoconto di Tacito

Anche Tacito (54/55-120 d.C.) negli Annali (XV,44), pubblicati nel 115-117 d.C., parla della persecuzione dei cristiani sotto Nerone. Nella sua versione dei fatti è stata sicuramente aggiunta da un copista cristiano la frase che spiega l’origine della parola chrestianos. Evidentemente il copista temeva che il lettore potesse confondere tra “cristiani” e “crestiani”. Peraltro Pilato viene indicato col titolo di “procuratore”, mentre in realtà era “prefetto” (era stato inviato in Giudea proprio per le sue qualità militari).

Tacito esclude che gli arrestati avessero effettivamente appiccato il fuoco alla città (“Nerone inventò dei colpevoli”). Lo stesso Subrio Flavo, uno degli aderenti alla congiura pisoniana contro Nerone, accusò quest’ultimo, poco prima di morire, d’essere un incendiarius.

Tacito però non sostiene esplicitamente che fossero state le autorità romane ad appiccarlo (erano infamia, cioè dicerie), lasciando le responsabilità nel vago o, al massimo, lasciando credere che le cause erano solo soggettive, psicologiche, da ricercarsi nella personalità insensata di Nerone.

Egli in sostanza si limitò a costatare che in seguito al colossale incendio (di almeno 10 quartieri, durato ben 6 giorni!) furono giustiziate delle persone che per quel singolo episodio erano innocenti, anche se nel complesso della loro attività (flagitia, cioè crimini) andavano considerate colpevoli. Pregiudizi e calunnie antisemiti erano confluiti nell’accusa di “odiare il genere umano”, che per Tacito era vera (exitiabilis superstitio).

Tacito non spiega i motivi per cui il cristianesimo (e l’ebraismo) erano così fortemente detestati. Forse dà per scontato che la gran massa dei cittadini li conosca: infatti dice “i cosiddetti crestiani” e “il popolo già odiava”. Anche da qui però si capisce come i cristiani subissero delle accuse che in origine erano rivolte solo ai giudei.

A dir il vero Tacito riporta anche un processo a carico dello stoico Trasea Peto, che fu condannato da Nerone perché rifiutava il culto imperiale e la religione di stato e per il suo atteggiamento sovversivo. Poiché si trattava di un caso isolato o comunque di un piccolo gruppo di dissidenti, bastò appellarsi alla lex Iulia de maiestate che vietava associazioni ritenute eversive. Egli infatti non fu condannato in quanto “stoico”.

Tacito spiega nel suo racconto sull’incendio che, siccome nel corso del linciaggio, le autorità, i carnefici e lo stesso Nerone si comportarono in maniera indegna, disumana, cominciò a sorgere verso i cristiani “un moto di compassione, sembrando che venissero immolati non già per il pubblico bene, ma perché avesse sfogo la crudeltà di uno solo”. Tacito insomma aveva involontariamente intuito -sempre che non si tratti di un’interpolazione- che le persecuzioni facevano l’interesse dei cristiani.

Il fatto che Dione Cassio (che visse un secolo dopo Tacito) non sappia nulla della persecuzione di Nerone forse sta ad indicare che non si trattò di una persecuzione molto vasta, anche se Tacito parla di “ingente moltitudine” (il che di per sé esclude che oggetto della persecuzione fossero solo i cristiani). In ogni caso, se si accetta che in quella strage furono coinvolti giudei ortodossi e giudei cristiani, si può anche pensare che si sia trattata di una vasta persecuzione, seppur circoscritta nella capitale. All’epoca di Tiberio su una popolazione totale di 800.000 abitanti, a Roma, probabilmente gli ebrei non superavano le 60.000 unità. I cristiani, alla fine del I secolo, non raggiungevano le 10.000 unità.

Lattanzio sostiene che la persecuzione neroniana si estese ai cristiani di tutto l’impero, ma ciò rientra nella preoccupazione apologetica che i cristiani avevano di ingrandire le cose che tornavano a loro vantaggio. Anche Tertulliano mente quando sostiene la presenza di un “decreto neroniano”. Tutte le fonti, anche quelle orientali, lo ignorano. Inoltre mai un successivo intervento delle autorità romane sul problema dei cristiani si è richiamato a una tale disposizione. E’ però vero che a partire da Nerone le popolazioni pagane si sentirono definitivamente legittimate a perseguitare i giudei e i cristiani per motivi di opinione.

E’ altresì da escludere che, dopo le delazioni dei falsi rei confessi, si siano tenuti dei processi individuali a carico dei singoli cristiani, davanti al prefetto del pretorio (anche se l’allora Ofonio Tigellino era una persona fidata di Nerone). Si trattò piuttosto di un pogrom (di un’operazione di polizia con l’avallo di buona parte della popolazione romana). Lo dimostra il fatto che -secondo Tacito- tutti gli arrestati furono giustiziati.

Peraltro l’accusa -osserva Tacito- non era quella di aver causato l’incendio, ma quella, insostenibile in un processo giudiziario, di odium generis humani, cioè di odio nei confronti delle altre popolazioni dell’impero (anche qui si capisce come l’obiettivo della strage fossero gli ebrei qua talis, tra cui anche i cristiani). Un’accusa del genere Tacito l’aveva già rivolta in precedenza agli ebrei: adversus omnes alios hostile odium (cfr Storia romana 5,5).

Tacito comunque non era tenero neppure verso le autorità romane. Egli infatti afferma che “a Roma confluisce e prospera tutto ciò che di più atroce e vergognoso esiste al mondo”. Se non fossimo sicuri che Tacito avvertiva fortemente il bisogno di por fine, anche con la forza delle armi, alle religioni ostili all’impero, potremmo pensare che quella frase sia stata scritta, ironicamente, da un autore cristiano, che ha voluto far vedere come la civiltà romana non era certo migliore del neonato cristianesimo, visto che si faceva ricettacolo del “peggio” esistente nel mondo. In realtà Tacito, già con la monografia idealizzata sulla Germania, s’era accorto che a confronto dei romani il modo di vivere dei barbari era eticamente superiore (rispetto degli schiavi, condanna dell’usura, santità del matrimonio ecc.).

Dunque perché Nerone ricorse a un espediente così drastico? La risposta sta nell’atteggiamento che tutta la casa Giulio-Claudia tenne per cercare di creare, con l’appoggio dei pretoriani, un principato fortemente centralizzato e militarizzato, spingendo in seconda linea il Senato. Caligola e Nerone fecero reiterati sforzi per porre le basi del culto dell’imperatore in Occidente e farne un’istituzione statale. La guerra giudaica nel 66 scoppierà non solo a causa della enorme pressione fiscale nelle province orientali e per la crescente militarizzazione dell’impero, ma anche per la accentuata ideologizzazione del ruolo dello Stato.

Già considerato in Oriente “incarnazione del dio Mitra”, Nerone voleva creare una monarchia di stile ellenistico, senza però che vi fossero a Roma i presupposti necessari. Per poter superare l’infamia dopo la sua morte (damnatio memoriae) e ripristinare la fede nell’auctoritas del principe, occorrerà che salga al trono un militare come Vespasiano.


FONTI

Lettera di Plinio il Giovane

“E’ per me un dovere, o signore, deferire a te tutte le questioni in merito alle quali sono incerto. Chi infatti può meglio dirigere la mia titubanza o istruire la mia incompetenza?
Non ho mai preso parte ad istruttorie a carico dei Cristiani; pertanto, non so che cosa e fino a qual punto si sia soliti punire o inquisire. Ho anche assai dubitato se si debba tener conto di qualche differenza di anni; se anche i fanciulli della più tenera età vadano trattati diversamente dagli uomini nel pieno del vigore; se si conceda grazia in seguito al pentimento, o se a colui che sia stato comunque cristiano non giovi affatto l’aver cessato di esserlo; se vada punito il nome di per se stesso, pur se esente da colpe, oppure le colpe connesse al nome.

Nel frattempo, con coloro che mi venivano deferiti quali Cristiani, ho seguito questa procedura: chiedevo loro se fossero Cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda e una terza volta, minacciandoli di pena capitale; quelli che perseveravano, li ho mandati a morte. Infatti non dubitavo che, qualunque cosa confessassero, dovesse essere punita la loro pertinacia e la loro cocciuta ostinazione. Ve ne furono altri affetti dalla medesima follia, i quali, poiché erano cittadini romani, ordinai che fossero rimandati a Roma. Ben presto, poiché si accrebbero le imputazioni, come avviene di solito per il fatto stesso di trattare tali questioni, mi capitarono innanzi diversi casi.

Venne messo in circolazione un libello anonimo che conteneva molti nomi. Coloro che negavano di essere cristiani, o di esserlo stati, ritenni di doverli rimettere in libertà, quando, dopo aver ripetuto quanto io formulavo, invocavano gli dei e veneravano la tua immagine, che a questo scopo avevo fatto portare assieme ai simulacri dei numi, e quando imprecavano contro Cristo, cosa che si dice sia impossibile ad ottenersi da coloro che siano veramente Cristiani.

Altri, denunciati da un delatore, dissero di essere cristiani, ma subito dopo lo negarono; lo erano stati, ma avevano cessato di esserlo, chi da tre anni, chi da molti anni prima, alcuni persino da vent’anni. Anche tutti costoro venerarono la tua immagine e i simulacri degli dei, e imprecarono contro Cristo.

Affermavano inoltre che tutta la loro colpa o errore consisteva nell’esser soliti riunirsi prima dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne fossero richiesti. Fatto ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente, cosa che cessarono di fare dopo il mio editto nel quale, secondo le tue disposizioni, avevo proibito l’esistenza di sodalizi. Per questo, ancor più ritenni necessario l’interrogare due ancelle, che erano dette ministre, per sapere quale sfondo di verità ci fosse, ricorrendo pure alla tortura. Non ho trovato null’altro al di fuori di una superstizione balorda e smodata.

Perciò, differita l’istruttoria, mi sono affrettato a richiedere il tuo parere. Mi parve infatti cosa degna di consultazione, soprattutto per il numero di coloro che sono coinvolti in questo pericolo; molte persone di ogni età, ceto sociale e di entrambi i sessi, vengono trascinati, e ancora lo saranno, in questo pericolo. Né soltanto la città, ma anche i borghi e le campagne sono pervase dal contagio di questa superstizione; credo però che possa esser ancora fermata e riportata nella norma” (Epist. X, 96, 1-9)



Sollemne est mihi, domine, omnia de quibus dubito ad te referre. Quis enim potest melius vel cunctationem meam regere vel ignorantiam instruere? Cognitionibus de Christianis interfui numquam: ideo nescio quid et quatenus aut puniri soleat aut quaeri. Nec mediocriter haesitavi, sitne aliquod discrimen aetatum, an quamlibet teneri nihil a robustioribus differant; detur paenitentiae venia, an ei, qui omnino Christianus fuit, desisse non prosit; nomen ipsum, si flagitiis careat, an flagitia cohaerentia nomini puniantur. Interim, <in> iis qui ad me tamquam Christiani deferebantur, hunc sum secutus modum. Interrogavi ipsos an essent Christiani. Confitentes iterum ac tertio interrogavi supplicium minatus: perseverantes duci iussi. Neque enim dubitabam, qualecumque esset quod faterentur, pertinaciam certe et inflexibilem obstinationem debere puniri. Fuerunt alii similis amentiae, quos, quia cives Romani erant, adnotavi in urbem remittendos. Mox ipso tractatu, ut fieri solet, diffundente se crimine plures species inciderunt. Propositus est libellus sine auctore multorum nomina continens. Qui negabant esse se Christianos aut fuisse, cum praeeunte me deos adpellarent et imagini tuae, quam propter hoc iusseram cum simulacris numinum adferri, ture ac vino supplicarent, praeterea male dicerent Christo, quorum nihil cogi posse dicuntur qui sunt re vera Christiani, dimittendos putavi. Alii ab indice nominati esse se Christianos dixerunt et mox negaverunt; fuisse quidem sed desisse, quidam ante triennium, quidam ante plures annos, non nemo etiam ante viginti. <Hi> quoque omnes et imaginem tuam deorumque simulacra venerati sunt et Christo male dixerunt. Adfirmabant autem hanc fuisse summam vel culpae suae vel erroris, quod essent soliti stato die ante lucem convenire, carmenque Christo quasi deo dicere secum invicem seque sacramento non in scelus aliquod obstringere, sed ne furta ne latrocinia ne adulteria committerent, ne fidem fallerent, ne depositum adpellati abnegarent. Quibus peractis morem sibi discedendi fuisse rursusque coeundi ad capiendum cibum, promiscuum tamen et innoxium; quod ipsum facere desisse post edictum meum, quo secundum mandata tua hetaerias esse vetueram. Quo magis necessarium credidi ex duabus ancillis, quae ministrae dicebantur, quid esset veri, et per tormenta quaerere. Nihil aliud inveni quam superstitionem pravam et immodicam. Ideo dilata cognitione ad consulendum te decucurri. Visa est enim mihi res digna consultatione, maxime propter periclitantium numerum. Multi enim omnis aetatis, omnis ordinis, utriusque sexus etiam vocantur in periculum et vocabuntur. Neque civitates tantum, sed vicos etiam atque agros superstitionis istius contagio pervagata est; quae videtur sisti et corrigi posse“. Ed. M. Schuster – R. Hanslik, Leipzig, 1958.



Segue la risposta dell’imperatore Traiano:



Mio caro Plinio, nell’istruttoria dei processi di coloro che ti sono stati denunciati come Cristiani, hai seguito la procedura alla quale dovevi attenerti. Non può essere stabilita infatti una regola generale che abbia, per così dire, un carattere rigido. Non li si deve ricercare; qualora vengano denunciati e riconosciuti colpevoli, li si deve punire, ma in modo tale che colui che avrà negato di essere cristiano e lo avrà dimostrato con i fatti, cioè rivolgendo suppliche ai nostri dei, quantunque abbia suscitato sospetti in passato, ottenga il perdono per il suo ravvedimento. Quanto ai libelli anonimi messi in circolazione, non devono godere di considerazione in alcun processo; infatti è prassi di pessimo esempio, indegna dei nostri tempi” (Epist. X, 97)



Actum quem debuisti, mi Secunde, in excutiendis causis eorum, qui Christiani ad te delati fuerant, secutus es. Neque enim in universum aliquid, quod quasi certam formam habeat, constitui potest. Conquirendi non sunt; si deferantur et arguantur, puniendi sunt, ita tamen ut, qui negaverit se Christianum esse idque re ipsa manifestum fecerit, id est supplicando dis nostris, quamvis suspectus in praeteritum, veniam ex paenitentia impetret. Sine auctore vero propositi libelli <in> nullo crimine locum habere debent. Nam et pessimi exempli nec nostri saeculi est.”

