Risorse energetiche e controllo geopolitico. Il Grande Gioco nell’Asia centrale

Sergio Cararo

http://www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=158

Chi governa l’Europa orientale comanda la zona centrale; chi governa la zona centrale comanda la massa eurasiatica; chi governa la massa eurasiatica comanda il mondo.

Harold Mackinder (padre della moderna geopolitica)

1. Introduzione

Per cercare di comprendere le cause e gli obiettivi di una guerra, occorre prendere in esame tutte le ipotesi, gli interessi materiali in gioco, le forze sociali o economiche che spingono verso un conflitto e soprattutto verso un esito dello stesso che corrisponda ai propri obiettivi.

L’amministrazione statunitense, ha dichiarato che la “guerra infinita” durerà mesi se non anni, che un intero sistema politico, economico, civile ed internazionale dovrà piegarsi alle esigenze di un conflitto con caratteristiche nuove.

È indubbio che, in questa vicenda, il casus belli – gli attentati dell’11 settembre al cuore economico e politico degli Stati Uniti sia stato al di sopra dell’immaginazione [1].

È anche vero che nella storia più recente, gli autori degli attentati e gli attentati stessi, sono passati in secondo piano rispetto allo sviluppo degli avvenimenti. Nell’esame della storia, che rapporto di grandezza è rimasto tra l’attentato di Sarajevo, l’affondamenento del piroscafo Lusitania e la Prima Guerra Mondiale? O tra l’affondamento della nave americana Maine e la conquista di Cuba e l’espulsione definitiva della Spagna dal gruppo delle potenze coloniali? Oppure, per parlare di casus belli, tra il bombardamento su Pearl Harbour e la parte della Seconda Guerra Mondiale combattuta in Asia e nel Pacifico?

Della guerra infinita conosciamo solo alcuni dettagli: l’individuazione e la caccia a Osama Bin Laden ritenuto il responsabile degli attentati sulle Twin Towers, i bombardamenti e i massacri sull’Afganistan dei taliban accusato di ospitarlo, il pieno controllo della prima fase della guerra nelle mani degli Stati Uniti.

Gli obiettivi dichiarati di questa guerra sono la lotta al terrorismo internazionale e la “dissuasione” per chiunque – siano essi una organizzazione terroristica o Stati – dal minacciare o attaccare gli interessi strategici statunitensi nel proprio territorio nazionale o nel resto del mondo.

È noto che le dottrine elaborate dai vari centri decisionali del potere degli Stati Uniti, hanno una concezione molto ampia e flessibile dei propri interessi strategici. In fasi diverse, mutano le linee guida che ispirano e orientano la politica internazionale statunitense (inclusa quella militare). In alcune fasi si impongono interessi materiali, scuole di pensiero e chiavi di lettura, in fasi diverse se ne impongono altre. Il cambiamento della politica USA verso il Medio Oriente, cioè verso Israele e palestinesi, oppure verso l’Iraq e l’Arabia saudita, indica la “flessibilità” degli orientamenti che si impongono di volta in volta.

In questo lavoro, si è cercato di ricostruire i passaggi delle scelte operate nell’ultimo decennio dagli Stati Uniti in un’area come l’Asia centrale che oggi – con l’attacco all’Afganistan – appare al centro dell’azione politica e militare degli USA. Dalla ricostruzione degli eventi, emerge un cambiamento di posizione degli Stati Uniti già nella seconda metà degli anni Novanta.

Con la nuova amministrazione Bush, sembrano aver acquisito maggiore influenza e potere decisionale i settori ispirati da una chiave di lettura fortemente geopolitica degli interessi strategici statunitensi. Consiglieri come Brzezinski, Huntington, Wolfowitz in questa fase paiono avere maggiore peso decisionale nella formazione degli orientamenti della politica internazionale statunitense e di una amministrazione fortemente compenetrata con il business del petrolio e l’economia di guerra.

2. La preparazione geopolitica della guerra infinita

Uno dei padri della geopolitica, Harold Mackinder, sostiene che chi ha il controllo della zona centrale controlla l’Eurasia e chi controlla l’Eurasia controlla il mondo. Con la dissoluzione dell’URSS, gli Stati Uniti hanno sicuramente ipotecato il comando della zona centrale a proprio favore. Per aspirare a conquistare e mantenere la supremazia mondiale, occorre passare al comando della massa eurasiatica. “La capacità degli Stati Uniti di esercitare un’effettiva supremazia mondiale, dipenderà dal modo in cui sapranno affrontare i complessi equilibri di forza nell’Eurasia, scongiurando soprattutto l’emergere di una potenza predominante e antagonista in questa regione”. [2] Questa ambizione, esplicitata da Brzezinski, sembra aver ispirato la “svolta” della amministrazione statunitense nella seconda metà degli Novanta e soprattutto l’escalation di questi ultimi mesi. L’Afganistan dunque potrebbe trovarsi – suo malgrado – al posto giusto.

Per comprendere le motivazioni “forti” dell’attuale intervento militare contro l’Afganistan ed in Asia Centrale, sarebbe sufficiente aprire una carta geografica che includa tutta l’area definita eurasiatica. È un’area assai ampia che include paesi con sistemi, risorse economiche e potenzialità militari assai diverse tra loro. Ma è soprattutto l’area che a partire dal biennio 1989-91, con la dissoluzione dell’URSS e del COMECON è stata “aperta” agli interessi ed agli investimenti americani ed europei.

3. Negli anni Novanta inizia l’assalto all’Eurasia

Dal 1993 l’Unione Europea ha lanciato il Traceca (Corridoio Caucasico TransEuropeo) entrato in fase attiva tra il 1994 e il 1995. Obiettivo di questo progetto era quello di bypassare la Russia per i trasporti, gli oleodotti e gli investimenti più generali tra l’Europa e l’Asia Centrale.

Tale progetto, non investiva solo le ambizioni degli europei e degli Stati Uniti, ma coinvolgeva anche le ambizioni di altri Stati della regione come la Turchia (membro della NATO, alleato di ferro degli USA, candidato ad entrare nell’Unione Europea).

Tra il 1993 e il 1994, a seguito di due incidenti navali,la Turchia avviava una offensiva a tutto campo tesa a ridurre il traffico di petroliere nello stretto del Bosforo. Veniva addirittura ventilata l’ipotesi di annullare il Trattato di Montreaux che “internazionalizza” il traffico nei Dardanelli e nel Bosforo. Le petroliere incriminate, provenivano tutte dai terminali petroliferi russi sul Mar Nero.

Nel 1994, un articolo comparso sul quotidiano turco Milliyet, rendeva nota l’esistenza di un progetto di oleodotto tra Baku (Azerbaijan) e Ceyhan (Turchia) che avrebbe tagliato defitivamente fuori la Russia dalle nuove rotte del petrolio dall’Asia centrale.

Nel 1994, con il “contratto del secolo” firmato tra l’Azerbaijan ed un consorzio di compagnie petrolifere guidato dalla British Petroleum (AIOC) è iniziata la “corsa” all’oro nero, al gas e ai mercati dell’Asia Centrale.

Sono state create così le condizioni per la “svolta” della strategia geopolitica degli Stati Uniti su quest’area. Parlare di svolta, non è una semplificazione ma è un indicatore storico, economico e geopolitico capace di spiegare molti avvenimenti della seconda metà degli anni Novanta.

Fino al 1993, infatti, gli USA puntavano a cooptare la Russia negli accordi sul Traceca e sulle pipelines. Dopo una fase di discussione, intorno al 1995 l’approccio dell’amministrazione statunitense cambia radicalmente sia per quanto riguarda l’Asia Centrale che i Balcani.

Nello stesso anno – il 1995, oltre l’Azerbaijan, anche Georgia e Uzbekistan, entrano nell’orbita degli interessi americani.

Tale cambiamento di posizione produrrà scelte operative a partire dal 1996, ossia l’anno in cui i Taleban conquistano Kabul dopo una “marcia trionfale” partita dal Pakistan e iniziata proprio nel 1995.

La dissoluzione dell’URSS e la frantumazione delle sue repubbliche, hanno consentito agli Stati Uniti di intervenire con efficacia in quest’area sia sul piano bilaterale sia sul piano multilaterale (es: includendo alcuni di questi paesi nella “parnership for peace” con la NATO).

I paesi europei ex Comecon (Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria etc.) sono già stati integrati nella NATO e nella penetrazione degli IDE grazie alle privatizzazioni, alle facilitazioni per gli investimenti esteri, al cambiamento delle leggi sulla proprietà imposti dal FMI e dagli istituti finanziari internazionali. Ma nelle repubbliche asiatiche della ex URSS e nei Balcani le cose ancora non erano a questo punto.

4. La “normalizzazione” della regione Balcanica

Nel 1999 è stata “sistemata” la regione balcanica. Sono stati necessari due interventi militari della NATO (uno, cronologicamente indicativo, nel ’95 in Bosnia ed uno più pesante nel ’99 in Kossovo e Federazione Jugoslava) per definire degli assetti soddisfacenti per gli interessi americani e più vulnerabili per i “partner europei”.

Attualmente nei Balcani, gli USA possono contare su alcuni risultati sicuri: hanno costruito una grande base militare in Kossovo (Camp Bondsteel); hanno neutralizzato il Corridoio strategico nr.10 sul quale convergevano gli interessi di Russia, Serbia, Grecia ed anche Germania; hanno dato il via al versante più occidentale del Corridoio strategico nr.8 sul quale convergono invece gli interessi americani e inglesi; possono contare sull’alleanza di tre paesi funzionali al Corridoio: Albania/Kossovo, Bulgaria ed una parte della riottosa Macedonia. L’attuale convergenza con i movimenti nazionalistici pan-albanesi, consente inoltre di controllare tutti gli snodi strategici dell’area in Kossovo, Albania e Macedonia. [3]

La situazione è talmente consolidata, che il Dipartimento di Stato USA sta valutando l’ipotesi di ritirare una parte dei contingenti operativi in Kossovo, Macedonia e Bosnia, di lasciare solo gli uomini incaricati della piena operatività della base di Camp Bondesteel e di affidare il compito di polizia militare e di controllo al contingente militare italiano destinato a diventare il più numeroso nei Balcani.

5. I rapporti di forza nella regione eurasiatica

La situazione nel versante orientale della regione euroasiatica (Asia Centrale), presenta maggiori problemi per l’egemonia e il controllo da parte degli Stati Uniti. In questa regione convergono infatti gli interessi strategici della Russia e in qualche modo quelli della Cina. Vi sono poi potenze regionali ostili come l’Iran e potenze alleate come la Turchia in espansione nell’area turcofona ma con crescenti contraddizioni e spinte dissonanti all’interno. Alla sua periferia più prossima vi sono due potenze nucleari regionali come il Pakistan e l’India (quest’ultima dispone però di un potenziale umano enorme).

In mezzo, ma proprio in mezzo, vi è una terra di nessuno (una no man’s land) chiamata Afganistan.

Quando l’URSS occupò l’Afganistan nel dicembre 1979, vi furono reazioni diverse. I palestinesi esultarono perché la videro come un ritorno dell’URSS ad occuparsi dell’area più prossima al Medio Oriente ed un possibile punto di resistenza dopo il goodbye di Brzezinski all’OLP.

Per gli Stati Uniti – anche a seguito della caduta del regime dello sciah in Iran – ebbe lo stesso effetto, fatte le dovute proporzioni, degli attentati alle Twin Towers. Scattò dunque l’escalation della seconda guerra fredda che portò all’installazione dei missili in Europa, alla costituzione della Rapid Deployment Force (Forza di Intervento Rapido) con base nell’isola di Diego Garcia nell’Oceano Indiano, al confronto globale Est-Ovest in tutte le aree e all’organizzazione economica, militare e politica delle forze che si opponevano alla presenza sovietica in Afganistan (tra questi anche Osama Bin Laden).

Le mappe a disposizione dimostrano alcune cose.

1. Gli Stati Uniti sono ancora assenti dall’Eurasia sul piano di strutture di controllo permanenti (basi militari, corridoi aerei riservati, accordi bilaterali o organismi multilaterali in cui operare come primus inter pares.

2. In quest’area possono manifestarsi ambizioni di potenze rivali all’egemonia statunitense (Cina, Russia, India, singolarmente o in accordo tra loro);

3. In Eurasia si sono rivelate riserve petrolifere significative e ancora poco sfruttate. Con la dissoluzione dell’URSS si è aperta la possibilità di raggiungerle e controllarle, cosa questa impossibile fino al 1991.

4. L’Afganistan, dal punto di vista geopolitico, è collocato al posto giusto.

Nel momento in cui gli Stati Uniti hanno deciso di intervenire in Afganistan, la situazione sul campo a livello euroasiatico era la seguente:

1) I Balcani (terminale del Corridoio nr.8), dopo la guerra contro la Jugoslavia nel 1999 e la “rimozione” di Milosevic nel 2000, sono in gran parte sotto controllo statunitense. Le ambizioni europee e l’influenza della Russia sull’area slava sono state ridimensionate.

2) Nella regione caucasica, Georgia e Azerbaijan (tratto intermedio del Corridoio nr.8) sono sotto controllo statunitense. La prima con il porto di Supsa sul Mar Nero, è il terminale petrolifero di un oleodotto proveniente da Baku. Questo corridoio è alternativo a quello che da Baku va in Russia, attraversa la Cecenia e sfocia sul terminale russo di Novorossik sul Mar Nero. Georgia e Azerbaijan hanno chiesto di entrare nella NATO. In attesa di definizione dello status di membri NATO, la Georgia nel 1997 ha dato vita al GUUAM (patto di assistenza militare tra Georgia, Ucraina, Uzbekistan, Azerbaijan, Moldavia) sotto la supervisione americana (è indicativo che la seconda riunione del GUUAM sia stata tenuta… a Washington). La Turchia, vantando anche le comunanze turcofone, si è incaricata di custodire l’Azerbaijan e di affiancarlo contro il nemico comune, l’Armenia, che si è ovviamente legata alla Russia e ne ospita alcune basi militari. L’Azerbaijan ha assunto un valore strategico particolare:“Un Azerbajian indipendente, collegato ai mercati occidentali da oleodotti che non passino attraverso il territorio controllato dai russi, rappresenterebbe un importante canale di accesso per le economie avanzate e consumatrici di energia alle repubbliche ricche di petrolio dell’Asia centrale” esplicita ancora una volta Brzezinski.

3) A Sud-ovest, nell’autunno del 1999, il progetto petrolifero Baku-Ceyhan (Turchia) era riuscito a vincere le resistenze delle compagnie petrolifere statunitensi impegnate in Azerbaijan (grazie alla promessa di rilevanti sgravi fiscali). Questo percorso avrebbe dovuto tagliare definitivamente fuori la Russia dalle rotte del petrolio del Mar Caspio.

Più a nord, dopo mesi di attentati e “sifonamenti” dei secessionisti islamici (vicini anch’essi a Bin Laden) all’oleodotto Baku-Novorossik ed a quello in costruzione tra Kazachistan e Novorossik, il riaccendersi della guerra in Cecenia (ottobre ’99) aveva il compito di evidenziare agli occhi degli investitori come quella rotta non “fosse più sicura”;

4) Più a Est gli Stati Uniti avevano cercato di bypassare la Russia e l’Iran avviando un corridoio energetico (gas e petrolio) verso sud. Dai giacimenti del Turkmenistan e tendenzialmente del Kazachistan, il corridoio doveva attraversare l’Afganistan, il Pakistan e sfociare nel porto pakistano di Gwadar. In pratica questo sarebbe diventato il terminale orientale del Corridoio nr.8. Era la quadratura del cerchio. Le riserve di idrocarburi sarebbero state veicolate a Ovest ed a Est saltando i “rivali” Russia e Iran e sotto stretto controllo americano. Il regime dei taliban in Afganistan e quello militare in Pakistan dovevano assicurare tale quadratura del cerchio.

6. Il “Silk Road Strategy Act”

Come è stato già segnalato, dal 1993 è iniziata la grande marcia di avvicinamento degli USA al controllo dell’Eurasia. Per dare un ritmo sostenuto a questa marcia, alla fine del 1997, il Congresso USA ha discusso il “Silk Road Strategy Act” (Documento strategico per la “Via della Seta”).

Il primo obiettivo del documento era quello di recidere le relazioni tra le repubbliche asiatiche della ex URSS e la Russia.

Il secondo era quello di riannodare il filo del dialogo con l’Iran approfittando di eventuali divisioni tra “riformisti” e “conservatori” come suggerito in un articolo di Foreign Affairs del maggio/giugno 1997 scritto a sei mani proprio da Brzezinski insieme a Scowcroft e Murphy e da un documento curato nel 1998 dall’attuale viceministro della Difesa, il falco Wolfowitz.

Il terzo era quello di installare basi militari permanenti negli snodi strategici della regione. A tale scopo può essere utilizzata l’estensione della NATO ai paesi dell’Est (inclusi Georgia e Azerbaijan). Ma nel versante orientale non esisteva fino ad oggi nulla di paragonibile alla NATO, ragione per cui gli Stati Uniti hanno ritenuto di dover operare direttamente sul campo e dotarsi delle strutture necessarie: “La densità dell’infrastruttura fissa e mobile degli Stati Uniti è minore che in altre regioni cruciali. Ciò rende importante assicurare agli Stati Uniti ulteriori accessi alle regione e sviluppare sistemi capaci di effettuare operazioni impegnative a grandi distanze con un minimo supporto basato sul teatro di operazioni” ammette una importante pubblicazione strategica americana [4]

Il progetto di costruzione di basi militari statunitensi in Afganistan, Uzbekistan e Pakistan, corrisponde pienamente ai disegni strategici USa in Asia Centrale. Anche qui, una volta diradato il polverone della guerra e dell’emergenza, resteranno così come è accaduto nel Golfo e nei Balcani, delle basi militari permanenti degli Stati Uniti.

7. La competizione energetica e geopolitica in Asia Centrale

Quali sono i problemi che fino ad oggi hanno ostacolato il progetto di penetrazione e controllo statunitense degli snodi strategici euroasiatici? E come si stanno modificando i rapporti di forza nella regione a seguito della guerra?

1) I rapporti tra Stati Uniti e Russia. Alla fine del ’99 veniva pensionato Eltsin e saliva al potere Putin. Con lui è tornata al potere anche una nuova forma di percezione degli interessi “strategici” russi. Sostenuto dai boss delle società petrolifere e del gas, Putin ha avviato una politica più “aggressiva” sulle repubbliche ex sovietiche tesa ad impedire che la Russia venga tagliata fuori dalle rotte del petrolio che continua a rappresentare il 70% dell’export russo. Indicativa è la recente notizia dell’inaugurazione della pipeline tra Kazachistan e il terminale russo di Novorossik e quella di una joint venture tra Russia e Kazachistan per la fornitura di gas kazaco alla Russia che sarebbe in dirittura d’arrivo. La sua commercializzazione verrebbe quindi affidata alle infrastrutture russe capaci di arrivare anche sui terminali di sbocco. In questi mesi le relazioni tra Stati Uniti e Russia sembrano essere migliorate. Se su alcuni temi dell’agenda bilaterale come lo Scudo antimissili e l’estensione della NATo alle repubbliche baltiche non c’è ancora intesa, alcuni osservatori sostengono che sul business petrolifero stiano invece crescendo accordi e cooperazione strategica. Il segretario americano all’energia Spencer Abraham ha partecipato all’inaugurazione della pipeline kazaco-russa che, secondo il Sole 24 Ore, “rappresenta una vittoria della Russia” dopo aver rappresentato negli anni novanta una sfida contro il tentativo degli USA e della Turchia di togliergli il controllo dei flussi petroliferi e di gas dell’area. In cambio di questa sconfitta della strategia politico-energetica seguita deagli USA, la Russia ha ignorato le richieste dell’OPEC di tagliare la produzione per far risalire i prezzi del petrolio. L’amministrazione statunitense ha dichiarato di aver “molto apprezzato” la scelta russa [5].

2) Le relazioni tra Stati Uniti e Cina. A luglio 2001, Russia e Cina avevano raggiunto un importante trattato della durata di 20 anni. Era il “Trattato di buon vicinato, amicizia e cooperazione tra la Federazione Russa e la Repubblica Popolare Cinese”. Il trattato parla di “partnership strategica per far fronte alla crescente egemonia americana”.Quasi contemporaneamente anche l’India ha siglato un accordo militare-commerciale con la Russia per 10 miliardi di dollari. È abbastanza chiaro come queste iniziative nuocessero profondamente agli interessi strategici americani in Asia Centrale. Cogliendo l’occasione della guerra in Afganistan, tra Stati Uniti e Cina è iniziato un linkage a più facce.

A ottobre, al vertice dell’APEC di Shangai, la Cina aveva fatto gli onori di casa consentendo agli Stati Uniti di “incassare” un documento politico (contro il terrorismo) in una sede dove storicamente si parla solo di problemi economici. La Cina si è schierata con la coalizione internazionale contro il terrorismo architettata da Washington per legittimare la “guerra infinita” e l’aggressione all’Afganistan. In compenso ha ottenuto due risultati: uno è molto simile a quello portato a casa dalla Russia sulla Cecenia ossia il placet americano ed occidentaleper le soluzioni di forza contro i secessionisti musulmani nello Xinkiang (i cinesi lo definiscono Turkestan orientale). “Anche la Cina è vittima del terrorismo” ha detto il ministro degli esteri cinese Tang Jiaxuan “il gruppo del Turkestan orientale è certamente un’organizzazione terroristica e colpirla è parte della lotta contro il terrorismo”.

L’altro risultato, forse ancora più ambìto, è che Bush ha fatto propria – almeno in questa fase – la dottrina de “Una sola Cina”, dottrina con cui la Repubblica Popolare Cinese nega da sempre l’esistenza della Repubblica Cinese di Taiwan. Alla luce di quanto avvenuto nei mesi scorsi tra Cina e Stati Uniti, questo non è certamente un dettaglio [6].

3) Competizione a tutto campo tra le multinazionali petrolifere.

Nella competizione senza esclusioni di colpi in corso da anni nell’Asia centrale, anche l’Italia, tramite l’ENI, ha cominciato a manifestare ambizioni di grandezza nell’area.

L’ENI, ha recentemente soffiato alle compagnie USA (Exxon-Mobil) il contratto sugli immensi giacimenti di Kachagan, in Kazachistan. Ha inoltre siglato un supercontratto con la Russia sul giacimento di Astrakan. L’ENI ha avviato il gasdotto sottomarino Bluestream in collaborazione con la Russia. Questo gasdotto, che porterà dalla Russia il gas in Turchia, rimette in gioco Mosca e, nei fatti, rende obsoleto il progetto Baku-Ceyhan sul quale l’amministrazione USA aveva riposto molte aspettative. Nel 1998 gli USA avevano dichiarato apertamente la loro opposizione al progetto Blue Stream e nel corso del 2000 hanno fatto pressione sui parlamentari turchi affinchè non approvassero il progetto, ma il pressing si è rivelato inutile.

Infine, ENI e TotalFinaElf stanno “dilagando” in Iran firmando contratti e concessioni miliardarie sui giacimenti di South Pars approfittando dell’assenza USA dovuta all’embargo contro Teheran. Emergono indiscrezioni su telefonate di fuoco tra l’Albright prima e Powell poi verso le autorità italiane. Contatti e preparativi fervono anche con l’Iraq suscitando anche qui l’ira degli Stati Uniti. “Le divergenze con l’Europa in merito all’Iran e all’Iraq sono state considerate dagli Stati Uniti non come una questione tra pari, bensì come una manifestazione di insubordinazione” è stato il commento perentorio di Brzezinski. Le vecchie ingerenze di una volta dunque non avevano funzionato.

Lo scontro per il controllo delle riserve energetiche è ormai decisivo e frontale. In gioco ci sono le prospettive di tenuta e sviluppo delle principali economie capitaliste ed innanzitutto di quella statunitense, che dell’energia a basso costo ha fatto uno dei suoi pilastri. Ma la partita per le risorse energetiche è ancora più complessa e vitale per gli interessi strategici. Su questo ci sono in circolazione analisi tecniche, economiche e politiche molto dettagliate [7].

4) Alleanza e rottura con i taliban e i sauditi.

In questi anni, più di qualche osservatore ha documentato gli stretti rapporti tra gli Stati Uniti, i sauditi e il regime dei taliban in Afganistan. L’interesse comune era rappresentato dal progetto di oleodotto/gasdotto dal Turkmenistan a Gwandar in Pakistan attarverso l’Afganistan. Su questo progetto convergevano la compagnia americana Unocal e quella saudita Delta Oil. “Nonostanti si ostini a negarlo, Washington appoggia completamente questo progetto… Non appena la città (Kabul, NdR) è caduta in mano ai talebani, il Dipartimento di Stato ha pubblicato un documento in cui giudica “positiva” la loro vittoria e annuncia l’invio di una delegazione ufficiale a Kabul” scriveva cinque anni fa Le Monde Diplomatique [8].

Ma l’accordo tra la compagnia statunitense Unocal, quella saudita Delta Oil e il regime dei Taliban per la pipelines attraverso l’Afganistan, è poi saltato. Alcuni dicono perché non è stato raggiunto l’accordo per le royalties sull’oledotto-gasdotto. Altri perché i sauditi avrebbero voluto gestire interamente l’operazione (è questo lo zampino di Bin Laden che ha fatto imbufalire definitivamente gli americani?).

Nell’agosto del 1998 gli USA lanciarono dei missili sull’Afganistan come rappresaglia per gli attentati alle ambasciate in Kenya e Tanzania. Ma l’Unocal abbandonerà il progetto e l’Afganistan solo quattro mesi dopo, nel dicembre 1998. In compenso, il “neo-presidente” afgano Kirzai, un pashtun nominato come nuovo leader del paese dalla recente conferenza di Bonn, era ed è ancora un consigliere sul libro paga della Unocal.

8. L’Afganistan nel “Grande Gioco” euroasiatico

L’Afganistan, pur essendo un paese povero e inospitale, è collocato geopoliticamente al posto giusto per consentire agli Stati Uniti di entrare di forza e direttamente nel “Grande Gioco sull’Eurasia”.

In virtù della sua ubicazione geografica, l’Afganistan ha sempre giocato un ruolo importante nella stabilità regionale ed è stato frequentemente al centro dell’attenzione delle grandi potenze” sostiene il Ten. Col. Lester W. Grau uno dei maggiori esperti militari americani della regione. [9]

La campagna contro il terrorismo islamico si rivela a tale scopo pienamente calzante.

“Anche una possibile sfida del fondamentalismo islamico al primato americano potrebbe essere parte del problema in una regione contrassegnata dall’instabilità. Facendo leva su una condanna religiosa dello stile di vita americano e approfittando del conflitto arabo-israliano potrebbe provocare in Medio Oriente la crisi di più di un governo filo-occidentale, in definitiva compromettere gli interessi dell’America in quella regione, soprattutto nel Golfo Persico.

Fermo restando che, senza coesione politica e in assenza di uno Stato islamico, forte nel vero senso della parola, una sfida da parte del fondamentalismo islamico sarebbe priva di un centro geopolitico e rischierebbe, pertanto, di esprimersi soprattutto attraverso una violenza diffusa” scriveva quattro anni fa in modo sospettosamente “profetico” Brzezinski.

Poteva essere l’Afganistan lo Stato islamico “forte” in grado di rappresentare il centro geopolitico capace di compromettere gli interessi degli USA? Alla luce di quanto conosciamo e di quanto abbiamo visto di questo paese inospitale, povero e devastato da venti anni di guerre, appare difficile crederci. Eppure la maggiore potenza militare del mondo si è accanita su di esso in nome della lotta contro il terrorismo e la minaccia islamica. È evidente come quest’ultima sia talmente indefinibile da potersi prestare a molte operazioni.

La Russia e la Cina, ad esempio, hanno lo stesso problema in Cecenia e nel Xinkiang, l’India ce l’ha nel Kashmir, l’Iran aveva persino minacciato di invadere la parte occidentale dell’Afganistan per proteggere gli sciiti filo-iraniani sconfitti e decimati dai Taliban. Tutte queste potenze regionali eurasiatiche non nascondono affatto di sostenere politicamente e militarmente i mojaheddin dell’Alleanza del Nord contro il regime dei Taliban e le ambizioni del Pakistan, sostenuti entrambi fino a pochi mesi fa dagli Stati Uniti.

Per una fase non certo lunga, gli interessi di questi “competitori” eurasiatici potranno essere cooptati dagli americani. Per questi ultimi occorre però uscire velocemente e in maniera definitiva dal rischio di impantanarsi in un lungo conflitto in Afganistan. In tal senso, occorre concordare con due potenze come Russia e Cina i limiti e gli interessi comuni nell’area (vedi il vertice APEC di Shangai, ottobre 2001) ma per Washington diventa urgente e necessario consolidare al più presto la presenza militare nella regione in un quadro di relativa stabilità.

Installarsi stabilmente in Afganistan e Pakistan, inserirsi in Uzbekistan e nel gigante eurasiatico del Kazachistan, testare le relazioni con Turkmenistan e Tagikistan, coronerebbe il progetto strategico degli Stati Uniti sull’Eurasia.

9. Obiettivo Kazachistan

Il giornale del business russo “Argumenty e fakti”, riporta il 5 dicembre del 2000 che gli Stati Uniti hanno in progetto di costruire basi militari in Kazachistan, Georgia e Azerbaijan. La prima di queste tre repubbliche della ex URSS, è la “gallina dalle uova d’oro” dell’area. Le sue riserve di idrocarburi (petrolio e gas) sono le più grandi di tutta la regione e le uniche in grado di rendere economicamente vantaggiosi gli oleodotti.

Sul Kazachistan è già in corso una guerra per l’accaparramento dei giacimenti che sta mettendo in duro contrasto Stati Uniti, Russia, Cina e …Italia.

Alla fine dello scorso anno, la Shell ha perso il ruolo di “operatore” per il giacimento di Kashagan. Su questo giacimento tra il dicembre 2000 e il gennaio 2001 rimangono in campo solo l’italiana ENI (già presente nei giacimenti di Tengiz e Karachaganan) e la francese ELF/TotalFina. Resta invece tagliata fuori l’americana Exxon/Mobil. Un’altra compagnia americana – la Chevron/Texaco – è invece presente a Tengiz. Ma la Chevron/Texaco, di cui è consigliere anche Condoleeza Rice, è anche una rivale della Exxon/Mobil. Quest’ultima ha finanziato la campagna elettorale di Al Gore, la sua rivale quella di Bush.

Il 12 febbraio di quest’anno, il governo del Kazachistan ha firmato la concessione all’ENI per il giacimento di Kashagan e la Exxon/Mobil ha fatto fuoco e fiamme chiedendo ed ottenendo anche le pressioni sull’Italia da parte del nuovo Segretario di Stato Colin Powell.

Non solo, il governo del Kazachistan, annunciava che entro il 2001 sarebbe entrata in funzione la pipelines tra Tengiz e Novorossik ossia quella preferita dalla Russia e sabotata dai secessionisti ceceni. I progetti statunitensi subiscono così un altro duro colpo.

Chi metterà le mani sul Kazachistan, metterà le mani sulle riserve energetiche, sulla seconda repubblica della ex URSS, su una regione che confina direttamente con la Russia e la Cina… stringerà in pugno il cuore dell’Eurasia.

10. Nell’area del Mar Caspio la guerra già c’era

La zona del Caspio, negli anni novanta è costellata da conflitti. All’interno delle singole repubbliche e nelle relazioni tra le varie repubbliche, esistono da tempo tensioni e conflitti fino ad oggi valutati come di “bassa intensità”.

Il 23 luglio di quest’anno, alcune navi della marina militare iraniana nel Mar Caspio, hanno minacciati e fatto allontanare due navi per le prospezioni petrolifere dell’Azerbaijan con a bordo tecnici della compagni Anglo-americana BP/Amoco.

Qualche giorno dopo, il governo del Turkmenistan ha accusato l’Azerbaijan di sfruttare giacimenti nel Mar Caspio di cui il Turkmenistan rivendica la sovranità.

La questione irrisolta dello status delle acque Mar Caspio, sta alimentando una’aspra conflittualità tra le repubbliche che vi si affacciano.

Secondo alcuni osservatori la Chevron/Texaco intenderebbe ritirarsi dall’Azerbaijan perché non sarebbe più conveniente ed anche l’ENI avrebbe sospeso le trivellazioni.

Come abbiamo visto sembra per ora in liquidazione il progetto di pipeline tra Baku (Azerbaijan) e Ceyhan (Turchia) fortemente voluta dall’amministrazione USA ed a cui molte compagnie anglo-americane avevano aderito con grande riluttanza. I costi di questa pipeline sarebbero già lievitati da 2 a 3 miliardi di dollari. Se, a quanto pare, non si riuscirà ad agganciare a questo progetto di olodeotto il petrolio del Kazachistan, la pipeline Baku-Ceyhan dovrà essere definitivamente abbandonata perché diseconomica e il progetto azero-statunitense subirebbe la sconfitta strategica di cui parlavamo in precedenza.

L’Uzbekistan da almeno sei anni si è apertamente schierato con gli Stati Uniti. Il Turkmenistan si barcamena e si è detto neutrale nella campagna contro l’Afganistan. Ma entrambi questi paesi hanno il problema di come far arrivare ai mercati di sbocco le loro riserve di gas e petrolio. Sul piano economico resterebbe più vantaggiosa l’opzione russa, su quello politico per ora è fallita la “via afgana” sostenuta dagli Stati Uniti e imposta con il controllo sul territorio dei Talebani.

L’amministrazione USA ha deciso dunque di dare una “spallata” per entrare decisamente in campo nella regione.

L’Afganistan è la prima sperimentazione diretta degli USA per arrivare ad inserirsi in modo permamente nel “cuore” dell’Eurasia. L’ ammissione del segretario alla Difesa Rumsfeld sull’obiettivo della costruzione di una base militare in Afganistan conferma tale chiave di lettura. Anche alla fine della guerra del Golfo, una volta diradata la polvere della guerra, sono rimaste nell’area – dove prima non c’erano – tre grandi basi militari: in Arabia Saudita, in Kuwait e in Oman.

Camp Bondsteel in Kossovo e Camp Rhino in Afganistan vorrebbero rappresentare le due “fortezze” estreme per il controllo del Grande Corridoio nr.8, un corridoio che corre da Est a Ovest seguendo la “Via della Seta”. In mezzo ci sono paesi alleati come Turchia, Georgia, Azerbajian, Uzbekistan, c’è il cuore dell’Eurasia e, secondo i geopolitici… c’è il dominio del mondo.

È evidente come gli Stati Uniti se intendono mantenere e rafforzare la loro egemonia mondiale non possono che intervenire stabilmente in Eurasia. Tutti i rischi indicati dal Rapporto Wolfowitz nel 1992 e più recentemente da Brzezinski, si stavano presentando tutti: emersione di potenze rivali in competizione con gli USA, perdurante assenza dallo scacchiere eurasiatico, fallimento del progetto di tagliare fuori dalle rotte strategiche Russia, Iran ma anche la Cina. Un quadro aggravato dalla possibilità che alcuni dei più importanti paesi petroliferi del Medio Oriente comincino tra pochi mesi ad adottare l’euro piuttosto che il dollaro per le loro transazioni internazionali. Impedire tutto questo è probabilmente una parte della vera posta in gioco di questa guerra.

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[1] In realtà sarebbe più corretto parlare della “nostra immaginazione”, perché è impressionante il numero di libri pubblicati negli Stati Uniti che vedevano come scenario attentati suicidi contro la Casa Bianca o le Twin Towers.

[2] Zbignew Brzezinski: “La Grande Scacchiera”, p.8, Longanesi 1998.

[3] Vogliamo ricordare l’intervista al gen. Jackson di Alberto Negri del Sole 24 Ore, nel quale si affermava testualmente che i contingenti militari americano e inglese, erano nei Balcani “per rimanerci a protezione degli oleodotti strategici che attraverseranno questa regione” (Sole 24 Ore, aprile ’99).

[4] Quadriennal Defense Review, 30 settembre 2001.

[5] Piero Sinatti: “E nel gioco del petrolio Russia e USA sono alleati”, Sole 24 Ore del 4 dicembre 2001.

[6] Intervista del ministro degli esteri cinese Tang Jiaxuan su “La Stampa” del 24 novembre.

[7] Tra le altre, segnaliamo i preziosi e allarmanti contributi di Alberto Di Fazio su “Contro le nuove guerre”, edizioni Odradek che raccoglie le relazioni al convegno degli Scienziati e scienziate contro la guerra tenutosi al Politecnico di Torino nel giugno del 2000. Una sintesi della relazione di Di Fazio è disponibile anche sull’inserto di Contropiano del febbraio 2001.

[8] Olivier Roy: “Sharia e gasdotto, la ricetta dei talebani” in Le Monde Diplomatique, novembre 1996.

[9] Military Review, US Army, settembre 2001.


http://www.gabrieleadinolfi.it/articoli/O_R207.DOC

L’EUROPA SULLA GRANDE SCACCHIERA

La politica estera americana è da tempo alla ricerca di una dottrina precisa.

Chiamata a fare fronte a svariate necessità strategiche, anche contrastanti tra loro, la Superpotenza d’oltreoceano tenta di coniugare in qualche modo una filosofia ed una linea di condotta.

Il che non è cosa agevolissima in quanto le direttrici di tutta la politica statunitense sono contraddittorie ed oscillano storicamente tra la tentazione all’autoisolamento ed il desiderio di ostentazione di un’insaziabile volontà di potenza giustificata dalla convinzione di espletare una missione morale.

Gli Stati Uniti del resto non hanno mai saputo quale delle loro vocazioni scegliere di rappresentare fino in fondo: se la Predestinazione mistica di origine calvinista, l’Egualitarismo di origine storica (ideologia della frontiera ecc) o il Pragmatismo. Anche se in un ultima analisi è stato sempre e solo quest’ultimo a permettere loro di non soccombere alle contraddizioni irrisolte.

Ma l’unico modo per assumere le proprie contraddizioni se non le si dominano o se non si risolvono è quello di ignorarle, il che diviene agevole quando si  identifica un Antagonista, una rappresentazione del Male assoluto, per fronteggiare la minaccia del quale si giustifica il continuo rinvio della resa dei conti con se stessi.

La Superpotenza Americana è così possibile solo nel Dualismo, a tal punto che pur di garantirlo essa è disposta a finanziare l’Altro, come ha fatto per settant’anni con l’Unione Sovietica e più recentemente nei confronti delle organizzazioni militari e terroristiche di stampo religioso.

In altre parole si potrebbe sostenere che l’assenza dell’Altro, dell’Avversario allo specchio, ingenera debolezza ed incertezza in America; ovvero che gli USA patiscono oggi dell’eccessivo successo conseguito e della mancanza di un nemico che funga da catalizzatore e da mobilizzatore.

Lo sguardo lucido di Brzezinski

Di questo paradosso è perfettamente conscio l’ideologo geostrategico più qualificato della Casa Bianca, Zbigniew Brzezinski.

Nel 1997, ne “La grande scacchiera”, egli identificava nell’implosione del sistema sovietico un grande fattore d’instabilità ed un grande rischio per l’avvenire della civilizzazione yankee.

Brzezinski sosteneva che a causa del suicidio moscovita era improvvisamente venuta meno la contrapposizione ideologica e geopolitica che aveva sobillato ma anche equilibrato tra loro la Potenza navale e la Potenza terrestre per eccellenza.

L’effetto più preoccupante del fallimento sovietico oggi è dato, secondo lo studioso, dal gran vuoto di potere che si è venuto a verificare in Asia Centrale, teatro della partita per la conquista del mondo.

L’ideologo parte dal presupposto che la stabilità, la libertà, la ricchezza, il progresso e la democrazia sono garantiti solo ed esclusivamente dall’America e che, pertanto, quest’ultima deve assumere ed esercitare la gestione mondiale impedendo ad altri di farle ombra, il che deve soprattutto essere garantito nell’Asia centrale.

Chi sono questi altri che possono mettere a rischio l’unipolio americano ?

Brzezinski identifica cinque attori principali che egli definisce giocatori geostrategici. Costoro sono a suo avviso: Francia, Germania, Russia, India e Cina. Manca sorprendentemente la Gran Bretagna che però egli ritiene orientata al di fuori dell’Eurasia o, al massimo, alla sua periferia e considera pertanto essere il più fedele alleato americano ma totalmente assente, se non come vassallo, dalla partita che dovrebbe definire i destini del mondo.

I cinque giocatori geostrategici

Nell’analizzare le cinque potenze regionali Brzezinski giunge alle seguenti conclusioni.

L’India non svolge una politica atta a mettere in pericolo il predominio americano.

La Cina rappresenta al contempo la grande speranza e la grande incognita degli Usa. Speranza in quanto ha tutte le caratteristiche per divenire l’alter ego geopolitico di New York, grande incognita in quanto determinate tentazioni di sviluppo economico o di rivendicazionismo territoriale possono comportare l’insorgere di conflittualità anche violente tra le due potenze (ci siamo andati vicinissimi pochi mesi orsono) o tra Pechino ed alleati geostrategici preziosissimi per Washington, come il Giappone.

La Russia è un pericolo potenziale. Brzezinski si felicita del fatto che è troppo debole e troppo dipendente dall’Occidente per assumere un ruolo pericoloso, ma va ricordato che, al momento in cui l’ideologo scrive, a Mosca c’è ancora Eltsin e che i pericoli potenziali che mostra di temere (relazioni organiche con l’Europa occidentale, ravvicinamento con l’Ucraina, interessamento attivo verso la regione caucasica) sono invece divenuti realtà durante il mandato di Putin.

La Germania è considerata pericolosa soltanto se strettamente legata alla Russia in quanto essa è ritenuta una rivale economica ed eventualmente diplomatica, ma non politica.

La Francia, a sorpresa, è considerata dallo scrittore come l’elemento più pericoloso in quanto è l’unica micropotenza che abbia mania di grandeur e convinzione di avere un destino da compiere.

Il che può indurla a compiere davvero un destino perché non c’è nulla più di una volontà per determinare una via.

Le direttrici essenziali della geopolitica americana

Il pericolo principale per l’egemonia dell’America secondo Brzezinski sta nella possibile realizzazione di un’alleanza russotedesca o, peggio ancora, francotedesca.

Per evitare ogni problema egli suggerisce di alimentare le rivalità tra Parigi e Francoforte in seno all’Unione Europea e quelle sinorusse in Asia cercando di giocare così gli uni contro gli altri.

Mantenere e consolidare l’unipolio se da un lato vuol dire dividere et imperare, dall’altro significa controllare militarmente le cerniere strategiche che, secondo l’analista, sono l’Ucraina, l’Azerbaijan e l’Uzbekistan.

Ecco dettate le direttrici essenziali della politica americana che riviste e corrette, specie sotto l’impulso di Huntington, sono state applicate finora.

Queste chiavi di lettura, di per sé non esaurienti, sono assai propedeutiche alla comprensione di quanto avviene in seguito all’11 settembre.

Effetti geostrategici dell’impresa afgana

Inserire un cuneo tra Russia e Cina era un primo obiettivo essenziale per la Casa Bianca.

L’avvento di Putin, il prolungato finanziamento americano ai fondamentalisti islamici, il contenzioso nel Golfo del Tonchino, le preoccupazioni americane per alcuni elementi di crescita del gigante giallo, avevano finito col generare una cooperazione militare russocinese, del tutto inaccettabile per gli Stati Uniti.

La situazione era divenuta vieppiù preoccupante allorché era stato dato vita al Gruppo di Shangai, formato di nazioni asiatiche disposte a combattere il terrorismo islamico, gruppo al quale aveva recentemente aderito proprio quell’Uzbekistan che secondo Brzezinski gli Usa non possono assolutamente permettersi di far uscire dal proprio controllo.

L’intervento in Afghanistan, spacciato caccia a Bin Laden e come risposta all’attacco alle Twin Towers rivestirebbe dunque un particolare valore strategico.

Gli Usa non potevano lasciar fare e pertanto dovevano scegliere: o continuare a sostenere insieme ad Israele un réseau integralista musulmano ma in tal caso avrebbero optato per l’entrata in rotta di collisione con la Russia e forse anche con la Cina, oppure rovesciare i termini della questione. Secondo il noto insegnamento di Metternich che recita: “fai in modo di verificare tu stesso quello che non puoi impedire che avvenga”, l’amministrazione Bush ha così liquidato una serie di alleati (primi fra tutti i Talebani) e si è messa alla testa delle potenze asiatiche. Le quali tutte, tranne forse l’India, hanno ottenuto risultati apprezzabili dalla soluzione intrapresa.

La Russia che ha conseguito di poter partecipare al banchetto del prossimo governo afgano, verosimilmente a spese dei Pakistani e degli Israeliani, ha altresì ottenuto carta bianca per affrontare l’annoso problema ceceno. In cambio subisce una battuta d’arresto per quanto riguarda l’espansione nei Paesi degli oleodotti ma esce comunque assai avvantaggiata dalla posta della prima manche.

La Cina ha guadagnato tempo ben sapendo che il tempo è il suo maggiore alleato ma ha anche progredito in quanto ad estensione d’influenza verso l’occidente asiatico al punto che può oggi svolgere più di un’opera di mediazione fra le grandi rivali Iran e Turchia.

Riguardo l’unità europea

La grande opera di riassetto non è finita: non lo è perché gli equilibri sono precari ma anche perché lo stato dell’economia oggi richiede imperativamente la guerra. Le future scelte americane possono rivelarsi pertanto stabilizzatrici o devastanti.

Vige dunque un alto grado d’incertezza sugli scenari futuri, sui quali si staglia costantemente un’incognita particolare: resta da determinare il ruolo europeo.

Un ruolo che non sembra poter essere altrettanto subalterno che nel recente passato e ciò per via del fatto che il post-bipolarismo impone l’avvento di soggetti geopolitici macroregionali se non continentali.

Anche a questo proposito è paradigmatico il pensiero di Brzezinski il quale, malgrado ogni considerazione realistica sul suo scarso grado di potenza, sembra comunque ossessionato dall’unità europea. Egli la ritiene al contempo pericolosissima, inevitabile ed auspicabile.

Auspicabile forse proprio perché inevitabile, ma anche perché a suo avviso il processo di unificazione farà perdere tempo e potenza sia alla Francia che alla Germania, logorandole.

Nel frattempo egli suggerisce agli Stati Uniti di destabilizzare dolcemente la Russia al fine di ritardare il momento in cui si arriverà ad un’alleanza stretta tra la medesima e l’Unione Europea e quella della certa integrazione russa nella Nato.

Il risultato finale cui finirebbe col condurre quest’azione di logorio non è però altro che il presupposto temuto in partenza perché l’ideologo suggerisce di non opporsi al processo di unificazione dell’Europa dall’Atlantico agli Urali, ed al conseguente varo di un comando militare autonomo ma semplicemente di tenerlo sotto stretta osservazione.

E allora, se lo si accetta quando non lo si auspichi addirittura, perché osteggiarne il processo ?

L’Europa, ossessione atavica degli Usa

L’ideologia americana si fonda su di una contraddizione in termini e ciò a qualunque livello la si analizzi (filosofico, religioso, politico, etnico ecc) ed eccola allora esprimersi in un’ulteriore contraddizione.

Essa suona così: l’America odia ed ama l’Europa.

E’ perfettamente consapevole che non vi è Civiltà senza di essa, che anzi quel minimo di reminiscenza di civiltà che ancora permane nel suo mixage culturale è radicato nel Vecchio Continente.

L’America vorrebbe però divenire faro di civiltà essa stessa, il che ingenera ed alimenta una rabbiosa gelosia ed un desiderio di annientamento e di avvilimento verso la Terra Avita.

Il circolo vizioso finisce però con l’avvolgersi su se stesso perché l’intelligentia transatlantica è sempre più consapevole dell’incapacità degli Usa di creare un modello formatore e, a cominciare dallo stesso Brzezinski, gli osservatori più qualificati si rendono perfettamente conto che il loro unico quanto fragile polo d’attrazione è offerto dall’edonismo, il quale ultimo è fonte storica di disgregazione e non offre prospettive stabili.

Sia per la consapevolezza di questi chiari limiti che per la presa d’atto della speciale evoluzione dei rapporti di forza su scala internazionale, gli Usa si vedono così costretti a dover rivedere il loro atteggiamento nei riguardi del Continente Antico.

Ben sapendo di non essere in condizioni di gestire stabilmente l’unipolio l’America si ripiega, dunque, prospetticamente verso l’Europa ma vuole cercare dapprima di avvilirla, svilirla, indebolirla; la vuole insomma americanizzare fino in fondo.

Ciò è follia perché se dovesse accadere non si potrebbe più parlare di Europa ma di un’estrema appendice dell’America incapace di offrire qualsiasi via d’uscita al fallimento dell’ american way of life.

E’ il paradosso dei paradossi, la contraddizione originaria della coscienza americana che si vuole allo stesso tempo europea ed antieuropea. Uccidere il padre per sentirsi uomo, sentirsi uomo divenendo il proprio padre: questa la direttrice psicologica di un secolo di storia americana che volge all’estremo crocevia: ricorrere al padre per l’evidente incapacità di emancipazione.

Oggi va però registrata una regressione nella relazione tra i soggetti con annessa modifica nella sfera dei rapporti sottili. Quanto accade non ha più connessioni con le patologie freudiane ma è piuttosto paragonabile  a quel che avviene nella testa di una donna a vocazione matriarcale che si sia innamorata di un giovane indipendente ed avventuroso: lo vuole e lo teme al tempo stesso e s’illude allora di poterlo avere possedendolo e svirilizzandolo. Il che non ha alcun senso perché non può verificarsi per definizione; ciò che potrebbe ottenere è soltanto il possesso di un fuco vacuo che non le consentirebbe perciò di alimentarsi alla fonte della virilità.

L’Europa è costretta ad assumere un ruolo

Tralasciando le contraddizioni psicologiche e spirituali che contrassegnano le relazioni americane verso l’Europa, soffermiamoci su di un dato di fatto: i rivolgimenti internazionali hanno aperto la via ad un riassetto trans-nazionale nel quale, sia che questo si affermi sia che fallisca, l’Europa è costretta ad assumere un ruolo.

Comunque si leggano, le preoccupazioni di Brzezinski e le proposizioni di Kissinger confermano che il Vecchio Continente è chiamato nel medio termine, dalla geografia e dalla storia, a coprire uno spazio strategico di primo piano.

Che lo faccia da alleato o da antagonista dell’America è la questione nodale sulla quale si deciderà il futuro dell’umanità.

Attualmente è improbabile che la presa di coscienza e l’assunzione di quote di potere possano andare in controtendenza rispetto al Pentagono e a Wall Street; alla lunga, come teme Brzezinski, è invece probabile proprio il contrario.

Non a caso “la grande scacchiera” è la definizione attribuita all’Eurasia, ovvero allo spazio geografico, storico e di destino che si staglia imperioso al futuro del mondo.

Il destino eurasiatico è il nostro avvenire inesorabile contro il quale le menti più acute della potenza imperialistica ancora in sella cercano di frapporre intelligenti ostacoli, dando però mostra in questo di una disincantata predisposizione all’accettazione dell’ineluttabile, quasi di una resa di fronte al Fato.

Si preparano le condizioni per il secolo eurasiatico ?

a cura del Centro Studi ed Iniziative Metapolitiche

ORIENTAMENTI & RICERCA


http://italy.peacelink.org/conflitti/articles/art_10427.html

I bolscevichi di Bush scuotono il Kirzichistan

di Mike Whitney

Fonte: Dissident Voice – www.dissidentvoice.org 

4 aprile 2005

“Da quando i continenti hanno iniziato a interagire politicamente, circa cinquecento anni fa, l’Eurasia è stata il centro del potere mondiale. Adesso, l’America è l’unica superpotenza globale, e l’Eurasia è l’arena centrale del globo. Pertanto, ciò che accadrà alla distribuzione del potere nel continente eurasiatico sarà di importanza fondamentale per la supremazia globale e per il retaggio storico dell’America”.

Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera: la supremazia americana e i suoi imperativi geostrategici (Basic Books, 1997)

“Questa non è una rivoluzione; è vandalismo”
Una non identificata settantenne di Bishkek commenta il massiccio saccheggio della città seguito al colpo di Stato di venerdì scorso.
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Kirghizistan MapIl colpo di stato di Washington in Kirghizistan è stato un perfetto esempio di dimostrazione di forza imperiale. Come gli altri recenti cambiamenti di regime in Ucraina, in Georgia e in Serbia, la “rivoluzione dei tulipani” è stata fomentata e successivamente finanziata e appoggiata dalle ONG americane che collaborano con i gruppi di opposizione del Kirghizistan. Lo schema è inconfondibile, e tuttavia mozzafiato. Nel giro di poche ore, il regime di Askar Akayev, in vigore da quattordici anni, è stato spazzato via col pretesto di elezioni fraudolente e sostituito Kurmanbek Bakiev, favorito di Washington. Al momento la situazione è instabile, ed è impossibile dire con certezza chi, tra Bakiev e Felix Kulov, il nuovo capo della sicurezza, manterrà la testa del nuovo governo.

Per chi è interessato alle false rivoluzioni americane, il “Rapporto segreto di Steven M. Young, Ambasciatore statunitense nella Repubblica del Kirghizistan, rappresenta una lettura interessante. Nel suo rapporto pre-elettorale del 30 dicembre 2004, si trova ben più di qualche informazione di prima scelta che suggerisce che gli USA erano direttamente coinvolti nel rovesciamento del governo di Akayev. Qualche stralcio delle annotazioni dell’Ambasciatore Young: “Il nostro primo obiettivo – secondo i piani precedentemente approvati – è di aumentare la pressione su Akayev per costringerlo a dimettersi anticipatamente dopo le elezioni parlamentari. Realizzare il piano è di importanza fondamentale perché, crediamo, l’attuale opposizione non è abbastanza forte per sfidare le attuali autorità”. E ancora: “Secondo il materiale che abbiamo inviato al Dipartimento di Stato, sono venute a determinarsi due formazioni nell’arena politica del Kirghizistan. Kurmanbek Bakiev, ex Primo Ministro e membro del Parlamento, è l’unico candidato per il ruolo presidenziale. Credo che sia il candidato più ben accetto in previsione del fruttuoso sviluppo dei rapporti tra gli Usa e il Kirghizistan.”.

Bene, riassumiamo: Washington era direttamente coinvolta nella deposizione di un leader eletto democraticamente (ricordate: erano le elezioni parlamentari che venivano invalidate, non quella di Akayev) in una nazione che non costituisce alcuna minaccia per la sicurezza nazionale dell’America. Secondo le annotazioni, il Dipartimento di Stato contribuì a pianificare il colpo di stato, al punto da scegliere un leader di opposizione. E quali gruppi hanno aiutato Washington nel suo piano di estromettere Akayev?

Secondo gli appunti è il calderone delle ONG attive nel Kirghizistan: “L’ambasciata statunitense in collaborazione con l’USAID, l’NDI e l’IRI, altre organizzazioni internazionali tra cui la Freedom House, l’Internews Network, la fondazione Soros e la fondazione Eurasia.” Questi sono i nuovi bolscevichi americani, che diffondono la rivoluzione neoliberale in tutto il globo e che fanno pressione perché le nazioni entrino al trotto nell’orbita economica e politica dell’America.

Esaminando i principali personaggi che gestiscono queste ONG, compaiono i maggiori nomi della politica americana. Madeleine Albright (Segretario di Stato di Clinton), è il presidente dell’Istituto Democratico Nazionale (NDI), James Woolsey (ex capo della CIA e membro del PNAC – Progetto per un Nuovo Secolo Americano) è il presidente della Freedom House, George Soros è a capo della fondazione Soros e John McCain (che nasconde i suoi saccheggi internazionali dietro la maschera di un onesto anticonformista) è il presidente dell’Istituto Repubblicano Internazionale (IRI).

Il padrino spirituale e ideologico di questo movimento globale è Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale di Carter e architetto dell’intervento in Afghanistan negli anni ’80, sfociato nell’11 settembre (arruolando e addestrando estremisti islamici per combattere una guerra per conto dell’America contro l’Unione Sovietica). Brzezinski ha delineato i suoi piani aggressivi per la presa di potere nell’Asia centrale e nel Medio Oriente nella sua opera seminale, “La Grande Scacchiera”, un progetto per il dominio a livello mondiale che l’Amministrazione Bush segue con religiosa devozione. Nel suo libro, Brzezinsky articola in modo chiaro l’attuale politica americana nella regione:

“Per l’America, la principale ricompensa geopolitica è l’Eurasia. e la supremazia globale dell’America dipende direttamente da quanto a lungo ed efficacemente sarà mantenuta questo predominio sul continente eurasiatico”. (p. 30)

Ciò spiega perché il presidente Akayev abbia cessato di essere nelle grazie dell’Amministrazione Bush. Sebbene i media occidentali dipingessero il pacato Akayev come “sempre più autocratico”, il suo vero fallimento “frenava gli sforzi del suo governo che miravano a coltivare e a rafforzare i legami politici ed economici con la Russia e con la Cina.” (Andrea Peters, World Socialist Website)

Akayev poneva un ostacolo alla crescente influenza americana nella regione, perciò, per deporlo, sono state sguinzagliate le forze armate. Tuttavia Akayez, che si trova adesso in Russia, ha rifiutato di dimettersi da Presidente e ha screditato la rivolta definendola un “crimine di stato” condotta da “avventurieri e cospiratori.”

Annotazioni dell’Ambasciatore Young

Le annotazioni continuano: “Il nostro primo obiettivo nel periodo pre-elettorale è quello di suscitare la sfiducia nei confronti delle autorità al potere e del regime di Akayev, reso inabile dalla corruzione, verso il suo orientamento pro-Russia e l’uso illegale di una ‘risorsa amministrativa’ per truccare le elezioni. A questo proposito, la commissione democratica dell’ambasciata, la fondazione Soros, la fondazione Eurasia di Bishkek in collaborazione con l’USAID, hanno organizzato gruppi politicamente attivi di elettori per incitare sommosse contro i candidati a favore del presidente.

“Abbiamo aperto un finanziamento per un centro di documentazione indipendente – il Media Support center – e per una nuova agenzia di stampa, la AKI, per interpretare in maniera imparziale il corso delle elezioni e minimizzare l’impatto della propaganda dei mezzi di comunicazioni statali. Abbiamo intenzione, inoltre, di fornire un appoggio finanziario alle compagnie televisive e radiofoniche non governative che consideriamo promettenti.”