Enrico Galavotti – Homolaicus

LE PERSECUZIONI E IL CONCETTO DI SEPARAZIONE FRA STATO E CHIESA

Molti ideologi cattolici sostengono ancora oggi che fra cristianesimo e Stato romano non esisteva una contraddizione di fondo, quanto piuttosto un malinteso dovuto alla scarsa conoscenza degli ideali del cristianesimo, che non erano affatto rivoluzionari. La dimostrazione di ciò sta nel fatto che le persecuzioni non furono sistematiche ma episodiche. (Questa tesi potrebbe essere accettata anche da chi professa un acceso anticlericalismo).

Qui, in verità, bisogna distinguere due aspetti. Sul piano più propriamente ideologico (o, se vogliamo, culturale) la differenza era netta, in quanto il cristianesimo predicava la separazione di chiesa e Stato: concetto, questo, assolutamente nuovo per il paganesimo, che si è sempre concepito come “religione di stato” (o della polis, in Grecia).

Naturalmente il concetto di separazione era frutto di una filosofia della vita più umanistica, più concreta, più socializzante, quale si poteva desumere dalle migliori tradizioni ebraiche.

Il cristianesimo non ha fatto altro che combinare due elementi: il desiderio ebraico di vivere su questa terra un’esperienza di liberazione con la convinzione greca di non potervi riuscire. La separazione, in tal senso, sta a indicare, da un lato, che la chiesa vuol offrire qualcosa di più dello Stato, dall’altro che questo qualcosa, in ultima istanza, riguarda soprattutto la vita ultraterrena.

Ecco perché sul piano politico la differenza tra cristianesimo e paganesimo era minima: il cristianesimo non ha mai predicato la fine dello schiavismo. Si è semplicemente limitato a considerare tutti gli esseri umani uguali davanti a dio: il concetto di uguaglianza l’aveva preso dall’ebraismo; il concetto di aldilà l’ha preso dal paganesimo.

Ora, finché lo Stato romano non si convinse del carattere politicamente inoffensivo del cristianesimo, le persecuzioni restarono inevitabili, anche perché da parte delle autorità statali esisteva sempre il sospetto che le differenze ideologiche potessero essere usate anche in maniera politica.

Infatti, se si vuole la separazione di chiesa e Stato, quando le istituzioni vogliono il contrario (e questo non significa che lo volesse anche la maggioranza della popolazione, poiché se così fosse stato le persecuzioni anticristiane sarebbero state molto più dure), è impossibile che da parte delle istituzioni non si nutra il sospetto che qualcuno voglia minare la loro stabilità. Non a caso i pagani, sobillati dalle autorità, incolpavano sempre i cristiani quando lo Stato romano incontrava difficoltà o insuccessi militari, o quando vi erano crisi economiche, carestie ecc.

I pagani si sono lentamente avvicinati al cristianesimo quando hanno cominciato a vedere che la crisi dello Stato romano (e delle istituzioni in genere) era irreversibile, cioè quando l’autoritarismo dello Stato (che si esprimeva nella pressione fiscale, nel militarismo ecc.) era diventato assolutamente insopportabile. Il cristianesimo cominciò ad essere accettato quando sembrava costituire un’alternativa praticabile allo sfascio delle istituzioni.

Fino a quel momento di consapevolezza le persecuzioni erano state inevitabili, tanto è vero che quelle più tragiche si verificarono non all’inizio ma alla fine, sotto Diocleziano, quando l’impero era maggiormente in crisi.

La differenza fra le prime persecuzioni e le ultime stava proprio nel diverso atteggiamento dei seguaci del paganesimo. Ai tempi di Nerone tutti erano convinti che i cristiani andassero perseguitati (lo Stato contava sull’appoggio della popolazione e non aveva bisogno di legiferare contro i cristiani); ai tempi di Diocleziano invece le persecuzioni erano volute solo dai vertici governativi e non tanto dalla gente comune, la quale, se vi partecipava, non lo faceva più con convinzione.

Se le persecuzioni non sono state sistematiche ma hanno subìto un andamento altalenante, ciò è dipeso anche da un altro fattore. E’ vero che il cristianesimo, sul piano dei princìpi, era alternativo al paganesimo di stato, ma è anche vero che sul piano pratico-politico il cristianesimo (specie quello della parte occidentale dell’impero) spesso era indotto ad assumere atteggiamenti conformistici, attenuando così il furore persecutorio delle autorità.

Il cristianesimo si trasformò in “religione di stato” più sotto Ambrogio che sotto Crisostomo. In occidente il contrasto tra paganesimo e cristianesimo si riduceva in sostanza a una questione meramente politica, in quanto il cristianesimo voleva sostituirsi al paganesimo nella gestione del potere politico insieme alle autorità statali. Il concetto di separazione in occidente ebbe senso solo fino a quando il cristianesimo non andò al potere.

Nella parte orientale invece (soprattutto in Grecia, ma anche nell’odierna Turchia) si diede più peso alle differenze ideologiche tra chiesa e Stato, e il cristianesimo, che pur quando andò al potere non tolse affatto all’imperatore la sua autorità politica (anzi, lo indusse a esercitarla autonomamente in nome dei princìpi cristiani, chiedendogli soltanto di non interferire negli aspetti dogmatici della chiesa), si trovò ad essere perseguitato per molto più tempo di quello della parte occidentale dell’impero (almeno sino alla questione iconoclasta).

L’integralismo dello Stato orientale cristiano era più ideologico che politico, in quanto la chiesa non ha mai avuto la pretesa di sostituirsi allo Stato, come invece accadrà in occidente sin dal momento in cui Costantino trasferirà la capitale dell’impero sul Bosforo.

E’ vero che i basileus spesso cercavano d’intromettersi nelle questioni dogmatiche (p.es. il Filioque, la venerazione delle immagini ecc.), ma sotto questo aspetto incontrarono sempre forti resistenze, sia da parte del clero che da parte della popolazione.

Quando il cristianesimo ortodosso crollò, nella Turchia islamica, piuttosto che accettare l’egemonia del cattolicesimo latino, che con la quarta crociata aveva profondamente minato la resistenza bizantina contro i selgiuchidi, preferì accettare l’islam e, in nome di questa nuova religione, passare al contrattacco invadendo i territori che appartenevano ai cattolici (Africa settentrionale, Spagna, Dalmazia, Ungheria…).

Come mai oggi la Turchia è, di tutti i paesi islamici, quello più laico? La ragione è semplice: le sue radici sono cristiano-ortodosse, cioè legate al concetto di separazione fra chiesa e Stato. Lo stesso si potrebbe dire della Siria, dell’Egitto e di altri paesi ancora.

Enrico Galavotti – Homolaicus


LA SVOLTA COSTANTINIANA

Costantino (306-337) salì al potere con un colpo di stato militare, poiché, essendo figlio della concubina Elena, non poteva succedere legalmente al trono del padre Costanzo, imperatore d’Occidente.

Pur di diventare unico Augusto dell’impero romano, egli fu disposto a eliminare ogni possibile rivale: Massimiano (già Augusto), Massenzio (proclamato Augusto dal senato e dal popolo romano), Massimino Daia (Cesare dell’Augusto Galerio) e Licinio (nominato Augusto su proposta di Diocleziano). Probabilmente portò al suicidio lo stesso Diocleziano.

Costantino si servì vergognosamente anche della politica matrimoniale per raggiungere i suoi fini di potere, sposando la figlia di Massimiano e dando in moglie la sorella a Licinio. Con l’aiuto di quest’ultimo sterminò tutte le famiglie di Galerio, di Flavio Severo (riconosciuto Augusto da Galerio), di Massimino Daia e di Diocleziano, perché nessuno potesse rivendicare una successione al trono. Lattanzio poi scriverà che non fu un “peccato” massacrare le famiglie dei persecutori anticristiani.

Non solo, ma egli eliminò anche la moglie Fausta e un figlio, Crispo (326), avuto dal primo matrimonio con Minervina. Nonostante questa catena di delitti, ai quali naturalmente bisogna aggiungere quelli, molto più numerosi, ch’egli commise in quanto “imperatore”, la chiesa greca lo venera ancora oggi come “santo”, insieme alla madre Elena, e “Uguale agli Apostoli”, mentre la chiesa romana gli decreterà solo l’appellativo di “Grande”, non quello di “santo”: sia perché egli aveva trasferito la capitale a Bisanzio, sia perché aveva inaugurato la politica cesaropapista (opposta a quella che sorgerà in Occidente: il “papocesarismo”).

Inizialmente Costantino era favorevole al culto di Apollo-Sole, una specie di monoteismo sincretistico: il Sol invictus (in cui il padre Costanzo credeva) nella figura dell’Apollo gallico. La prima manifestazione autonoma di Costantino nel campo religioso è la visita al tempio di Apollo in Autun (308), prima di attaccare i Franchi.

Da notare che secondo la tradizione raccolta dallo storico Eusebio di Cesarea, consigliere e biografo di Costantino, questi, alla vigilia della battaglia decisiva presso Ponte Milvio contro Massenzio, fece mettere i simboli X e P (sovrapposti) sugli scudi dei suoi soldati. Naturalmente Eusebio presentò il gesto come una testimonianza della fede cristiana di Costantino, in quanto X e P sarebbero l’inizio della parola Cristo scritta in greco.

In realtà un monogramma simile lo si ritrova su insegne militari orientali precristiane come simbolo del Sole: è probabile che Costantino l’avesse adottato per accattivarsi le simpatie dei cristiani. E se anche non fosse da escludere una certa superstizione di Costantino a favore di Cristo, è però evidente che nel 312 egli non poteva considerarlo ancora più grande del Sole: il Cristo non era, per lui, che un dio accanto ad altri dèi.

Peraltro l’arco di Trionfo decretatogli dal senato romano dopo la sua vittoria su Massenzio (terminato nel 315), ricevette una decorazione figurata corrispondente alla concezione pagana del senato, che vide nel Sole invitto il dio protettore dell’imperatore. Questo anche se l’iscrizione dell’arco, ascrivendo la vittoria ad una “ispirazione della divinità”, poteva non risultare sgradita al mondo cristiano.

Costantino cominciò ad accettare il culto cristiano solo dopo la vittoria su Massenzio, facendo applicare il suddetto monogramma a una grande insegna di guerra, uno stendardo dell’esercito, al quale si doveva tributare uno speciale culto. Una guardia particolare doveva proteggerlo durante i combattimenti. Da notare che la storiografia cristiana (a partire naturalmente da Eusebio e Lattanzio) ha sempre voluto far vedere che nella battaglia di Ponte Milvio si scontravano due religioni opposte: paganesimo e cristianesimo. In realtà Massenzio non era anticristiano: egli semplicemente era contrario a che il potere governativo fosse concentrato nelle sole mani di Costantino, che voleva abolire ogni divisione territoriale dell’impero.

Insieme a Licinio, Costantino emanò il cosiddetto Editto di Milano nel 313, che in realtà era un mandato circolare per i proconsoli. Ci è stato conservato, in versioni non molto diverse, da Lattanzio (in latino) e da Eusebio (in greco), ma soltanto nella redazione che ricevette nel decreto di Licinio per il governatore della Bitinia e pubblicato a Nicomedia. Esso comunque non fece che estendere a tutto l’impero le disposizioni già prese dall’imperatore Massimino Daia in Asia Minore, poi sconfitto da Licinio. O, se si preferisce, non fece che ampliare le disposizioni già contenute nell’editto di Galerio del 311.

L’Editto di Milano concedeva a tutti, entro i confini dell’impero, e in particolare ai cristiani piena libertà di religione e di culto, senza preferenze statali per alcuna particolare religione. Esso prevedeva anche la restituzione oppure l’indennizzo degli edifici ecclesiastici, dei fondi passati al fisco o in possesso privato e dei cimiteri alle comunità cristiane, ora considerate come enti corporativi dotati di personalità giuridica.

Nel 314 egli convocò il sinodo di Arles, a causa dello scisma donatista che durava in Africa da circa un decennio, in seguito al rifiuto di un folto gruppo d’intransigenti vescovi africani di riconoscere Ceciliano, vescovo di Cartagine, consacrato da Felice, un vescovo presunto “traditore” che nella persecuzione dioclezianea aveva ceduto le Scritture al rogo. Il sinodo condannò i donatisti. (Esso minacciò anche di scomunica tutti i soldati che volevano disertare dalle armate imperiali: il che tornava comodo a Costantino nella sua lotta contro Licinio).

Successive indagini provarono non solo che Felice non era un traditore, ma che lo erano stati alcuni vescovi del movimento donatista. Sicché Costantino, vista la loro ostinazione a rifiutare le decisioni del sinodo, prese a reprimerli con la forza, facendo esiliare molti vescovi “eretici” e confiscare le loro chiese. Ma non riuscì che a creare dei martiri, finché, rassegnato, abbandonò la lotta. Paradossalmente il primo a tradire lo spirito e la lettera dell’Editto di Milano era stato proprio lui.

Sul piano legislativo Costantino emanò, dal 315 al 325, una serie di decreti favorevoli ai cristiani per ottenere il loro appoggio contro Licinio e diventare unico princeps dell’impero. Molte di queste leggi però vanno aldilà dell’uso politico meramente strumentale e si possono considerare un segno del mutare dei tempi.

Facciamo alcuni esempi. Abolì la croce come strumento di morte ed equiparò l’uccisione di uno schiavo ad un assassinio e l’uccisione di un bambino, eseguita in nome dell’autorità paterna, al parricidio. Venne incontro alle necessità dei genitori poveri per dissuaderli dal vendere o abbandonare i propri figli. Vietò di bollare in faccia i condannati ai lavori forzati o ai giochi circensi. Stabilì che i prigionieri potessero vedere ogni giorno la luce del sole. Proibì la tortura. Soppresse la facoltà, data al magistrato, di destinare i colpevoli di gravi delitti alle lotte dei gladiatori. Proibì che si disperdessero i membri di una famiglia di schiavi quando si ponevano in vendita dei beni dello Stato. Abolì le tasse introdotte da Augusto a carico dei celibi e delle coppie senza figli. Favorì la legittimazione dei figli naturali. Punì l’adulterio rendendo più difficile il divorzio. Obbligò lo Stato ad assumere la tutela degli orfani e delle vedove.

Nelle leggi degli anni 319 e 321 riconosce ancora il culto pagano come esistente di diritto, opponendosi solo alla pratica segreta e politicamente pericolosa della magia, delle celebrazioni sacrificali domestiche e dell’aruspicina privata (esame delle vittime), tollerando solo quella pubblica, tenuta sotto controllo. Ammetteva però lo scongiuro della pioggia e della grandine. Proibì inoltre al clero cristiano di partecipare al sacrificio lustrale pagano.

Costantino cercò di privilegiare i cristiani, all’inizio, sul piano giuridico-amministrativo: ad es. perché un piccolo sobborgo o una comunità rurale potesse ottenere lo status di città era sufficiente che i suoi abitanti si dichiarassero tutti cristiani. In un’ordinanza al vescovo Osio di Cordova (suo consigliere) si riconosceva ai cristiani la facoltà di dare, dinanzi al vescovo, la libertà ai propri schiavi (privilegio che fino ad allora avevano avuto solo i governatori provinciali).