Vale la pena di considerare che, secondo gli standard statunitensi qui applicati, sarebbe del tutto ineccepibile se la Cina prendesse piede, politicamente, negli USA; fondando centri di documentazione, incitando i gruppi di opposizione a bloccare le strade e a prendere d’assalto gli edifici del governo, e diffondendo una propaganda anti-governativa nell’ottica di un cambiamento della leadership che sarebbe più gradita a Pechino. Questo intervento flagrante negli affari di una nazione sovrana è ciò che i media dell’establishment stanno tentando di far passare per un movimento “pro-democrazia”.

Le annotazioni dell’Ambasciatore Young continuano così: “Tenendo in considerazione le misure stabilite dal Programma del Dipartimento di Stato per il biennio 2005-2006 per intensificare la nostra influenza nell’Asia Centrale, in modo particolare in Kirghizistan, consideriamo il Paese come la base per avanzare nel processo di democratizzazione del Tagichistan, nel Kazachistan, nell’Uzbeschistan e per limitare l’influenza cinese e russa nell’area.”

Questo è il bolscevismo moderno, che tenta di nascondersi dietro la copertura degli slogan dei media e del falso servizio alla democrazia. L’America sta estendendo la propria portata globale per comprendere tutta l’Asia centrale e controllare così i due terzi delle risorse mondiali e indebolire possibili rivali nella regione, come la Cina e la Russia.

L’amministrazione pare rallegrarsi del caos suscitato nel Medio Oriente e in Eurasia. Attualmente l’influenza distruttiva si percepisce da Caracas a Tashkent, da Beirut a Bishkek; e non è possibile dire quando cesserà l’effetto domino o quali saranno le implicazioni a lungo termine. Questo è ciò che il neoconservatore Michael Ledeen definisce “caos creativo”, la politica di trasformazione della belligeranza e dei tumulti globali.

L’appoggio del Congresso

Le rivoluzioni in atto nell’Asia Centrale non sono opera esclusivamente dei neoconservatori della Casa Bianca. John McCain e Joe Lieberman hanno guidato la carica approvando lo scorso mese l’ “Advance Democracy Act”. La legge aggiunge altri 250 milioni di dollari da spillare ai contribuenti e da investire in gruppi rivoluzionari come l’IRI di McCain, l’NDI di Albright, la Freedom House di Woolsey perché continuino la loro opera di cambiamento di regime nel mondo.

Le ONG si sono trasformate nella parte più morbida del militarismo americano, il guanto di velluto che viene sostituito dal pugno di ferro dell’intervento miliare. Infatti, tra i due c’è poca differenza. Entrambi perseguono la politica non democratica dell’elite dominante; entrambi credono nella forza e nel sotterfugio come strumenti fondamentali per la politica estera; ed entrambi sono pronti a sacrificare le vite di numerosi civili innocenti per raggiungere i loro scopi di accrescimento.

Apparentemente, le ONG operano con gli stessi mezzi delle organizzazione terroriste, sebbene con un appoggio politico considerevole e risorse infinitamente maggiori. La logistica di queste false rivoluzioni è stata gestita con un’incredibile attenzione ai dettagli. Tutto, dalle tende impermeabili ai sandwich monodose, alle bandiere vivacemente colorate, agli slogan accattivanti, è stato testato attentamente dai sondaggi e fabbricato dal serbatoio del pensiero di sinistra e delle ONG americane. Si tratta di eventi puramente americani coordinati dai burocrati, appoggiati dal governo e dalle corporazioni multinazionali, e architettati dai gruppi più sofisticati di pubbliche relazioni in America. È la rivoluzione come un teatro di strada, un modello contraffatto di una reale agitazione politica.

Il cambiamento di regime si è trasformato nel passatempo preferito di Washington e senza dubbio nuovi obiettivi entreranno preso nel reticolo imperiale. L’Iran, il Venezuela, Cuba, la Russia e la Cina, sono tutte nella lista dei potenziali nemici per i quali potrebbe essere necessaria un’azione sovversiva. I successi in Ucraina, Serbia, Georgia e Kirzichistan hanno incoraggiato gli architetti dell’attuale strategia che adesso mirano ad obiettivi maggiori. Tutti sperimenteremo sulla nostra pelle se “la rivoluzione come politica estera” sia dopo tutto un’idea tanto saggia.

Note:

Mike Whitney vive nello stato di Washington, e può essere contattato al
seguente indirizzo email: fergiewhitney@msn.com.

Tradotto da Chiara Manfrinato per http://www.peacelink.it
Il testo e’ liberamente utilizzabile a scopi non commerciali citando la fonte, l’autore e la traduttrice

http://spazioinwind.libero.it/cobas/guerra/2001/contraddizione.htm

27-9-01  

Un significativo articolo scritto prima dell’11 settembre 2001

Spunti da un articolo apparso sul N. 86 de “La Contraddizione”
chiuso in redazione il 3 settembre 2001

a cura di Vinicio Gasparrone

“Sfoglio annoiato gli indicatori statistici. Il Superindice americano è positivo per la quarta volta di seguito. Poi vai a leggere dentro e scopri che è positivo perché è aumentata l’offerta di moneta, sono diminuite le domande di sussidi di disoccupazione, che è sempre più difficile richiedere ecc. ecc .. La produzione è invece in calo per il decimo mese consecutivo. E allora capisci che la recessione deve ancora venire. E che sarà dura.

“Gli americani sono liberisti finché il dollaro è sopravvalutato e flussi di capitali si riversano a comprare la “mondezza” della new economy. Ma per combattere la recessione ora devono abbassare il dollaro. Un poco, solo un poco, quel tanto che gli basta per recuperare quote di mercato. Se per caso di abbassa un po’ di più la frittata è fatta. Devono atterrare tenendo su il muso dell’aereo. Se no è la fine di tutto … Gli Stati Uniti oggi attirano il 64 % del totale dei flussi netti di capitale, pari al 7,75%, del risparmio mondiale. Se i “mercati’ si convincono che il dollaro può scendere assisteremo al più grande deflusso di capitali della Storia…

“Il liberismo è l’ideologia rovesciata del monopolio monetario e finanziario che l’America impone sul resto del mondo. Comprate quello che volete, basta che lo paghiate in dollari. Fate tutti i debiti che volete, basta che li contraete presso una banca americana e che siano denominati in dollari. Ma questa volta il buco è troppo grosso : 450 miliardi di dollari nel 2000. Nel solo mese di giugno 2001 il disavanzo commerciale è di 29,41 miliardi di dollari. Alzare le spese militari. Questo è l’unico sistema. Investire in armi, venderle, usarle. Distruggere ricchezza e poi ricostruirla : warfare invece di wefflare. Benessere selettivo, keynesismo elitario e quìndi ampiamente giustificato e gradito dai 1iberisti” del Texas. L’unico dubbio è dove.

“Qui entrano in scena i geopolitici. Attenzione sono una famiglia con strette regole di eugenetìca e filiazione spirituale. Prendiamo Condoleeza Rice,stella emergente nel “clan” dei Bush. 1 suoi mentoris sono il Gen. Brent Scowcroft (consigliere alla sicurezza di papà Bush) e Josef Korbel, che è stato mentore e padre adottivo anche di quella gentildonna che risponde al nome di Madeleine Albright. Korbel era un professore specializzato in “Russia e comunismo”, amico di Zbìgnew Brezinski, quello della Grande Scacchiera. Tutti fanno capo a due grandi vecchi della politica estera usa : Kissinger e Huntington, l’autore indimenticabile dello Scontro di civiltà.

“Zbygniew Brzezinsky, La grande scacchiera:

·  <<L’Eurasia occupa la scacchiera sulla quale si svolge la lotta per il dominio sul mondo. La maniera in cui gli Usa “gestiscono” l’Eurasia è di importanza cruciale. Il più grande “continente” sulla faccia del pianeta ne costituisce anche l’asse geopolitico. Qualunque potenza che la controlli, controlla anche due delle tre aree più sviluppate e maggiormente produttive. Il compito più urgente per gli Usa è sorvegliare affinché nessuno stato o gruppo di stati abbia la possibilità di cacciarli dall’Eurasia o anche solo di indebolirne il ruolo di arbitro. Nel 2010, la collaborazione franco-tedesca (polacco-ukraina) potrebbe diventare la colonna portante geostrategica dell’Europa. Ma potrebbe anche presentarsi uno scenario potenzialmente molto insidioso: la nascita di una grande coalizione tra Cina, Russia, e forse Iran, in chiave antiegemonica>>.

“Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale:

<<La guerra del Golfo è stata la prima “guerra tra civiltà” dell’epoca post-guerra fredda. La posta in gioco era stabilire se il grosso delle maggiori riserve petrolifere del mondo sarebbe stato controllato dai governi saudita e degli emirati oppure da regimi indipendenti antioccidentali in grado e forse decisi a utilizzare l’arma del petrolio contro l’occidente. Si assicurò un’imponente presenza militare nel Golfo anche in tempo di pace. Al termine del conflitto, il Golfo Persico era diventato un lago americano. Se avrà seguito, l’ascesa della Cina produrrà nei primi anni del XXI secolo tensioni tremende sulla stabilità internazionale. L’emergere della Cina quale potenza dominante in Asia orientale e sudorientale andrebbe contro gli interessi americani così come questi sono stati storicamente concepiti>>.

“Israele è la miccia sempre accesa. Quanto è lunga la miccia e fino a dove può bruciare? La polveriera non è in Medioriente. Il Medioriente al massimo è la seconda parte dellamiccia. La polveriera è in un punto imprecisato della cosiddetta area “turanica” (Iran, Afghanistan, Tagikistan, Khirghisistan Azerbaijan, Uzsbekistan, Pakistan) da secoli il ventre molle della Russia; ma (attenzione) è il ventre molle anche della Cina. Dalle etnie Uigure (turche) si risale verso lo Xin Xiang: il più grande bacino minerario e petrolifero del mondo.

“Da lì si controlla tutta l’Eurasia. Si controllano “corridoi” del terzo millennio. Da lì – da quei “corridoi eurasiatici” – passano gli oleodotti. Da lì passano le vie della droga. Da lì passano i mercanti di “schiavi” che riforniscono le industrie e i commerci di tutto il mondo.

“I democratici di Clinton avevano preferito la più nota “via dei Balcani”. Puntavano anche loro verso il centro dell’Eurasia, ma volevano arrivarci con le bandiere della “democrazia”, la Nato, gli europei. E soprattutto non volevano problemi con la Cina. Anzi volevano “pacificare” tutto il Pacifico. Bush no. Ha bloccato qualsiasi accordo sulla riunificazione delle Coree, ha ripreso le “guerre stellari” ….

” “Octopus” come viene chiamato il complesso militare di spionaggio e droga (intelligence, dicono) che da oltre 40 anni governa la politica estera americana punta verso l’Eurasia.

“Da troppo tempo per mollare la presa oggi”.

http://www.italiasociale.org/Geopolitica_articoli/Ucraina.htm

Ucraina: tra Eurasia e Occidente.

  Stefano  Vernole

                                                  Tratto da  www.eurasia-rivista.org

“Sarà molto più difficile che [la Russia] accetti l’ingresso dell’Ucraina nella NATO, in quanto ciò equivarrebbe a riconoscere che il suo destino non è più organicamente legato a Mosca … E se la Russia sarà disposta ad accettare questo nuovo stato di cose, ciò significherà che anch’essa sarà davvero propensa a divenire parte integrante dell’Europa, anziché scegliere una solitaria vocazione eurasiatica(1)”.

“La sovranità dell’Ucraina rappresenta per la geopolitica russa un fenomeno a tal punto pernicioso che, in linea di principio, può facilmente innescare un conflitto armato. L’Ucraina, come Stato autonomo e non privo di qualche ambizione territoriale, costituisce un enorme pericolo per tutta l’Eurasia. Sotto il profilo strategico l’Ucraina non deve essere che una proiezione di Mosca verso Sud e verso Occidente(2)”.

“I risultati delle elezioni non possono essere accettati come legittimi(3)”.

“Il presidente russo Vladimir Putin si congratula con il vincitore delle elezioni Victor Yanukovic(4)”.  

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Se qualcuno non capisse le reali motivazioni del tam tam mediatico di questi giorni sulle elezioni ucraine, dovrebbe forse correre a leggere il noto saggio di Zbigniew Brzezinski, “La grande scacchiera”, dove l’ex consigliere per la sicurezza nazionale statunitense avverte dell’importanza della posta in gioco.

Queste le sue considerazioni più interessanti: “L’Ucraina assumeva un’importanza decisiva. La crescente propensione degli Stati Uniti ad assegnare un’alta priorità ai rapporti con questo Paese e ad aiutarlo a difendere la sua nuova indipendenza veniva visto da molti a Mosca – filo-occidentali compresi – come una politica contraria all’interesse vitale della Russia a reintegrare col tempo l’Ucraina nel suo campo: un obiettivo che rimane ancora un articolo di fede per molti esponenti dell’élite politica russa … Tra il 2005 e il 2010, l’Ucraina, specie se avrà fatto progressi significativi sulla via delle riforme, assumendo sempre un carattere di Stato centroeuropeo, dovrebbe essere pronta ad avviare seri negoziati sia con l’U.E. sia con la NATO … L’indipendenza dell’Ucraina ha privato inoltre la Russia della sua posizione dominante sul Mar Nero, dove Odessa costituiva un avamposto strategico per gli scambi con il Mediterraneo e il più vasto mondo. La perdita dell’Ucraina ha avuto anche enormi conseguenze geopolitiche, poiché ha drasticamente limitato le opzioni geostrategiche della Russia. Anche senza i Paesi Baltici e la Polonia, una Russia che avesse conservato il controllo sull’Ucraina poteva ancora cercare di fungere da guida di un impero eurasiatico risoluto, dove Mosca avrebbe dominato i non slavi del Sud e nel Sud-Est dell’Ex Unione Sovietica(5)”.

Ubi maior minor cessat, si sarebbe detto in altri tempi, senonchè riteniamo doveroso svolgere alcuni considerazioni su quello che sta succedendo in Ucraina, dove le elezioni presidenziali hanno visto la vittoria del candidato filo-russo Victor Yanukovic sul candidato filo-occidentale Victor Yushenko, affermazione subito contestata dall’opposizione spalleggiata da OCSE, NATO, Casa Bianca e mass media atlantisti.

I sondaggi che subito dopo il voto attribuivano il successo a Yushenko e la repentina calata in piazza dei suoi sostenitori, fanno innanzitutto pensare a un complotto ben organizzato dagli apparati spionistici mondialisti, alfine di mettere in difficoltà il neoeletto Yanukovic e il suo padrino di Mosca, Vladimir Putin, vero obiettivo della manovra destabilizzante.

Chiunque abbia la pazienza di ascoltare e leggere i commenti delle tv e della stampa occidentale sulla situazione ucraina non può che giungere a due conclusioni:

1) la vittoria è stata scippata a Yushenko grazie a brogli clamorosi e la stragrande maggioranza della popolazione lo appoggia nelle sue rivendicazioni;

2) l’obiettivo di Putin è quello di annettere antidemocraticamente l’Ucraina alla Russia al fine di ricreare una sorta di Impero zarista o Unione Sovietica.

Se sul secondo punto le citazioni sopra riportate sono sufficientemente esplicative, sul primo è invece doverosa un’analisi di controinformazione, visto che le numerose manifestazioni di sostegno a Yanukovic sembrano essere state “oscurate” dai mass media nostrani.

Appare prematuro ora fare previsioni sulla possibile evoluzione della crisi, fermo restando che l’eventuale degenerazione della disputa elettorale (soluzione militare, spaccatura del paese …) ricade tutta sulle spalle dell’Occidente, pronto ad appoggiare o a contestare i risultati delle urne esclusivamente in funzione del proprio interesse contingente (Algeria docet).

Subito dopo l’indipendenza concessa da Mosca nei primi anni Novanta, la classe dirigente ucraina fece tutto il possibile per lasciarsi alle spalle gli stretti legami culturali, economici e religiosi che la legavano alla Russia, ma per vari motivi ottenne scarsi risultati.

Iniziamo col ricordare che almeno ¼ della popolazione dell’Ucraina è russa o russofona, specie nelle regioni orientali di Doneck e Dnepetrovsk, che sono anche le più ricche e industrializzate, così come nei territori costieri sul Mar Nero (conquistati dall’Impero zarista nel XVIII secolo) vi è una predominanza linguistica russa.

Secondo un censimento del 1989, i russi in Ucraina sono il 67,9% nella regione di Doneck, il 65,5% in quella di Lugan, il 50,1% in quella di Charkov, il 53,4% in quella di Zaporoz e il 67% tra gli abitanti della Crimea.

Risultano perciò vani i tentativi governativi d’ imporre l’ucraino come lingua di Stato, di considerare nell’ambito della scuola media la letteratura russa come straniera e di sottolineare grazie all’uso dei mass media le peculiarità della cultura ucraina.

I russi che abitano in Ucraina non si sentono una minoranza etnica e tantomeno sono percepiti come tali dagli stessi ucraini, se si fa eccezione per le regioni occidentali del paese.

Sondaggi condotti nel 1999, dimostrano che il 61% degli abitanti dell’Ucraina hanno una percezione positiva della Russia, più di 1/3 di essi desidererebbe vivere con i russi in unico Stato e la maggioranza assoluta si dice favorevole a frontiere con Mosca del tutto trasparenti, vale a dire senza controlli doganali o richieste di visto(6).

La situazione più complicata è sicuramente quella dei russi di Crimea, che rifiutano ogni forma di ucrainizzazione e tendono piuttosto alla creazione di una loro forma di autonomia, sia per la passata politica di Kiev sia per le pretese avanzate dai tatari che rivendicano le loro terre di origine e vorrebbero trasformare la regione in un’entità statale poggiante sulla propria eredità culturale.

Qui i russi hanno creato non solo propri organi di stampa quotidiani e periodici, ma anche partiti politici, perciò un’eventuale inasprimento della contrapposizione potrebbe creare conseguenze pericolose.

Anche sotto il profilo religioso i risultati ottenuti dagli indipendentisti non sono così lusinghieri, malgrado lo sforzo congiunto della dirigenza ucraina e dell’uniatismo cattolico(7).

Già dal 1990, il Patriarcato di Mosca ha concesso alle proprie diocesi e parrocchie sul territorio ucraino lo status di chiesa autonoma, il che presuppone la piena sovranità nelle questioni riguardanti la vita interna e l’ambito amministrativo e finanziario.

Tuttavia, dal  momento stesso in cui l’Ucraina ha avuto la propria indipendenza statuale, una parte dei vescovi della Chiesa ortodossa ucraina – sostenuta dai politici locali – ha sollevato più volte il problema dell’autocefalia, cioè della piena autonomia canonica dal Patriarcato russo.

Sono così sorte nel 1993 tre chiese ortodosse reciprocamente ostili: la Chiesa ortodossa ucraina (UPC-MP) sotto la giurisdizione di Mosca, che resta ancora alla fine degli anni novanta nettamente la maggiore organizzazione religiosa del paese con 7.986 parrocchie; la Chiesa ortodossa ucraina del Patriarcato di Kiev (UPC-KP), alla quale appartengono 2.187 parrocchie e la Chiesa ortodossa ucraina autocefala (UAPC) che di parrocchie ne conta 1.026(8).

Per ritornare invece a un quadro più strettamente geopolitico, occorre ricordare che se per la Russia la perdita dell’Ucraina era stata assai grave per ragioni strettamente economiche, Kiev dipendeva completamente da Mosca per le sue forniture di petrolio e gas naturale.

Senza l’Ucraina, la Russia non solo perde le sue terre più fertili, ma anche i tradizionali sbocchi portuali di Odessa, Mariupol e Ilicevsk, nonché quelli della Crimea.

Inizialmente il governo moscovita aveva perciò deciso di sviluppare un asse alternativo, Pietroburgo-Mosca-Voronez-Rostov-Novorrosijsk che, contribuendo al declino dei porti ucraini, aveva aumentato l’attrazione delle regione orientali e russofone dell’Ucraina verso di esso.

Il compromesso, firmato nel 1997, prevedeva che la Russia affittasse per 20 anni le infrastrutture portuali all’Ucraina, in parziale pagamento dell’immenso debito energetico che Kiev stava accumulando verso Mosca, mentre la quasi totalità delle unità della flotta rimanevano in mano russa(9) : ricordiamo che nella rada di Sebastopoli la flotta sovietica aveva le sue basi migliori.

Gradatamente i legami economici tra le due nazioni hanno ripreso a tornare forti.

Dalle statistiche emerge che nel 1997 i paesi aderenti alla CSI hanno investito nell’economia russa 55,6 miliardi di rubli, di essi 26,2 sono dell’Ucraina (47,1% del volume complessivo) e malgrado una lieve discesa nel 1998 (6,2 miliardi pari al 23,4% degli investimenti totali operati dai paesi della CSI), ancora nel 1999 l’Ucraina riceve dalla Russia il 40% delle sue importazioni, mentre quest’ultima continua a sua volta ad essere il principale importatore della produzione di Kiev(10).

L’ultimo sgarbo arriva perciò nel 1999, quando l’Ucraina si segnala come il membro più attivo del GUUAM (Georgia, Ucraina, Uzbekistan, Azerbajdzan e Moldavia), un blocco che intende fare da contrappeso geopolitico all’influenza della Russia nello spazio postsovietico.

Ad esso segue la virata operata dallo stesso presidente ucraino Leonid Kuchma, che rilancia la cooperazione con Mosca in vari settori.

Prima con la firma di un accordo per la riunificazione delle reti elettriche dei due paesi, poi garantendo l’acquisto da parte della Lukoil (la maggiore compagnia petrolifera russa) di quote della raffineria di Odessa(11), infine con la sottoscrizione di un rilevante pacchetto di accordi intergovernativi fra i quali spicca un’intesa per il transito del gas per un periodo di 15 anni(12).

Si deve perciò concludere che gran parte delle suggestioni instillate dall’opinione pubblica mondialista in questi giorni non sono veritiere e a riprova segnaliamo l’atteggiamento prudente mantenuto dai vari capi di governo europei (Chirac e Schroeder in testa) sull’esito delle elezioni, a dispetto dell’arrogante aggressione condotta dagli sgherri atlantisti Barroso e Solana.

La decisa opzione strategico-militare adottata proprio recentemente da Vladimir Putin(13) lascia ben sperare sulla possibile evoluzione della crisi ucraina, malgrado le forti pressioni diplomatiche statunitensi e la cecità dei burocrati di Bruxelles, autori di una politica europea evidentemente suicida nel suo supino adeguarsi alle logiche di Washington.

Per Mosca, d’altronde, potrebbe essere l’ultimo treno utile, prima di essere definitivamente inghiottita dall’espansione occidentalista.

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(1)   Zbigniew Brzezinski, “La grande scacchiera”,  Milano, 1998, p. 165.

(2)   Aleksandr Dugin, citato in Vladimir A. Kolosov, “La collocazione geopolitica della Russia”, Torino, 2001, p. 17.

(3)   Dichiarazione di Colin Powell, Segretario di Stato USA, riportate dall’ANSA il 24/11/2004.

(4)   Notizia riportata dall’ANSA il 25/11/2004.

(5)   Brzezinski, op. cit., pp. 117-127-141-142.

(6)   Kolosov, op. cit., p. 324.

(7)   Per comprendere il ruolo dell’Uniatismo in Ucraina, bisogna ricordare che nel XVI secolo, nel quadro della Controriforma, la Chiesa cattolica – appoggiata dalle potenze dell’epoca come Austria e Polonia – tentò di sottrarre intere regioni all’ Ortodossia. Il meccanismo era molto semplice; in cambio di vantaggi materiali concessi dagli Stati cattolici, i fedeli dovevano riconoscere l’autorità di Roma, pur conservando la totalità delle loro tradizioni, dei loro costumi, riti e rituali, cfr. Francois Thual, “Geopolitica dell’Ortodossia”, Milano, 1995, p. 95. Significativo in questo momento della crisi ucraina, l’arrivo a Kiev di Lech Walesa …

(8)   Kolosov, op. cit., p. 201.

(9)   Aldo Ferrari in Autori Vari, “Il grande Medio Oriente”, Milano, 2002, p. 74.

(10) Kolosov, op. cit., p. 324.

      (11) La Lukoil sta peraltro valutando anche la possibilità di acquistare la raffineria di Cherson,  in Crimea, cfr. Aldo Ferrari, ibidem.

      (12) Fabrizio Vielmini, ibidem, p. 235.

      (13) cfr. Giulietto Chiesa, “Torna la superpotenza russa e non è un bluff”, www.lastampa.it

             24/11/2004. Il nuovo missile antiportaerei costruito dai russi, sarebbe stato venduto oltre

             che all’Iran anche alla Cina, cfr. Maurizio Blondet, su http://www.effedieffe.com.

Articolo pubblicato sul numero 48 di “Giano. Pace ambiente problemi globali”, gennaio 2005

Sulla crisi ucraina.
Una guerra geopolitica chiamata “democrazia”

di Luigi Cortesi

Già annunciato nelle elaborazioni Usa e negli scenari della Cia,
il disegno strategico antirusso si è innestato con relativa facilità e pochi scrupoli
in un’esigenza autentica di rinnovamento democratico


L’instabilità della situazione interna in Ucraina nell’imminenza delle elezioni politiche, il rischio d’una crisi internazionale e nei rapporti con la Russia e la possibilità d’un “ricambio non guidato di dirigenza politica” erano stati rilevati da Andrea Panaccione nel precedente fascicolo di “Giano” (Una rete di interdipendenze storiche. Russia ed ex-Urss nel nuovo disordine mondiale, n. 47, pp. 97-122; si vedano in particolare le pp. 112-113). Panaccione coglieva anche – e questo era anzi il Leitmotiv della sua analisi – il punto centrale dei problemi della Russia di Putin e dell’intera area ex-sovietica nella mancata formazione d’una democrazia interna e nell’incapacità russa di gestire i problemi propri e dell’estero vicino – le Repubbliche dell’Urss resesi indipendenti – sulla base di un’egemonia politico¬culturale. Il bubbone è scoppiato ora proprio in Ucraina e quell’analisi ne risulta confermata.
Le ripercussioni internazionali, in atto e in potenza, della crisi esplosa clamorosamente a Kiev ci inducono ora a tornare sulla questione in sede di primo e sommario commento, prendendo in considerazione due principali aspetti: in primo luogo quello della Ostpolitik dell’Occidente “atlantico” e del terremoto geopolitico che essa può provocare inserendosi nell’evoluzione della situazione interna ucraina e nei rapporti tra Kiev e Mosca; in secondo luogo quello della democrazia nei Paesi dell’area ex-sovietica, con i problemi suoi propri e gli intrecci con la fase offensiva della politica mondiale degli Usa, che prese avvio nel 1990 ed appare tuttora in pieno dispiegamento. Una lettura in chiave di strategie internazionali sia del “disordine mondiale” sia dei limiti che ne derivano proprio alla democrazia (interna e internazionale) ci sembra utile ad indicare le infinite implicazioni di un quadro nel quale la questione ucraina assume un ruolo di grande rilevanza.

Il vangelo geostrategico di Brzezinski
Converrà tornare brevemente sulle elaborazioni di quello che è stato e ancora rimane il principale cervello del pensiero geostrategico americano. Nel 1993, all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica e della prima spedizione contro l‘Iraq, Z. Brzezinski scriveva in termini di grande preoccupazione del gap tra “l’idea dell’America come unica superpotenza all’interno del nuovo ordine” e la realtà d’una dinamica mondiale in pieno sviluppo ma anche totalmente anomica e cecamente indirizzata al caos e alla violenza: “In questo contesto, la preponderanza degli Stati Uniti è al tempo stesso una realtà e un’illusione”, dato che “il potere mondiale americano non equivale all’autorità mondiale americana”. Basato su “un messaggio di libertà […] irresistibile e affascinante”, ma fondato sui “valori” americani e quindi prevalentemente formale e “procedurale”, quel potere poteva non corrispondere al “senso della storia” e dimostrarsi quindi illegittimo e “mancante della capacità di assicurare un controllo positivo”.
La constatazione che “Il collasso politico dell’Unione Sovietica ha trasformato il ‘cuore’ dell’Eurasia in un vuoto geopolitico” non sfociava ancora in una programma aggressivo. La preoccupazione dell’autore si rivolgeva, tra l’altro, alle “lacerazioni nella struttura della vita” dovute alla diseguaglianza delle condizioni sociali ed esistenziali e malamente occultate dall’adozione universale della retorica democratica (Z. Brzezinski, Il mondo fuori controllo, Milano, Longanesi & C. 1993, pp. 107-108, 159, 219-220).
Questa preoccupazione non c’era più nel successivo e ancor più noto saggio di Brzezinski, La grande scacchiera, dominato dall’ambizione di “formulare un’ampia e coerente strategia euro-asiatica” capace di assicurare agli Usa “un’ effettiva supremazia mondiale”. La “scacchiera” euro-asiatica, da cinque secoli “centro del potere mondiale” non era considerata dal punto di vista del Medio Oriente; l’approccio del democratico Brzezinski. era frontale e brutale, ed assegnava all’Europa il ruolo di “testa di ponte americana sul continente euro-asiatico in modo che un’Europa allargata possa servire ad estendere all’Eurasia l’ordine democratico e il sistema di cooperazione internazionale”.
Era a questo punto che il discorso involgeva l’Ucraina, area strategicamente cardinale il cui completo distacco dall’influenza di Mosca era necessario perché la Russia, per la quale la perdita dell’Ucraina era già stata “una catastrofe geopolitica”, cessi d’essere “un impero euro-asiatico”. La durevole acquisizione dell’Ucraina all’Occidente stabilirebbe un asse di equilibrio e di sicurezza che, da Ovest verso Est passerebbe attraverso quattro grandi Stati centrali, la Francia , la Germania, la Polonia, l’Ucraina, con 220 milioni di abitanti, un’economia sviluppata o capace di grandi sviluppi, e risorse ingenti. Ma l’Ucraina, per sopravvivere come Stato indipendente, doveva essere inglobata nell’Unione Europea e nella Nato: non dovevano infatti restare dubbi sulla volontà di espansione dell’Europa e sull’atteggiamento degli Usa al riguardo .
Né lo smantellamento della vecchia Unione Sovietica e della Russia stessa doveva fermarsi a quel punto: occorrevano anche un’accorta politica nei “Balcani dell’Asia” – la regione tutt’intorno al Mar Caspio che dall’Iraq, dall’Iran e dall’Afganistan va fino ai confini meridionali della Russia e occidentali della Cina – e la creazione di una “repubblica siberiana e una dell’Estremo Oriente”, confederate ad una Russia compressa ad Ovest dalla dilatazione dell’Europa. Questa ulteriore riduzione delle ambizioni russe stabilizzerebbe la “scacchiera” nel senso politicamente più consono agli interessi americani, per i quali un sistema euro-atlantico più ampio è prioritario rispetto a qualsiasi disegno di “un migliore rapporto con Mosca” (Z. Brzezinswki, La grande scacchiera, Milano, Lomganesi & C., 1998, pp. 8-9, 119, 127, 165-166, 268).
L’elaborazione che nel trascorso quindicennio, e specialmente da Maastricht in poi, si è rivolta ai “corridoi” europei non ha fatto che confermare l’interesse geografico (e non solo…) dell’Ucraina per l’Ue e per il funzionamento dell’intero sistema delle comunicazioni di superficie continentali e intercontinentali. Come ha fatto notare Michele Paolini (L’Europa dei corridoi e il nuovo quadro strategico, “Giano”, n. 38, maggio-settembre 2001, pp.161-171) i due tracciati principali si sviluppano nelle direzioni Nordovest-Sudest e Ovest-Est verso il mar Nero, “snodo vitale delle vie energetiche affluenti dal Golfo e dal Caucaso ai mercati occidentali […] il cui valore strategico è […] ampiamente noto e conseguentemente tenuto in considerazione da tutti gli attori geopolitici coinvolti” (ivi, p. 170). Un quadro (precedente la crisi) specificamente dedicato alla “straordinaria capacità di proiezione spaziale” degli Usa in funzione antirussa e alla sorda lotta che la oppone ai “flussi energetici che dalla Russia, dal Caspio e dall’Asia centrale dirigono verso i mercati occidentali” ha indicato nell’Ucraina uno degli spazi principali della strategia Usa-Nato in atto, e le relative pressioni come elementi di incentivazione dello “slittamento di Kiev verso l’Occidente” (Margherita Paolini, La Nato dell’Est, “Limes”, n. 6, 2004, La Russia in gioco, spec. pp. 126-130). Dopo la vittoria arancione è stato infatti messo in rilievo l’interesse americano ed occidentale a

“un’Ucraina separata dalla Russia e insorta contro di essa: corridoio energetico, via di penetrazione dell’occidente al cuore e ai mercati meridionale della Russia, sbocco sul Mar Nero, vicinanza col Caucaso e con il bacino del Mar Caspio. In termini strategici si tratta di un alto valore aggiunto” (J.-M. Chauvier, Ucraina, la folla arancione e la rete blu del gas, “Le Monde diplomatique”, gennaio 2005).

Risultano chiare dunque sia la funzione chiave dell’Ucraina nell’elaborazione geostrategica americana (oltre che europea, e in sovrordine rispetto a questa), sia la componente di ulteriore disgregazione e di potenziale fagocitazione della Russia in quell’impero globale americano che darebbe corposità totalitaria ad un rinnovata, ma già sostanzialmente presente figura di imperialismo. Ma è chiaro anche il potenziale minaccioso di vulnerazione e di umiliazione della Russia che tutto ciò rappresenta sin d’ora, dopo l’occidentalizzazione anche militare delle Repubbliche baltiche e della Polonia e in presenza d’una strategia militare e politica degli Usa già dispiegata nella sua pienezza anche militare nei “Balcani dell’Asia”. Un distacco dell’Ucraina, nella sua attuale territorialità, dall’estero vicino della Russia e la sua programmata adesione al blocco politico e militare della “civiltà” occidentale porterebbero le frontiere della Nato e degli Usa ad una distanza da Mosca non molto maggiore di quella alla quale si assestò il fronte di guerra nell’inverno 1941-42, dopo l’attacco nazista all’Unione Sovietica. Quelle frontiere saranno, in ogni caso, nel cuore originario e storico del paese, e quindi in una situazione di estremo rischio che i Russi non potrebbero avvertire se non come fine imminente. È chiaro, infine, che il passaggio, che abbiamo notato in Brzezinski, dalla possibilità all’obbligatorietà che la geopolitica preceda e faccia la storia non è la semplice avventura intellettuale d’un pensatore polacco, ma corrisponde al senso di una elaborazione e di una pratica politica (e di una politica fortemente militarizzata) che i fatti dimostrano fin qui vincente.
L’iniziativa in materia di sicurezza–guerra preventiva è nella lettera e nello spirito del documento presidenziale The National Security Strategy del settembre 2002, che raccoglieva stimoli provenienti dalla elaborazione dei neoconsevatives; proprio in materia di Eurasia costoro hanno prodotto scritti deliranti, tanto più notevoli in quanto la punta di lancia della politica ufficiale sembrava stabilmente rivolta all’Iraq, dove – dopo la prima guerra – erano sopravvenute difficoltà impreviste. Sulla lunga preparazione americana della “rivoluzione arancione” nel quadro di una non interrotta offensiva antirussa si sono avute varie testimonianze, tra le quali sono particolarmente pesanti quelle che chiamano in causa il ruolo della Cia e di altre, più o meno spionistiche, organizzazioni americane e occidentali in Ucraina – dopo che in Serbia, in Georgia, e altrove (v. E. Ramondino, Stanko Lazendic. Otpor, arancione a stelle e strisce, “il manifesto”, 30 dicembre 2004; J.-M. Cauvier, art. cit.). E si rende via via più chiaro che il confronto decisivo (nella misura che appartiene alla logica geopolitica astratta) degli Stati Uniti con la Cina implica una precedente vittoria in campo sulla Russia e una balcanizzazione degli spazi intermedi; uno scenario, o serie di scenari intermedi, di cui si parla poco, ma che ora gli avvenimenti ucraini impongono all’attenzione e preoccupazione mondiale.

La Russia in un circolo vizioso
Varie sono dunque le aspirazioni che sono confluite nella concezione della politica mondiale dell’attuale amministrazione e che hanno fornito il materiale per la nuova pratica strategica dell’unilateratismo planetario preventivo. E non è certo la ostentata “amicizia” di George W. e di Vladimir che può neutralizzare le frizioni oggettivamente esistenti lungo le migliaia di chilometri di confine effettivo tra la proiezione euroasiatica degli Usa e il territorio russo, nè nascondere gli evidenti contrasti di interesse generale tra le due maggiori Potenze nucleari. Per inciso, merita anche far notare la grandiosità della sfida geopolitica, che rende ragione della radicalità dell’impegno degli Usa (e dell’Inghilterra, vecchia frequentatrice di quegli scenari) e della facilità con la quale l’impegno stesso può essere vissuto con quella partecipazione etica missionaria che sempre e sotto ogni bandiera ha propiziato gli olocausti del colonialismo-imperialismo.
Dall’altra parte sta però la Russia (e sullo sfondo stanno anche l’India e la Cina, in atteggiamento che non è certo di attesa passiva). Caduta l’Urss, gli Stati Uniti non tollerarono che quanto di alternativo, o comunque di diverso dal capitalismo ortodosso era stato costruito dopo il 1917 potesse sopravvivere – pur in modi parziali e deformati. Il periodo eltsiniano fu quello del grande sfacelo teleguidato, con la subitanea distruzione di un’immensa organizzazione economica e finanziaria (oltre che sanitaria e assistenziale) e la sua spartizione tra potentati globali e predoni locali, tra i quali non pochi dirigenti e membri del Pcus. Dall’esperienza sovietica viene anche Vladimir Putin, che tuttavia si distingue per l’ambizione via via più chiara di riscattare la Russia dal baratro in cui è piombata, procedendo a ristrutturazioni interne, a iniziative di politica estera e a misure di riorganizzazione militare.
Non sono qui in discussione la personalità di Putin, né la sua scelta e selezione di alleanze, né gli errori sul fronte ceceno e altrove, ma unicamente la sua funzione di rappresentante di una volontà di resistenza e di rinascita della Russia, che comporta una sorda lotta contro l’invadenza statunitense. Nella perdurante assenza di convincenti articolazioni democratiche in quel grande Paese, e nell’improbabilità che esso possa darsene nelle attuali condizioni, la politica di Putin si avvale di un’investitura popolare della quale – e delle cui ragioni – occorre tenere conto. Nell’articolo citato e nei precedenti su “Giano” (nn. 38, 39, 43), Panaccione ha segnalato lo

scarto tra l’aspirazione a un ruolo di protagonismo globale della Russia, che sembrava favorita dalla situazione del post – 11 settembre e dal modo in cui essa era stata recepita e utilizzata a Mosca, e il concentrarsi di fatto di molti nodi ed elementi di incertezza e di possibile crisi proprio in quella sfera di estero vicino corrispondente ai confini dell’ex Urss, che rimane centrale non solo per gli interessi politici, economici, militari dello Stato russo, ma per le reazione della stessa popolazione russa, per il peso inevitabile di una lunga storia sui modi di sentire e di pensare (n.47, p. 97).

Le critiche che Panaccione, sulla base di una seria esperienza di studio e di analisi “ sul campo”, muove alla politica di Putin e alla schematica durezza della sua cultura sono ampiamente giustificate; ma il vero e proprio assedio cui la Russia è sottoposta e la sistematica occupazione territoriale di aree ex-sovietiche lungo direttrici di pressione inequivocabili e, ormai, a così breve distanza dal centro vitale della Russia, non appartengono ad un capitolo separato e ininfluente; esse anzi condizionano pesantemente anche la politica interna e quella verso l’estero vicino, aprendo la possibilità di mobilitazioni nazionalistiche e plebiscitarie. In quanto corrisponde ad un postulato della strategia eurasiatica e mondiale degli Stati Uniti, il circolo vizioso che così si instaura tra politica interna e politica estera russe può essere rotto, così almeno sembra pensino i politici del Cremlino, soltanto con risposte alla loro volta strategiche. Naturalmente, è auspicabile che la costituzione dello Stato e il popolo procedano nonostante tutto sulla via non solo di riforme democratiche, ma di quella ripresa, specialmente in materia di sanità, di moralità pubblica e di condizioni ambientali, che le drammatiche informazioni descrivono come urgente: i problemi che abbiamo citato necessitano infatti del risveglio e della partecipazione dal “basso” d’una società umiliata e depressa.
In un recente articolo, Giulietto Chiesa ha rilevato l’assenza dalla mente di Putin di un’idea di questo genere, la sua “idiosincrasia per la democrazia” – che lo induce a costruire una nuova classe nemica degli oligarchi, ma assetata alla sua volta di arricchimento, il carattere autocratico della sua personalità; registrata “l’assenza di una visione strategica sulla rinascita della Russia”, ha concluso la propria attenta analisi con un giudizio drastico: “su queste basi la prognosi non può che essere infausta” (G. C., Perché Putin fallirà, “Limes”, n. 6, 2004, cit., pp. 43-58).
Più attento alla dimensione dell’assedio americano appare l’editoriale dello stesso n. 6 di “Limes” –concepito e scritto anch’esso prima della crisi ucraina – che sotto il titolo L’importanza di essere Russia assume l’interpretazione del Cremlino (sia pure “enfatizzata a fini interni”) che il Paese sia minacciato da “decisori in America, In Europa e all’Est; e analizza le “spinte e controspinte esterne ed interne che simultaneamente o in successione possono produrre la disintegrazione della federazione soprattutto agendo in “sei macroaree di primario rilievo geopolitico”. Si tratta in realtà di sei linee o regioni di confine nelle quali è più sensibile la pressione esterna. In Europa centro-orientale, scrive C. Caracciolo, la pressione esterna si concentra sull’Ucraina. I nemici di Mosca puntano sulla totale occidentalizzazione di Kiev come garanzia che la Russia non si configurerà mai più come protesa verso il cuore dell’Europa. Una garanzia che comporta, come abbiamo detto, un nuovo roll back dell’area russofila fino alla vecchia Moscova. Argomenta il direttore di “Limes”:

[…] per qualcuno in Occidente la guerra fredda non è finita. Dal punto di vista di una parte dell’élite americana le dimensioni della Russia restano eccessive. Qualche succulenta “fetta di torta” da sottrarre all’ex impero del Male può consolidare il primato mondiale degli Stati Uniti e irrobustirli rispetto alla concorrenza cinese. […]
Washington vorrebbe insomma una Russia abbastanza debole per farvi interessi energetici e per scoraggiarne le velleità neoimperiali, ma sufficientemente stabile per evitare sia un’avanzata jihadista nel cuore dell’Eurasia sia il saccheggio delle sue armi non convenzionali. La quadratura del cerchio. Non sorprende che l’approccio dell’America alla Russia oscilli fra due necessità contraddittorie.

La democrazia russa come problema storico
Convinti che queste “necessità” non siano strategicamente incompatibili, pensiamo che due aspetti risultino oggi sotto ogni profilo evidenti: la determinazione americana a ridurre la potenza, i livelli di indipendenza e l’area di influenza internazionale della Russia; e la crescente reazione della gestione Putin ad accettare un processo di lacerazione e smembramento che minaccia la consistenza strutturale e la sovranità del Paese. A maggior ragione in quanto il governo di Mosca ha da affrontare una situazione interna che presenta gravi problemi aggiuntivi e minacce specifiche che provengono dal periodo sovietico, ma che hanno avuto negli anni successivi una recrudescenza impressionante. Il trend demografico negativo ne è, in un certo senso, la somma simbolica.
L’affare Yukos rappresenta in un certo senso il punto di svolta rispetto ad una situazione, come quella degli anni ’90, che al di là dei mutamenti di regime e di strutture faceva intravedere uno stato di coma irreversibile della società e della realtà russe. Merito della gestione Putin è stato ed è, dunque, la decisione di reagire al processo catastrofico e di irrigidirsi di fronte ad una gestione delle cose russe largamente esogena – cioè direttamente o indirettamente americana. Lo fa con scarso rispetto delle forme democratiche e con una cultura ancora priva di quelle dimensioni di soft power che costituiscono lo scudo interno del capitalismo euro-americano.
Ma qui il problema si complica ulteriormente. La storia russa (Ucraina compresa) è tutt’altro che un serbatoio di democrazia. Lo scatto liberatorio del 1917 era stato sì lungamente preceduto dalle lotte e dalle elaborazioni politiche del movimento socialista, ma le esperienze della lotta di classe in materia di preparazione d’una propria democrazia (una “democrazia proletaria”) erano state di necessità parziali, e comunque non tali da potersi comparare nè alle aspirazioni del comunismo in Russia nè alle esperienze dei movimenti operai delle aree di più avanzata industrializzazione. Dapprima la guerra civile e poi lo stalinismo bloccarono la spinta rivoluzionaria sostituendola con la “rivoluzione dall’alto”. A parte l’esplosione rivoluzionaria e le sue dirette conseguenze, non si può parlare di un consistente sviluppo democratico nell’Urss almeno fino a Gorbaciov, quando esso fallì di fronte alla necessità di riforme tanto radicali da scardinare tutto quanto il sistema.
Ma non si può parlare di sviluppo democratico neppure dopo il 1990-91, se è vero che “per la maggior parte della popolazione russa, come rivelano i sondaggi, la parola ‘democrazia’ è sinonimo di rovina e furto organizzato , condotto sotto lo slogan delle privatizzazioni negli anni della presidenza El’cin” (D. Sabov, Democrazia? No, grazie!, “Limes”, n. cit., pp. 89-90). La straripante maggioranza di suffragi di cui gode Putin non è forse la dimostrazione della priorità che la pubblica opinione attribuisce alla sovranità e alla sicurezza del Paese di fronte alla prepotenza americana ed europea? D’altra parte, in un Paese che ha familiarità con i grandi spazi intercontinentali, quali garanzie possono offrire gli Usa del great game eurasiatico e della “guerra infinita”? Occorre qui mettere in chiaro un gigantesco equivoco, forse una ben congegnata truffa culturale, che fa perno sul termine “democrazia”. E dico “sul termine”, poichè la continua ripetizione della parola a prescindere dal concetto e dalla sua ricca, complessa problematica ha impoverito nella mente dell’occidentale medio uno dei concetti fondamentali della storia dell’Occidente stesso, e formativo della modernità borghese. In breve, democrazia significa ora liberismo economico e liberalismo politico, alla sua volta ridotto a elettoralismo liturgico e manomesso. La semplificazione è tanto maliziosa quanto puerile; non è forse considerata, la democrazia, qualcosa di esportabile, e i suoi rituali esigibili come prova di virtuoso progresso politico e culturale? E l’esportazione non è ormai generalmente affidata ad un sistema di imposizioni strutturali e immateriali che è normale – in condizioni ritenute favorevoli – affidare infine ad una spedizione militare in piena regola tecnologica e stragista?
E’ invece certo che una delle condizioni indispensabili alla nascita d’una cultura e pratica di democrazia in Russia – che necessariamente (e auspicabilmente ) avverrà in forma di anamnesi critica dell’arco storico 1917-1991 più che in chiave di assorbimento della ipocrita softness occidentale – è una revisione della politica globale ed euroasiatica degli Usa, revisione che la recente vittoria elettorale di Bush e la cultura e la personalità del condottiero texano, rendono improbabile quantomeno nel prossimo quadriennio. Non possiamo leggere nel futuro, nè siamo in grado di dire in che misura il popolo americano possa sottrarsi ai terribili condizionamenti – economici, mediatici, culturali – della sua stessa libertà. Fino a quella grande revisione, che dovrà attraversare tutto lo schieramento politico americano, la “democrazia” americana rappresenterà il maggiore ostacolo al processo democratico in Russia.
D’altro canto, questo processo democratico ha bisogno d’una autonoma presa di coscienza che tragga alimento proprio dalla peculiare esperienza della Russia (e dell’Ucraina). L’innesco degli anni ’90, come dicevamo, è fallito appunto perché artificioso e forzoso; perché meramente distruttivo; perché esportato da Ovest e troppo semplice. La Russia infatti non ha rappresentato nel secolo breve solo se stessa, ma – nel bene originario e nel male successivo, e nel loro intreccio – valori universali e una tensione generale della storia al superamento del capitalismo che contengono in sè principi di democrazia non degradabili in elettoralismo formalistico, e in mero (e orwelliano) “Stato di diritto” + diseguaglianza sociale + guerre + neolingua + tecnologia onnipotente ecc.
Del resto, fino a quale limite potranno reggere le parole d’ordine del tipo “diritti umani”, “intervento umanitario” e simili, e le pose di liberatori di coloro che inventano guerre, distruggono città e popolazioni, seminano proiettili al plutonio, progettano e gestiscono le varie Guantanamo? In particolare, può il modello Usa di democrazia – che nella stessa esangue Europa solleva dubbi e obbiezioni – avere una validità universale da “fine della storia”? Può esso occultare all’infinito il vero, concreto e visibile universale americano, l’imperialismo della diseguaglianza e della guerra, la cultura aggressiva e predatrice del capitale? Al momento l’esperienza dell’Ucraina, con la sua vistosa complessità e il suo sostanziale dualismo sembra confermare la fortuna di quello che Joseph Joffe definisce il “portare gli altri a votare ciò che vuoi”(cfr. J.S. Nye, Il paradosso del potere americano, Torino, Einaudi, 2002, p. 52). C’è una indubbia abilità e, direi, maligna intelligenza politica nell’inserire quell’universale americano in una esigenza democratica autentica, secondo un gioco strategico che è una morsa che va stringendo il Pianeta. Avremo dunque, secondo un’infausta previsione che risale alla “crisi degli euromissili”, “una fine del mondo attraverso libere elezioni”? (v. L. Cortesi, Storia e catastrofe, Roma, manifestolibri, 2004, p. 168)

L’Ucraina arancione
Un bilancio di quanto è accaduto in Ucraina sembra dunque confermare che il concorso tra autentica aspirazione alla democrazia e strategia americana volta al potere mondiale per il momento funziona. Indipendente dall’agosto 1991, ma ancora amministrata secondo le ormai arcaiche regole del potere concentrato e centralizzato, il Paese ha visto crescere una volontà di espressione “popolare” in senso democratico che ha lungamente fatto da contrappunto alla presidenza Kuchma, il cui atteggiamento filo-russo aveva radici storiche profonde, ma appariva ormai residuale rispetto al settantennale rapporto intersovietico, e soprattutto, rivelava i suoi tipici limiti in materia di rapporto politica-società. Tuttavia, sul piano della forza il settore filo-occidentale dell’opinione pubblica, allocato in prevalenza nell’Ovest del Paese, era bilanciato da un consistente, e sostanzialmente pari, schieramento sociale sbrigativamente definito come russofilo (e in pratica russofono), saldamente insediato nell’Est.
Riflettiamo sui dati delle due ultime tornate elettorali Sia nella prima (21 novembre), sia nella seconda (26 dicembre) i voti al filo-occidentale Yushenko e quelli assegnati al Primo ministro filorusso Yanucovic non sono stati lontani dal 50%, e il candidato perdente ha contestato i risultati con l’accusa di brogli. In mezzo, con notevole oscillazioni, il presidente Kuchma, al potere dal 1994. Il Paese, insomma, è apparso diviso in due parti di forza quasi pari, che tuttavia nel passaggio dalla prima alla seconda votazione si sono squilibrate verso Yushenko (circa 54% contro 44%). I fattori esterni hanno agito pesantemente nel periodo elettorale e nel risultato finale, al punto che questo può considerarsi come l’esito di una vera e propria crisi internazionale, che andrebbe ricostruita nei suoi aspetti e lungo il suo svolgimento; ma noi non consideriamo in questa nota le implicazioni e le pressioni esercitate nel lungo periodo sia da Est che (più particolarmente e con maggior successo) da Ovest. I risultati della (prima) votazione non possono essere accettati come legittimi”, ha dichiarato il 24 novembre la “colomba” Colin Powell, l’eroe-fantoccio di “Tempesta nel deserto”; infatti “i risultati non corrispondono agli standard internazionali” (dalla stampa) e non erano state effettuate inchieste su brogli ed abusi: Intanto, una mobilitazione di piazza accompagnata da varie dichiarazioni eversive si schierava intorno alle sedi del potere a Kiev. A Powell ha fatto eco il Segretario generale della Nato Joap de Hoop Scheffer, che ha addirittura convocato e sgridato l’ambasciatore ucraino a Bruxelles. L’adesione alla Nato (meglio, alla coppia morganatica Nato-Ue) era infatti nei disegni, oltre che dell’Alleanza, di Viktor Yushenko; ed era stata certamente prenegoziata. E’ stato soprattutto questo lo “schiaffo alla Russia” di cui i giornali hanno scritto con maggiore o minore rilievo; ed è stato certamente un brutto colpo per un Putin che appariva in aumento di credibilità.
La contigua Russia non faceva infatti mistero delle sue simpatie per Yanukovic, che è stato visitato e incoraggiato da Putin; treni e bus speciali di elettori ucraini sono partiti da Mosca e da altre località. Ma colpisce che da una distanza ben maggiore il presidente americano avesse “fatto recapitare una lettera a Kuchma invitandolo perentoriamente a non lasciare spazio ai brogli” (dai giornali; per inciso, in nessuna elezione messicana Urss e Russia hanno mai osato tanto); e che il Dipartimento di Stato avesse minacciato “iniziative energiche” se gli elettori ucraini non si fossero allineati con l’Occidente. “Che cosa sono le misure energiche? – ha commentato Lucia Annunziata: – Sanzioni? Blocco commerciale? Rottura delle relazioni diplomatiche? E poi?” (“La Stampa”, 25 novembre). E hanno colpito ancora di più il fatto che la sacrosanta richiesta di democrazia e rinnovamento venisse apertamente sostenuta dalle già sverginate Polonia e Lituania (J.-M. Chauvier, art. cit.: “[…] una guerra fredda escogitata oltre oceano e con degli intermediari a Praga, a Riga e a Varsavia”) e “drogata” da parole d’ordine barricadiere e atteggiamenti da guerra civile da parte di gladiatori molto fotografati e, specialmente, della signora Julia Timoshenko; mentre il Viktor occidentale si autoproclamava vincitore e giurava sulla Bibbia, benedetto per l’occasione da un ormai “arrivato” e paffuto Walesa.
L’atmosfera era dunque di fondamentalismo estremo e lo sfocio possibile, previsto e quasi preconizzato in Occidente, era la guerra civile seguita da una territoriale, tanto da indurre gruppi di manifestanti a solenni dichiarazioni e patti in contrario. Ma anche nel Viktor orientale c’era una inflessibilità che significava, tra l’altro, sprovvedutezza e disabitudine alla mediazione politica. Rappresentare una popolazione mineraria non significa di per sè alcuna intelligenza o arte, o non appartenere ad un ceto separato e supponente.Obbiettava efficacemente Astrit Dakli che tra gli abitanti di L’viv e di Kharkov

non c’è mai stato e non c’è nemmeno adesso l’odio, il risentimento, il disprezzo reciproco che covavano nel ’91 tra i popoli conviventi sotto il coperchio della Jugoslavia. La rottura in atto oggi è una rottura fra élites politiche ed economiche, che vogliono il potere sull’intero Paese e per averlo puntano su alleanze esterne opposte: solo in misura marginale – e alimentata grandemente dall’esterno – è anche una rottura fra popolazioni legate a un determinato territorio (Chi soffia sul fuoco ucraino, “il manifesto”, 25 novembre).

Alla fine la guerra geopolitica – pur pericolosamente rivestita di etnicismo spurio, di religione, di false identità – non ha richiesto spargimento di sangue. Disturba il fatto che tutto, veramente tutto, anche il non accaduto, era già annunciato negli scenari della Cia, e preventivamente stabilito nella sua contabilità. Scenari e crematistica le cui matrici stanno nel Pentagono, così come la strategia è grosso modo quella del documento del settembre 2002, e nella Casa Bianca, i cui capitoli assai più stragisti che democratici si consumano intanto in altre parti del mondo.
E la strategia non si ferma qui, perché quello dell’Ucraina è un ulteriore passo del nuovo Drang nach Osten in veste di marcia della democrazia; ciò che risulta anche dall’inclusione della Bielorussia nella lista degli “avamposti della tirannia” indicati da Condoleezza Rice nel discorso del 18 gennaio al Senato. Perché a Washington si programma (e in Europa si accetta) il cammino della storia come se Clio si baloccasse con un pallottoliere, e la conta delle democrazie ogni tanti registrasse un “+ 1”, ottenuto con i “due pesi e due misure”, una volta dal leone e un’altra dalla volpe, cioè da sapienti miscelature di hard e di soft power, e così fino alla “fine della storia” in una paradisiaca Beozia capitalistica.
Dove democrazia significa, alla fine, complice dipendenza dagli Usa, Washington consensus, governi più o meno Quisling con regolari elezioni e basi militari, con miseria crescente e larga distribuzione di edonismo ai colonizzati – scarpe di gomma, blue jeans, aerobica, latte e medicinali scaduti, sesso mercificato – come le palline colorate di Vasco da Gama. Per non parlare degli emarginati e dei sofferenti di casa nostra. Tutto il contrario, insomma, di quella “democrazia come valore e come programma” che comporta di necessità un “rilancio della politica” nel senso dell’internazionalismo come “unica forma di realismo adeguata ai tempi” (A. Caffarena, A mali estremi. La guerra al terrorismo e la riconfigurazioone dell’ordine internazionale, Milano, Guerini, 2004, pp. 36-39 e passim).