Ai vescovi concesse, in un decreto del 318, il diritto di giudicare quelle cause civili in cui anche solo una delle parti in lite, nonostante l’opposizione dell’altra, avesse fatto istanza di deferire il caso al tribunale ecclesiastico. Quanto la lex christiana decideva, aveva poi validità legale, senza possibilità di appello. Altri imperatori, in seguito, pretenderanno la volontà di ambedue le parti, altri ancora invece permetteranno che si formi una giurisdizione esclusiva per le cause sugli ecclesiastici, ovvero che il clero si costituisca in casta speciale (il potere arbitrale del vescovo nei paesi germanici non riuscirà mai ad affermarsi).

Che il clero fosse trasformato in una casta privilegiata è documentato anche dal fatto ch’esso si separò sempre più dal laicato, tant’è che molti decreti imperiali erano rivolti non tanto alla comunità cristiana in senso lato, quanto alla corporazione del clero, che tendeva sempre più a irrigidirsi nella sua struttura gerarchica. Il prete si distinguerà maggiormente dal diacono e il vescovo dal prete.

Persino tra vescovi si formeranno, a seconda dell’importanza della loro città, diverse gradazioni d’influenza: ad es. nelle cariche più alte, i cinque vescovi più importanti diverranno, col tempo, i metropoliti della pentarchia (Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme); fra le cariche più basse si abolì quella di “corepiscopo”, cioè il vescovo di quei luoghi di campagna che non avevano titolo di città. Naturalmente la carica di vescovo cominciò a diventare così prestigiosa, per gli onori e le ricchezze che la accompagnavano, ch’era impossibile impedire, in occasione di nuove elezioni, violente lotte (p.es. a Roma, nel 366, in occasione della contesa fra Damaso e Orsino moriranno ben 137 persone!).

Costantino, già nel 313 e poi ancora nel 319, aveva addirittura dispensato gli ecclesiastici dagli oneri municipali (tasse o servizi che lo Stato ordinariamente richiedeva), affinché -questa era la motivazione- non fossero ostacolati nell’esercizio del loro ministero. Ma nel 320 deve opporsi energicamente all’immediato accorrere tra le file del clero di tutti i decurioni o i ricchi, desiderosi di esimersi da tali pesi; e impose che il clero fosse ordinato solo in ragione dei posti vacanti per la morte dei titolari, vietando che una persona, che per nascita o per censo avesse obblighi curiali, potesse prendere gli ordini.

Sempre sul piano economico, Costantino permise che si arrivasse a distribuire annualmente, in ogni città, dei sussidi di grano e di altri generi alimentari alle chiese, a beneficio del clero (il quale avrebbe poi dovuto ridistribuire a poveri, vedove e orfani). Nel 324 egli autorizzò tutti i metropoliti orientali a prelevare, temporaneamente, dai governatori provinciali o dall’ufficio dei prefetti al pretorio, qualsiasi somma che paresse loro necessaria a restaurare o ampliare le chiese delle loro province, o a costruirne di nuove. Ciò al fine di risarcire -questa era la volontà di Costantino- i danni causati dalla persecuzione di Licinio. Lui stesso, a sue spese, fece edificare tantissime chiese, dotandole di vaste proprietà.

Offrì insomma ai vescovi (considerati come senatori) onori e ricchezze, immunità fiscali di ogni tipo (che poi porteranno alla nascita della “manomorta” ecclesiastica) e tutti i privilegi degli ex-sacerdoti pagani. Favorì persino l’esercizio del commercio al clero: misura, questa, che verrà revocata da Valentiniano III (425-55), perché diventata fonte di abusi. Assegnò alla chiesa anche la gestione di tutti gli ospizi dei poveri, gli alberghi, i brefotrofi, gli orfanotrofi, gli ospedali e altre istituzioni assistenziali.

Con una legge del 321 aveva reso la domenica giorno festivo obbligatorio per i lavoratori manuali e per i tribunali, anche se nella legge si precisa che la domenica andava dedicata alla “venerazione del Sole”. Egli d’altro canto continuava ad emettere monete in onore del Sol Invictus. Quanto alla preghiera (una specie di Padre nostro) che i soldati dovevano recitare la domenica, essa non era che una formula neutrale, a sfondo deistico, alla quale avrebbero potuto adattarsi sia i cristiani che i pagani. In ogni caso i soldati cristiani avevano il permesso di partecipare alle funzioni domenicali. (Da notare che ora la domenica subentra alle vecchie feste pagane per segnare il ritmo calendariale).

Con un altro decreto dello stesso anno riconobbe a chiunque il diritto di lasciare per testamento quello che voleva alla chiesa cristiana (non alla chiesa ebraica o ad altre chiese eretiche). Arrivò persino, con altre disposizioni, a considerare il cristianesimo come cultus Dei, in quanto gli ebrei che diventavano cristiani venivano protetti dalla legge in maniera speciale se rischiavano d’essere lapidati. Agli inizi furono vietati il proselitismo e la circoncisione ai loro schiavi pagani o cristiani. Però furono confermate le immunità dai doveri curiali a coloro che svolgevano funzioni nelle sinagoghe.

Costantino fece queste e altre concessioni non solo -come già si è detto- per avere l’appoggio contro Licinio, ma anche perché, una volta vinto Licinio, sperava di tenere la stessa chiesa sottomessa alla sua volontà. Licinio, dal canto suo, era interessato non meno di lui a controllare il potere della chiesa, ma sbagliò a reprimere immediatamente con la forza la resistenza che questa gli oppose e a non cercare il consenso popolare (quello che Costantino appunto otterrà con le sue concessioni). Ancor più sbagliò quando cercò di scaricare sulla chiesa tutto il suo odio per Costantino, che voleva chiaramente detronizzarlo. Quando poi Licinio cercò di tornare a privilegiare il paganesimo, il suo destino era praticamente segnato.

Costantino ne approfittò immediatamente per sconfiggerlo in guerra (a tale scopo fu persino disposto a far entrare i Goti nell’impero), sottraendogli l’impero d’Oriente ed eliminandolo dopo avergli promessa salva la vita (gli ucciderà anche il figlio adolescente). A partire dal 324 (la guerra contro Licinio era durata dal 314 al 323) Costantino s’illuderà di poter realizzare una teocrazia monarchica, cercando di subordinare a sé la chiesa in modo politico e ideologico.

Sempre nel 325 egli (pur non essendo ancora né battezzato né catecumeno, anche se si faceva chiamare “isapostolo”, cioè “pari agli apostoli”, e “vescovo di quanti sono fuori della chiesa”) volle convocare e presiedere a Nicea, nei pressi di Nicomedia, un concilio per prendere le difese dei cristiani ortodossi contro gli ariani, che, subordinando nettamente il Cristo a Dio, erano favorevoli a una subordinazione, anche ideologica, della chiesa allo Stato. Naturalmente la chiesa cristiana si preoccupò di distruggere tutti i testi ariani in cui risultasse esplicita tale teologia politica.

Costantino era contrario a qualunque forma di dissenso religioso nell’ambito del cristianesimo e, per questa ragione, non si faceva scrupolo di servirsi di sinodi e concili (convocati in luoghi e date che solo lui poteva decidere) per eliminare rivalità di potere intraecclesiale o risolvere controversie teologiche. Era sempre lui che, in ultima istanza, decideva di dare o no l’approvazione alle deliberazioni dei sinodi, che, in caso favorevole, potevano diventare leggi imperiali.

Costantino interferiva continuamente nella vita della chiesa, anche nei casi di elezione episcopale. Le stesse comunità cattoliche ed eretiche si rivolgevano a lui perché dirimesse le loro controversie dottrinali o di altro genere, e solo quando una delle due parti si sentiva insoddisfatta delle decisioni ch’egli aveva preso, scattava l’accusa d’ingerenza negli affari ecclesiastici o comunque d’aver fatto ricorso al potere secolare.

In occasione del concilio ecumenico di Nicea (il primo nella storia del cristianesimo), Costantino, pur preferendo, ovviamente, la dottrina di Ario (come anche Eusebio di Cesarea e il vescovo di Nicomedia gli avevano consigliato di fare), si mise dalla parte di quella di Alessandro e Atanasio (rispettivamente vescovo e diacono di Alessandria), poiché le tesi di quest’ultimi avevano ottenuto in concilio la stragrande maggioranza dei voti (solo due vescovi furono contrari).

Ora, siccome la prassi conciliare impediva di poter decretare alcunché se non fosse stata raggiunta l’unanimità, Costantino decise di allontanare i due dissidenti, oltre naturalmente ad Ario (dalla scomunica si passerà poi all’esilio). Gli altri vescovi (quelli dell’Occidente latino, convocati da Costantino, erano stati solo sei) accettarono questo atto di costrizione e intimidazione, ma cominciarono ad opporsi, tranne alcuni, all’idea di introdurre nel Credo, formulato dal concilio, la parola greca homoousios (consustanziale) per contrastare il subordinazionismo di Ario. Essi temevano che con questo termine (non convalidato, peraltro, da alcuna autorità biblica: probabilmente era stato suggerito a Costantino dal vescovo Osio di Cordova) si sarebbe fatto un favore alle teorie dell’eretico Paolo di Samosata, che escludeva ogni distinzione tra il Padre e il Figlio.

Così fu Costantino che tagliò la testa al toro, obbligando i convenuti a formulare un Credo dogmatico e di carattere universale con l’inserimento di quella nuova parola. I vescovi accettarono questa seconda imposizione, ma appena tornati alle loro sedi, molti cominciarono a pentirsi d’averlo fatto e ripresero le proprie professioni di fede locali e tradizionali. Alcuni ripudiarono apertamente la formula di Nicea, ma furono sostituiti da Costantino con uomini più condiscendenti. Questo gesto autoritario scatenò l’inferno. Per evitare lo scisma si cercò un compromesso suggerendo la parola homoiousios (di sostanza simile), ma molti vescovi preferirono l’esilio all’aggiunta di quell’unica vocale.

Per farla in breve, il concilio, voluto per raggiungere l’unanimità dogmatica, provocherà uno scoppio di ostilità teologiche che si trascineranno in Oriente per mezzo secolo e in Occidente per altri due secoli. Lo stesso Costantino ritornò sulla sua decisione e fece richiamare dall’esilio Ario e tutti gli altri ch’erano stati deposti. Lo riabilitò in un nuovo concilio niceano, nel 327. In un altro sinodo, a Tiro, nel 335, la cui presidenza era stata affidata a un dignitario di corte, gli ariani trionfarono. Atanasio fu esiliato a Treviri e Costantino invitò a corte Ario. Ma questi, dopo essere stato nel palazzo imperiale, fu colto da un improvviso malore e morì subito dopo, probabilmente avvelenato.

* * *

Nel 330 Costantino trasferì la capitale a Bisanzio, sulle rive del Bosforo, imitando, in questo, Diocleziano, che l’aveva trasferita a Nicomedia (non molto lontana da Bisanzio). Lo fece per diverse ragioni: militari (andavano difesi meglio i confini orientali, maggiormente minacciati), economiche (l’oriente stava manifestando una grande vivacità commerciale), culturali (egli voleva creare una nuova civiltà, frutto di una sintesi tra cristianesimo e paganesimo), ma soprattutto politiche, affinché egli potesse governare in modo teocratico, in una città quasi completamente cristiana e ben disposta, sotto questo aspetto, a veder realizzato una teocrazia imperiale. Egli sapeva bene che a Roma avrebbe incontrato maggiori resistenze sia da parte del mondo pagano (nel 326, ad es., celebrando a Roma il ventennale della presa del potere, egli si espose allo scherno del Senato e della popolazione pagana, per aver ripreso i suoi soldati che sacrificavano a Giove Capitolino); sia da parte della stessa chiesa cattolica, che ormai pretendeva d’essere “uno Stato nello Stato” e non avrebbe permesso a nessun imperatore di poter governare senza il suo consenso.

Anche dal punto di vista civile la città fu voluta a immagine e somiglianza del basileus: non avendo un prefetto ma un proconsole, né questori, pretori e tribuni della plebe, e avendo un senato più che altro simbolico, essa in realtà non era che una residenza imperiale, al pari di Nicomedia. Quando la si inaugurò, Costantino permise che si celebrassero anche dei misteri pagani. D’altra parte egli non vietò mai che si costruissero templi pagani, neppure nella nuova capitale, la cui dea personificratice era la pagana Tyche (Fortuna), per quanto egli stesso fece porre una croce sulla fronte della statua, al fine di toglierle il suo significato prettamente pagano. Sino alla fine della sua vita Costantino impedì di molestare i cittadini pagani a motivo della loro fede.

Non a caso poco tempo prima di morire egli si era riavvicinato al paganesimo predicato dal neoplatonico Sopatro, discepolo di Giamblico. Qui la tradizione cristiana attribuisce l’uccisione del filosofo alla stessa volontà di Costantino, che non voleva più saperne di paganesimo. Il che però contrasta col fatto ch’egli non rinunciò mai al titolo di “pontefice massimo”, anche se esso, sotto il suo regno, non implicava più alcuna partecipazione al culto pagano. Il fatto ch’egli ricevette il battesimo (ariano!) in punto di morte (se la storia non è leggendaria), non contraddice certo l’atteggiamento strumentale che Costantino ha sempre tenuto nei confronti della religione. Quanto alla rinuncia ad essere considerato un dio, Costantino vi accondiscese solo in teoria, non in pratica. Tanto i pagani quanto i cristiani non misero mai in dubbio la sua particolare “intesa” con la divinità. Ogni opposizione alla sua persona continuò ad essere considerata come un sacrilegio. Perfino dei templi vennero dedicati al suo nome.

La corte imperiale, in mano praticamente ai cristiani, si stava indirizzando verso la realizzazione di un cristianesimo di stato. Stando ad Eusebio, l’ultimo Costantino avrebbe proibito del tutto i sacrifici pagani (interrogare oracoli, erigere simulacri a divinità, celebrare misteri). E -dice sempre tale tradizione- i suoi figli fecero quello che avrebbe dovuto fare lui con maggiore risolutezza (il riferimento è soprattutto alla distruzione materiale dei templi).

Infatti, suo figlio e successore al trono d’Oriente, Costanzo, di religione ariana, arriverà a proibire nel 341 i sacrifici pagani, con la minaccia di morte e il sequestro dei beni, ordinando la chiusura di tutti i templi. Egli anticiperà, di poco, il proclama letterario dell’apologista Firmico Materno che aveva chiesto l’eliminazione di tutti i seguaci del paganesimo. Ma con Costanzo tornarono ad essere perseguitati anche i cristiani ortodossi. “Ciò che io voglio -disse una volta ad alcuni vescovi ortodossi- deve essere tenuto come un canone nella chiesa”.

Infine, con l’Editto di Tessalonica (380) l’imperatore Teodosio (379-395) vieta tassativamente il culto ariano e qualunque altra eresia non conforme alla dottrina del pontefice Damaso e del vescovo Pietro di Alessandria, dando così inizio alla campagna di persecuzioni contro i filosofi e gli scienziati pagani (vedi ad es. l’assassinio di Ipazia nel 415 ad Alessandria d’Egitto) e contro gli eretici (la prima condanna a morte ebbe luogo a Treviri nel 384, contro Priscilliano e i suoi seguaci).

Nel 381, al concilio di Costantinopoli, si ribadisce definitivamente, aggiungendo altri dogmi, il Credo di Nicea. L’anno dopo l’imperatore Graziano farà rimuovere dal Senato l’ara della Vittoria (simbolo delle antiche tradizioni della Roma pagana) e rinuncerà al titolo di “pontefice massimo”. Il paganesimo perdeva ogni connessione ufficiale con lo Stato. Nel 391 l’esercizio pubblico del culto pagano, assimilato al delitto di lesa maestà, fu proibito nelle città di Roma ed Alessandria; l’anno dopo si estese la proibizione a tutto l’impero. Nel 415-16 ai pagani verranno interdette tutte le funzioni pubbliche. Con l’editto di Marciano (451) s’introdurrà la pena di morte e la confisca dei beni contro chi offre sacrifici agli dèi pagani o vi coopera. Nel VI secolo l’imperatore Giustianiano priverà il paganesimo anche di ogni mezzo di espressione culturale.

Enrico Galavotti – Homolaicus


PERCHE’ IL CRISTIANESIMO PRIMITIVO VINSE?

Uno degli ultimi studi, abbastanza dettagliato, di autori russi, tradotto in lingua italiana, sul problema dei rapporti tra cristianesimo primitivo e schiavitù, è quello contenuto nel libro di E.M. Staerman e M.K. Trofimova, La schiavitù nell’Italia imperiale (Editori Riuniti 1975). Si tratta del cap. IX.

Su questo aspetto piuttosto controverso della storiografia, molti dei tanti studi di quest’ultimo mezzo secolo, apparsi in Russia, sono stati mediati in Italia soprattutto da due autori marxisti, A. Donini e M. Craveri, che tendevano a prediligere, seppure in maniera problematica, le tesi della scuola mitologica. Direttamente, attraverso traduzioni o studi specifici, o indirettamente, attraverso le loro opere storiche, sia Donini che Craveri ci hanno fatto conoscere il pensiero di R.J. Vipper, S.I. Kovaliov, S. Tokarev, I.A. Kryvelev, J.A. Lencman, A.B. Ranovic, ecc.

Il lavoro di Staerman-Trofimova non si discosta dalla scuola mitologica per i contenuti espressi (viene negato ad es., sulla scia di A. Harnack, che Gesù Cristo sia mai stato un “riformatore sociale”); ma se ne discosta per il modo con cui s’indaga un fenomeno così dibattuto come quello del cristianesimo primitivo. Nel senso cioè che si comincia a guardare il rifiuto cristiano dell’attività politica non come una forma di estraniazione dal reale, ma come “un’espressione di protesta”(p.278), seppur in negativo, contro l’alienazione della vita sociale e politica. L’anachoresis (ritirarsi, allontanarsi) viene vista addirittura come “una forma di lotta di classe”(p. 277).

Dicono i due autori: “nell’Egitto del periodo ellenistico e di quello romano, l’anachoresis favorì la disgregazione dell’economia del paese”. Nei documenti di duemila anni fa vi sono descritti “molti casi di fughe di schiavi e di poveri contadini che si ponevano sotto la protezione del tempio, separandosi definitivamente dai loro padroni”(p.277).

Si badi, i due autori non vogliono attribuire al cristianesimo primitivo la scelta esistenziale di fuggire “materialmente” verso i deserti o altri luoghi poco accessibili, come ad es. fecero gli esseni di Qumran (ciò avverrà solo con la nascita del fenomeno monacale, dopo la svolta costantiniana). Essi infatti si rendono conto che il cristianesimo fu soprattutto un fenomeno urbano. Il cristianesimo -questa la loro tesi- va considerato “anacoretico” solo in senso “figurato”, in quanto, pur sviluppandosi nelle città, esso mostrò un rifiuto radicale per l’attività politica e sociale tradizionale e ufficiale. Si trattò di una fuga dalla realtà più “morale” che “fisica”, anche se ciò comportò il rifiuto concreto, nell’ambito della vita cittadina, di determinate attività. “La predicazione della sottomissione alle autorità terrene tendeva a dimostrare il loro ruolo insignificante rispetto a valori di ordine più elevato”(pp. 322-23).

I due autori non si nascondono che la decisione di adottare l’anachoresis può non essere stata il frutto spontaneo della originaria coscienza del cristianesimo, ma una scelta forzata, dolorosa e progressiva, in quanto è probabile che “inizialmente nel cristianesimo prevalse un’impostazione dei problemi scopertamente sociale che solo successivamente venne sostituita da quella morale”(p. 304). Senonché questa rimane solo una loro felice intuizione: nel testo non viene assolutamente sviluppata, anzi, se vogliamo, viene ripetutamente smentita, come se gli autori temessero di allontanarsi troppo da quella che nella prima metà degli anni ’70 era ancora l’interpretazione marxista prevalente sulla questione in esame.

Viceversa, la nostra preoccupazione sta proprio nel cercare di avvalorare tale intuizione, mostrando, nella critica di alcune parti del capitolo in oggetto, quali aspetti vanno considerati decisamente superati nello studio del cristianesimo primitivo.

* * *

Qui anzitutto andrebbe sgombrato il campo da un equivoco. Nel complesso della storia delle religioni sono sempre esistite prese di posizione radicali che hanno determinato una “fuga dalla realtà”: farne un elenco sarebbe superfluo. L’ultima, di cui hanno parlato i media, è stata quella, finita tragicamente, di David Koresh (USA). Tuttavia, non s’è mai visto che queste esperienze abbiano rappresentato una vera spina nel fianco dei sistemi dominanti, o abbiano addirittura contribuito al loro crollo. Se e quando ciò è avvenuto si è trattato di una pura coincidenza, in quanto per la rovina del sistema hanno giocato un ruolo determinante fattori ben più consistenti, di cui quelli religiosi spesso non sono stati altro che un riflesso o un sintomo.

Gli esseni, p.es., scelsero volontariamente di ritirarsi nel deserto, ma il Battista, che proveniva da quell’ ambiente, ad un certo punto si accorse che bisognava superare la posizione élitaria della sètta e avvicinarsi alle “masse”, per poter incidere sulla realtà. E gli esseni scelsero il deserto dopo aver costatato il fallimento di molti tentativi di liberarsi dal dominio dello straniero e dal collaborazionismo interno.

Lo stesso si potrebbe dire dei primi cristiani: essi scelsero “l’invito alla rassegnazione” non tanto -come dicono i due autori russi- per “contrapporre la personalità alla società esistente”(p.278), quanto piuttosto perché videro fallire clamorosamente un’esperienza di tipo politico-rivoluzionario, quella appunto del Cristo. Certo, nella teologia paolina è evidente il contrasto tra personalità e società. Si tratta però di capire il motivo per cui un “ripiego” del genere abbia avuto così tanta fortuna. Anche perché -a ben guardare- la contrapposizione della pura interiorità alla mera esteriorità non è mai stata tipica del cristianesimo, in nessun momento storicamente rilevante. Essa è stata propria invece delle religioni orientali (di matrice indo-buddista), oppure delle filosofie che in un certo qual modo si riallacciano a quelle religioni, come lo stoicismo, l’epicureismo ecc. Persino gli esseni avevano una precisa organizzazione comunitaria. Lo stesso paolinismo sarebbe inconcepibile senza una forte attività sociale e propagandistica.

* * *

Pare quindi difficile da condividere la pretesa dialettica, individuata dai due autori russi, fra la scelta cristiana della rassegnazione, da un lato, e la consapevolezza d’una critica radicale al sistema, dall’altro. “I primi cristiani -essi dicono- rifiutarono decisamente il sistema di valori accettato in quella stessa società, pur invitando alla sottomessa esecuzione di quanto venisse loro richiesto dall’ordinamento esistente”. Si trattò, in sostanza, di “una peculiare forma di rivolta contro quell’autorità”(p.280).

Ciò che non convince, in questa tesi, non è solo l’idea che un movimento cristiano possa essere nato sulla base del valore della rassegnazione (quale “plebaglia” avrebbe mai potuto convincere?), ma anche che si possa parlare di una vera e propria “sottomessa esecuzione” della volontà del potere costituito. Uno studio approfondito del cristianesimo primitivo ci mette davanti a un fatto incontrovertibile e a un problema la cui soluzione per il momento si può solo ipotizzare.

Il fatto incontestabile è costituito dalle persecuzioni cui il cristianesimo è andato soggetto sino alla svolta costantiniana del 313, con l’editto di tolleranza di Milano. Il problema è quello di cui sopra abbiamo parlato. Ci si chiede: il cristianesimo ha forse posto “in primo piano la vita interiore dell’uomo” perché ha reagito in modo parziale e riduttivo alle proposte innovative del Cristo, oppure perché questo era l’insegnamento del suo fondatore? La prima realtà a tradire il messaggio di Cristo, spoliticizzandolo al massimo, non è forse stata la comunità cristiana? Il vero fondatore del cristianesimo -come ritengono molti esegeti aconfessionali- non deve forse essere considerato Paolo di Tarso?

Ai due storici russi non interessa però affrontare criticamente questo problema, ma dimostrare in che modo si è data la priorità alla “soggettività”. In questo senso, tuttavia, pare limitativo sostenere che, siccome il cristianesimo preferì l’interiorità etico-religiosa, vanno rifiutati taluni suoi princìpi, come p.es. l’identità tra azione e intenzione, la remissione dei peccati, la superiorità della grazia sulla legge, l’invito ad amare i propri nemici, ecc. Il fatto che il cristianesimo abbia politicamente tradito il messaggio di Cristo, non implica, di per sé, che si debba rifiutare tutto quanto esso ha affermato sul piano pre-politico. Non si capisce perché il principio dell’amore universale debba essere visto come una conseguenza della rassegnazione.

Qui non si deve assolutamente dimenticare che il cristianesimo ha vinto la sua battaglia contro l’integralismo dello Stato romano quasi unicamente con gli strumenti dell’etica sociale e della morale personale. Politicamente, infatti, esso rivendicava soltanto il regime di separazione tra Stato e chiesa. Che poi, a partire dal 313, esso abbia affermato, in Oriente, il cesaropapismo e, in Occidente, il papocesarismo, questo è un altro problema. Non si può dare un giudizio di insufficienza alla “morale cristiana” in sé, solo perché, ad un certo punto, si è imposto un nuovo integralismo politico-ideologico, che ha poi usato quella morale per scopi tutt’altro che democratici o umanitari.

E’ dunque vero che il cristianesimo, coi suoi princìpi etico-religiosi, non ha fatto altro che riconfermare i rapporti di sfruttamento esistenti, ma è anche vero ch’esso, tali rapporti, li ha subìti in maniera traumatica per almeno due secoli, ed è altresì vero ch’esso ha contribuito a una loro modificazione formale di non poco rilievo, quale è stata quella del passaggio dallo schiavismo al colonato e al servaggio.

Il cristianesimo primitivo è sempre stato un movimento attivo e propositivo; lo era molto di più dell’ebraismo, politicamente attivo solo in Palestina (almeno fino alla rivolta del 132 d.C.), mentre nel resto dell’impero romano, a causa del proprio settarismo, esso era tenuto costantemente ai margini della vita pubblica: di qui l’interesse particolare degli ebrei per l’affermazione economica, considerata come forma di riscatto sociale. Il cristianesimo (che sapeva dividere la religione dalla politica) era molto più attivo anche rispetto alle religioni orientali, che praticamente non ponevano mai i loro princìpi in un contrasto irriducibile con l’integralismo dello Stato romano.

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E’ singolare come i due autori russi non si siano accorti che se veramente il Cristo avesse predicato i contenuti del Nuovo Testamento, non avrebbe mai fatto, al tempo dell’imperatore Tiberio (che Tertulliano, mentendo, considerava “filo-cristiano”), una fine così tragica, così caratterizzata dal movente politico. Quindi delle due l’una: o il Cristo era un politico rivoluzionario, e allora i vangeli mentono; oppure non lo era, e allora la sua morte in croce non ha senso. Sostenere, come ha fatto Engels, che “a causa delle premesse storiche [il cristianesimo] non volle realizzare in questo mondo la trasformazione sociale”(in Per la storia del cristianesimo primitivo), è come dire che il cristianesimo non poteva nascere che così, cioè così astratto, così idealistico, così rinunciatario: il che non ci aiuta affatto a capire come esso sia effettivamente nato, né, tanto meno, come abbia potuto vincere.

Rispetto alle tesi di Engels, che praticamente fecero da battistrada a tutta la scuola mitologica sovietica, è ormai giunto il momento di affermare, con sicurezza, che non solo il Cristo operò un tentativo insurrezionale a carattere popolare, ma anche che i tempi, per organizzarlo, erano maturi, in quanto, da un lato, la forma statale della repubblica romana era entrata in dissoluzione e stava per essere sostituita da quella imperiale, ancora incerta sul da farsi (in Italia la rivolta popolare di Spartaco aveva definitivamente messo in luce le contraddizioni insostenibili del governo repubblicano); dall’altro, tutte le rivolte giudaiche che si succedettero dal 66 al 135 d.C. attestano che l’esigenza di una resistenza popolare armata, per una liberazione nazionale, era fortissima nella coscienza delle masse ebraiche.

In questo senso sbagliano i due autori suddetti a ritenere vero o verosimile il comando di Gesù di pagare le tasse a Cesare, così come è stato formulato in Mc 12,17. Pur prevedendo il regime di separazione, tale comando non poteva assolutamente riflettere le preoccupazioni del Cristo, sia perché ogni riferimento positivo alla divinità, nelle sue parole, va considerato come una reinterpretazione della comunità cristiana, sia perché un politico rivoluzionario non ritiene mai che le tasse allo straniero debbano essere permanentemente pagate.

E’ assurdo pensare che in un’epoca di ferventi ribellistici il cristianesimo sia nato predicando “la paziente sottomissione con cui il Cristo ha sopportato le persecuzioni dei governanti” e che tale sottomissione va considerata come “la glorificazione di valori diversi da quelli dominanti”(p. 283). Effettivamente il cristianesimo apostolico predicava questo, ma è altrettanto evidente che l’idea di rassegnazione doveva riflettere una forte crisi della prassi di liberazione, una censura o una cattiva interpretazione dell’esigenza di tale prassi. Solo di fronte a una grande possibilità di liberazione reale, venuta meno, si poteva giungere a elaborare un pensiero così pessimista, così spiritualista e, in fondo, così astruso.