Quale Europa?
Ma che significa, dunque, democrazia? La democrazia come istanza dal basso, come esigenza popolare di libertà e giustizia, era senza dubbio un’attrice del dramma; ma essa è stata ridotta al rango di comprimaria occasionale dalle grandi manovre della “comunità internazionale” e funzionalizzata, in sostanza, ad un’operazione imperialistica di regime change, in attesa di essere setacciata dal punto di vista degli interessi sociali della comunità stessa e degli Stati-leaders: tra i quali non vanno dimenticate l’Europa e le sue singole Potenze. A proposito: dov’erano? Questa rivista ha dedicato all’Europa analisi serie, e un’attenzione crescente, la quale nasce dall’auspicio, regolarmente frustrato, che dall’interno delle tradizioni positive delle società del “vecchio continente” (il laicismo, il pacifismo, il movimento operaio, il socialismo, la Resistenza, la capacità di sviluppare il dubbio critico e di radicalizzare gli interessi delle masse proletarie e popolari contro la bestialità dei cosiddetti “poteri forti”, che sono il potere” tout court” e oggi lo strapotere mondiale degli Usa) rinascano le forze sociali e le idee che facciano luce sul cammino della storia. Che ristabiliscano nella sua essenza e nella sua positiva funzione conflittuale la lotta di classe del proletariato mondiale contro gli Stati-guerra e le perversioni della globalizzazione. Ma si tratta, per ora, di vane speranze.

Se è vero – scriveva più d’un anno fa Enrico M. Massucci a proposito di Carta costituzionale, rifacendosi ad un articolo di Ida Dominijanni – che dire “Europa” oggi significa inevitabilmente fare i conti con il mondo nato dalla crisi che si è aperta con l’11 settembre e le successive guerre, […] allora è conseguente che la definizione del costruendo nuovo assetto continentale marca nel rapporto con gli Usa il suo elemento centrale. Ed è qui che si sconta il limite più grande delle aspettative circa le ‘magnifiche sorti’ dell’Europa: tenere artificiosamente disgiunti i termini del binomio guerra-neoliberismo […] (Europa, Venere ambigua e illusoria, “Giano”, n. 45, dicembre 2003, pp. 47-56, v. pp. 49-50).
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Sempre in tema di Europa, Domenico Di Fiore ha rilevato “una rotta di collisione con i migliori frutti della sua Kultur” (Tra vecchi nazionalismi, pressioni Usa, classismo dei potenti: quale Europa?, “Giano”, n. 47, settembre 2004, pp. 15-23 – v. p. 21) e Gaetano Arfè ha parlato di “un’Europa senz’anima”, priva cioè della “coscienza di una propria funzione nel quadro mondiale” (ivi, pp. 53-64, v. p. 63).
Ora il problema determinante – nuovamente emerso con la crisi ucraina – è che i soggetti europei non sono usciti dalla loro inerzia, la quale non è solo subalternità di imperialismi minori o di progettualità politiche atrofizzate, ma compartecipazione consapevole agli interessi generali dell’imperialismo complessivo. Da un lato impedita dai nuovi adepti orientali filoamericani, dall’altro incapace di iniziativa autonoma, la “vecchia Europa” che sta dentro l’ormai ipertrofica e paralizzante Ue-Nato ha accettato di buon grado i vantaggi geopolitici finali della crisi senza neppure troppo entusiasmarsi per l’aspetto di vittoria democratica e popolare. Non parliamo, ovviamente, dell’Italia, che sotto il dominio della “cricca affaristico-delinquenziale” di Berlusconi (Asor Rosa, cfr. A. Cazzullo, “Corriere della sera”, 16 gennaio) , ha perso ogni serietà e ogni voce propria in campo internazionale. Anche per questa latitanza dei grandi Paesi euro-occidentali ciò che di autentico c’è stato in quello slancio e in quella vittoria è dunque destinato ad essere riassorbito nella geometria generale dell’imperialismo. Così accadde alle “rivoluzioni” del 1989, delle quali i fatti di Kiev sono stati anche considerati come una postuma propaggine.
Un buon tema di analisi anche questo, che lasciamo ad una prossima discussione; anche perchè è nostra impressione che una partita così complessa non sia definitivamente chiusa.

http://lists.peacelink.it/conflitti/msg00874.html

Piani strategici americani

Guida Gaetano  

Abbiamo riscontrato indizi, testimonianze, comportamenti che ci inducono a pensare che ciò che ci è stato raccontato riguardo 1’11 settembre sia ben lontano dalla verità. Ma non solo. Dopo essere venuti a sapere tutte queste cose, tutti noi non possiamo più escludere l’ipotesi più estrema riguardo quel giorno: è possibile che il governo americano abbia agevolato, o addirittura organizzato gli attentati terroristici dell’ Il settembre? E’ possibile che il governo americano abbia deliberatamente ucciso 3000 suoi concittadini? E’ possibile che siamo stati tutti ripetutamente e sfacciatamente presi in giro? Non lo sappiamo se è possibile. Forse non lo sapremo mai. Probabilmente, però, la domanda più importante è un’altra: perché? Se anche le nostre ipotesi “estreme”, “complottiste”, si rivelassero. un giorno esatte, ci chiederemo sempre: perché? Esiste un motivo, una ragione per cui sia giusto uccidere tanta gente, per cui sia giusto mentire per tanti anni? Secondo me non esiste. Però mi sono sforzato di cercarla. E qualcosa ho trovato. Non so se è stato proprio questo a spingere il governo americano ad agire in quel modo, e neanche mi interessa: quello che hanno fatto è imperdonabile, e nulla potrà mai giustificarlo.

Comunque, per completezza di informazione, illustrerò quello che ho scoperto. Si tratta di due documenti eccezionali, che trattano del futuro del nostro pianeta e del ruolo che in esso gli Stati Uniti dovranno giocare.

Il primo è uno studio del 1997 del “Council on Foreign Relations” (CFR), redatto da un consulente strategico USA di vecchia data, già consigliere per la Sicurezza Nazionale sotto l’amministrazione Carter, e cioè Zbigniew Brzezinski. Argomento principale di questo studio (intitolato “The Grand Chessboard”, la grande scacchiera) è il fatto che l’Asia centrale è uno strumento essenziale per il controllo del pianeta, insieme alle approfondite pianificazioni strategiche per un futuro intervento americano nella regione. La trattazione entra nei minimi dettagli per ciò che riguarda gli interessi statunitensi in Eurasia e la necessità di un coinvolgi mento “prolungato e diretto” degli USA in Asia centrale, allo scopo di tutelare questi interessi. In questo contesto, Brzezinski nota come la chiave per il dominio sull’Eurasia sia nel controllo delle repubbliche dell’ Asia centrale, tra cui l’Afghanistan. L’ex consigliere riconosce poi in Russia e Cina le due principali potenze che potrebbero minacciare gli interessi USA nella regione; ed è la Russia la minaccia maggiore. Gli USA devono di conseguenza riuscire a manipolare le potenze “minori” circostanti, come l’Ucraina, l’ Azerbaigian, l’Iran e il Kazakhstan, cosi da contrastare le mosse della Russia e della Cina per controllare il petrolio, il gas, e i minerali delle repubbliche dell’Asia centrale, e cioè il Turkmenistan, l’Uzbekistan, il Tadzikistan e il Kyrghizistan. L’autore nota inoltre come una nazione che diventasse predominante nell’ Asia centrale rappresenterebbe una minaccia diretta al controllo americano delle risorse petrolifere. Le repubbliche dell’ Asia centrale, egli osserva, “sono importanti dal punto di vista della sicurezza e delle ambizioni storiche per almeno tre dei più prossimi e più potenti vicini, e cioè la Russia , la Turchia e l’Iran, mentre anche la Cina mostra un crescente interesse politico per la regione”.

Ma i ‘Balcani eurasiatici’ sono infinitamente più importanti come potenziale preda economica: nella regione c’è un ‘enorme concentrazione di riserve di gas naturali e di petrolio, oltre a importanti miniere tra cui l’oro. L’impetuoso sviluppo economico dell’Asia sta già generando massicce spinte verso la ricerca e lo sfruttamento di nuove fonti di energia, ed è risaputo che le regioni dell’Asia centrale e del bacino del Mar Caspio contengono riserve di gas naturali e di petrolio che potrebbero far apparire ridicole quelle del Kuwait, del Golfo del Messico o del Mare del Nord. Il Kazakhstan è lo scudo e l’Uzbekistan l’anima dei vari risvegli nazionali della regione. L’Uzbekistan è, di fatto, il primo candidato alla guida dei paesi dell’Asia centrale. Una volta che saranno costruiti gli oleodotti diretti verso quell’area, le riserve, veramente ampie, di gas naturali del Turkmenistan garantiranno un futuro prospero alla popolazione del paese. Di fatto, il revival islamico fornirà probabilmente l’impulso a mobilitarsi per un nuovo nazionalismo, sempre più dilagante e determinato a opporsi a qualsiasi ritorno sotto il controllo dei russi Da tutte queste argomentazioni l’autore ha poi ricavato: “Ne segue che è primario interesse dell’America contribuire a far sì che nessuna singola potenza conquisti il controllo di questo spazio geopolitica, e che la comunità globale possa avervi accesso finanziario ed economico senza incontrare alcun ostacolo”.

“L’America è ora l’unica superpotenza globale, e I ‘Eurasia è l’arena centrale del globo. Ne segue che quel che accade quanto a distribuzione delle aree di influenza nel continente eurasiatico sarà di decisiva importanza per il primato globale dell’ America, e per il retaggio storico dell’America. Se non c’è un coinvolgimento americano diretto e prolungato, in tempi non così lunghi le forze del disordine globale potrebbero giungere a dominare la scena del pianeta”.

Queste osservazioni di Brzezinski sono strettamente legate al principale punto d’interesse del CFR, cioè il mantenimento del dominio globale statunitense:

“L’ultimo decennio del XX secolo ha visto un colossale cambiamento della situazione mondiale. Per la prima volta una potenza non eurasiatica, gli Stati Uniti, è divenuta non solo il principale arbitro delle relazioni tra le potenze eurasiatiche, ma anche la potenza suprema del pianeta. Ma adesso è assolutamente necessario che non emerga nessuno sfidante eurasiatico capace di dominare l’Eurasia, e quindi anche di sfidare l’America. Lo scopo di questo libro è dunque la formulazione di una geostrategia eurasiatica complessiva e integrata. Per l’America, la principale posta in gioco è l’Eurasia. In tale contesto, il modo in cui l’America gestisce l’Eurasia è un elemento critico. Si tratta del più vasto continente del globo, che totalizza i tre quarti delle risorse energetiche conosciute. La potenza che lo dominasse controllerebbe due delle tre aree più avanzate ed economicamente produttive. Basta inoltre un semplice sguardo alla cartina geografica per cogliere che il controllo dell’Eurasia comporterebbe quasi automaticamente la subordinazione dell’Africa, rendendo l’emisfero occidentale e l’Oceania geopoliticamente periferici rispetto al continente centrale del mondo. Quindi può darsi che gli Stati Uniti debbano decidere come affrontare coalizioni nazionali che cercassero di spingere l’America fuori dall ‘Eurasia, minacciando così il suo status di potenza globale .”.

Allargando il discorso, Brzezinski osserva: “Visti i segnali d’allarme che appaiono in Europa e in Asia, la politica americana, per essere vincente, dovrebbe focalizzarsi sull’Eurasia nel suo complesso ed essere guidata da un progetto geostrategico. Ciò pone l’accento sulle manovre e la manipolazione necessarie a prevenire l’emergere di una coalizione ostile che possa cercare di minacciare il primato dell’America. Il compito più immediato è quello di assicurare che nessuno Stato o unione di Stati conquisti la capacità di espellere gli Stati Uniti dall’Eurasia, o anche di sminuirne in modo significativo il decisivo arbitrato. Alla lunga, la politica globale diventerà sempre meno congeniale alla concentrazione del potere egemonico nelle mani di un singolo Stato. E quindi l’America non solo è la prima, oltre che la sola, vera superpotenza globale; ma probabilmente è anche destinata a essere l’ultima “.

Quello che afferma subito dopo l’ex consigliere alla Sicurezza Nazionale è di fondamentale importanza: “Inoltre, dato che l’America sta diventando una società sempre più multiculturale, può essere difficile suscitare consenso sulle questioni di politica estera, eccetto che nel caso di una minaccia esterna diretta, veramente grande e percepita in modo generalizzato”.

Tutto questo dovrebbe essere messo a confronto con la precedente affermazione: “L’atteggiamento del popolo americano verso la proiezione esterna del potere USA è stato molto ambivalente. L’impegno americano nella seconda guerra mondiale in gran parte è stato sostenuto a causa dell’effetto scioccante dell’attacco giapponese a Pearl Harbor”.

In pratica, Brzezinski sembra suggerire che solo un attacco contro gli Stati Uniti nello stile di Pearl Harbor sarebbe sufficiente a generare il sostegno interno richiesto per mettere in atto la sua grande strategia geopolitica.

Il secondo documento di cui parlerò è altrettanto esplicito. Si tratta di un progetto, scoperto dal “Sunday Herald”, per la creazione di una “Pax Americana globale”, redatto per Dick Cheney (l’odierno vicepresidente), DonaId Rumsfield (segretario alla Difesa), Paul WoIfowitz (vice di Rumsfield), Jeb Bush (fratello minore del presidente) e Lewis Libby (il capo dello staff di Cheney). TI documento, intitolato “Rebuilding America’s Defences: Strategies, Forces and Resources For A New Century” e disponibile al link http://www.newamericancenturv.org/RebuildingAmericasDefenses , fu scritto nel settembre 2000 dal “think­tank” neoconservatore chiamato “Project for The New American Century” (PNAC). Altri membri dell’amministrazione Bush che contribuirono al rapporto sono John Bolton (sottosegretario di Stato), Stephen Cambone (capo dell’Ufficio Programma, Analisi e Valutazione del Pentagono), Devon Gross (membro del Consiglio Politico della Difesa) e Dov Zakheim (controllore della gestione del dipartimento della Difesa).

Il piano delineato in questo documento del PNAC rappresenta le posizioni di fondo del gabinetto Bush e vale perciò la pena di esaminarlo in qualche dettaglio. In buona sostanza il documento sostiene un “progetto per conservare la supremazia globale USA, precludere l’ascesa di una grande potenza rivale e plasmare l’ordine della sicurezza internazionale in linea con i principi e gli interessi americani”. In questa vena, le forze armate statunitensi operanti all’estero sono descritte come “la cavalleria della nuova frontiera americana”. Una

“missione cardine” della “cavalleria” è “combattere e vincere nettamente più guerre simultanee su importanti teatri”. Al fine dunque di preservare la “Pax Americana globale”, il rapporto sostiene che le forze USA devono assolvere “compiti di polizia”: in altre parole, agire come poliziotto del mondo scalzando così le Nazioni Unite. Le missioni di “peacekeeping”, per esempio, “richiedono una guida politica americana anziché quella delle Nazioni Unite”. Per assicurare questa condizione e impedire a un qualsiasi paese di sfidare gli Stati Uniti si prosegue, deve essere promossa in tutto il mondo una presenza militare USA molto più ampia, che vada ad aggiungersi alle circa 130 nazioni dove già stazionano forze americane. A tal fine vanno istallate basi militari permanenti in Medio Oriente, nell’Europa sud-orientale, nell’ America Latina e nel sud-est asiatico, dove in precedenza non ne esistevano.

Ai fini di questo studio, il progetto del PNAC mostra in particolare che il gabinetto di Bush aveva programmato di stabilire il controllo militare sul Golfo Persico a prescindere da Saddam Hussein e da qualsiasi minaccia il suo regime potesse aver posto al mondo. “Gli Stati Uniti cercano da decenni di svolgere un ruolo più stabile nella sicurezza regionale del Golfo “, fa notare il documento. “Anche se il conflitto irrisolto con l’Iraq fornisce la giustificazione immediata, il bisogno di una presenza consistente di forze americane nel Golfo trascende il problema del regime di Saddam Hussein “. In un colpo solo il documento sfata il mito che il piano di Bush di invadere l’Iraq fosse dettato principalmente da preoccupazioni relative al regime di Saddam come le armi di distruzione di massa. Ma l’Iraq è solo l’inizio. Tra gli altri punti pertinenti sollevati dal rapporto del PNAC c’è il fatto che, “anche qualora Saddam uscisse di scena”, gli Stati Uniti intendono conservare a tempo indeterminato basi militari in Arabia Saudita e Kuwait, malgrado l’opposizione interna.

Il documento elenca inoltre vari altri stati come pericolosi fuorilegge che rappresentano una minaccia per i disegni americani, vale a dire Corea del Nord, Libia, Siria e Iran. L’esistenza di questi regimi richiede l’istituzione di un “sistema di comando e controllo mondiale” sotto la guida di Washington. L’Iran, in particolare, “potrebbe rivelarsi una grave minaccia agli interessi statunitensi tanto quanto l’Iraq”, sollevando lo spettro di un altro intervento USA. Peggio ancora, il documento propugna un “cambiamento di regime” in Cina, da sostenere aumentando “la presenza di forze americane nel sud-est asiatico” affinché “la forza americana e alleata” fornisca “lo sprone per il processo di democratizzazione in Cina”. Anche l’Europa viene additata come un potenziale rivale degli Stati Uniti.

Ma forse l’elemento più inquietante del progetto del PNAC per l’egemonia globale è l’ammissione che il piano non può essere realizzato senza che gli Stati Uniti conoscano una qualche sorta di crisi senza precedenti. Facendo eco alle osservazioni del geo-stratega Zbigniew Brzezinski, il documento PNAC del settembre 2000 fa notare, come riferisce “ABC News”, che “il passaggio a una politica mediorientale più decisa . si avrebbe lentamente, a meno che non ci fosse qualche evento catastrofico e catalizzatore, come una nuova Pearl Harbor”. Nelle parole del PNAC:

“Ogni serio tentativo di trasformazione deve avvenire entro la più ampia cornice della strategia di sicurezza nazionale, delle missioni militari e dei bilanci della difesa USA. Inoltre il processo di trasformazione, anche se determinerà cambiamenti rivoluzionari, sarà probabilmente lungo, in assenza di qualche evento catastrofico e catalizzatore, come una nuova Pearl Harbor”.

L’evento in stile Pearl Harbor che auspicavano sia Brzezinski sia il PNAC è arrivato 1’11 settembre 2001.

Guida Gaetano

Un talebano val bene l’URSS
autout – Geopolitica 09.11.2001

Dal libro più importante di Zbygniew Brzezinsky consigliere di Jimmy Carter, capo degli strateghi USA, “creatore” delle scuole coraniche e dei Mujaheddin in funzione antisovietica.

Zbygniew Brzezinsky (consigliere di H.Kissinger), da La grande scacchiera

“L’Eurasia occupa la scacchiera sulla quale si svolge la lotta per il dominio sul mondo. La maniera in cui gli Usa ‘gestiscono’ l’Eurasia è di importanza cruciale. Il più grande ‘continente’ sulla faccia del pianeta ne costituisce anche l’asse geopolitico. Qualunque potenza che la controlli, controlla anche due delle tre aree più sviluppate e maggiormente produttive. Il compito più urgente per gli Usa è sorvegliare affinché nessuno stato o gruppo di stati abbia la possibilità di cacciarli dall’Eurasia o anche solo di indebolirne il ruolo di arbitro.”

_________________________

Zbigniew Brzezinsky:
Come io e Jimmy Carter abbiamo creato i Mujaheddin



Intervista a Zbigniew Brzezinsky da Le Nouvel Observateur (Francia) 15
Gennaio 1998 pag. 76.

Domanda: Il precedente direttore della CIA, Robert
Gates, ha dichiarato nel suo libro di memorie (?Dalle ombre?), che i
servizi segreti americani hanno cominciato ad aiutare i Mujaheddin Afghani
sei mesi prima dell’intervento sovietico in Afghanistan. In questo periodo
lei era il consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Carter.
Lei ha quindi giocato una parte in tutto questo, vero?

Brzezinsky: Si’. Secondo la versione ufficiale della faccenda, gli aiuti ai
Mujaheddin da parte della CIA sono cominciati durante il 1980, ovvero, dopo
che l’armata rossa aveva cominciato l’invasione dell’Afghanistan il 24
Dicembre 1979. La realta’, rimasta fino ad oggi strettamente celata, e?
completamente diversa: e’ stato il 3 luglio 1979 che il presidente Carter
ha firmato la prima direttiva per aiutare segretamente gli oppositori del
regime filo sovietico di Kabul.
Quello stesso giorno ho scritto una nota al presidente nella quale si
spiegava che a mio parere quell’aiuto avrebbe determinato un intervento
armato dell’unione sovietica in Afghanistan.

D: nonostante questo rischio lei ha sostenuto questa azione segreta. Ma lei
stesso desiderava questo intervento sovietico ed ha cercato di provocarlo?

Brzezinsky: non e’ proprio cosi?. Non abbiamo spinto i russi ad
intervenire, ma abbiamo consapevolmente aumentato le probabilita’ di un
loro intervento.

D: quando i sovietici hanno giustificato il loro intervento con la
necessita’ di contrastare un coinvolgimento segreto degli Stati uniti in
Afghanistan, nessuno li ha creduti. Invece c’era un fondamento di verita’.
Lei ha qualche rimorso, oggi?

Brzezinsky: rimorso di che tipo? Quell?operazione segreta e’ stata
un’ottima idea. Ha avuto l’effetto di attirare i Russi nella trappola
Afghana ed io dovrei pentirmene? Il giorno che i sovietici hanno varcato il
confine afghano ho scritto al presidente Carter che finalmente avevamo
l’opportunita? di dare all’Unione Sovietica la sua guerra del Vietnam.
Infatti per circa dieci anni Mosca ha dovuto portare avanti una guerra
insostenibile da parte del governo, un conflitto che ha demoralizzato ed
infine sgretolato l’impero sovietico.

D: e nessuno di voi e’ pentito di avere supportato l’integralismo ed il
terrorismo islamico con armi ed addestramento?

Brzezinsky: cosa e’ piu’ importante per la storia del mondo? I talebani od
il collasso dell?impero sovietico? Qualche musulmano esaltato o la
liberazione dell’europa centrale e la fine della guerra fredda?

D: qualche esaltato musulmano? Ma e’ stato detto e ripetuto che il
fondamentalismo islamico rappresenta oggi una minaccia mondiale.

Brzezinsky: balle. Si dice che l’occidente abbia una politica globale
riguardo all’islam. Cio’ e’ stupido. Non esiste un Islam globale. Prova a
guardare all’Islam in modo razionale e senza demagogia o emozione. E’ la
religione principale al mondo ed ha un miliardo e mezzo di seguaci. Ma cosa
lega il fondamentalismo Saudita, la moderazione di stati quali il Marocco,
il militarismo Pakistano, il filo occidentalismo Egiziano e gli stati laici
dell?Asia centrale? Nulla piu’ di cio’ che unisce le nazioni cristiane.


Il mondo al buio
il manifesto 
numero  42  settembre 2003
L’IMPERIALISMO DEL PETROLIO
Joseph Halevi  