Ma c’è di più. Se veramente il cristianesimo avesse predicato il valore della rassegnazione alla stessa stregua dello stoicismo, non si capisce perché esso abbia voluto puntare le sue forze sul lavoro missionario e non si sia accontentato di rimanere circoscritto entro una dimensione più privata o più ristretta. Lo “stoicismo” del cristianesimo non avrebbe avuto alcuna possibilità di vincere quello filosofico ufficiale se non avesse avuto un messaggio qualitativamente diverso da trasmettere. La stessa religione siriana del Sol invictus, pur avendo una grandissima popolarità nell’impero romano, non mise mai in discussione il primato filosofico dello stoicismo prima e del neoplatonismo dopo.

In realtà i primissimi cristiani erano convinti che la rassegnazione non andasse considerata come fine a se stessa, né come strumento per salvaguardare l’ordine costituito, e neppure come atteggiamento per il futuro regno dei cieli. La rassegnazione era vissuta con soddisfazione perché si era convinti in un ritorno più o meno immediato del Cristo. Il torto dei proto-cristiani è stato appunto quello di credere che al fallimento del progetto rivoluzionario elaborato dal Cristo potesse porre rimedio solo il Cristo stesso, nella pienezza, questa volta, dei suoi poteri.

Quando la speranza di un’imminente parusia trionfale del Cristo è venuta meno (soprattutto dopo la distruzione di Gerusalemme), i cristiani, per superare la rassegnazione stoica, hanno dovuto concentrare tutte le loro energie su un aspetto che lo stoicismo non aveva mai preso in considerazione: l’assistenzialismo nei confronti delle categorie sociali più deboli (poveri, malati, orfani, vedove…). E’ stato questo che ha permesso al cristianesimo di ottenere vasti consensi, anche se la sua ideologia, alla fine del II secolo, si stava sempre più trasformando in un’arma a difesa non degli schiavi (ai quali si chiedeva di non emanciparsi socialmente), bensì dei ceti medi e medio-bassi (piccoli proprietari, artigiani, commercianti al minuto, professionisti di medio livello ecc.), i quali, rendendosi conto di avere scarse possibilità di carriera o di ampliare i propri possessi, temevano di finire in condizioni analoghe a quelle dei coloni o dei liberti.

* * *

Le differenze che Staerman e Trofimova pongono tra stoicismo e cristianesimo non sembrano sufficienti a chiarire i motivi della vittoria di quest’ultimo. Il cristianesimo -essi dicono- proponeva rapporti diversi costruiti “sui princìpi dell’uguaglianza e dell’amore”(p.284). Ma questo anche lo stoicismo lo affermava: basta leggersi le Lettere che Seneca scrisse a Lucilio. Seneca, Epitteto e Aulo Gellio consideravano lo schiavo uguale per dignità all’uomo libero.

Dov’era quindi la differenza dal cristianesimo? Proprio in questo, che lo stoicismo si limitava a sostenere l’uguaglianza e l’amore universale senza però far nulla per metterli in pratica. “Seneca… che predicava virtù e astinenza -dice Engels-, era il primo intrigante alla corte di Nerone”(in Bruno Bauer e il cristianesimo primitivo).

Ben pochi filosofi stoici o neoplatonici sono diventati cristiani. Difficilmente un filosofo si sarebbe lasciato martirizzare per le proprie idee o, tanto meno, per delle idee religiose. Seneca parlò sempre in modo ammirevole dei suoi schiavi, ma non ne liberò neanche uno e si guardò bene dall’invitarli a condividere il suo regime di vita; inoltre non fece mai nulla per sbarazzarsi delle sue immense ricchezze. Meglio di lui si comportò l’ex-schiavo Epitteto, che però non uscì dai limiti dell’individualismo.

Andava dunque spiegato meglio il motivo per cui “il cristianesimo soddisfaceva, in misura maggiore che non lo stoicismo, le aspirazioni sociali degli uomini”(p.285).

Il secondo aspetto che i due suddetti autori sostengono è il seguente: “la dottrina cristiana prometteva una unione con Dio non prevista dall’insegnamento stoico con la sua razionale legge universale che regola il mondo”(p.285). Ora, non è forse vero che esistevano altre religioni misterico-orientali che predicavano la medesima cosa? Eppure nessuna di esse trionfò sullo stoicismo, che rimase l’ideologia ufficiale dell’impero sino al neoplatonismo: ideologia, questa, più integralista perché più anticristiana, essendosi diffuso il cristianesimo, nel III secolo, assai ampiamente. Le religioni popolari pagane, che fecero in un certo senso da pendant allo stoicismo, furono quella mitriaca e quella della grande madre di tutti gli dèi. Lo stoicismo quindi avrebbe potuto vincere la sua battaglia contro il cristianesimo, attraverso il misticismo e il democraticismo di queste due religioni soteriologiche. Ma non vi riuscì. Perché?

Il motivo è lo stesso di prima: erano le tracce di ebraismo presenti nel cristianesimo che gli impedivano d’identificarsi con lo stoicismo non meno che con le religioni orientali. Lo spirito contestativo, la capacità organizzativa, la sensibilità per i bisogni sociali, l’idea di un dio che fa la storia con il suo popolo e altre cose ancora, portarono l’ideologia di Paolo a un trionfo senza precedenti. Essa fu il frutto di un enorme sforzo di conciliare sul piano sociale e culturale ciò che apparentemente sembrava inconciliabile: il senso ebraico del collettivismo e dello storicismo con il senso greco-romano dell’universalismo e dell’individualismo.

Certo, questa sintesi non può essere considerata come l’unica possibile, poiché Paolo rinunciò all’istanza politica di liberazione (questo fu il senso della sua “conversione” sulla strada di Damasco), ma essa va comunque considerata come un tentativo assolutamente originale per quei tempi, che nessuna filosofia pagana o religione orientale sarebbe mai stata in grado di realizzare.

Quando quindi si afferma che il cristianesimo primitivo “prometteva agli uomini la salvezza, la strada della verità e non quella della conoscenza”(p.285), bisognerebbe anche specificare che tale salvezza non veniva solo “promessa” ma anche “organizzata” concretamente, seppur in forme limitate e per certi aspetti fuorvianti, nella vita sociale. Questa caratteristica differenziava il cristianesimo tanto dallo storicismo quanto dalle religioni orientali, le quali si limitavano a predicare una salvezza individuale legata a manifestazioni attive di ascesi e mortificazione della carne (che il mondo romano peraltro non apprezzò mai sino in fondo).

La loro differenza dal cristianesimo non stava dunque nel fatto che mentre a questo “mancava qualunque eccezione determinata da circostanze esteriori di vita”, quelle invece erano “accessibili a pochi”(p.286) -come dicono i due autori, che dimenticano di sottolineare che tali religioni furono introdotte in Occidente dagli schiavi-, ma stava piuttosto nel fatto che il cristianesimo non riponeva la salvezza individuale in un mero sforzo moralistico di purificazione dal vizio o dal peccato.

Ma è soprattutto sul terzo aspetto che i due autori sono carenti nelle loro spiegazioni. Essi affermano che i primi cristiani s’immaginavano la liberazione “in maniera assai concreta e in un futuro molto vicino”, mentre gli stoici si limitavano a disquisire “sulla loro teoria speculativa della periodica conflagrazione del mondo”(p.285). Una tesi, questa, che non chiarisce affatto il motivo per cui una religione “rassegnata” come quella cristiana avesse una carica “escatologica” così forte. Che cosa ha impedito al cristianesimo di usare la propria anachoresis in maniera analoga a quella stoica o a quella delle religioni orientali?

Qui evidentemente ci si trova di fronte a un problema di non facile soluzione. In effetti, anche pensando che nel proprio escatologismo il cristianesimo sia stato influenzato dall’ebraismo, vien comunque da chiedersi il motivo per cui esso abbia rinunciato -diversamente dall’ebraismo, che lottò strenuamente fino al 135 d.C.- all’istanza politica rivoluzionaria. Pur di non restare schiavi dei romani, gli ebrei si fecero distruggere come popolo, persero la loro nazione e non poterono più rientrare in Gerusalemme. Se si pensa che i primi cristiani erano tutti originari della Palestina, si resta davvero sconcertati nel vedere da un lato questo loro forte desiderio di liberazione politica e dall’altro questa non meno forte volontà di negare un’organizzazione del movimento in senso politico.

E’ dunque molto probabile che l’esperienza della “tomba vuota”, dopo la crocifissione del Cristo, sia stata inizialmente interpretata in termini esclusivamente politici, come un indizio sicuro del ritorno imminente e trionfale del Cristo, il quale avrebbe vinto tutti i nemici in una maniera relativamente facile, senza neppure il concorso delle masse popolari.

Se questa ipotesi è vera, l’idea di rassegnazione non va messa in relazione alla convinzione della immodificabilità del sistema dominante, ma piuttosto alla convinzione della assoluta inutilità dell’iniziativa politico-personale ai fini della liberazione sociale. I primi cristiani cioè ritenevano possibile la rivoluzione non per merito loro ma per merito esclusivo del Cristo “scomparso”. Questo tradimento del messaggio di Cristo è stato probabilmente anche all’origine della sua tragica fine, nel senso che i veri autori della crocifissione non sarebbero stati né gli ebrei né i romani, ma gli stessi cristiani che non fecero nulla per impedirla, nella convinzione (illusoria) che il Cristo stesso, da solo, avrebbe saputo evitarla.

* * *

Il tradimento cristiano non poté ovviamente essere integrale, altrimenti oggi non ce ne saremmo neppure accorti. Esso partì dal livello politico e intaccò col tempo tutti gli altri livelli: sociale, culturale, etico…, che furono reinterpretati in chiave religiosa. E tuttavia, il cristianesimo riuscì a non assumere, grazie alle sue radici ebraiche, le sembianze di una delle tante religioni orientali.

Dunque, per concludere, ciò che i due autori suddetti non hanno ben compreso è stata la capacità contestativa del cristianesimo primitivo, che non stava tanto nell’anachoresis, quanto nell’idea di affermare un regime di separazione tra Stato e chiesa. Nessuna filosofia pagana e nessuna religione orientale aveva mai previsto una configurazione politico-istituzionale del genere.

Questo aspetto deve portarci inevitabilmente a concludere che “l’esodo degli uomini dalla vita socio-politica nella religione”(p.287), ovvero l’assenteismo nella vita politica, non avesse per i cristiani un carattere di assolutezza. “L’evoluzione spirituale dell’uomo, quale unica condizione per il suo affrancamento”, venne dai primi cristiani non “contrapposta” ma “privilegiata” rispetto alle altre forme di attività. I cristiani cioè, pur non trovando “nella vita il materiale necessario per l’edificazione di valori morali”(p.287), non si ritirarono in toto dalla vita sociale. Essi, anzi, avrebbero voluto essere considerati cittadini come gli altri, ma vi erano, da parte dello Stato romano, ostacoli ideologici così grandi che praticamente non si poteva riconoscere loro questo diritto. Se non si tiene conto di questo, si finisce con l’avallare l’assurda tesi della storiografia cattolica, secondo cui le persecuzioni bisecolari furono in sostanza il frutto di un “malinteso”.

E’ vero che il cristianesimo politicamente portò all’idea della “inevitabilità dei rapporti di costrizione”(p.286), ma è anche vero ch’esso, sul piano pratico, cercò di superare questi rapporti, affidandosi all’assistenzialismo, al volontariato, al mutuo soccorso, alle minacce morali nei confronti dei ricchi… L’uguaglianza sulla terra, anche dal punto di vista sociale, non era ritenuta del tutto impossibile, ma possibile solo come “caparra”, come “anticipazione simbolica” della futura uguaglianza nel regno dei cieli. Esisteva quindi un impegno concreto per realizzare questo segno tangibile della diversità.

Tale peculiare modo di affrontare i bisogni concreti della gente fece da fondamento all’idea della separazione tra Stato e chiesa, e permise al cristianesimo d’incontrare ampi consensi tra i ceti non abbienti. Tali ceti, finché il cristianesimo risultava perseguitato, temevano certamente un peggioramento della loro situazione, ma sapevano anche ch’esso, in quel momento, offriva loro l’opportunità migliore per sopportare in maniera dignitosa la decadenza morale e l’oppressione politica dell’impero, e potevano altresì sperare che, in caso di vittoria, cioè di legalizzazione della nuova religione, la loro condizione sociale sarebbe migliorata.

Enrico Galavotti – Homolaicus


IL CRISTIANESIMO PRIMITIVO NELLA STORIOGRAFIA RUSSA

I

Come noto, la storiografia ateistica russa a indirizzo mitologico (che sino a qualche anno fa era prevalente) non solo non ha mai considerato la letteratura cristiana una fonte storica sicura per conoscere le origini del cristianesimo, ma ha sempre messo anche in dubbio l’autenticità di tutte le fonti non-cristiane, da quelle romane di Tacito, Svetonio e Plinio il Giovane, a quelle ebraiche di Giuseppe Flavio, Filone Alessandrino, Mara ecc.

Sulla scia della critica radicale di studiosi come A. Kalthoff, P. Jensen, A. Drews, P.L. Couchoud, J.M. Robertson e altri, essa ha sempre sostenuto l’impossibilità di poter determinare con sicurezza persino l’esistenza storica di Gesù. Sono noti i nomi degli studiosi russi della scuola mitologica: Vipper, Ranovic, Kovaliov, Kryvelev… Persino Kautsky, che pur non negava l’esistenza del Cristo, anzi, contrariamente a Engels, lo definiva un ribelle rivoluzionario, non attribuiva alle fonti extra-evangeliche alcun peso.

Questa storiografia ha sempre sostenuto che la causa delle falsificazioni cristiane sarebbe da attribuire al silenzio degli autori giudei e greco-romani su Gesù Cristo negli anni compresi, all’incirca, fra il 70 e il 120. Nessuno in effetti può smentire che le fonti storiche del I secolo tacciono del tutto sulla persona e l’attività di Cristo, anche quando si tratta di documenti ufficiali e semiufficiali, o di opere storiche e filosofiche del tempo.

Le interpolazioni dei copisti cristiani quindi sarebbero un prolungamento del lavoro redazionale già intrapreso col Nuovo Testamento, al fine di dimostrare il dogma relativo alla passione, morte e resurrezione di Cristo. Necessità che divenne attuale particolarmente dopo il Concilio di Nicea (325) per combattere i diversi eretici.

All’inizio quindi vi sarebbe stato solo un culto divino del Cristo, del tutto astratto e non molto diverso da altri culti misterico-ellenistici del tempo, e solo in seguito ci si sarebbe preoccupati di dare al Cristo-Dio una fisionomia anche umana. Dimodoché quanto più la fonte cristiana è antica, tanto più è povera in essa la biografia terrena di Cristo (vedi ad es. l’Apocalisse di Giovanni, che già Engels riteneva scritta verso il 68-69 d.C.).