1. Imperialismo e petrolio: dalla ricerca di sbocchi all’indebitamento Nel 1898, anno della guerra ispano-americana che, con la conquista delle Filippine, portò Washington nel cuore dell’Asia Orientale, il Dipartimento di Stato emise la seguente nota:
Sembra assodato che ogni anno dovremo far fronte ad un crescente sovrappiù di manufatti da vendere sui mercati esteri se vogliamo che i lavoratori e gli artigiani americani mantengano la loro occupazione anno dopo anno. L’espansione del consumo estero dei prodotti delle nostre fabbriche e officine è, quindi, diventata un serio problema dell’arte della politica nonchè del commercio (da Zinn, p.5, mia traduzione, J.H.)[1].
L’approdo di Washington in Asia trasformò la Cina nel terreno di attuazione delle idee sintetizzate nella nota, dando luogo in tal modo alla traiettoria che lentamente ma inesorabilmente porterà allo scontro con il Giappone [2]. Se la guerra ispano-americana segnò l’emergere degli Usa come paese imperialista nel senso industriale, il secondo conflitto mondiale comportò il crollo della molteplicità degli imperialismi e l’assunzione da parte degli Stati Uniti del ruolo di coordinatori globali del capitalismo. Tuttavia la nuova posizione americana mise rapidamente in moto dei meccanismi che entravano in conflitto con l’imperialismo industriale. Nel 1950 si manifestò il primo deficit nella bilancia dei pagamenti di Washington il cui alterno ripetersi finirà per segnare in maniera irreversibile la crisi del sistema di Bretton Woods nel 1971. Da quella data l’ulteriore crescita del deficit Usa è stata tale da eliminare ogni spiegazione strettamente economica riguardo al suo continuo rifinanziamento. Quest’ultimo dipende invece sia dalla volontà politica dei paesi creditori a sostenere le passività americane, sia dalla capacità di Washington di allargare la sfera d’influenza del dollaro. A ogni stadio dell’evoluzione dell’imperialismo americano, da industriale a egemonico e infine a deficitario e in declino, troviamo il petrolio.
2. Il petrolio: dall’imperialismo industriale al militarismo keynesiano Il settore petrolifero fu uno dei primi comparti dell’economia nazionale in grado di estendere gli interessi delle corporations statunitensi nel mondo. Nell’ultimo decennio dell’Ottocento l’utilizzo del petrolio era negli Usa assai più ampio che altrove per via dell’attaccamento della Gran Bretagna e della Germania alle proprie fonti di carbone. Inoltre le strategie di Rockefeller avevano consolidato in senso oligopolistico le società petrolifere. Queste hanno quindi agito da battistrada nella nascita del complesso di compagnie multinazionali americane. All’indomani del primo conflitto mondiale l’ambasciatore americano a Londra, un petroliere, chiese, ottenendone soddisfazione, alla Gran Bretagna di aprire in Medioriente spazi per le società petrolifere Usa. Il tutto succedeva quando gli Stati Uniti, essendo i maggiori esportatori di greggio, non abbisognavano di importazioni. Si trattava unicamente di una strategia imperialista diretta a conquistare le fonti estrattive indipendentemente dalla domanda interna. Nel 1928 le compagnie britanniche, francesi e americane in Medioriente firmarono un’alleanza oligopolistica che sanciva la spartizione di eventuali nuovi giacimenti. Tale accordo venne però denunciato dalle società americane nel 1947. Infatti nel 1945 avvenne lo storico incontro tra il presidente Roosevelt e il re saudita, in cui fu verbalmente siglato un patto in base al quale Washington garantiva la protezione e la stabilità della monarchia saudita in cambio del controllo delle risorse petrolifere. Formalmente le compagnie americane si svincolarono dall’accordo del 1928 sostenendo che esso era collusivo e quindi contro lo spirito di concorrenza. Immediatamente dopo però ottennero, come previsto dall’incontro del 1945, prossoché la totalità delle concessioni saudite annientando gli interessi inglesi [3] (Shalom,1990).
Il nocciolo della questione fu comunicato senza mezzi termini dall’allora segretario di Stato Byrnes al Segretario alla Marina Forrestal: «Non mi importa quale compagnia o compagnie americane sviluppino le riserve arabiche. Tuttavia penso nel modo più fermo che esse debbano essere americane» (citato da Shalom, 1990). La stessa sorte toccò alle compagnie petrolifere britanniche in Iran. Oggi sappiamo, grazie ai lunghi documenti pubblicati dal «New York Times» pochi anni fa che fu Londra a chiedere l’intervento della Cia per abbattere il governo di Mossadeq che aveva voluto la nazionalizzazione della Anglo-Iranian Petroleum Company. Appena eseguito il colpo di Stato (1953), le società Usa ricevettero il 49% delle concessioni iraniane che prima della nazionalizzazione andavano quasi interamente alle società britanniche. La strategia americana non era quindi volta a togliere spazi ai sovietici, che in quelle zone erano inesistenti, bensì a ridurre ai minimi termini l’influenza europea, mentre contemporaneamente sostenevano in Europa la formazione di un nucleo economico altamente integrato alla Germania. Tale dinamica è comprensibile solo nell’ambito concettuale del superimperialismo e richiede pertanto una discussione.
Byrnes e Forrestal erano, con George Kennan, gli architetti del globalismo postbellico di Washington. Furono loro a perseguire scientemente una politica di indebolimento della Gran Bretagna, sia colpendone gli interessi petroliferi che precludendo, contrariamente al comportamento verso gli altri paesi europei, ogni sostanziale moratoria sui debiti pregressi [4]. Le azioni americane ebbero effetti molto rapidi aggravando la già difficile situazione della bilancia dei pagamenti britannica, che entrò definitivamente in crisi nel 1947, obbligando Londra a sospendere sine die la convertibilità della sterlina. Il declassamento della moneta inglese, che in base agli accordi di Bretton Woods avrebbe dovuto fungere da spalla al dollaro, e la conseguente impossibilità della Gran Bretagna di controllare il Medioriente e di sostenere il governi della Turchia e della Grecia, comportò lo spostamento dell’asse direzionale di Washington. Il rapporto privilegiato con Londra fu abbandonato a favore della priorità della ricostruzione del Giappone in Asia e della Germania riarmata in Europa [5]. Dal 1947 al 1956 gli Usa scalzarono sistematicamente la Gran Bretagna dalle sue zone di influenza puntando simultaneamente sul Medioriente e sul Giappone. Infatti in quest’ultimo caso l’ammissione di Tokyo al Gatt (The General Agreement on Tariffs and Trade, l’Accordo sulle tariffe e sul commercio poi Organizzazione mondiale del commercio, Wto) senza l’obbligo di applicare le regole di reciprocità commerciale implicò lo sfaldamento del sistema di preferenze imperiali, le quali, trasferite di peso al Commonwealth, governavano gran parte delle relazioni commerciali britanniche [6]. Pertanto la tesi geopolitica di Zbigniew Brzezinski è corretta: la potenza capace di controllare l’area mediorientale ? che Brzezinski, scrivendo nel 1997 estende all’Afghanistan e all’insieme dell’Asia Centrale ex sovietica ? condizionerà in maniera determinante l’evoluzione degli altri due centri della produzione mondiale rappresentati dall’Europa e dal Giappone [7].
Con il nuovo globalismo Washington afferrava due piccioni con una fava. Gli Stati Uniti fornivano trasferimenti (Piano Marshall), crediti, investimenti diretti, macchinari e derrate alimentari. Il tutto dipendeva in maniera assoluta dalle forniture di greggio di cui gli Usa si presentavano come i soli garanti attraverso la congiunzione della geopolitica statuale con gli interessi delle loro multinazionali. In questo modo venivano unificati gli interessi finanziari connessi al flusso degli investimenti diretti all’estero, alla dollarizzazione delle transazioni commerciali, ai crediti, con quelli delle società multinazionali americane operanti nel settore delle materie prime e del petrolio. Il complesso militar-industriale era poi l’architrave che teneva in piedi questi interessi. Il mondo capitalistico riceveva dollari dagli Usa che poi venivano spesi per comprare greggio, derrate, macchinari, aerei di linea.
Fintanto che questo processo produceva eccedenze nella bilancia commerciale Usa e facilitava l’espansione delle multinazionali americane, il circuito internazionale del dollaro non creava tensioni negli Stati Uniti. Specularmente, finché la preoccupazione principale era l’eventualità di una scarsezza di dollari, ogni misura volta ad aumentare il loro flusso era ben venuta nel resto del mondo capitalista. L’elemento centrale del circuito del dollaro non era però il commercio in prodotti industriali e derrate provenienti dagli Usa, sebbene quantitativamente le esportazioni nette dell’industria Usa fossero preponderanti. L’asse portante del circuito era costituito dalle transazioni mondiali in materie prime e nel petrolio in particolare. Il possesso americano delle materie prime e il finanziamento dei loro flussi tramite dollari era ciò che distingueva il super-imperialismo post-bellico Usa dai multipli imperialismi perennemente in conflitto vigenti sino al 1945. Infatti ciascuno dei diversi imperialismi aveva una sua zona monetaria e un suo retroterra di materie prime. La periferia fungeva da polmone che regolava la bilancia dei pagamenti del paese imperialista ripianandone gli eventuali deficit.
Nel nuovo scenario i paesi del Terzo Mondo dovevano rimanere in una situazione di dipendenza neocoloniale in quanto la loro funzione era di fornire materie prime a buon mercato, condizione per la ricostruzione della Germania (Europa) e del Giappone, permettendo contemporaneamente alle compagnie multinazionali di ottenere buoni margini di profitto. Nel settore petrolifero la struttura oligopolistica era tra le più avanzate, caratterizzata da una precisa struttura gerarchica. Al vertice dominavano le ?sette sorelle’ seguite da un gruppo di compagnie minori anch’esse oligopolistiche nella loro sfera di mercato. La politica di sostenere i profitti delle proprie multinazionali dell’energia e di garantire il flusso di materie prime all’Europa e al Giappone portò allo scontro militare con tutti movimenti terzomondisti. Ne consegue che il keynesismo militare su cui si è basato il lungo boom postbellico aveva le sue radici nelle guerre contro i movimenti di liberazione nazionale e non nella contrapposizione all’Unione Sovietica [8].
3. Dopo il keynesismo militare La guerra nel Vietnam acuì il deficit americano e indusse sfiducia nel dollaro quale perno del sistema di Bretton Woods, obbligando Nixon ad abbandonare le parità fisse e premere per la liberalizzazione della bilancia dei pagamenti in conto capitale. Infatti solo importando capitali Washington poteva continuare a finanziare gli Stati satelliti come l’Iran, Israele, Thailandia, ecc. e sostenere anche un deficit nei conti correnti con l’estero. Gli anni Settanta costituiscono pertanto un periodo di crisi profonda per gli Usa, in termini di direzione economica e politica. I governi di Nixon e Ford appoggiavano la svalutazione del dollaro per riconquistare competitività rispetto alle importazioni nipponiche e contemporaneamente operavano per riaffermare la centralità internazionale della moneta Usa. Ancora una volta in questo scenario appare in maniera cruciale il petrolio associato ora al ruolo di Henri Kissinger. Quest’ultimo, in alleanza con le società petrolifere che volevano un aumento della presenza Usa nel Medioriente, fece saltare la politica del Dipartimento di Stato ? volta, nel biennio 1969-1970, ad attuare le risoluzioni dell’ONU concernenti l’occupazione israeliana ? per sostenere l’alleanza strategica con Tel Aviv [9].
La politica di Kissinger partorì la guerra dell’ottobre 1973 e la conseguente crisi petrolifera. In completa continuità con l’obiettivo di controllare il flusso mondiale delle risorse e di mantenere la centralità del dollaro Kissinger, per sua stessa ammissione, lottò per un aumento del prezzo del greggio oltre ogni richesta proveniente dall’Opec contando sul fatto che l’entità dell’incremento avrebbe colpito l’Europa e il Giappone in misura maggiore che gli Stati Uniti [10]. Sebbene l’ipotesi di Kissinger fosse esatta, la politica seguita da Nixon e Ford di svalutare il dollaro, mantenendone contemporaneamente la centralità internazionale, per ridurre il deficit, risultò contraddittoria. Il ruolo del dollaro veniva a dipendere dalla capacità di impartire impulsi inflazionistici all’insieme dell’economia mondiale attraverso il rialzo dei prezzi delle materie prime. L’espansione dei petrodollari aumentava i flussi internazionali verso le banche americane mentre l’inflazione ne minava il valore delle attività. La linea della svalutazione del dollaro per riconquistare competitività fallì completamente. La sensibile riduzione del deficit estero durante la seconda metà degli anni Settanta fu dovuta soprattutto alla bassa crescita e all’enorme espansione delle esportazioni militari e nel settore dei servizi, in particolare quelli finanziari, mentre il deficit strettamente commerciale aumentò. I pilastri della posizione internazionale degli Usa non erano quindi costituiti dalla dinamica della produzione civile interna bensì dalle attività finanziarie ? minacciate dall’inflazione ? dalle multinazionali energetiche e dall’industria militare. Questi ultimi due pilastri ricevettero un colpo durissimo con la caduta dello Scià nel 1978.
È in questo contesto che si deve cogliere l’importanza strutturale, e quindi durevole, della svolta reaganiana diretta alla riconquista del Medioriente, al rilancio della spesa militare e alla lotta all’inflazione. In tal modo venivano accorpati i tre gruppi di potere principali dell’economia Usa. Il tutto si fondava su due strumenti: sull’aumento della spesa pubblica e sulle politiche monetarie restrittive i cui effetti furono la rivalutazione del dollaro e l’allargamento del deficit estero a dimensioni non recuperabili. Simmetricamente, si aprì la voragine della deindustrializzazione, con milioni di lavoratori americani in caduta libera verso attività a bassi salari, nonché l’abisso del debito latino-americano. La deindustrializzazione eliminava la pressione salariale, l’indebitamento latino-americano svalutava, con le sue crisi, i salari latino-americani generando condizioni favorevoli per le multinazionali Usa. Questo processo, si noterà, implica l’abbandono di ogni attenzione verso lo stato della bilancia dei pagamenti che riverbera il totale disinteresse nei confronti dello sfascio industriale e sociale interno. Tuttavia la trasformazione degli Stati Uniti in un’economia finanziario-militare fondata sulle importazioni globali richiede che qualcuno ne convalidi il debito estero. Obbligare il resto del mondo a farlo, senza alcun corrispettivo reale, è l’effettivo obiettivo della politica di Washington da circa due decenni. Ancora una volta l’allargamento della sfera del dollaro diventa cruciale. Essa passa essenzialmente attraverso l’America Latina e attraverso il controllo delle risorse energetiche. Come notato dal ?leninista’ Brzezinski la potenza che controlla la zona mediorientale e quella dell’Asia ex sovietica eserciterà un controllo sulle restanti due aree industriali del pianeta, cui si deve ormai aggiungere la Cina. Nel quadro dell’indebitamento estero di Washington ciò significa eliminare la possibilità che venga rimesso in discussione il circuito del dollaro. La questione cruciale è di sapere fine a che punto e per quanto tempo la Cina, che mira a diventare una grande potenza economica e militare, accetterà tale situazione.
___________________

note:
1  Howard Zinn, The Twentieth Century. A People’s History, Harper Perennial, New York 1998.
2  Walter La Faber, The Clash U.S.-Japanese Relations Throughout History, W.W. Norton, New York 1997.
3  Un’ottima documentazione si trova in Stephen Shalom, The United States and the Gulf War, «Z Magazine» February 1990, accessibile in rete presso: http://www.khomeini. com/gatewaytoheaven/Articles/UnitedStatesAndIranIraqWar.htm.
4  Per l’analisi sul comportamento Usa riguardo i debiti europei, si veda Angus Maddison, Monitoring the World Economy, 1820-1992, Oecd, Paris, 1995.
5  Michael Schaller nel suo The American Occupation of Japan: the Origins of the Cold War in Asia (Oxford University Press, New York 1985) documenta come l’annuncio britannico di non poter sostenere la Turchia e la Grecia per via della crisi della bilancia dei pagamenti fece vincere la linea del gruppo Byrnes-Forrestal-Kennan favorevole al riarmo tedesco e al rilancio del Giappone. Più recentemente Carolyn Woods in Drawing the Line: the American Decision to Divide Germany, 1944-1949 (Cambridge University Press, New York 1996) sostiene con una minuziosa ricerca d’archivio che fu Washington a dividere la Germania ponendo obiettivi di riarmo.
6  Aaron Forsberg in America and the Japanese Miracle: the Cold War Context of Japan’s Postwar Economic Revival, 1950-1960 (University of North Carolina Press, Chapel Hill, NC, 2000), dettaglia le concessioni, miste a pressioni, fatte dagli Stati Uniti a paesi terzi affinché accettassero la non reciprocità nipponica. L’autore mostra inoltre la connessione tra questa strategia e la distruzione del sistema di preferenze commerciali del Commonwealth britannico.
7  Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera, Longanesi, Milano 1998.
8  Concordo quindi con la nota tesi di Gabriel Kolko. Si veda soprattutto Andrew Rotter The Path to Vietnam, Cornell University Press, Ithaca, N.Y, 1987).
9  Avi Shlaim, The Iron Wall: Israel and the Arab World, W.W. Norton, New York 2000.
10  Henry Kissinger, Years of Upheaval, Little Brown, Boston 1982; V.H. Oppenheim, Why Oil Prices Go Up; The Past: We Pushed Them, «Foreign Policy», n. 25, 1976-1977. Joseph Halevi, Political Economy, University of Sydney, Ufr Sciences économiques, Université Pierre Mendès-France, Grenoble

AFFITTASI RIVOLUZIONE

Simone Santini

Non esiste solo la guerra. Nell’ultimo decennio abbiamo assistito ad un fenomeno di espansione della sfera di influenza imperiale americana con metodologie più o meno morbide di estrema efficacia. Spesso si è trattato di semplici strategie diplomatiche ed economiche che hanno trasformato vecchi nemici in volenterosi alleati. Ci riferiamo in particolare a nazioni che aderivano al tramontato Patto di Varsavia, come Polonia, Romania, Bulgaria, o le Repubbliche baltiche, che senza colpo ferire da parte americana, rappresentano ora dei veri bastioni filo-occidentali nel cuore dell’Europa. Da un lato vigili guardiani nei confronti di un’integrazione europea che non sia troppo indipendente, dall’altro dei cuscinetti (o spine nel fianco) verso il colosso russo ancora in fibrillazione e con rinnovate propensioni bipolari sotto la presidenza Putin. È interessante notare che, in quasi tutti i casi sopra citati, sono stati governi o presidenti di derivazione neo-comunista a presiedere a tali svolte. In chiave storiografica sarebbe interessante e utile comprendere se si sia trattato di un fenomeno del tutto nuovo o frutto di un disegno strategico complessivo risalente nel tempo.

In queste pagine vogliamo approfondire un fenomeno complementare a quello sopra indicato, ovvero le cosiddette “rivoluzioni di velluto”, che negli ultimissimi anni stanno ridisegnando la mappa politica dell’Europa orientale e Asia centrale, con una puntualità e precisione che sembra smentire sia la casualità, sia la auspicata (da taluni) contagiosità della democrazia.

Il parto primigenio di questa nuova strategia è avvenuto in Serbia, alla fine degli anni ’90. La Repubblica Federale di Jugoslavia si era sfaldata drammaticamente dietro le spinte secessioniste di Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, con una cruda guerra civile nel cuore dell’Europa. Solo la Serbia (allora formalmente ancora Jugoslavia) sembrava ricordare (sebbene come una sorta di spettro) quell’esperimento economico, sociale, ed interetnico che fu la Repubblica socialista di Tito. La crisi economica e politica assediava il regime di Belgrado, e il suo presidente, il tristemente noto Slobodan Milosevic. Nasceva in quegli anni il movimento popolare Otpor (Resistenza) una organizzazione giovanile di opposizione civile e politica che faceva del movimentismo e della protesta di piazza nei grandi centri urbani i suoi cavalli di battaglia. Il regime di Milosevic resistette, anche grazie al consenso elettorale. Lo scossone definitivo venne determinato solo dalla crisi e dalla guerra del Kosovo. Nel 2000 Milosevic ricorse alle urne come ultimo tentativo per sfuggire all’assedio della società civile e della comunità internazionale. Ma, quella volta, la pressione della piazza che gridava ai brogli travolse il regime.
L’opera di Otpor fu determinante in quei giorni di ottobre, i ragazzi della resistenza serba diventarono simbolo e motore della rivoluzione morbida di Belgrado, al grido di “E’ finito” (Gotov je) e “E’ ora” (Vreme je). Anni di lotte avevano portato l’originario spontaneismo di Otpor ad affinare sempre più le armi e le tecniche per il raggiungimento dei propri scopi politici. La mobilitazione di piazza, per essere efficace, richiede raffinate strategie di pianificazione, organizzazione, tecniche di comunicazione, nonché, ovviamente, disponibilità finanziaria. Otpor aveva senza dubbio dimostrato di possedere per intero il know how.
Oggi l’organizzazione Otpor non esiste più, si è ufficialmente sciolta nel settembre 2004 dopo il fallito tentativo di entrare attivamente nel palazzo trasformandosi in partito politico. Ma la sua eredità è vitale più che mai. Dalle ceneri di Otpor sono nate diverse organizzazioni, piccole e grandi, che continuano con la stessa combattività il lavoro svolto nel passato.
La più nota di queste si chiama “Centro per la resistenza non violenta”, ed è stato fondato da alcuni dei leader storici di Otpor, in particolare Stanko Lazendic e Aleksandar Maric, e l’attività di questi esponenti è stata fondamentale per il successo dei movimenti di massa che hanno portato ai mutamenti di regime in Georgia e in Ucraina.

Non è un mistero che dal 2000 i vertici di Otpor abbiano partecipato ad una serie di seminari intensivi tenutisi in Ungheria sui “metodi di combattimento non violento” e presieduti dall’ex colonnello dell’esercito americano Robert Helvy. Lo stesso Helvy ha dichiarato alla stampa serba di essere stato assoldato dall’Istituto internazionale repubblicano di Washington per addestrare i giovani di Otpor alla battaglia che li attendeva. In quei mesi del 2000 le autorità serbe rilevarono un “sorprendente numero di giovani che andavano a visitare il monastero ortodosso di Sent Andrej in Ungheria” mentre la loro meta era l’Hotel Hilton di Budapest, dove si tenevano i seminari di addestramento.
Lo stesso Stanko Lazendic ammette esplicitamente: “Allorché l’Otpor ha rovesciato Milosevic ed è divenuto celebre nel mondo intero, ci hanno contattato organizzazioni di tutti i paesi dell’Europa dell’est. Come formatori dell’Otpor, noi abbiamo partecipato a numerosissimi seminari. A titolo individuale. Io sono andato in Bosnia e in Ucraina, Maric è stato in Georgia e in Bielorussia […] Quello che lui ci ha insegnato [riferendosi al colonnello Robert Helvy, n.d.r.] noi ora lo insegniamo ad altri. Come creare un movimento d’opinione contro il regime attraverso il materiale di propaganda o le manifestazioni di piazza”.
Lo stesso Lazendic nega di aver mai pensato o saputo che Helvy lavorasse per la CIA. Ma certo, dopo queste rivelazioni, non appaiono peregrine le voci delle autorità ucraine e bielorusse che hanno tacciato i membri dell’organizzazioni di essere provocatori professionisti al servizio di interessi stranieri. “Istigatori di colpi di stato” e “pericoli pubblici” secondo l’ex presidente ucraino Leonid Kouchma e l’attuale bielorusso Alexander Lukashenko. Non dissimile il giudizio che dava su di loro ai tempi del suo potere il regime di Milosevic: “agenti stranieri e traditori della patria”.
È evidente che chi lavora per cambiare il volto di un paese e allontanarne la classe dirigente non sia visto di buon occhio dall’establishment. Non di meno, le azioni e le metodologie dei leader di Otpor lasciano molti dubbi sull’argomento, i training da loro organizzati sono poi sfociati in autentiche rivolte di piazza in due paesi fondamentali della scacchiera internazionale: Georgia e Ucraina.
In interviste alla stampa (una di queste trasmessa da Rai3 ad opera dell’inviato Ennio Remondino) i dirigenti che vengono da Otpor fanno di tutto per minimizzare il loro ruolo ed il loro intervento in quelle zone calde. Salvo ammettere tranquillamente, poi, che in Georgia la piazza ha perfino utilizzato i simboli e le canzoni di Otpor, senza nemmeno tentare soluzioni autoctone, e che dopo l’insediamento del nuovo presidente Mikhail Saakashvili ai danni del defenestrato Eduard Shevarnadze, nessuno di loro ha più sentito il bisogno di recarsi in Georgia.

Ciò che detta sospetto è che le due citate non sono nazioni qualsiasi, al contrario, sono paesi strategici e con caratteristiche piuttosto simili. La Georgia è uno snodo fondamentale in quel crogiuolo etnico che è il Caucaso, nonché passaggio obbligato per gli oleodotti e gasdotti che dal Mar Caspio sfociano in Turchia. La repubblica caucasica ha altresì una posizione geografica che permette il controllo di tutte quelle regioni nel sud della Russia (in primo luogo la Cecenia) in continua ebollizione. Non dissimile la situazione dell’Ucraina, a metà strada tra occidente e oriente (culturalmente oltre che geograficamente), fondamentale nelle rotte commerciali est-ovest, che abbraccia il Mar Nero, a cui già Zbigniew Brzezinski nel suo studio “La grande scacchiera” aveva dato un ruolo di massimo rilievo come ago della bilancia per il controllo sulla Russia.
Ultimo, ma fondamentale aspetto, che accomuna i due paesi, è la presenza militare, simultanea, sia degli Stati Uniti che della Russia, i primi come ospiti recenti, i secondi come retaggio dell’Impero sovietico. Ma i nuovi regimi di Saakashvili e Yushenko sembrano aprire la porta ad un controllo non più condiviso, ma semplicemente unilaterale, delle forze armate a stelle e strisce su Georgia e Ucraina.
Mentre Bush è acclamato come una sorta di liberatore dalla folla oceanica di Tblisi durante il suo recente viaggio in Georgia, altrettanto esemplare è il caso dell’Ucraina: già si sussurra di un ingresso di questo Paese nella Nato, già sembrano destinate allo smantellamento le navi da guerra (ormai arrugginite, a dir la verità) della storica flotta dell’Armata rossa nei porti della Crimea, a Sebastopoli. L’Unione Sovietica è finita da tempo, perché mai dovrebbe controllare militarmente il Mar Nero? Putin dovrà mettersi il cuore in pace.

Ma se questi Paesi vogliono democrazia e libertà alla occidentale, e riescono a conquistarle in modo, addirittura, non violento… dov’ è il problema?
Scrive il giornalista ed eurodeputato Giulietto Chiesa: “L’ingerenza sovietica di un tempo era grossolana, palese. Quella di oggi, invece, ha l’aria di una spontanea e massiva protesta popolare. Sembra che avvenga per caso, come effetto di una lunga sedimentazione democratica autonoma e autoctona. Naturalmente non è vero niente. In Bielorussia, come in Ucraina, come in Georgia, come nella ex Jugoslavia, scorrono fiumi di denaro, a sostegno degli oppositori; si organizzano a centinaia, a migliaia, borse di studio; si pagano viaggi e soggiorni, si finanziano giornali e radio; si inaugurano fondazioni , si stampano bollettini, si promuovono campagne”.
Che la propagazione della democrazia in questi paesi non sia casuale, sembrano dimostrarlo in maniera lampante altri due casi recenti e opposti.

Lo scenario è quello delle Repubbliche dell’Asia centrale, nate anche loro dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, centrali per il controllo dell’Heartland, quello spazio che fin dai tempi dell’imperialismo britannico consentiva di dominare simultaneamente le potenze regionali di allora (che di fatto sono le stesse di oggi): Russia, Cina, Iran. Il primo teatro di scontro è stato il Kirghizistan, uno stato piccolo e povero ma strategicamente centrale. Questo paese ospita due basi, a pochi chilometri l’una dall’altra, la prima americana e la seconda russa. Il presidente Askar Akayev ha però giocato una partita troppo pericolosa: tenere i piedi su due staffe e cercare di ottenere profitti su entrambi i tavoli da gioco. Le mosse di riavvicinamento a Mosca dopo un periodo più marcatamente filo-atlantico non sono evidentemente piaciute a qualcuno.
Scrive il giornalista Maurizio Blondet: “Con l’annuncio, il 5 giugno 2003, dell’estensione di tre anni per l’affitto della base Usa in Kirghizistan, con la decisione russa di stazionare le proprie forze a Kant (la base aerea a soli 20 chilometri da quella americana) e con il nuovo interesse della Cina ad accrescere i legami militari con Bishkek, il Kirghizistan è divenuto il centro delle rivalità delle grandi potenze in Asia […] Nel febbraio scorso, il ministro degli Esteri kirghizo Aitmatov annuncia che Washington non avrà il permesso di far partire dalla base kirghiza i grandi aerei radar AWACS, con cui da quella zona si può spiare comodamente la vastissima area della Cina meridionale, e tenere sotto controllo ogni mossa russa e iraniana. Peggio: lo fa dopo un viaggio a Mosca, in cui viene deciso che Putin potrà rafforzare pesantemente di equipaggiamenti militari la sua base kirghiza a Kant. In cambio, apparentemente, dell’appoggio di Putin per le imminenti “libere elezioni” parlamentari kirghize del 27 febbraio, e per le ancor più cruciali votazioni presidenziali di ottobre prossimo. Insomma Akayev il presidente dittatore è tornato a porsi sotto l’ala della Russia”. Questo ondivagare deve essere sembrato inaccettabile. Sfruttando le rivalità tribali tra le componenti del sud e quelle nordiche del clan di Akayev, la democrazia è arrivata anche in Kirghizistan sulle ali di una rivolta popolare che contestava i risultati delle elezioni. Di nuovo Blondet è netto nel giudizio e rivela senza mezzi termini il carattere dei rivoltosi: “Si tratta di gruppi criminali, enormemente arricchitisi (grazie agli Usa) con l’inoltro e lo spaccio mondiale dell’oppio prodotto nel confinante Afghanistan”. Akayev si è trovato di fronte ad una scelta: scatenare la repressione e trascinare il Kirghizistan nella guerra civile, oppure ritirasi a Mosca in attesa di tempi migliori per una eventuale rivincita. La scelta, evidentemente su consiglio di Putin, è andata sulla seconda ipotesi.
In un paese confinante, l’Uzbekistan, le cose sono andate in modo profondamente diverso. Nel mese di maggio i ribelli islamici hanno assediato la prigione e i palazzi istituzionali della cittadina di Andijan, nella valle di Fergana. La reazione di uno dei tanti presidenti padroni di quelle zone non si è fatta attendere. Il presidente Islam Karimov ha dato ordine di reprimere la rivolta. Le truppe speciali hanno sparato sulla folla con centinaia di morti. Nessuna fonte ufficiale ha potuto verificare i fatti, la stampa internazionale è stata allontanata, le voci dissenzienti messe a tacere. A livello internazionale si è udita qualche debole critica, ben presto dimenticata. Alla base di tutto sta il rapporto privilegiato tra il presidente Karimov e gli Stati Uniti, ai quali sono state concesse basi e piena disponibilità del territorio uzbeko. Forte di ciò, qualunque rivolta interna può essere bollata come tentativo insurrezionale di “terroristi islamici” e repressa nel sangue.

Continuerà questa strategia? I due prossimi banchi di prova appaiono vicini. Tra pochi giorni si svolgeranno le elezioni in Iran, momento che gli Stati Uniti attendono con trepidazione per dare il via alla spallata finale al regime degli ayatollah. In questi giorni pre-elettorali si è assistito ad attentati terroristici con numerosi morti e l’accendersi di rivalità tra le componenti etniche iraniane che storicamente hanno convissuto tranquillamente. Strategia della tensione? Prime avvisaglie dello smembramento dell’Iran?
Un’altra area, la Bielorussia di Lukashenko, il fascista rosso che non si rassegna al declino della Nazione russa panslava, è sotto l’occhio attento della comunità internazionale. Contro il presidente padrone ha tuonato Condoleeza Rice. La Bielorussia è, secondo il Segretario di Stato americano, “l’ultima dittatura rimasta in Europa”. Presto la democrazia potrebbe andare a bussare anche alle porte di Minsk.

15 giugno 2005

Fonti dell’articolo:

Osservatorio sui Balcani, in particolare gli articoli:
http://www.osservatoriobalcani.org/article/view/3579 http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/3684/1/49/
http://www.osservatoriobalcani.org/article/view/3621

ComeDonChisciotte per gli articolo di Giulietto Chiesa e Maurizio Blondet:
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=916
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=814

http://lists.peacelink.it/pace/msg08211.html

Bush vs Kerry: una falsa disputa 

John Pilger

Nuovi Mondi Media 4 settembe 2004 

La Camera dei Deputati degli Stati Uniti ha approvato una delibera con la quale si autorizza, a tutti gli effetti, un attacco preventivo in Iran. Per nulla scoraggiati dal crescente disastro in Iraq, i repubblicani e i democratici si sono accordati per ribadire il ruolo del potere americano. Ma il vero argomento di discussione non è Bush e nemmeno Kerry, bensì la nascita dello ³stato di sicurezza nazionale² sul modello americano, l¹asservimento delle economie nazionali a un sistema che divide l¹umanità, i modi per sovvertire il linguaggio politico e infine, forse, come ritrovare l¹amor proprio. Lo scorso 6 maggio, la Camera dei Deputati degli Stati Uniti ha approvato una delibera con la quale si autorizzava, a tutti gli effetti, un attacco preventivo in Iran. 376 i voti favorevoli e 3 i contrari. Per nulla scoraggiati dal crescente disastro in Iraq, ³per l¹ennesima volta², ha scritto un giornalista, i repubblicani e i democratici ³si sono accordati per ribadire le responsabilità del potere americano.² All¹interno dell¹ormai apparente bipartitismo americano, venire a patti è costume in atto da tempo immemore. Con il benestare di entrambi i partiti, gli indiani d¹America sono stati sterminati, le Filippine devastate e Cuba, e buona parte dell¹America Latina, sono state rimesse in riga. Facendosi strada nel sangue, una nuova stirpe di antropologi – i giornalisti assoldati da magnati dell¹editoria – ha intessuto l¹eroico mito di una super setta chiamata Americanismo, che è divenuta ufficialmente ideologia grazie alla pubblicità e alle pubbliche relazioni del XX secolo e che abbraccia indifferentemente conservatorismo e liberalismo. Sono stati dei presidenti democratici liberali a dichiarare la maggior parte delle guerre americane dell¹età contemporanea: Truman in Corea, Kennedy e Johnson in Vietnam, Carter in Afghanistan. L¹immaginario ³missile gap² fu inventato dai liberali della Nuova Frontiera, vicini a Kennedy, come pretesto per prolungare la guerra fredda. Nel 1964 il congresso, a maggioranza democratica, autorizzò il presidente Johnson ad attaccare il Vietnam, una nazione di contadini indifesi che non rappresentava minaccia alcuna per gli Stati Uniti. Come nel caso delle mai-esistite armi di distruzione di massa irachene, anche allora la giustificazione fu un Oincidente¹ mai avvenuto secondo il quale due navi di pattuglia nord vietnamite avrebbero attaccato un nave da guerra americana. Seguirono tre milioni di morti e la rovina di un paese un tempo prospero. Negli ultimi sessant¹anni il congresso ha limitato solo una volta il Odiritto¹ del presidente a esercitare la forza sugli altri paesi. Questo cambio di direzione fu rappresentato dal Clark Amendment del 1975, frutto del grande movimento pacifista che si oppose alla guerra del Vietnam, ma poi abrogato da Ronald Reagan nel 1985. Negli anni Ottanta, durante le invasioni del Centroamerica volute da Reagan, alcune voci di impronta liberale, come quella di Tom Whicker del New York Times, decano delle ³colombe², si chiedevano se il piccolo e povero stato del Nicaragua fosse davvero una minaccia per gli Stati Uniti. Oggigiorno, con la minaccia rossa sostituita dal terrorismo, è in atto un¹altra falsa disputa. Questo è il male minore. Sono pochi gli elettori di idee liberali che si fanno illusioni su John Kerry, ma il bisogno di scrollarsi di dosso la Ocattiva¹ amministrazione Bush è davvero incombente. Il Guardian, portavoce liberale della Gran Bretagna, afferma che le prossime elezioni presidenziali rappresentano ³un caso unico². ³I difetti e i limiti di Kerry sono evidenti,² rivela il quotidiano, ³ma sono messi in ombra dal programma politico neoconservatore e dalla politica guerrafondaia di Bush. Sono elezioni in cui il mondo intero tirerebbe un sospiro di sollievo se il presidente in carica venisse sconfitto.² Lasciamo pure che il mondo intero tiri un sospiro di sollievo, il governo Bush è pericoloso e odiato da tutti. Peccato che non sia questo il punto. Abbiamo discusso così a lungo, da entrambe le parti dell’Atlatico, di quale fosse il male peggiore che è giunto il momento di tralasciare le ovvietà e di esaminare in maniera critica un sistema che sforna i Bush e le loro ombre democratiche. Per chi di noi si meraviglia per aver raggiunto gli anni della maturità senza essere saltato in aria per mano dei paladini dell¹Americanismo, repubblicani e democratici, conservatori e liberali, o per i milioni in tutto il mondo che ormai rifiutano l¹esempio americano in politica, il problema vero è ben chiaro. È il seguito di un progetto cominciato più di 500 anni fa. I privilegi di ³scoperta e conquista² concessi a Cristoforo Colombo nel 1492, in un mondo che il Papa ³considera una sua proprietà di cui disporre a piacimento², sono stati sostituiti da un¹altra forma di pirateria: la volontà divina dell¹Americanismo, alimentata dal progresso tecnologico, in primis quello dei media. ³La minaccia all¹indipendenza dalle nuove tecnologie alla fine del XX secolo², ha scritto Edward Said in Culture and Imperialism (Cultura e imperialismo), ³potrebbe risultare maggiore di quella posta in passato dal colonialismo. È ormai chiaro che la decolonizzazione non rappresenta la fine dei rapporti imperialistici, ma semplicemente il dispiegarsi di una tela geo-politica che andava intessendosi già dal Rinascimento. I nuovi media hanno il potere di penetrare all¹interno di una cultura ³recettiva² con maggiore facilità e più in profondità rispetto a un qualsiasi altro prodotto delle tecnologie occidentali precedenti.² I presidenti degli ultimi anni sono stati tutti, in buona misura, una crezione dei media. Ancora oggi, nonostante il passato criminoso, Reagan è visto come un santo; la Fox Channel di Murdoch e la BBC post-Hutton si sono distinte solo per le diverse modalità di adulazione. E Clinton è ricordato con nostalgia dai liberali come un politico non particolarmente capace, ma comunque illuminato; eppure gli anni della presidenza Clinton sono stati molto più violenti di quelli di Bush e gli obiettivi sono stata gli stessi: ³l¹integrazione dei vari paesi nel mercato libero e globale², le cui modalità di realizzazione, ha rilevato il New York Times, ³implicano un coinvolgimento sempre più sfacciato da parte degli Stati Uniti negli affari interni delle altre nazioni². La ³full spectrum dominance² (predominio a tutto campo) elaborata dal Pentagono non è il frutto dei ³neoconservatori², ma del liberale Clinton che approvò quella che all¹epoca fu considerata la spesa di guerra più ingente della storia. Secondo il Guardian, John Kerry invia ³incoraggianti segnali di progresso². È giunto il momento di porre fine a questo sproloquio. La supremazia è la quintessenza dell¹Americanismo; è solo la facciata che muta o che cade. Nel 1976 il democratico Jimmy Carter promise ³una politica estera rispettosa dei diritti umani². In segreto, però, appoggiava il genocidio indonesiano a Timor Est e costituiva, in Afghanistan, l¹organizzazione terroristica dei mujaheddin che avrebbe dovuto rovesciare l¹Unione Sovietica e che, in seguito, generò i talebani e al-Qaeda. Fu il liberale Carter, e non Reagan, a preparare il terreno per Bush. In passato, ho intervistato due grossi nomi della politica estera al tempo di Carter: Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale, e James Schlesinger, segretario alla difesa. Tra i programmi che delineano il nuovo imperialismo, quello di Brzezinski ha di certo raccolto i maggiori consensi. Investito d¹autorità biblica dalla congrega di Bush, il suo libro The Grand Chessboard: American primacy and its geostrategic imperatives (La grande scacchiera. Il mondo e la politica nell¹era della supremazia americana), pubblicato nel 1997, individua le priorità americane: assoggettamento economico dell¹Unione Sovietica e controllo dell¹Asia Centrale e del Medio Oriente.

http://www.contraddizione.it/vera_guerra_afghanistan.rtf

L’Ernesto toscano, Firenze, luglio-agosto 2002

LA VERA STORIA DELLA GUERRA IN AFGHANISTAN

le risorse energetiche e il controllo dell’Asia Centrale  

Vladimiro Giacché  

“Dopo la sconfitta dell’Unione Sovietica nella Guerra Fredda, Washington – con l’aiuto di Al-Qaeda – sta stabilendosi in Asia Centrale”

(M. Thompson, “Letter from Kyrgyzstan: the US Moves In”, Time, 27 aprile 2002)

“Non ricordo nessun precedente storico di una regione divenuta così all’improvviso talmente importante da un punto di vista strategico come la regione del Caspio”

(dichiarazioni rese nel 1998 dall’attuale vicepresidente USA Dick Cheney e riportate in M. Cohn, Cheney’s Black Gold: Oil Interests May Drive US Foreign Policy [!], in the Chicago Tribune, 10 agosto 2000 [!])

L’Asia Centrale “offre opportunità di investimento nella scoperta, produzione, trasporto e raffinazione di enormi quantità di risorse di greggio e gas naturale… Il Kazakhstan è un nuovo Kuwait”

(Oil & Gas Journal, 10 settembre 2001)

“L’importanza dell’Afghanistan dal punto di vista energetico nasce dalla sua posizione geografica di potenziale rotta per il transito di petrolio e di gas naturale dall’Asia Centrale al Mar Arabico”

(US Energy Information Agency, settembre 2001)

“Sino a tre mesi fa era impensabile che [il percorso per il trasporto del petrolio dall’area del Caspio] passasse attraverso l’Afghanistan per poi sboccare sulle coste del Pakistan e dell’India”

(D. Tonello, “La nuova frontiera dei petrolieri” in Borsa & Finanza, 22 dicembre 2001)

“La situazione geopolitica è cambiata e gli Stati Uniti sono diventati il terzo Paese confinante dell’Asia Centrale”

(Y. Karin, esperto di scienze politiche del Kazakhstan: dichiarazione riportata sull’Economist, 19 gennaio 2002)

Il 30 maggio scorso è stato un giorno importante. Quel giorno, infatti, è avvenuta la firma solenne di un trattato trilaterale tra Turkmenistan, Afghanistan e Pakistan. Oggetto del trattato: la costruzione di un gasdotto lungo 1.500 chilometri, che porterà il gas estratto dai giacimenti di Daulatabad, in Turkmenistan, sino a Gwadar, in Pakistan, passando per l’Afghanistan. Si tratta precisamente del gasdotto a cui “lavorava” la compagnia americana Unocal sin dai primi anni Novanta. Questa notizia, che invano cercheremmo sui giornali italiani, ci racconta la vera vittoria della vera guerra che è stata scatenata sull’Afghanistan.[1]

Il reale scopo della guerra in Afghanistan è infatti rappresentato dalla possibilità di controllare aree strategiche dal punto di vista geopolitico e del controllo dei flussi delle materie prime. L’Afghanistan fa parte appunto di una di queste aree. Perché il suo territorio costituisce una via di transito per le risorse energetiche dei Paesi dell’Asia Centrale. Perché si trova in una regione di cerniera tra Cina e Russia. Perché è un punto di passaggio strategico tra Europa ed Asia – e, come ha detto Brzezinsky qualche anno fa, “tutti condividono il presupposto che l’Eurasia sia il centro del mondo e che chi controlla l’Eurasia controlli il mondo”.[2] La cosiddetta “guerra al terrorismo” ha per l’appunto consentito agli USA di porre un’ipoteca su quest’area fondamentale. Il fatto di aver imposto la propria presenza diretta in quest’area rappresenta per gli USA il secondo vero grande successo di questa guerra, dopo il rilancio delle spese militari (che rappresentano, per così dire, un “successo” a sé stante in quanto consentono di far ripartire il settore militare USA, uno dei settori trainanti dell’economia americana).[3]

Proviamo ad esaminare più da vicino la questione, a partire da una stima delle risorse energetiche presenti nell’area.

1. Le risorse energetiche dell’Asia Centrale

Sono davvero così importanti queste risorse?

Sì. Secondo stime pubblicate nell’agosto del 2000 dall’Institute for Afghan Studies il valore delle riserve petrolifere dei Paesi dell’Asia Centrale che circondano l’Afghanistan (Azerbaijan, Kazakhstan, Turkmenistan e Uzbekistan) si aggira tra i 2.500 e i 3.500 miliardi di dollari: non per nulla l’articolo in questione recava un titolo come “Le nuove miniere d’oro dell’Asia Centrale”![4] Oggi si parla di 110 miliardi di barili di petrolio contenuti nel solo Mar Caspio, che ne farebbero la terza riserva mondiale, dopo l’Iraq (113 miliardi) e l’Ara­bia Saudita (262 miliardi).[5] I paesi più ricchi di petrolio sono il Kazakhstan e l’Azerbaijan. Ma nell’area esistono enormi giacimenti anche di gas naturale: a questo riguardo il paese più ricco è il Turkmenistan, seguito dal Kazakhstan e dall’Uzbekistan. Questi tre paesi si situano tra i primi 20 al mondo per quantità di risorse energetiche accertate.[6]

Ma siccome quest’area è stata relativamente poco esplorata, le sue riserve potenziali possono risultare molto superiori ancora. Ce lo dice con estrema chiarezza il sito (governativo) americano dell’Energy Information Administration: “la regione del Mar Caspio è importante per i mercati mondiali perché ha grandi riserve di petrolio e gas che soltanto ora stanno iniziando ad essere pienamente sfruttate … Benché gli stati che si affacciano sul Mar Caspio siano già primari produttori di energia, molte parti di questo mare e dell’area circostante restano inesplorate…Attraverso l’intervento di ulteriori investimenti stranieri, l’applicazione di tecnologia occidentale, e lo sviluppo di nuovi mercati di sbocco, la produzione di petrolio e gas naturale nella regione del Caspio potrebbe moltiplicarsi”.[7]

Queste parole rappresentano la migliore traduzione pratica della teoria esposta, poco meno di 90 anni fa, da un teorico marxista oggi ingiustamente sottovalutato: “Per il capitale finanziario sono importanti non solo le sorgenti di materie prime già scoperte, ma anche quelle eventualmente ancora da scoprire, giacchè ai nostri giorni la tecnica fa progressi vertiginosi, e terreni oggi inutilizzabili possono domani esser messi in valore, appena siano stati trovati nuovi metodi (e a tal fine la grande banca può allestire speciali spedizioni di ingegneri, agronomi, ecc.) e non appena siano stati impiegati più forti capitali. Lo stesso si può dire delle esplorazioni in cerca di nuove ricchezze minerarie, della scoperta di nuovi metodi di lavorazione e di utilizzazione di questa o quella materia prima, ecc. Da ciò nasce inevitabilmente la tendenza del capitale finanziario ad allargare il proprio territorio economico, e anche il proprio territorio in generale”.[8]

Tornando a noi, aveva quindi ragione quell’uomo d’affari americano che nel 1998 disse: “Non ricordo nessun precedente storico di una regione divenuta così all’improvviso talmente importante da un punto di vista strategico come la regione del Caspio”. L’uomo d’affari in questione era l’attuale vicepresidente USA Dick Cheney, all’epoca presidente e amministratore delegato della Halliburton, una società leader nelle escavazioni petrolifere con forti interessi nell’area, e in particolare in Azerbajian.[9]

Cheney non è l’unico esponente della lobby petrolifera a ricoprire responsabilità di governo nell’ammini­strazione Bush. Condoleezza Rice, consigliere per la sicurezza, è stata dal 1991 al 2000 nel Consiglio di Amministrazione della Chevron (le è stata intitolata anche una petroliera della compagnia): in tale veste è intervenuta in Kazakhstan, dove la Chevron ha importanti interessi (vi ha investito più di 20 miliardi di dollari). Il ministro del commercio, Donald Evans, è stato per 25 anni amministratore della Tom Brown (gas naturale). La sottosegretaria dello stesso ministero, Kathleen Cooper, è stata capo economista della Exxon. Anche il ministro per l’energia, Spencer Abraham, proviene dal settore. Gale Norton, ministro dell’interno, come avvocato ha difeso la Delta Petroleum (e la sua campagna elettorale è stata finanziata dalla Bp-Amoco). E, dulcis in fundo, tanto Bush padre che Bush figlio sono petrolieri da sempre.[10] Di fronte alla presenza diretta di questo esercito di – chiamiamoli così – profondi conoscitori delle problematiche energetiche, anche il fatto che le compagnie petrolifere abbiano contributo alla campagna elettorale di Bush & C. per 10 milioni di dollari assume una rilevanza secondaria…[11]

2. “La battaglia degli oleodotti”[12]

Che l’Asia Centrale nasconda enormi risorse energetiche è fuori di dubbio. Il problema però è che scoprire nuovi giacimenti di petrolio e di gas naturale non è sufficiente. E non basta neppure riuscire ad estrarre queste risorse energetiche con l’aiuto delle migliori tecnologie. Perché esse diano i profitti desiderati, è necessario poterle trasportare verso i mercati di sbocco – controllandone il percorso. E qui le cose si fanno serie.

Prendiamo il Turkmenistan. Su un sito specializzato americano si può leggere: “il Turkmenistan è l’esem­pio principe di una particolare anomalia che l’industria energetica in passato non si è mai trovata ad affrontare su così vasta scala: una grande regione dotata di enormi risorse in termini di giacimenti, che è isolata ed attualmente non ha un percorso efficiente e sicuro per spedire ciò che ne estrae sui mercati mondiali”.[13]

In verità, a questo problema qualcuno ha pensato. E infatti il 21 ottobre 1995 i dirigenti della compagnia petrolifera americana Unocal e della saudita Delta Oil hanno firmato un accordo con il presidente del Turkmenistan Niyazov[14] che prevedeva la costruzione di gasdotto (del costo stimato di 3 miliardi di dollari) tale da consentire esportazioni di gas naturale del valore di 8 miliardi di dollari. Il gasdotto avrebbe dovuto attraversare l’Afghanistan, per giungere in Pakistan (con una possibile estensione all’India).[15] Problema: la guerra civile che all’epoca infuriava in Afghanistan, e che divideva le diverse fazioni di mujaheddin e le differenti etnie. Da questo momento i Sauditi cominciano a finanziare massicciamente i Talebani, abbandonando al loro destino le altre fazioni. Anche gli USA manifestano la loro benevolenza con aperture di credito sia in senso proprio che in senso figurato. Ad esempio, Barnett Rubin, specialista di cose afghane del Council of Foreign Relations, nell’ottobre del 1996 afferma – con singolare lungimiranza – che “i talebani non possiedono nessun legame con l’internazionale islamica radicale”![16] E l’attuale inviato USA in Afghanistan, Zalmay Khalilzad, ancora quattro anni fa scriveva solennemente sul Washington Post che “i Talebani non praticano il genere di fondamentalismo anti-americano in voga in Iran”…

Tra i più entusiasti dei nuovi padroni dell’Afghanistan, ovviamente, c’è proprio la Unocal, il cui vicepresidente, Chris Taggart, nel 1997 ammette che gli esagitati giovanotti “sono utili” e che “la società sta facendo loro donazioni, ma non in denaro” (ossia in armi).[17] Nel novembre dello stesso anno, la Unocal paga 1 milione di dollari per addestrare 137 giovani afghani, presso l’Afghan Studies Center dell’Università del Nebraska, in diverse attività connesse alla costruzione di gasdotti. Ma la simpatia è destinata a durare almeno sino al 1998: il 12 febbraio di quell’anno, il responsabile delle relazioni internazionali di Unocal, John Maresca, riferisce al congresso ed espone dettagliatamente il progetto del gasdotto CentGas.[18] Ma anche dopo gli attentati alle ambasciate in USA in Africa, e il conseguente attacco missilistico americano alle basi di Bin Laden in Afghanistan (agosto 1998), i rapporti proseguono. Al servizio della Unocal lavorano, tra gli altri, un afgano-americano, il già citato Khalilzad, e anche – ma guarda un po’ – Hamid Karzai, l’attuale capo del governo provvisorio di Kabul.[19] I rapporti di Unocal con i Talebani si interrompono nel dicembre 1998, anche se quelli del governo americano proseguono praticamente sino alla vigilia dell’11 settembre.[20]

Comunque sia, con lo scoppio della guerra le prospettive del gasdotto riprendono quota. Già alla fine di ottobre, infatti, Niyazov dichiara solennemente, in una lettera all’ONU, che il gasdotto “aiuterà a ricostruire il paese, alla normalizzazione della vita pacifica e del lavoro del popolo Afghano, ed anche ad accelerare lo sviluppo socio-economico dell’intera regione circostante”.[21] E sempre alla fine di ottobre il vecchio progetto di Unocal viene discusso ad Islamabad tra il ministro del petrolio pakistano Usman Aminuddin e l’ambasciatore americano Wendy Chamberlain, che rilasciano al termine del loro incontro un allusivo comunicato ufficiale: “il gasdotto dischiude nuove strade ad una coooperazione regionale multidimensionale, soprattutto alla luce dei recenti sviluppi geopolitici nella regione”.[22] Come è andata a finire, l’abbiamo visto in apertura di questo articolo: il 30 maggio scorso è stato ufficialmente firmato l’accordo tra Turkmenistan, Afghanistan e Pakistan per dare il via al gasdotto.

Il gasdotto per trasportare il gas estratto dal Turkmenistan è solo uno dei progetti che riguardano le risorse energetiche dell’Asia Centrale. La stessa Unocal ha progettato un oleodotto, il Central Asian Oil Pipeline, lungo 1.700 km e in grado di collegare Chardzhou in Turkmenistan e l’oleodotto siberiano già esistente da un lato, la costa pakistana che si affaccia sul Mare Arabico dall’altra. Ovviamente, anche in questo caso il passaggio è attraverso l’Afghanistan, ed anzi l’oleodotto sarebbe almeno in parte parallelo al gasdotto già citato. Questo oleodotto sfrutterebbe le risorse petrolifere presenti in Uzbekistan. Anche in questo caso, le prospettive sembrano decisamente migliorate…

Ma attenzione. La “guerra degli oleodotti” non riguarda soltanto l’Afghanistan.[23] Prendiamo il caso del Caspian Pipeline Consortium, una joint venture che ha tra i suoi azionisti la Russia, il Kazakhstan, l’Oman, ChevronTexaco e ExxonMobil. Il CPC ha inaugurato a fine ottobre un oleodotto da 2,65 miliardi di dollari, che collega i pozzi di Tengiz (nel nord del Kazakhstan) al porto russo di Novorossirsk, sul Mar Nero. In questa occasione, Bush ha dichiarato che l’Amministrazione USA ha in mente “un network di oleodotti e gasdotti multipli dal Caspio, che includono gli oleodotti Baku-Tbilisi-Ceyan, Baku-Supsa, Baku-Novorossirsk, e il gasdotto Baku-Tbilisi-Erzurum”. Curiosamente, nel comunicato della Casa Bianca l’oleodotto reale è citato per ultimo, mentre un oleodotto che esiste solo allo stadio di progetto è citato per primo. Ovviamente, non c’è nulla di casuale in questo. Infatti l’oleodotto Baku(Azerbajian)-Tbilisi(Georgia)-Ceyhan(Turchia) è quello che più sta a cuore al governo americano, in quanto non passa per la Russia. Purtroppo, è anche il tracciato più costoso ed antieconomico – sarebbe lungo 2.000 km e passerebbe per zone particolarmente impervie – tant’è vero che ha incontrato l’opposizione anche delle compagnie petrolifere (opposizione che potrebbe peraltro facilmente essere superata prevedendo adeguati sgravi fiscali). Tra chi è contrario a questo tracciato va annoverato anche il presidente del Kazakhstan il quale, ancora il 9 dicembre 2001, ha detto chiaro e tondo a Colin Powell di essere piuttosto interessato al molto più economico tracciato che passerebbe per l’Iran, sfociando nel Golfo Persico all’altezza del porto iraniano di Kharg Island. Va notato che la partecipazione del Kazakhstan è essenziale, perché le sole risorse azere renderebbero assolutamente antieconomico il progetto Baku-Ceyhan.[24] Nel febbraio scorso il Washington Report on Middle-East Affairs ha pertanto riportato la posizione del Kazakhstan, commentando che l’oleodotto Baku-Ceyhan sembrava definitivamente affondato. L’e­stensore dell’articolo commentava peraltro con un certo stupore l’eventualità che quel progetto fosse sconfitto, dicendo che “quando il gioco si fa duro”, la lobby pro Israele “raramente perde a Washington”.[25]

Cosa c’entra Israele? È presto detto. Israele ha relazioni molto strette tanto con il Turkmenistan e l’Azer­bajian, quanto con la Turchia. Per quanto riguarda il primo aspetto basterà ricordare che l’“ex” agente del Mossad Yousef Maiman, presidente del gruppo israeliano Mehrav, è cittadino onorario del Turkmenistan e personalmente coinvolto nello sviluppo delle risorse di gas della zona. A lui si deve il progetto del percorso Baku-Ceyhan, che eviterebbe sia Iran che Russia. Un’altra società israeliana, la Magal Security Systems, garantirà la sicurezza del tracciato dell’oleodotto. Per quanto riguarda il legame Israele-Turchia, come è noto si tratta di un asse strategico chiave per il mantenimento del controllo USA sul Medio Oriente. E l’interesse di Israele per questo tracciato è evidente: consentirebbe di approvvigionare Israele stessa anche in caso di crisi con i Paesi produttori di petrolio del Medio Oriente. Non è un caso, quindi, che da diversi anni a questa parte Israele e l’American Israeli Public Affairs Committee stiano facendo una fortissima azione di lobbying per l’oleodotto.

Non è solo questo il punto a vantaggio dell’oleodotto Baku-Ceyhan. Basti pensare che il consorzio, guidato dalla British Petroleum, è rappresentato dallo studio legale Baker & Botts. L’avvocato principale è proprio il James Baker che era già stato segretario di Stato di Bush senior, e che gli è fedele e vicino anche nell’avventura finanziaria del gruppo Carlyle.[26]

Ma il motivo principale è un altro: il progetto Baku-Ceyhan realizza alla lettera il programma espresso da Brzezinsky nel suo libro del 1997 La grande scacchiera. Ecco cosa scriveva l’ex segretario di Stato di Carter (e, per inciso, uno degli ispiratori della politica pro-integralisti islamici degli USA in Afghanistan già prima dell’invasione sovietica): “l’Azerbajian è il tappo della bottiglia che contiene le ricchezze del bacino del Mar Caspio e dell’Asia Centrale (…). Un Azerbajian indipendente, connesso ai mercati occidentali da oleodotti che non passino attraverso il territorio controllato dalla Russia, diventerà anche un’importante via d’accesso delle economie avanzate e consumatrici di energia alle repubbliche dell’Asia Centrale, ricche di energia”.[27]

Ma per quale motivo il controllo delle vie di traffico di gas e petrolio è così strategico per gli USA? Essenzialmente per due motivi.

Il primo è rappresentato dalla necessità di ridurre la dipendenza energetica degli USA dai paesi del Medio Oriente. Non è un motivo da poco. Da questo punto di vista, è nel giusto chi vede in tutte le più recenti iniziative di politica estera americana (in Asia Centrale come in America Latina) principalmente “una strategia tesa al controllo del petrolio mondiale”. Si tratta di una strategia disegnata già nel “Piano nazionale per l’energia”, steso da Cheney (con la consulenza di Enron, la società che ha fatto bancarotta nel novembre scorso) nei primi mesi del 2001. In questo piano era scritto chiaramente: a) che gli Stati Uniti avrebbero dovuto sempre più far ricorso a risorse energetiche provenienti dalla Russia, dagli Stati del mar Caspio e dall’Africa; b) che per avere accesso a queste risorse aggiuntive non sarebbe stato sufficiente far ricorso alle forze spontanee del mercato, ma sarebbe stato necessario un impegno governativo.[28] Impegno poi concretizzatosi: sotto forma di bombardieri e truppe d’assalto…

Ma l’obiettivo di approvvigionare direttamente gli USA non è forse neppure il più importante: da un lato, infatti, una drastica riduzione della dipendenza dal Golfo Persico è impossibile nel breve periodo; e poi, comunque, gli USA hanno importanti produttori di petrolio molto più vicini a casa loro delle steppe dell’Asia Centrale (Canada, Messico, che già forniscono agli Stati Uniti il 40% del loro fabbisogno di petrolio, e Venezuela).[29] Più importante è quindi un secondo motivo: è importante che gli USA controllino e dirigano i flussi di petrolio e gas naturale, dovunque essi siano diretti. E talvolta, del resto, l’importante non è dove queste risorse vanno, ma dove non vanno.

Ad esempio, dal punto di vista degli Stati Uniti è importante innanzitutto che gas naturale e petrolio del mar Caspio prendano strade differenti da quelle prese sinora, ossia è importante che non passino più per la Russia. Qui va notato un aspetto importante: sotto questo profilo gli interessi di potenza della Russia confliggono con quelli delle sue stesse compagnie energetiche. Mentre i primi spingono a mantenere il passaggio sul territorio russo delle risorse dell’Asia Centrale, l’industria russa del petrolio e del gas naturale (che spesso possiede gli stessi oleodotti e gasdotti) spinge per distribuire e promuovere sui mercati internazionali i suoi prodotti.[30] La circostanza è degna di nota perché attualmente sono proprio i colossi energetici russi (Yukos e Lukoil per il petrolio, Gazprom per il gas naturale) a decidere la politica estera di Putin. Che infatti ha avuto negli ultimi una direzione di marcia chiarissima: proporre la Russia come il grande fornitore sostitutivo di risorse energetiche dell’Occidente rispetto ai Paesi del Golfo Persico. Per questo motivo la Russia (che non fa parte dell’OPEC) ha aumentato la produzione per rompere la politica dei prezzi del cartello OPEC. Per lo stesso motivo non si è – almeno per il momento – opposta ai movimenti USA sugli oleodotti dell’Asia Centrale; la stessa opposizione “storica” all’oleodotto Baku-Ceyhan sembra essere venuta meno.

In secondo luogo, le risorse energetiche non debbono dirigersi verso la Cina. In termini più concreti: deve essere impedita la costruzione di oleodotti e gasdotti che conducano le risorse energetiche dell’Asia Centrale, passando per il Kazakhstan (che confina ad est con la Cina), nello Xinjiang. Non si tratta di progetti fantascientifici: un concreto progetto esiste dal 1997, e dovrebbe essere realizzato sotto l’egida del China National Petroleum Corporation. Va notato che, evidentemente sotto la pressione degli eventi in Asia Centrale, il progetto di gasdotto (lungo 4.000 km) che passando per lo Xinjiang dovrebbe sboccare a Shangai, è stato sbloccato all’inizio di febbraio 2002. E, non a caso, tra le compagnie straniere ammesse nel progetto ci sono la russa Gazprom e l’europea Shell, mentre è stata esclusa nella fase finale l’americana Exxon.[31] E’ del tutto chiaro che, qualora tale progetto fosse realizzato, esso avrebbe l’effetto non solo di rifornire la Cina di parte dell’energia necessaria per il suo sviluppo, ma anche quello di provocare un riavvicinamento strategico tra Cina, Giappone e Corea. Prospettive, entrambe, molto sgradite agli USA.

Questo, dal punto di vista americano, impone una rotta diversa: gli oleodotti e i gasdotti debbono sboccare nel Golfo Persico. Per poi finire sui mercati in prospettiva più promettenti: quelli asiatici; ma sotto il controllo americano.

Ma anche qui bisogna fare attenzione. Il percorso più breve ed economicamente più conveniente sarebbe quello che dal Turkmenistan porta al Golfo Persico passando per l’Iran. Però lo zio Sam non è d’accordo, perché l’Iran fa parte dell’”asse del male” (o, più probabilmente, viceversa…). E allora (oltre alla rotta che porta in Turchia) resta solo la via che passa per l’Afghanistan. Appunto.