Questa tesi, seppur in maniera più sfumata, venne ripresa e diffusa in Italia soprattutto da A. Donini. M. Craveri, di cui Teti editore di recente ha pubblicato Un uomo chiamato Gesù, è stato il primo, da noi, ad aver fatto una panoramica (breve) della storiografia ateistica ex-sovietica, relativamente allo studio della figura di Gesù Cristo e delle origini del cristianesimo, con il saggio Gli studi sovietici sulle origini del cristianesimo, apparso nella “Nuova rivista storica” nel 1968.

Le altre tre ricerche, che stranamente non citano quella di Craveri, sono di due sacerdoti cattolici: Ermis Segatti, Il senso di Gesù e della comunità primitiva nella ricerca biblica dell’ateismo sovietico (“Rivista Biblica Italiana”, XXIV-XXV/1976-77); id., L’ateismo. Un problema nel marxismo (ed. Piemme 1986); e Jozef Rajcak, Gesù nella ricerca sovietica contemporanea (ed. Piemme 1985).

* * *

Craveri, nel saggio succitato, ha messo sinteticamente in luce che fino al 1958 gli studiosi russi (o ex-sovietici) avevano affrontato il problema delle origini del cristianesimo “più con la preoccupazione di dare conferma alle opinioni espresse in proposito da F. Engels”(p.175), il quale, a sua volta, aveva aderito alle conclusioni di B. Bauer e della “Scuola di Tubinga”. A partire da quella data, con Kovaliov, inizia invece la messa in discussione di alcune tesi ufficiali del marxismo.

Craveri ritiene che lo storico del cristianesimo più importante e più fedele alla lezione engelsiana sia stato A.B. Ranovic, il quale però comprese meglio di Engels l’efficacia pratica del movimento cristiano, basata sostanzialmente sull’idea dell’uguaglianza morale di tutti gli uomini (davanti a dio), cioè l’idea del riscatto universale dal peccato dell’egoismo.

Bene ha fatto Craveri ad affermare che, nonostante ciò, anche a Ranovic, come a Engels, è “sfuggito l’appello alla fratellanza, alla caritas, all’aiuto reciproco, che pure ha costituito uno dei cardini della predicazione cristiana e ha reso possibili, almeno nelle prime comunità, indubbie forme di riscatto, non solo spirituale, per i fedeli bisognosi”(p.178).

Nessuno dei due inoltre (Engels lo fece solo in riferimento all’Apocalisse di Giovanni) ha mai sottolineato a sufficienza che “tra le principali cause dell’affermarsi del cristianesimo [vi era] la certezza, che i suoi “profeti” cercavano d’inculcare, nell’imminenza di un’effettiva, concreta realizzazione, su questa terra, di quel “regno” di giustizia e di benessere, più tardi trasferito in cielo”(p.178).

Craveri inoltre contesta, giustamente, la tesi sostenuta dai due marxisti, secondo cui il cristianesimo riuscì a diffondersi a livello mondiale perché, a differenza delle altre religioni, “non conteneva particolari forme di rito, sacrifici e cerimonie”(p.178). Non si deve infatti dimenticare che il cristianesimo -quello soprattutto di Paolo- è nato come “religione” e, per quanto i suoi riti, all’inizio, fossero meno complicati di quelli ebraici o di altre religioni misterico-orientali, essi costituivano pur sempre il “guscio mistico” che avvolgeva la fede dei credenti.

Il rapporto tra fede e sacramenti è sempre stato fondamentale nel cristianesimo, anche se nei vangeli solo col presupposto della fede si può scorgere l’esistenza di qualche sacramento istituito da Cristo. Essi infatti lo descrivono intento a discutere e non a pregare o a fare riti particolari. Gv 4,2 afferma che “Gesù in persona non battezzava”. E il battesimo del Precursore -imitato inizialmente dai seguaci di Gesù- non aveva certo un valore sacramentale.

In ogni caso il cristianesimo non ebbe la meglio sulle altre religioni semplicemente perché queste erano limitate da confini di tipo etnico-nazionalistico. Nel corso dell'”impero” romano, non della “repubblica”, tutte le religioni trapiantate in Occidente -ad eccezione di quella ebraica- pretendevano d’avere un carattere universale. Quella parte di ebraismo che volle avere questo carattere si trasformò appunto in cristianesimo. L’ebraismo più conservatore, invece, continuò a subordinare il proprio universalismo alla riuscita politica del messianismo nazionale.

Il cristianesimo non divenne universale dopo il crollo delle religioni fondate sulla polis, e non lo divenne neppure attraverso la semplice mediazione filosofica delle opere di Seneca e di Filone Alessandrino. L’universalismo era un processo intrinseco all’ideologia cosmopolita del principato romano, che coinvolgeva, come tale, tutte le religioni e tutte le filosofie.

Per quanto riguarda il cristianesimo, esso maturò in quegli ambienti ebraici che, rassegnati all’idea di non poter realizzare alcuna liberazione politico-religiosa a livello nazionale dall’imperialismo romano, pensarono di potersi imporre sulla cultura ellenistica (religiosa e filosofica) adottandone il carattere universale e facendo leva sul proprio “spirito collettivistico”.

In tal senso è limitativo sostenere -come fa Ranovic- che l’originalità del cristianesimo stava nel suo carattere di “religione universale”. Quando il cristianesimo abbatteva “tutte le vecchie barriere etniche e le differenze di casta tra gli uomini”(p.181), non era, in questo, molto diverso dall’orfismo o dal mitraismo. Quando Paolo sosteneva che in Cristo non c’era più “né giudeo né greco”, stava semplicemente chiedendo ai giudeo-cristiani di considerare i greco-cristiani uguali a loro. Non aveva inventato una nuova formula cosmopolita per il mondo ellenistico. La differenza, dalle altre religioni e filosofie, stava nel fatto che il cristianesimo cercava di essere coerente nella prassi coi principi affermati in sede teorica.

Ma la critica di Craveri è efficace soprattutto laddove contesta a Ranovic l’idea che Gesù sia stato, in principio, una “creatura mitologica celeste” (come nell’Apocalisse), successivamente umanizzata e storicizzata (come nelle Lettere di Paolo e nei vangeli). Ranovic ignora completamente -dice Craveri- “gli approfonditi studi moderni di esegesi neotestamentaria, accampa grossolanamente la tesi comparativistica di fine Ottocento, secondo la quale la redazione dei Vangeli e il conseguente culto di Gesù Cristo sono frutto della contaminazione di leggende pagane, culti misterici e reminiscenze bibliche”(p.181).

Molto più indovinata è l’analisi di Ranovic sul modo in cui il cristianesimo democratico si è involuto, trasformandosi in religione di stato.

* * *

Craveri fa anche notare che gli studi di Ranovic posero le fondamenta per la “giovane scuola sovietica”, a indirizzo mitologico, la quale accentuò ancor più la tesi che l’origine del cristianesimo va cercata non in Palestina ma nella diaspora ebraica.

Il primo che mise in forse questa tesi, sostenendo esattamente il contrario, fu -dice Craveri- lo storico S.I. Kovaliov, in un saggio apparso nel 1958. Craveri tuttavia sembra concedere troppo alla pretesa “rottura” di Kovaliov. E’ vero infatti che questi paragonò il cristianesimo a “una delle tante forme dei culti misterici orientali”(p.185), dimostrando così che l’universalismo, e persino il monoteismo, erano un’esigenza comune, sentita in tutto l’impero; ed è altresì vero ch’egli ha scorto nel maggiore democraticismo del giudeo-cristianesimo (rispetto alle altre religioni) un elemento decisivo nella lotta contro “la religione ufficiale del popolo romano conquistatore”(p.185). Ma è anche vero che Kovaliov continuò a considerare il Cristo un mito storicizzato, non attribuendo ai vangeli alcun valore come fonti storiche. Sicché è difficile pensare che con lui si sia usciti dall’angusto ambito della “giovane scuola sovietica”.

Egli, p.es., sosteneva che la mancanza di fonti non cristiane sulla nuova religione, durante il I secolo e l’inizio del II, andava spiegata col fatto che il cristianesimo, agli inizi, fu “un fenomeno così insignificante da non meritare l’attenzione degli scrittori pagani”(p.188). In tal modo però Kovaliov si precludeva la via alla comprensione della censura che la stessa chiesa cristiana aveva operato sul messaggio e sull’attività politica del Cristo.

Craveri, tuttavia, fa giustamente notare che “se il cristianesimo ha avuto le sue prime origini in territorio palestinese, diventa meno incredibile l’esistenza di un profeta predicatore, di nome Gesù”(p.189). Certo, questa può essere considerata una “conquista” dell’ateismo scientifico, ma si tratta ancora di ben poca cosa.

Lo dimostra il fatto che altri grandi storici, come A.P. Kazdan e M.M. Kublanov, che hanno voluto proseguire gli studi di Kovaliov, si sono limitati a vedere “l’origine del mito di Cristo nelle concezioni messianiche della setta di Qumran, poi complicate dalle dottrine filosofiche filoniane e stoiche”(p. 190), dando così per scontata la spoliticizzazione del Cristo, e ribadendo, implicitamente, la preoccupazione apologetica di dimostrare la superiorità del socialismo scientifico rispetto al cristianesimo.

E’ evidente che se si considera il cristianesimo come una pura e semplice religione e non anche come il tentativo di deformare un messaggio che religioso non era, non si avrà alcuna difficoltà a paragonarlo ad una delle tante religioni orientali dell’epoca, o all’ebraismo ellenistico, o all’essenismo qumranico.

Più interessante, in tal senso, è la posizione del filologo tedesco G. Hartke, citato da Craveri perché molto studiato in Russia. Egli sostiene che “siccome la letteratura del Nuovo Testamento è l’unico documento in nostro possesso per la ricostruzione delle origini del cristianesimo, tutto il problema si riduce ad un esame critico di ciò ch’essa ci offre”(p.192). (In attesa naturalmente di trovare nuove fonti storiche!)

I suoi studi andrebbero ripresi soprattutto là dove afferma che certi passi del vangelo di Giovanni sono più autentici o più antichi di quelli di Marco, e che i versetti d’ispirazione gnostica, abbondantemente presenti nel quarto vangelo, sono interpolazioni posteriori. Come, d’altra parte, sono stati aggiunti, in un secondo momento, tutto il gruppo di versetti in cui Gesù non è più considerato “uomo-messia” ma “Logos divino”, nonché le composizioni di sapore gnostico che dividono il genere umano in “figli della luce e delle tenebre”.

Il torto di Hartke, sottolineato da Craveri, è stato quello di aver avuto la pretesa di ricostruire una vita “storica” di Gesù e una cronologia “sistematica” della redazione del N.T. a partire dalle stesse fonti cristiane. Alla fine Hartke è caduto in ingenuità non meno grossolane di quelle della scuola mitologica. Qui infatti è bene precisare, a scanso di equivoci, che aldilà di una “critica” delle fonti cristiane non è possibile andare, in quanto la verità storica è stata soffocata da duemila anni di menzogne.

DALLA SCUOLA MITOLOGICA A QUELLA STORICA

II

Ingenuamente J. Raicak, nell’Introduzione al suo libro Gesù nella ricerca sovietica contemporanea, dopo aver riconosciuto “l’importanza capitale dell’ateismo sovietico nel mondo contemporaneo”, si chiede il motivo per cui “il numero delle pubblicazioni sovietiche su questo argomento sia molto esiguo” in Europa occidentale e soprattutto in Italia, e crede di trovarlo nella scarsa conoscenza della lingua russa.

In realtà le ragioni sono di tipo ideologico e politico. Il mondo cattolico (ma sarebbe meglio dire “cristiano in generale”) non ha mai avuto, ovviamente, alcun interesse a divulgare testi ateistici che presumono d’essere scientifici sulla storia del cristianesimo: le poche volte che l’ha fatto, ha sempre scelto di pubblicare le parti più facilmente criticabili.

L’area facente capo al marxismo occidentale (in Italia al gramscismo) ha sempre temuto (un’eccezione significativa è stata appunto quella di Donini) che la divulgazione di una pubblicistica così chiaramente determinata in direzione dell’ateismo, potesse compromettere il dialogo politico col mondo cattolico.

Infine tutte le correnti marcatamente anticlericali: laicisti, anarchici, trotzchisti, maoisti ecc., pur essendo ideologicamente favorevoli all’impostazione ateistica della storiografia sovietica, hanno preferito, per ragioni meramente politiche, cioè per ragioni di rozzo anticomunismo o antisovietismo, non misurarsi sul terreno del confronto culturale, restando legate, sostanzialmente, alle vecchie posizioni mitologiste della Sinistra hegeliana e della “Scuola di Tubinga”, riprese poi dal positivismo.

La ricerca di Rajcak è comunque interessante perché mette in luce come, dopo circa sessant’anni di assoluto dominio dell’indirizzo mitologico, si vada facendo strada presso gli studiosi russi (Rajcak intende riferirsi al periodo compreso dal 1975 al 1982) “un più marcato interesse per una probabile esistenza storica dell’uomo Gesù”(p.106). Da un lato infatti essi, come la migliore scuola mitologica, affermano -dice Rajcak- che “l’oggetto primario della ricerca sovietica non è la questione dell’esistenza storica di Gesù Cristo”(p.107); dall’altro però sono indotti ad ammettere che “la questione dell’esistenza storica di Gesù Cristo non è indifferente agli studiosi marxisti, poiché essi sono convinti che la soluzione scientifica di questo problema darà un colpo decisivo al cristianesimo”(p.107).

* * *

Ora vediamo quali importanti affermazioni ha fatto la scuola storico-razionalista russa sul tema della storicità del Cristo e dei vangeli.

Riguardo al genere letterario dei vangeli si sta cominciando ad ammettere che molti racconti, non contenenti “nulla di soprannaturale”(p.114), possono essere considerati “storici”. La scuola mitologica, in questo senso, era stata molto categorica: i vangeli non sono che testi leggendari, teatrali, vere e proprie raccolte di favole, inventate da cima a fondo.

Quanto, in tale mutamento di prospettiva, abbiano influito le scoperte dei rotoli di Qumran, è facile intuirlo. Il primo a rivedere alcune classiche tesi della scuola mitologica fu -come già si è detto- lo storico Kovaliov, il quale dovette costatare che quei rotoli bimillenari attestavano la presenza di gruppi molto vicini non solo agli Esseni e agli Ebioniti, ma anche a quella che è la figura idealizzata di Gesù nella letteratura neotestamentaria. Kovaliov, in sostanza, pur senza chiedersi in che modo la chiesa cristiana aveva operato una falsificazione ai danni del movimento originario di Gesù, finì con l’accettare la versione che il cristianesimo, come religione, sorse in Palestina, in stretta relazione con problemi e movimenti di natura specificamente ebraica.

Generalmente i rappresentanti russi della scuola storica ammettono che gli autori principali (non ovviamenti gli unici) dei vangeli siano Matteo, Marco, Luca e Giovanni, di origine palestinese (ad eccezione naturalmente di Luca), e concordano nella periodizzazione della vita degli evangelisti (che non si discosta, in sostanza, da quella ufficiale della tradizione cristiana). Viceversa, la storiografia mitologica solo sulla ebraicità di Giovanni Battista sosteneva di non avere dubbi: essa infatti nel Precursore ha sempre visto una specie di prototipo del personaggio standard del messia.