3. Petrolio e guerra: una scoperta tardiva

Sulla base di quanto abbiamo visto, non può stupire che in Asia e in Medio Oriente il nesso tra la guerra americana in Afghanistan e il controllo delle risorse energetiche sia stato, da subito, individuato con estrema chiarezza. L’Asia Times di Nuova Delhi, alla vigilia dell’attacco americano, individuava nel petrolio la chiave della campagna militare che si stava preparando, e affermava senza mezzi termini che un suo successo avrebbe potuto “riconfigurare in misura sostanziale gli scenari energetici per il XXI secolo”.[32] Ancora più esplicito, negli stessi giorni, Abdallah al Emadi, editorialista del quotidiano Arrayah del Qatar: “Oggi l’Ame­rica si appresta a mettere le mani su una regione che non è meno importante del Golfo. E’ la regione del Mar Caspio e del Caucaso, molto ricca di greggio e di gas. Se riuscirà a controllare questa regione, così come è il caso del Golfo, l’America si garantirà il mantenimento della leadership mondiale”. Chiaro, no?

Curiosamente, al riguardo i grandi media americani ed europei avevano le idee molto meno chiare. In effetti, negli USA la giornalista Nina Burleigh il 12 ottobre (quindi a guerra già iniziata) ha potuto affermare che “dall’11 settembre solo due articoli nei media americani hanno tentato di descrivere in che modo Big Oil [ossia le multinazionali petrolifere, n.d.r.] potrebbero trarre beneficio da un repulisti di terroristi e di altri elementi anti-Americani nella regione dell’Asia Centrale”.[33] Uno di questi articoli, scritto a Parigi da un giornalista del gruppo Hearst e ripreso soltanto dal San Francisco Chronicle, era effettivamente piuttosto esplicito: “la posta in gioco che si cela nella guerra contro il terrorismo può essere riassunta in un’unica parola: petrolio. La cartina dei santuari e degli obiettivi dei terroristi nel Medio Oriente e nell’Asia Centrale assomiglia in maniera straordinaria alla mappa delle principali fonti di energia per il XXI secolo. Sarà la difesa di queste risorse energetiche – piuttosto che la semplice sfida tra l’Islam e l’Occidente – a costituire il principale scenario di conflitto globale per i prossimi decenni”.[34]

In Italia le cose non vanno meglio. Il primo articolo sull’argomento compare il 9 ottobre, ed è di Magdi Allam su Repubblica. Tant’è vero che Curzio Maltese, ancora dieci giorni dopo, poteva affermare che “nel fiume di chiacchiere che ha circondato questa guerra, il petrolio non c’è”, trovando giustamente questo fatto “curioso e sospetto”.[35] In effetti, a guerra già iniziata soltanto il Manifesto fa opera di informazione, e pubblica, a partire dal 12 ottobre, numerosi articoli sull’argomento.[36] Per trovare sui principali quotidiani un articolo ben documentato bisogna giungere al 24 ottobre, quando la Repubblica pubblica un articolo ove si legge tra l’altro che “nei piani di guerra del Pentagono c’è proprio l’occupazione militare di una fascia di territorio afgano che corrisponde al tracciato di gasdotti e oleodotti per trasportare il gas turkmeno e il petrolio uzbeko fino al porto di Karachi [in Pakistan], accessibile all’Occidente”.[37]

Soltanto molto più tardi, il 3 dicembre, è stato possibile leggere sul Sole 24 ore una frase come questa: “poiché la guerra riguarda così da vicino il mondo arabo, l’Oceano Indiano e l’Asia Centrale, sarebbe sciocco pensare che non riguardi anche la politica energetica, specie quella relativa alla gestione delle vitali risorse d’idrocarburi”.[38]

A questa data, però, il principale risultato strategico della “guerra contro il terrorismo” era stato conseguito: la rotta delle risorse energetiche per l’Afghanistan, poteva annunciare il 17 dicembre il Financial Times, “non è più politicamente inconcepibile”. E gli USA avevano ormai saldamente – e irreversibilmente – stabilito la loro presenza in Asia Centrale.

4. “The Yankees are coming”: le basi americane in Asia Centrale

La presenza militare diretta degli Stati Uniti nei Paesi ex sovietici dell’Asia Centrale (ad eccezione del solo Kazachstan) è ormai una solida realtà. Vediamola in dettaglio.

In Kirgizistan gli Stati Uniti hanno installato una base per 3.000 soldati all’aeroporto di Manas, a 30 km dalla capitale. L’articolo con il quale l’Economist del 19 gennaio ha informato della cosa i suoi lettori aveva un titolo significativo: “Arrivano gli Yankees”. Ancora più significativi i contenuti dell’articolo, che tra l’al­tro notava come la decisione americana di dispiegare queste truppe in Kirgizistan fosse stata assunta “in un momento in cui la guerra in Afghanistan era quasi al termine”. Con l’aggravante che, come dichiarato dal Pentagono il 3 gennaio, il dispiegamento americano andava considerato “di lungo termine, non temporaneo”. Ma la circostanza più significativa l’articolo non la notava: ed era il fatto che il Kirgizistan non confina con l’Afghanistan. Confina però con il Kazakhstan, il paese più ricco di risorse energetiche di tutta l’Asia Centrale. E dista 320 km dalla Cina. A Mosca ovviamente la notizia non è stata presa bene, tanto che la Russia ha subito minacciato di non ratificare un accordo per ristrutturare il debito (di 133 milioni di dollari) del Kirgizistan nei suoi confronti.[39]

Per quanto riguarda l’Uzbekistan, l’interessata amicizia con gli USA è di più lunga data. L’Uzbekistan già da tempo ospita basi americane. Il primo accordo tra USA e Uzbekistan per l’addestramento di truppe uzbeke da parte degli Americani risale infatti al 13 dicembre 1995. Nel 1996 si sono svolte le prime esercitazioni congiunte su territorio uzbeko. Però con la “guerra contro il terrorismo” i legami si sono fatti ancora più stretti: le basi di Khanabad e Kokaida ora ospitano 1.500 soldati americani. E più generosi si sono fatti anche gli aiuti USA: quest’anno ammonteranno a 160 milioni di dollari (il triplo del 2001). L’aiuto più importante che gli USA danno al presidente Karimov è però di un altro tipo: si tratta del compunto silenzio sulle gravissime violazioni dei diritti umani che hanno luogo in questo (come del resto nella più parte dei paesi limitrofi), e dell’assenso alla trasformazione di ogni dissidente in un “terrorista”.[40] Inoltre Bush in persona ha definito l’Uzbekistan “un partner strategico” e ha ammonito che gli USA “vedrebbero con grave preoccupazione” ogni minaccia alla sicurezza dell’Uzbekistan. In verità, come spesso accade quando si dicono queste cose, è l’Uzbekistan a minacciare i paesi confinanti (Tajikistan e Kirgizistan). Comunque, sulla base di questi presupposti, come meravigliarsi del fatto che il buon Karimov abbia dichiarato che la presenza USA in territorio uzbeko per quanto lo riguarda “non è a termine”?

Anche il Tajikistan (che ha 500 km di confine con la Cina…) ha offerto agli USA le proprie basi. Già durante la guerra gli USA hanno avuto il permesso di lanciare attacchi in Afghanistan dalle ex basi sovietiche di Dushambe e Kulyab.[41] Ma anche in questo caso la situazione è in ulteriore evoluzione. Il 20 febbraio del 2002 il Tajikistan è entrato a far parte della Partnership for Peace della NATO. Il 18 aprile, al termine di una visita di due giorni del ministro degli esteri tagiko negli USA, il Dipartimento di Stato ha reso pubblico un comunicato congiunto in cui viene espresso l’impegno di stabilire “relazioni qualitativamente nuove e di lungo termine basate su comuni obiettivi” quali “la lotta al terrorismo internazionale” e “il mantenimento della pace e della stabilità ed il rafforzamento della sicurezza nell’Asia Centrale”. Il significato di queste parole è stato chiaro il giorno dopo, allorché l’agenzia Reuters ha reso noto un memorandum di Bush a Powell ove si legge che “la fornitura di armi e addestramento (defence articles and services) al Tajikistan rafforzerà la sicurezza degli Stati Uniti e promuoverà la pace nel mondo [sic!]”. Per comprendere il carattere provocatorio di tutto questo va ricordato non soltanto che il Tajikistan fa parte della Comunità degli Stati Indipendenti (come del resto tutte le repubbliche ex-sovietiche dell’Asia Centrale ad eccezione dell’Uzbekistan), ma anche che sul suo territorio stazionano tuttora 19 mila soldati russi, in gran parte schierati lungo i confini con l’Afghanistan.[42]

E veniamo alle pecore nere.

Cominciando dal Turkmenistan, che ha rifiutato di concedere il suo territorio alle forze statunitensi, pur concedendo il diritto di sorvolo per voli umanitari. Ed è stato punito con l’esclusione dai tour organizzati da numerose delegazioni di senatori e deputati americani in questi Paesi, con aiuti americani di entità ridicola (16,4 milioni di dollari nel 2002), e – da ultimo – con una condanna da parte dell’OSCE per “assoluta mancanza di ogni libertà di espressione”.[43] La condanna dell’OSCE probabilmente avrà effetti pratici piuttosto limitati. Più importante è il fatto che gli USA hanno segretamente incontrato oppositori del capo dello stato turkmeno, Saparmurat Niyazov. Tutto questo, nonostante che l’atteggiamento del presidente turkmeno sia favorevole al gasdotto per l’Afghanistan, e che il capitale americano sia già ben presente nel Paese (è tra l’altro presente l’impresa di escavazioni Halliburton). Evidentemente, però, l’appetito vien mangiando. E allora si sostiene l’opposizione in Turkmenistan. Con quali prospettive? Lasciamo la parola all’istituto di studi che ha dato questa notizia il 21 giugno scorso: “se Niyazov non si alleerà con gli USA, il sostegno all’opposizione diventerà più forte, e ci si potrà attendere qualche forma di pressione da parte americana sul presidente. Ma se Niyazov farà delle concessioni, accettando truppe americane, cambiando le condizioni di investimento in modo da favorire le compagnie straniere, e annunciando qualche riforma di facciata, allora Washington abbandonerà l’opposizione turkmena.” In definitiva, “l’interesse USA nei confronti di essa esprime un più profondo interesse americano nel gas e nel petrolio del Turkmenistan.”[44] Più chiaro di così…

Ma il problema è soprattutto il Kazakistan. Che a gennaio ha addirittura firmato un accordo di difesa con la Cina.[45] In questo caso, vista l’importanza di un Paese che secondo il Financial Times “un giorno potrebbe diventare un incubo per l’OPEC”,[46] e vista l’importanza degli investimenti che il capitale occidentale e statunitense vi ha già effettuato, l’approccio non può essere troppo duro. Bisogna denunciare i “metodi antidemocratici” di Nazarbayev – e anche in questo caso l’OSCE obbediente esegue[47] – ma conviene anche dare qualche contentino. Così, nel mese di marzo è stato comunicato che dal 1° ottobre 2001 il Paese ha ottenuto dal Dipartimento del Commercio USA l’ambito riconoscimento di “paese con economia di mercato”, che consente di rendere inapplicabili nei suoi confronti le leggi antidumping (leggi: dazi). Lo stesso riconoscimento era stato fornito esattamente un anno prima dall’Unione Europea. E il 1° aprile il ministro degli esteri kazako ha dichiarato la propria disponibilità ad aprire, “in caso di emergenza”, un aeroporto alla coalizione antiterrorismo guidata dagli USA. In apparenza, si tratta di una mossa puramente di facciata (benché comunque 600 voli della coalizione abbiano usufruito dello spazio aereo kazako durante la guerra[48]). E infatti il 27 giugno, durante un’audizione di un alto funzionario del Dipartimento di Stato americano al Senato, è stato detto esplicitamente che il governo americano intende “aumentare il suo sostegno finanziario al processo di sviluppo dei partiti politici in Kazakistan”,.[49] Ossia pagare i partiti di opposizione.

Ovviamente, la penetrazione USA nell’area si vale di uno spettro di mezzi che va ben oltre la semplice macchina militare. C’è la guerra di propaganda: ad esempio, il 4 aprile 2002 sono state inaugurate le trasmissioni di Radio Free Europe (accusata dai Russi di sostenere i secessionisti ceceni) su Cecenia e nord Caucaso. Ma sono stati anche raddoppiati i programmi di assistenza economica ai paesi dell’area (da 244,2 milioni di dollari nel 2001 a 408 milioni nel 2002). Ed è stata rilanciata la vendita di armi, eliminando le precedenti restrizioni.[50]

Comunque, la presenza di basi e soldati americani in questi Paesi è il fatto più significativo, e non soltanto da un punto di vista simbolico.

Sulla durata di questa presenza i messaggi che vengono dagli USA sono inequivocabili. Da ultimo Rumsfeld, col suo caratteristico eloquio sempre così ricco di sfumature, ha detto: le truppe americane resteranno “sinché sarà necessario” (24 aprile). Ma già nel dicembre scorso Elizabeth Jones, la vice segretaria di Stato per gli Affari Europei ed Eurasiatici [!!], aveva dichiarato di fronte ad una commissione parlamentare che l’amministrazione Bush sperava che una permanente presenza americana in Asia Centrale desse impulso allo sviluppo economico e sostenesse le riforme democratiche nella regione. A gennaio anche il leader (Democratico) del Senato americano, Tom Daschle, ha dichiarato che “gli USA vedono la loro presenza in Asia Centrale come un impegno di lungo termine che proseguirà anche dopo il completo ritorno della stabilità in Afghanistan”; da questo punto di vista, ha detto Daschle, “il nostro successo militare va visto come l’inizio, non la fine, del nostro sforzo”.[51] Del 30 aprile, infine, è la notizia che il Pentagono sta predisponendo un piano per una presenza militare di lungo termine nell’area.[52]

Quanto agli obiettivi della presenza americana nell’area, il Moscow Times del 13 febbraio non ha dubbi: “Gli Stati Uniti stanno accerchiando la Cina, il solo Paese che potrebbe ingaggiare una lotta economica, politica o militare. Sono già in Corea del Sud, Giappone e Taiwan, mentre l’India è anti-cinese. Resta da coprire un ampio arco – Russia e Asia Centrale”.[53] A queste dichiarazioni ha fatto eco, due mesi dopo, il generale russo Mylnikov, capo del Centro Antiterrorismo della CSI, che ha individuato gli obiettivi americani nel “controllo a lungo termine dei processi politico-militari in Asia Centrale e in stati limitrofi, quali l’Iran e l’Irak”, nonché nella volontà di porre in essere “una misura preventiva contro la Cina”.[54]

In queste affermazioni c’è un non-detto significativo: l’obiettivo dell’accerchiamento USA potrebbe infatti essere la stessa Russia. Qualcuno ha sostenuto esplicitamente proprio questa tesi, ad appena un mese dal­l’i­nizio delle operazioni militari in Afghanistan. “Il grande guadagno per gli USA è l’occasione d’oro di stabilire una presenza militare permanente nell’Asia Centrale, che è ricca di petrolio e che apre la strada ad un’altra regione ricca di risorse, la Siberia. Così, un altro obiettivo potrebbe essere a portata di mano – l’ulteriore balcanizzazione della Russia e delle nazioni dell’Asia Centrale, sino a farne entità simili agli emirati, facilmente controllabili e privi di reale sovranità”.[55] Dello stesso tenore la Rossiskaya Gazeta del 22 gennaio: al termine delle operazioni in Afghanistan, “la Russia e l’intera ex-Unione Sovietica non solo risultano accerchiate da un anello di basi militari e di intelligence degli USA e della NATO, proprio come 50 anni fa. In più, queste basi hanno ‘messo radici’ direttamente in Asia Centrale”.[56]

Tutto questo – è bene ricordarlo – avviene in una situazione in cui il contenzioso tra i 5 Stati che si affacciano sul Mar Caspio – per il possesso delle risorse che il Caspio contiene – non accenna a risolversi.[57]

5. Conclusioni

La conclusione è obbligata: sotto questo profilo la guerra è stata un vero successo. Essa ha infatti garantito agli USA:

a) un’ipoteca sul controllo del Mar Caspio e dei Paesi dell’Asia Centrale e delle relative risorse energetiche;

b) una presa geopolitica sull’area, con una duplice funzione di contenimento (nei confronti della Russa e della Cina);

c) e, per questa via, una forte riconferma del dominio statunitense a livello mondiale.

Controllo delle risorse energetiche, dominio imperialistico, supremazia militare. Sono punti da sempre all’ordine del giorno della politica estera americana. E da sempre sono tra loro connessi. Non soltanto in Asia Centrale: la presenza delle forze militari americane in prossimità dei luoghi di estrazione delle risorse energetiche e lungo il percorso degli oleodotti, in Asia Centrale come in Medio Oriente, è assolutamente impressionante.

La connessione tra petrolio e dominio imperialistico americano è così espressa in uno degli articoli migliori usciti sulla guerra afghana (non a caso pubblicato da un quotidiano di Hong Kong):

“I Talebani non sono mai stati un obiettivo nella “guerra contro il terrorismo”. Sono stati soltanto un capro espiatorio – o meglio, un’orda di guerrieri medievali che semplicemente non hanno onorato il loro contratto: inserire l’Afghanistan nell’Oleodottistan. Tutte le potenze regionali sanno bene che l’America è in Asia Centrale per restarci, come Washington stessa è andata ripetendo in queste ultime settimane, e influenzerà o farà azione di disturbo sull’economia e la geopolitica della regione (…). Oleodottistan non è un fine in sé. Il petrolio e il gas non rappresentano l’obiettivo ultimo degli USA. Tutto questo ha come obiettivo il controllo. Nel suo Monopole, lo scrittore belga Michel Collon ha scritto: “Se vuoi dominare il mondo, devi controllare il petrolio. Tutto il petrolio. Ovunque”.”[58]

[1] La si trova a questa pagina web: http://www.dawn.com/2002/05/31/top11.htm  (il sito di informazione DAWN la colloca, giustamente, tra i titoli principali del 31 maggio).

[2] Z. Brzezinsky, La grande scacchiera, 1997.

[3] Accenno qui soltanto a questo tema, che ho trattato più diffusamente in V. Giacché, “La guerra e il suo uso economico”, Imperialismo, mondializzazione e guerra, Speciale allegato a l’Ernesto, sett.-ott. 2001, pp. 16-18, e in “Perché la guerra fa bene all’economia”, in Proteo, n. 3/2001, pp. 111-116.

[4] W. Maijd, “The New Gold Mines of Central Asia”, agosto 2000 (www.institute-for-afghan-studies.org/dev_xyz/pipeline/ goldmines_majid.htm)

[5] D. Tonello, “La nuova frontiera dei petrolieri” in Borsa & Finanza, 22 dicembre 2001; B. Koerner, “What if the Caspian Region were a major Oil Supplier”, in Worldlink [si tratta della rivista del World Economic Forum di Davos – quest’anno spostato a New York], 17 gennaio 2002. La stima dell’entità delle riserve petrolifere dell’area è stata fatta dal Dipartimento dell’Energia del governo americano.

[6] Il 17 dicembre il Financial Times ha dedicato un fascicolo al Kazakhstan. L’articolo di apertura recava questo titolo: “Geopolitics and oil focus the spotlight on Central Asia”.

[7] E.I.A., Caspian Sea Region, luglio 2001 (www.eia.doe.gov/emeu/cabs/caspian. html). Per dati quantitativi su entità delle risorse e dell’export si vedano le tabelle riportate in http://www.eia.doe.gov/emeu/cabs/caspgrph. html#TAB2.

[8] V. I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, 1915-6.

[9] Dichiarazioni riportate da M. Cohn, “Cheney’s Black Gold: Oil Interests May Drive US Foreign Policy” [!], in the Chicago Tribune, 10 agosto 2000 [!]. Cheney inoltre nel 1994 favorì, in qualità di membro dell’Oil Advisory Board del Kazakhstan, la chiusura di un importante contratto per la Chevron.

[10] J-C. Brisard, G. Dasquié, La verità negata, 2001; tr.it. Ed. Tropea, 2002, pp. 42-43; A. Politi, “Sua Maestà l’oro nero”, l’Espresso, 1° novembre 2001.

[11] Hanno contribuito alla campagna elettorale di Bush i presidenti ed amministratori delegati di queste società: Exxon, Philips Petroleum, Mobil, Occidental Petroleum, Texaco (http://democraticleader.house.ogv/uploads/05-16-01EnergySpecialInterest.pdf).

[12] Questa espressione dà il titolo ad un paragrafo del volume di M.-R. Djalili e T. Kellner, Géopolitique de la nouvelle Asie Centrale, Paris, PUF, 2001.

[13] v. http://www.american.edu/projects/mandala/TED/turkmen.htm.

[14] Niyazov è tuttora presidente: e, in base ad una legge che ha fatto promulgare, resterà tale “a vita”.

[15] Oil & Gas Journal, 30 ottobre 1995. Cit. in Brisard e Dasquié, op.cit., p. 29.

[16] Intervista a Time, 14 ottobre 1996.

[17] Art. di S. Trippodo, Il Diario della settimana, 8 aprile 1997.

[18] L’audizione è stata tradotta sul Manifesto del 17 ottobre 2001.

[19] le Monde, 13 dicembre 2001. V. anche W. Madsen, “Afghanistan, the Taliban and the Bush Oil Team”, 10 gennaio 2002 (http://democrats.com/view.cfm?id=5496) e the Independent, 10 gennaio 2002.

[20] Sull’argomento vedi J-C. Brisard, G. Dasquié, La verità negata, cit.; J. Gelman, “Petrolio, la guerra in una sola parola”, tr.it. il Manifesto, 27 novembre 2001; ma soprattutto P. Abramovici, “La storia segreta dei negoziati tra Washington e i taliban”, le Monde diplomatique, gennaio 2002.

[21] Lettera alle Nazioni Unite, riportata dal Far Eastern Economic Review.

[22] P. Escobar, “The roving Eye. Pipelineistan, Part 1: The rules of the game”, Asia Times, 25 gennaio 2002. Articolo eccellente e molto ben documentato.

[23] Un sunto delle rotte principali si trova in R. Tanter, “La politica degli oleodotti. Petrolio, gas e gli interessi statunitensi in Afghanistan”, tr. it.: http:// http://www.zmag.org/Italy/tanter-oil.htm.

[24] A. Chebotaryov, “Kazakhstan: US pushes Baku-Ceyhan Pipeline”, Report on Central Asia, n. 109, 22 marzo 2002. Va detto che le più recenti prese di posizione del Kazakhstan sull’argomento sembrano più caute.

[25] A.I. Killgore, “Kazakhstan Supports Iran Pipeline Route: Is Israel’s Turkish Route Doomed?”, WRMEA, Special Report, 17 febbraio 2002.

[26] Per queste ed altre notizie vedi P. Escobar, “Pipelineistan, Part 2: The games nations play”, Asia Times, 26 gennaio 2002.

[27] Vale la pena di riportare una frase, tratta da una recente agenzia della Reuters, che non ha bisogno di ulteriori commenti: “nel dicembre scorso il Congresso ha votato di sospendere il divieto di fornire aiuti militari americani all’Azerbajian, una potenziale nuova fonte di petrolio” (Reuters del 19 aprile 2002).

[28] M. T. Klare, “Bush’s Master Oil Plan”, in Pacific News Service, 23 aprile 2002. Nel testo di Cheney vi era uno specifico riferimento all’Azerbajian e alla necessità di costruire nuovi oleodotti verso Occidente.

[29] D. Cave, “Stuck in the Gulf”, Salon, 29 ottobre 2001. “Ending the Oil Addiction”, New York Times, 18 febbraio 2002.

[30] Per i problemi legati alla distribuzione da parte delle compagnie russe delle risorse dell’Asia Centrale cfr. “Kazakhstan eyes key gas role in Central Asia”, in Gulf News, 16 febbraio 2002; e M. Lelyveld, “Kazakhstan: Talk of Oil Pipeline Trhough Afghanistan Seen As Premature”, Radio Free Europe, 15 febbraio.

[31] “China wagt sich ein riesiges Gasprojekt”, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 8 febbraio 2002.

[32] R. Devraj, “The oil behind Bush and Son’s campaigns”, in Asia Times, 6 ottobre 2001.

[33] L’autrice di questo articolo, che si può leggere sul sito “liberal” http://www.tompaine.com, non è certamente un’estremista di sinistra: suoi articoli sono stati ospitati sul Washington Post, sul Chicago Tribune, ed è stata inviata in Irak per il settimanale Time ai tempi della guerra del Golfo.

[34] F. Viviano, “Energy Future Rides on U.S. War – Conflict centered in world’s oil patch”, in San Francisco Chronicle, 26 settembre 2001.

[35] C. Maltese, “Le ragioni del petrolio”, in Venerdì di Repubblica, 19 ottobre.

[36] F. Piccioni, “Quanto pesa il petrolio del Caspio”, 12/10; “La guerra sul treno della crisi petrolifera” (intervista ad A. Di Fazio), 17/10; “La verità sotto terra” (traduzione dell’audizione di un petroliere americano davanti al Congresso nel 1998), 17/10; M. Dinucci,”Sotto il corridoio afgano”, 18/10. Molti altri articoli si sono aggiunti nelle settimane successive.

[37] F. Rampini, “In guerra per il petrolio – l’altra faccia dei raid”, la Repubblica, 24 ottobre 2001.

[38] S. Silvestri, “L’America alla ricerca del barile sicuro”, il Sole 24 ore, 3 dicembre 2001. Verrebbe da rispondere che è sciocco pensarlo, ma non lo è affatto farlo pensare.

[39] C. Orozobekova, “Kyrgyzstan: Russia calls in its Debts”, Report on Central Asia, n. 116, 19 aprile 2002.

[40] A. Taheri, “Der kurze Frühling der Freiheit”, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 21 dicembre 2001. C. Jakypova, V. Davlatov, “US Campaign Poses Threat to Central Asia”, RCA n. 103, 8 febbraio 2002.

[41] M.R. Gordon, C.J. Chivers, “US, Tajikistan make a deal on military cooperation”, in San Francisco Chronicle, 5 novembre 2001.

[42] V. Davlatov, “Tajik Tilt Toward US Unnerves Moscow”, RCA, n. 99, 18 gennaio 2002.

[43] “Turkmenistan: OSCE Condemns Lack Of Freedom”, RFE, 30 aprile 2002.

[44] “U.S. Using Turkmen Opposition To Pressure President”, Stratfor.com, 21 giugno 2002.

[45] “China signs defence deal with Kazakhstan”, BBC News, 19 gennaio 2002.

[46] Financial Times, 17 dicembre 2001.

[47] B. Pannier,”Kazakhstan: OSCE Has Harsh Words For Treatment Of Independent Media”, RFE, 1° maggio 2002.

[48] Xinhua News Agency del 1° aprile. Washington File: “US, Kazakhstan Pledge Cooperation in War Against Terrorism”, 28 aprile 2002.

[49] Washington File: “US Continues to Promote Human Rights, Democracy in Central Asia”, 27 giugno 2002.

[50] K. Huus, “US arms once-forbidden Eurasia”, MSNBC News, 24 aprile 2002.

[51] J.C. Puech, “Central Asia: US Military Buildup Shifts Spheres of Influence”, Radio Free Europe, 11 gennaio 2002; J. Bransten, “Central Asia: US Senate Majority Leader Reaffirms Commitment”, RFE, 18 gennaio 2002.

[52] R. Burns, “Pentagon considering ways to keep military presence in Central Asia for the long run”, Associated Press, 30 aprile 2002.

[53] Dichiarazioni di K. Makiyenko, vicepresidente del Centro russo per l’Analisi delle Strategie e delle Tecnologie, riportate nell’articolo di L. Pronina, “Ivanov: US Will Leave Central Asia”, the Moscow Times, 13 febbraio 2002. Anche l’Economist dell’8 giugno scorso ha titolato un suo articolo “La Cina si sente accerchiata”.

[54] B. Pannier, “Central Asia: CIS Conducts Massive Military Exercises”, RFE, 18 aprile 2002.

[55] K. Talbot, “Afghanistan is Key to Oil Profits”, Centre for Research on Globalisation, 7 novembre 2001 (www.globalresearch. ca/articles/TAL111A.html). Si tratta di un articolo molto ben documentato.

[56] S. Ptichkin e A. Chichkin, “From Where Russia is Clearly Visible”, Rossiskaya Gazeta, 22 gennaio 2002; v. anche M. Khodaryonok, “Big Brother Dumped for $ 1 Billion”, Nezavisimaya Gazeta, 30 gennaio 2002.

[57] L’ultimo trattato, che ripartiva il mare tra URSS e Iran nella misura del 50% ciascuno, risale al 1940. Dalla fine dell’URSS, nel 1991, gli stati rivieraschi sono diventati 5: Russia, Iran, Azerbajian, Turkmenistan e Kazakhstan. Il 24 aprile 2002 è fallito l’ultimo summit tra i 5 Stati. Anche l’ultimo compromesso proposto dall’Iran (con l’appoggio del Turkmenistan) di dividere il Caspio in 5 parti eguali è stato respinto dagli altri 3 stati, che vedono con maggior favore una spartizione sulla base delle coste rispettive: in tal caso all’Iran spetterebbe non più del 13% del mar Caspio. Vedi C. Hoffmann, “Wem gehört das Kaspische Meer?”, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 24 aprile, e “Caspian Sea summit agrees to disagree”, China Daily, 27 aprile.

[58] P. Escobar, “Pipelineistan, Part 2”, Asia Times, 26 gennaio 2002, cit.



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