Quanto alle fonti dei vangeli i pareri della scuola storica non sono molto omogenei: 1) N.M. Nikol’skij, A.P. Kazdan, Z. Kosidovskij e I. Svencickaja sostengono che tali fonti sarebbero -dice Rajcak- “le tradizioni orali riguardanti un predicatore ebreo di nome Gesù, le quali, accanto ai racconti leggendari o mitici (p.es. i miracoli), contengono un vero nucleo storico”(p.115); 2) per gli ultimi due storici, “i vangeli si formarono in un lungo periodo di tempo dopo la morte di Gesù, da una parte sulla base della tradizione orale, dall’altra in forza della ‘creatività tendenziosa’ dei loro autori”(p.115); 3) M.M. Kublanov sostiene che “sugli autori dei vangeli esercitarono un forte influsso il pensiero del filosofo alessandrino Filone, le concezioni dualistiche del mondo proprie dei qumraniti e degli iraniani e le idee messianiche anticotestamentarie degli ebrei”(p.115): oltre a ciò, egli è convinto che “il vangelo di Giovanni dipenda in gran parte da quello di Marco, ma anche da un’altra fonte detta “Q”, non pervenuta ai nostri giorni”(p.115). Su questo le tesi della scuola mitologica non sono molte diverse, se non per il fatto che tendono ad accentuare l’influenza dei racconti mitologici greco-romani, babilonesi, siriani, egiziani e indiani.

Molto significativa è l’affermazione di Kazdan secondo cui le contraddizioni contenute nei vangeli potrebbero anche essere “un argomento a favore del nucleo storico di essi, poiché provengono dalle differenti tradizioni orali che si conservarono nelle diverse comunità cristiane primitive e si riferivano ai fatti storici”(p.115).

Con Nikol’skij si è anche arrivati a considerare i miracoli come “semplici guarigioni psichiche o neurotiche”(p.122), escludendo quindi la possibilità di altri eventi prodigiosi come la trasfigurazione, la resurrezione di Lazzaro, la moltiplicazione dei pani o la tempesta sedata.

Interessante altresì è l’opinione di Kovaliov in merito alle fonti non cristiane su Gesù. Egli sostiene che quelle di Plinio il Giovane e di Tacito non devono essere liquidate con troppa sicurezza. La scuola mitologica -come noto- le ha sempre ritenute inattendibili, semplicemente perché voleva restare legata a una concezione dello sviluppo, senza mediazioni, della figura di Cristo, che va dal mito della sua divinità (già descritto nelle Lettere paoline più antiche) sino alla rappresentazione umana delineata nei vangeli.

Kosidovskij (che non è russo ma polacco) ritiene invece che “non esistono alcune ragioni fondate per negare la storicità di Gesù, dato che nella Palestina di quel tempo i predicatori, i profeti e i messia di quel genere erano un fenomeno quotidiano”(p.98). A suo parere cioè si può considerare tranquillamente come verità storica il fatto che Gesù fosse il figlio di un carpentiere, che avesse vissuto a Nazareth fino al momento in cui, sotto l’influsso del Battista, iniziò a predicare in Galilea e a Gerusalemme, raccogliendo attorno a sé molti seguaci, e infine il fatto che, mettendosi contro il potere religioso e civile, venisse crocifisso come un pericoloso disturbatore dell’ordine pubblico. Dopo la sua morte avvenne qualcosa che spinse i suoi seguaci a credere che era risorto”(p.98).

Kazdan, in questo senso, ha precisato che uno studioso marxista può anche ammettere l’esistenza storica dell’uomo-Gesù, ma, a differenza di un teologo, dovrà sempre rifiutare che si tratti di un “figlio di dio” che portò all’umanità un messaggio originale (p.95).

Sintomatico è il fatto che in questa critica alle posizioni estreme della scuola mitologica, la scuola razionalista non abbia fatto altro che recuperare le tesi fondamentali del teorico più importante della IIa Internazionale, K. Kautsky, per il quale Gesù Cristo fu “un lottatore politico della resistenza, un rivoluzionario sociale”(p.51). [L’opera fondamentale di Kautsky, L’origine del cristianesimo fu edita in Italia nel 1970 da Samonà e Savelli].

Questo significa che nell’area ideologica marxista vi è sempre stato un indirizzo favorevole alla storicità di Gesù. Esso è stato tenuto per molti anni ai margini della storiografia sovietica ufficiale semplicemente perché risultava politicamente scomodo nel contesto delle relazioni conflittuali che dividevano il socialismo dal capitalismo. Solo a partire dai primi anni ’60 l’atteggiamento schematico della maggior parte dei biblisti sovietici ha cominciato a diventare più flessibile e problematico, e solo oggi si può pensare di approfondire l’ateismo scientifico in termini veramente storici e umanistici.

* * *

Come esempio concreto di questa possibilità si può prendere in esame l’interpretazione storicista di Nikol’skij, che Segatti riporta piuttosto estesamente nei suoi due lavori già citati.

Nikol’skij (1877-1959) sostiene che “l’escatologia… per gli uomini del I secolo giocava un ruolo pari per importanza alla dottrina del socialismo e del comunismo per la società attuale”(Riv.Bib.It., XXV/1977, p.169).

Parlando dei vangeli sinottici, egli è convinto ch’essi rappresentino “l’immagine più vicina ai concetti e sentimenti autentici delle masse che si aggregarono per prime nella comunità cristiana”(p.170). “In generale l’oggetto dei vangeli è l’annuncio del regno di dio come fatto imminente… Tutto l’agire di Gesù è contro il padrone di questo mondo (gerarchie dominanti, preti, farisei, romani)… La gente stenta a crederlo poiché lo ritiene uno dei tanti sovvertitori che si sono già presentati sulla scena della storia. Ma egli si dichiara l’ultimo di tutti i tempi. E, anche se vinto, Gesù apparirà di nuovo e allora sarà l’unico signore del futuro regno del bene”(p.170).

Il regno futuro appartiene ai “miserabili e ne sono esclusi i ricchi”(p.171). Ma dai sinottici -prosegue Nikol’skij, che però non s’avvede come l’escatologia post-pasquale sia stata già un modo di falsificare il messaggio del Cristo- è difficile individuare a quali “miserabili” ci si riferisca. Stando alla comunità post-pasquale di Gerusalemme sarebbero i poveri giudeo-cristiani, conformemente all’escatologia giudaico-nazionalista; stando invece alle comunità giudaico-ellenistiche della diaspora, che aspirano a un superamento del principio nazionalistico e puntano sull’essenzialità della fede cristiana, sarebbero i poveri tout-court, credenti nella messianicità di Gesù.

“Quanto al tempo, pare che l’aspettativa fosse di assoluta imminenza, [anticipata] dall’inasprimento della persecuzione dei discepoli e dalla trasformazione del cristianesimo in forza mondiale irresistibile. Dalla convinzione congiunta dell’imminenza della fine e della sua ineluttabilità derivò il rigore stoico e la severità dei costumi cristiani. In un tale clima, la distruzione di Gerusalemme da parte di Tito poteva lasciare supporre che la venuta del regno stesse per scoccare”(p.171).

Tuttavia, afferma Nikol’skij (riassunto sempre da Segatti), i primi cristiani “non costruirono alcun sistema sociale alternativo, poiché il cambiamento avviene non attraverso un processo costruttivo di trasformazione sociale, bensì attraverso uno sconvolgimento cosmico di tipo miracolistico”(p.172).

Infatti, il momento in cui i cristiani furono disposti a seguire Gesù in qualità di “messia-re” in una insurrezione armata (e cioè durante la sua predicazione in Galilea, cfr Gv 6,1ss.), non si è più ripetuto, con altri capi cristiani, dopo la sua morte. Anzi, con il processo di divinizzazione del Figlio dell’uomo, con la sua mancata parusia e con la mondializzazione del cristianesimo, l’escatologia dei primi cristiani -dice Nikol’skij- ha perduto la sua forza propulsiva (p.177).

“Già si prefigura in questo stadio lo sviluppo successivo: visto che dall’alto non si decide a venire nulla, sarà necessario trovare una via di compromesso con questo mondo. Cominciano ad entrare in forma predominante i ricchi nelle comunità cristiane, ed essi non sono affatto interessati a cambiare le cose”(p.178).

CHE COS’E’ LA VERITA’ STORICA?

III

Il grande merito della scuola mitologica russa (o ex-sovietica) è stato quello di aver dimostrato che le fonti storiche del cristianesimo primitivo portano il credente ad avere una fede incompatibile con la ragione. Questa scuola, tuttavia, se può aver indotto molti credenti di “buon senso” a dare maggiore peso alle motivazioni della ragione piuttosto che a quelle della fede, ha anche indotto, a causa della sua unilateralità, molti altri credenti a un fideismo ancora più cieco nei riguardi delle loro fonti storiche originarie, pregiudicando così la possibilità di un dialogo e di un approfondimento culturale in direzione dello storicismo umanistico.

In effetti, il torto principale della scuola mitologica, che pur aveva giustamente appurato la presenza di contraddizioni insostenibili nelle fonti neotestamentarie, è stato quello di aver svalutato, col pregiudizio di chi fa d’ogni erba un fascio, le fonti cristiane nel loro complesso, ritenendole del tutto fittizie.

Essa si è lasciata eccessivamente influenzare da determinati stereotipi, provocando così quello che in psicologia viene definito “effetto alone”, cioè dalla constatazione di un aspetto negativo si è passati a negativizzare il tutto. Si può forse avere la pretesa di sostenere, a priori, un criterio col quale stabilire con esattezza ciò che può essere considerato una “fonte storica credibile”? No, non si può, semplicemente perché l’attendibilità di una fonte è sempre il frutto di una paziente e laboriosa ricerca.

Peraltro è sempre molto difficile appurare tutte le ambiguità implicite in una qualunque fonte storica, anche se, col passare del tempo (e paradossalmente), gli uomini tendono ad avvicinarsi sempre più alla verità dei fatti storici del passato. Dice infatti J. Huizinga: “Ogni fase di civiltà, dal Medioevo in poi, si ricostruisce un’immagine nuova dell’antichità greco-romana”, e questo sulla base delle stesse fonti scritte! (La scienza storica, ed. Laterza, p.30). “Per raggiungere un accordo due storici -ha detto H.I. Marrou- devono arrivare ad avere le stesse categorie mentali, le stesse affinità, delle identiche basi culturali”(La conoscenza storica, ed. Il Mulino, p.232).

Se uno storico, in coscienza, ritiene inverosimile l’esistenza di Gesù Cristo, probabilmente non la riterrebbe verosimile neppure se avesse sotto mano un carteggio diretto tra Seneca e Pilato che avesse per oggetto il processo a Gesù, in quanto non potrebbe fare a meno di sospettare che si tratti di un falso d’epoca. “Un gran numero di falsificazioni spesso apparenti -ha scritto J. Topolski- ha affinato il criticismo degli storici, conducendo a volte all’ipercriticismo”(Metodologia della ricerca storica, ed. Il Mulino, p.509).

Il fatto è che non esiste una prova inconfutabile della verità di un’esistenza, di una teoria, di un’esperienza… Neppure il soggetto interessato è in grado di dirci di se stesso una verità maggiore di quella che altri possono dire di lui. Con la moderna burocrazia si può addirittura rischiare che un cittadino vivente, al cospetto di un’anagrafe che abbia smarrito i suoi documenti, non possa neppure dimostrare la propria esistenza in vita!

Se mettessimo a confronto i vari dipinti che ritraggono la figura di Cristoforo Colombo, chi potrebbe affermare con sicurezza, vedendo una così grande diversità di fattezze, ch’egli sia veramente esistito? Si pretende insomma un senso storico-scientifico negli scritti del passato, quando neppure oggi siamo in grado di possederlo. Potrebbe mai accadere che un marxista consideri le testimonianze dirette di Trotski sulle rivoluzioni russe più attendibili di quelle di Lenin? No, eppure Trotski fu un protagonista attivo di quegli avvenimenti, e cercò di riportarli puntualmente in una serie di scritti che ancora oggi, dai suoi seguaci, vengono considerati più veridici di quelli di Lenin.

Con questo naturalmente non si vuole sostenere che è impossibile stabilire una verità storica, o che tutto è relativo, che non esiste scienza ma solo opinione. Semplicemente la verità non s’impone da sé, altrimenti tutti vi crederebbero. Vi è sempre un margine di fraintendimento, o nel fatto storico stesso o nella sua comprensione. Pascal diceva, con acume, che nella vita vi è a sufficienza per credere e nel contempo per dubitare. Questo forse significa che, come ripeteva Kierkegaard, la verità sta nella soggettività? No, significa soltanto che la verità implica una ricerca continua, ininterrotta, in cui il coinvolgimento personale non è un aspetto secondario. Quando si dice che la verità storica è il processo di adeguamento alla comprensione dell’istanza umana di liberazione, di cui vanno smascherati i tradimenti, si sottintende, ovviamente, che lo storico non può sentirsi estraneo a tale istanza.

Se si parte peraltro dal presupposto che non si può dedurre l’esistenza di un Gesù storico dall’idea mitica di un Cristo divino o, viceversa, che il Cristo divino non può essere una conseguenza del Gesù storico, si finisce col non capire più le radici storiche della creazione di quello stesso mito. Si finisce cioè col non capire fin dove è stata possibile l’invenzione e fin dove invece era impossibile.

La scuola mitologica russa, in tal senso, s’è lasciata fuorviare dal testo dell’Apocalisse di Giovanni. Ritenendolo scritto prima dei vangeli (prima della distruzione di Gerusalemme avvenuta nel 70), e costatando che in esso non esiste alcuna descrizione storica di Gesù, essa si è sentita in dovere di sostenere il carattere mitico del Cristo morto e risorto, successivamente umanizzato nei vangeli. In realtà è del tutto irrilevante sapere quando l’Apocalisse sia stata scritta. Ciò che più importa notare è che anch’essa, come ogni altro testo del N.T., ha operato una censura sul Cristo storico. Essa l’ha trasformato in un essere divino (il primo a farlo in realtà è stato Paolo), proponendosi come obiettivo quello di far credere alle comunità cristiane che la liberazione dall’imperialismo romano sarebbe dipesa unicamente da lui. Le comunità avrebbero dovuto soltanto attendere in modo “etico-religioso” la sua venuta imminente.

* * *

L’ateismo scientifico non ha il diritto di pretendere che la chiesa cristiana consideri le proprie fonti storiche come globalmente false; anche perché, così facendo, esso non farebbe che spingerla ulteriormente a considerare le proprie fonti storiche come valide in sé e per sé, a prescindere dall’analisi del perché delle loro contraddizioni.

Un credente infatti potrà sempre sentirsi autorizzato ad affermare che le fonti cristiane vanno accettate solo con un atteggiamento di fede, poiché non è possibile credere nella divinità del Cristo con la sola ragione. Non a caso nell’area della confessione ortodossa si è sempre sostenuto che la verità delle fonti storiche del cristianesimo primitivo risiede appunto nel fatto che da duemila anni vi si crede. Ecco perché in quell’area non si è mai sviluppata, a livello religioso, un’esegesi critica neotestamentaria analoga a quella del mondo protestante.

Per gli ortodossi una qualunque indagine filologica, esegetica, letteraria o di altro genere sulla storicità del Nuovo Testamento, o finisce col riaffermare cose che sostanzialmente già si sapevano, oppure porta fuori della Chiesa, perché finisce col negare il presupposto fondamentale della fede cristiana, e cioè la resurrezione di Cristo. Il problema, per gli ortodossi, è semplicemente quello di come mettere in pratica gli insegnamenti evangelici, non certo quello di metterli in discussione. E, in questo senso, essi non si preoccupano affatto delle conquiste razionalistiche dei protestanti o del potere politico preteso dai cattolici, perché sanno che la dimostrazione della verità di Cristo non dipende da nessuna delle due cose.

Ecco perché l’ateismo scientifico deve limitarsi a porre democraticamente, umanamente, quelle condizioni che permettano al credente di capire da solo, in piena libertà, che l’origine delle contraddizioni presenti nel N.T. coincide, in realtà, con l’origine della sua stessa fede: nulla potrà obbligarlo a credere nel rapporto di causa/effetto che lega questi due processi. D’altra parte mai nessun credente rinuncerà alle proprie idee se non si convincerà che quanto è stato tradito dal cristianesimo primitivo era qualitativamente superiore a quanto il cristianesimo stesso ha affermato.

La scuola mitologica s’è preoccupata di negare ogni credibilità alle “ragioni” della fede, La scuola storica, invece, dovrà provare che la “fede” (quella umana) può avere delle ragioni assai diverse da quelle che il cristianesimo, monopolizzando il concetto di “fede”, ci ha tramandato.

Il compito della scuola storica è senza dubbio più difficile e di lunga durata, ma è destinato ad ottenere risultati più convincenti. Naturalmente non ci si può limitare ad un affronto di tipo intellettuale del fenomeno religioso, poiché qui si ha appunto a che fare con un “fenomeno sociale” e non con una semplice “opinione”. Occorre pertanto superare l’esperienza della fede religiosa con un’altra qualitativamente migliore, quella dell’umanesimo laico e socialista.

* * *

Se la scuola mitologica avesse affrontato con più obiettività il problema delle contraddizioni neotestamentarie e quello delle alterazioni, interpolazioni e omissioni cristiane ai danni delle fonti non-cristiane, avrebbe facilmente scoperto che le falsificazioni non sono servite ai cristiani per dimostrare l’esistenza del “loro” Cristo, la verità della “loro” religione, ma piuttosto per negare ciò da cui il “loro” Cristo e la “loro” religione erano nati.

Avrebbe cioè scoperto che l’assenza di testimonianze su Cristo da parte delle fonti pagane è dipesa non solo dal fatto che il movimento di Cristo ebbe scarsa risonanza nell’impero romano del I secolo, non solo dal fatto che quel silenzio era una delle armi usate dal potere dominante per combattere la popolarità della nuova religione, ma anche dal fatto che gran parte delle testimonianze furono distrutte dalla stessa chiesa cristiana. Sicché il silenzio degli autori non-cristiani va considerato non come causa bensì come effetto delle falsificazioni volute dalla chiesa.

La chiesa, se vogliamo, aveva ogni interesse a far sparire le prove dell’esistenza storica (fisica) di Cristo, proprio perché questa esistenza escludeva l’idea di un messia, cioè di un leader politico, assolutamente pacifico e non-violento, mero “redentore” dell’umanità schiava del peccato originale. Essa aveva bisogno di propagandare le tesi mitologiche di Paolo per poter realizzare un compromesso politico col potere dominante, allontanandosi definitivamente dalle tradizioni della società ebraica. La falsificazione è iniziata subito, prima ancora della stesura dei vangeli, già nella predicazione di Pietro e Paolo. L’uso artificioso e tendenzioso di certe profezie veterotestamentarie ne è stata una delle prove più eloquenti.

Naturalmente se le manomissioni fatte nei testi pagani dovevano servire per negare al Cristo una qualunque fisionomia di leader politico, quelle fatte nei testi ebraici dovevano invece servire per affermare la natura divina della sua messianicità. Si pensi, ad es., al cosiddetto Testimonium Flavianum, dove i copisti cristiani si sono sforzati di far apparire Gesù il “Cristo” atteso da Israele, promesso dai profeti, vero “superuomo” perché “risorto” dopo tre giorni dalla sepoltura (come i profeti avevano previsto!). Qui non si è neppure in presenza di un’interpolazione, ma di una costruzione del tutto artificiale.

Con la scoperta dei rotoli di Qumran è emersa un’altra censura del cristianesimo primitivo: il N.T. non dice nulla degli Esseni (nonostante che il Battista provenisse da quegli ambienti) perché si doveva attribuire al Cristo l’origine degli aspetti sacramentali della nuova chiesa. E non è forse singolare che nei vangeli il Battista venga considerato come il “precursore” per eccellenza del Cristo (per giunta consapevole di esserlo), quando la storia del movimento di Gesù ha inizio proprio dal drammatico distacco dal movimento del Battista? Come mai alla chiesa non è mai parso contraddittorio che la prima persona ad aver saputo riconoscere immediatamente la grandezza di Gesù (che nei vangeli addirittura coincide con la sua “divinità”), non abbia poi deciso di diventare un seguace del movimento nazareno e abbia chiaramente rifiutato (come appare nel vangelo di Giovanni) di salire a Gerusalemme per compiere la cosiddetta “purificazione del tempio”?

Come noto, i responsabili principali di buona parte delle falsificazioni sono stati i monaci occidentali, i quali, in relazione alle testimonianze pagane sul Cristo, hanno praticamente “riscritto la storia”, soprattutto per togliere alle eresie sorte in ambito cristiano il pretesto per opporsi alla nuova religione di stato. Qui inoltre non si deve dimenticare che la chiesa cristiana (sotto la guida del vescovo Teofilo) è all’origine dell’incendio che devastò la biblioteca del Museo d’Alessandria d’Egitto nel 391.

Ha dunque ragione la storiografia cattolica quando dice che le persecuzioni cristiane furono il frutto di un tragico “malinteso”, ma bisognerebbe aggiungere che lo furono solo perché il potere romano non aveva capito subito che il cristianesimo paolino, sul piano politico, nonostante la sua irriducibilità ideologica, non aveva alcun carattere rivoluzionario.

Enrico Galavotti – Homolaicus


BIBLIOGRAFIA PER LO STUDIO DEL CRISTIANESIMO PRIMITIVO

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Tra le Storie della chiesa o del cristianesimo segnaliamo quelle a cura di H. Jedin, vol. I, ed. Jaca Book 1972; K. Bihlmeyer – H. Tuechle, vol.I, ed. Morcelliana 1985; A. Donini, ed. Teti 1977; E. Buonaiuti, Milano 1960: A. Harnack, Torino 1906; J. Lortz, ed. Paoline 1987; Penco; S. Hertling, ed. Città Nuova 1988; P. Gentile, ed. Rizzoli, Milano 1975. Vedi anche vol. VII della Storia delle religioni, a cura di H.C. Puech, ed. Laterza, e L. Spinelli, Lo Stato e la chiesa. Venti secoli di relazioni, ed. UTET 1988, E. Trocmé, Il cristianesimo dalle origini al Concilio di Nicea, in Storia delle religioni (II), a c.di H.C. Puech, ed. Laterza, Bari 1977. Del Puech bisogna vedere anche Il Cristianesimo, sempre in Storia delle religioni (vol. I). La Chiesa Cattolica nella storia dell’umanità (vol. I), a c. di P. Brezzi, Fossano 1963. P. Brezzi, Breve storia del cristianesimo, Napoli 1957 e Storia del cattolicesimo, Roma 1965. L. Stefanini, La Chiesa cattolica, Brescia 1952.

Alcuni saggi, in varie riviste, meritano d’essere letti: M. Sordi, in “Rivista di Storia della chiesa in Italia”, n. 1 e 3/1960; v. Monachino, in “La scuola cattolica”, n. 81/1953; M. Adriani, in “Rivista di studi romani” n. 1/1954; R. Vipper, in “Rassegna sovietica”, n. 12/1954; R. Lizzi, in “Storia e dossier”, ottobre 1992.

Enrico Galavotti – Homolaicus


LA CHIESA LATINA CONTRO BISANZIO

Probabilmente, se la chiesa latina avesse appoggiato l’impero bizantino, al tempo di Teodosio e dei suoi successori, la sorte della parte occidentale sarebbe stata diversa, in quanto il basileus avrebbe fatto di tutto per fronteggiare le ondate barbariche.

Purtroppo fu la chiesa latina che, volendo gestire in proprio la parte occidentale dell’impero, finì col distaccarla dalla parte orientale, indebolendola così al cospetto dei barbari.

La presa di posizione di Agostino nei confronti di Teodosio segna un capitolo fondamentale nei rapporti fra chiesa romana e Stato bizantino. A partire da quel momento, infatti, tali rapporti, in Occidente, pur in presenza del decreto del 381 (che sanciva l’esclusività del cristianesimo), subirono una svolta alquanto drammatica. Lo stesso basileus capì che per non indebolire l’impero, nei confronti dei barbari, muovendo guerra contro la parte occidentale, sarebbe stato meglio abbandonare quest’ultima al suo destino.

Ecco perché l’impero bizantino poté continuare a esistere per altri mille anni, mentre quello romano d’occidente subì una catastrofe così grande che gli occorrerà mezzo millennio prima di riprendersi.

La chiesa latina, consapevole della superiorità dell’ortodossia, preferì affrontare i rozzi barbari (forti però militarmente), rischiando d’uscirne completamente sconfitta, piuttosto che convivere pacificamente con la chiesa d’oriente sotto il protettorato del basileus. La chiesa latina non ha mai accettato la diarchia. Quando volle eleggere Carlo Magno col titolo (abusivo) d’imperatore del sacro romano impero d’occidente, l’intenzione era quella di strumentalizzarlo in funzione anti-bizantina: a ciò Carlo Magno si prestò perché anch’egli voleva imporsi sul basileus. Il primo vero grande concordato realizzato fra Stato e chiesa in occidente risale appunto a quella incoronazione.

ORFISMO E CRISTIANESIMO

Nel cristianesimo c’è molto dell’orfismo (nato in oriente), che non a caso, nel corso del sec. VII aC., si sviluppò soprattutto tra i meteci (stranieri) e gli schiavi.

Questa ideologia mistico-religiosa serviva agli schiavi per due ragioni: da un lato, con il concetto di peccato originale si giustificava lo stato di soggezione dello schiavo; dall’altro, con il concetto di divinità dell’anima s’infondeva nella coscienza dello schiavo una speranza per l’aldilà. Se lo schiavo non poteva essere un protagonista attivo nella vità della società, non essendo considerato un cittadino e a volte neppure una persona umana, poteva però riscattarsi dopo la morte, purificando se stesso con i sacrifici e la volontà personale.

La differenza fondamentale tra l’orfismo e il cristianesimo sta nell’idea di sacrificio, che per il primo coincideva con la metempsicosi, mentre per il secondo coincideva con la croce del Cristo. L’orfismo è una religione orientale, individualistica e rassegnata; il cristianesimo è una religione sorta in ambito ebraico, animata dal senso del collettivo e dall’ottimismo escatologico.

La croce di Cristo non abolisce i sacrifici che gli uomini devono compiere per purificarsi, ma pone il modello oggettivo cui gli uomini devono ispirarsi se vogliono veramente salvarsi, cioè se vogliono essere sicuri che i loro sacrifici non siano inutili. Il cristianesimo infatti parla proprio di “salvezza” e non solo di “purificazione” (come ne parlava ad es. il Battista).

Ritenuto quello del Cristo il sacrificio più grande (in quanto il “figlio di dio” ha accettato di morire per i peccati degli uomini), ogni altro sacrificio -dice il cristianesimo- deve trovare nella croce la propria giustificazione. Il cristiano non ha bisogno di aspettare mille reincarnazioni prima di essere sicuro della propria purificazione. Ha soltanto bisogno di credere che il sacrificio di Cristo lo ha definitivamente liberato dal peso del peccato d’origine.

Paolo infatti dirà che “il giusto vive di fede”. Cioè per lui sarà anzitutto la fede nella grazia salvifica del dio-padre, mediata dal dio-figlio, che riscatterà l’uomo dal peccato d’origine. I sacrifici personali, o rientrano in questa modalità religiosa di vivere la fede, oppure sono inutili (vedasi “L’inno alla carità”). La reincarnazione non offre sicure garanzie.

Il tradimento del cristianesimo sta però proprio in questo, nell’aver trasformato la crocifissione in uno strumento di espiazione universale dei peccati dell’intera umanità (passata, presente e futura). Per il cristiano la croce non è stata la scelta etico-politica contingente di un rivoluzionario che ha accettato di sacrificarsi per risparmiare al suo popolo tragiche conseguenze, ma è diventata la scelta necessaria del “figlio di dio” di sacrificarsi per impedire che la colpa d’origine pesasse sull’uomo come un’eterna maledizione. Il Cristo sulla croce avrebbe dimostrato che la decisione di dio di perdonare gli uomini era irrevocabile.

L’ottimismo del cristianesimo non è quindi rivolto al presente ma solo al futuro, cioè al momento in cui con la parusia del Cristo si renderà evidente a tutto il genere umano il valore di questo sacrificio religioso.

In questo senso la differenza tra cattolici e ortodossi è minima. Per i primi il Cristo “doveva” morire per adempiere alla volontà del padre, nel senso cioè che la colpa d’origine poteva essere riscattata solo con un sacrificio cruento (la chiesa cattolica è nata come chiesa giuridica, prima di diventare chiesa politica). Oggetto del sacrificio non poteva essere che il dio-figlio, poiché nessun sacrificio umano avrebbe potuto placare l’ira del dio-padre. D’altra parte proprio tale sacrificio offre agli uomini la sicurezza del perdono (e questo concetto -come si sa- porterà i cattolici a giustificare l’uso arbitrario della libertà politica, e i protestanti a giustificare l’uso arbitrario della libertà personale).

Per gli ortodossi invece l’incarnazione del dio-figlio sarebbe avvenuta anche senza peccato d’origine, mentre il sacrificio del Cristo, pur in presenza delle conseguenze del peccato d’origine, non è avvenuto senza il libero consenso del dio-figlio. Nè si deve pensare che il Cristo non avrebbe potuto riscattare le colpe degli uomini senza morire sulla croce. Gli ortodossi cioè avvolgono nel mistero il fatto che gli uomini siano stati perdonati definitivamente proprio nel momento in cui compivano il delitto più orrendo della storia.



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