33241. ROMA-ADISTA. Quasi due terzi del petrolio iracheno sono finiti, o stanno per finire, nei depositi delle multinazionali petrolifere: una “truffa a mano armata” che garantisce enormi profitti alle grandi compagnie occidentali, fra cui l’italiana Eni, e dimostra ancora una volta la strumentalità della guerra all’Iraq, evidenziando il suo diretto legame con gli interessi economici legati allo sfruttamento delle riserve petrolifere del Paese.
E Truffa a mano armata. I numeri degli interessi petroliferi occidentali e italiani in Iraq è infatti il titolo del dossier realizzato dalle associazioni “Un ponte per…”, Arci, Lunaria e Campagna per la riforma della Banca Mondiale e presentato a Roma, in un incontro pubblico, lo scorso 13 febbraio (curato da Michele Paolini, Paola Gasparoli e Antonio Tricarico; può essere richiesto contattando l’associazione “Un ponte per…”, tel. 06/44702906, e-mail: posta@unponteper.it, sito internet: http://www.unponteper.it). All’incontro ha partecipato anche Dawood K. Salman, rappresentante della General Union of Oil Employees (il sindacato dei lavoratori del petrolio di Bassora) che da quasi due anni sta faticosamente tentando di riprendere le attività, anche per contrastare la privatizzazione selvaggia e indiscriminata dell’intero settore petrolifero iniziata subito dopo la ‘fine della guerra’ in Iraq: “rispetto a quando c’era Saddam Hussein – spiega il sindacalista – per il popolo iracheno non è cambiato nulla. Fino a tre anni fa Saddam deteneva il controllo totale delle risorse petrolifere, ora che lui non c’è più lo hanno assunto le compagnie petrolifere”.
Dal dossier, che in parte riprende una ricerca dell’organizzazione inglese Platform, emerge che, “entro la metà del 2006, il governo iracheno si prepara a siglare accordi con le più grandi compagnie petrolifere occidentali, tra cui l’italiana Eni, per avviare la produzione in 11 campi petroliferi nel sud dell’Iraq”, tra cui quello di Nassiriya, dove si trova il contingente italiano e su cui l’Eni aveva ‘messo gli occhi’ fin dai tempi di Saddam Hussein. E si segnala anche che “fin dal 2005 l’Eni, assieme alla Bp, alla Chevron e alla Total, è stata in contatto con il ministero del petrolio iracheno per definire il quadro di lavoro per lo sviluppo dei campi petroliferi non ancora operativi nel sud del Paese”.
Il rapporto analizza anche quello che sarà lo sviluppo del mercato petrolifero iracheno nei prossimi anni: non vi sarà una esplicita privatizzazione, ma l’adozione dei Production Sharing Agreements (Psa): “contratti che, pur lasciando all’Iraq la proprietà dei giacimenti petroliferi, di fatto mettono nelle mani delle multinazionali la maggior parte delle future rendite”. In questo quadro la politica energetica che si va delineando, sostenuta dal Dipartimento di Stato Usa e degli altri Paesi della coalizione, “destina alle multinazionali petrolifere la maggioranza dei giacimenti iracheni – ossia 63 su 84 – pari ad almeno il 64 per cento delle riserve del Paese”. E con un prezzo del petrolio stabilito a circa 40 dollari al barile (ben al di sotto delle attuali quotazioni, ndr), “l’Iraq perderebbe un importo tra i 74 e i 194 miliardi di dollari durante il periodo di validità dei contratti (25-40 anni), mentre la redditività degli investimenti delle compagnie petrolifere dovrebbe oscillare tra il 42 e il 162 per cento”. In particolare, si legge ancora nel dossier “lo sfruttamento del giacimento di Nassiriya da parte dell’Eni” costerebbe in termini di “mancate entrate per lo stato iracheno tra i 2,3 ai circa 6 miliardi di dollari, pari rispettivamente all’8 e al 20 per cento del bilancio annuo attuale dell’Iraq”. (luca kocci)
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Chi non ha mai seguito le vicende geopolitiche o lo ha fatto superficialmente probabilmente non sa o non ricorda che vi sono dei nomi ricorrenti: da un lato questa o quella o tutte le compagnie petrolifere, dall’altro UNOCAL, nota soprattutto per essere una gigantesca multinazionale USA che costruisce oleodotti. A partire da La Grande Scacchiera di Zbigniew Brzezinski (è un libro del 1997 pubblicato in Italia da Longanesi nel 1998) è diventata chiara la politica USA ed il ruolo di UNOCAL. Nel libro in oggetto Brzezinski si chiede come conservare la supremazia mondiale degli USA, conquistata negli ultimi 100 anni. Dopo il crollo dell’URSS occorre riposizionarsi e la sua attenzione si concentra sulle quattro aree critiche della zona euroasiatica: Europa, Russia, Asia centrale e Asia orientale. La lotta per il controllo di questa zona nevralgica, in cui è concentrata gran parte della popolazione e delle risorse economiche del globo, rappresenta appunto la grande scacchiera sulla quale vincere la partita. Per fare scacco matto si devono mettere in campo strategie economiche e militari tali da privare le principali potenze (affermate o emergenti) di quell’area di alleati e materie prime. Queste ultime giocano un ruolo fondamentale per continuare a mantenere la supremazia e per togliere ad altri ogni ambizione. E l’area euroasiatica gravitante intorno al Caspio è ricca di petrolio che deve simultaneamente essere tolto ai competitori e diventare occidentale. Resta un problema fondamentale che deve essere risolto a priori per evidenti ragioni che si comprenderanno subito. Quell’area non ha sbocchi sul mare è circondata da Paesi che non sono amici degli USA e che comunque non darebbero con facilità per messi per far passare oleodotti. Se si guarda una carta geografica si scopre che la prima apertura verso il mare è avvenuta distruggendo la Jugoslavia con il Kossovo portato a servizio USA e con il Mediterraneo spalancato. E’ stata quindi la volta dell’Afghanistan per aperture verso l’Oceano Indiano. Quindi è venuto il momento dell’Iraq per essere la seconda riserva mondiale conosciuta di petrolio (dopo l’Arabia). Per chiudere la partita occorre convincere l’Iran e la Siria ed a questo punto la partita si giocherebbe con la Cina, priva però dell’energia che le occorrerebbe, e con la Russia che viene accerchiata con i missili esistenti e con quelli recentemente dislocati in Polonia, in Ukraina ed in tutti i Paesi ex URSS.
Ed ecco l’Unocal di nuovo. Costruiva oleodotti in Birmania. Le dittature feroci che collaborano con gli USA sono amiche dell’Occidente. Ecco perché può resistere una giunta militare dopo 45 anni di feroce repressione.
Il resto è storia quotidiana che i giornalisti del padrone leggono sempre per i fatti appariscenti e mai per le profonde cause che sono dietro gli eventi.
Roberto Renzetti
«Doe versus Unocal», storia di una complicità
Negli anni ’90, Unocal e Total hanno chiuso gli occhi di fronte alle atrocità commesse dai militari birmani durante i lavori del loro gasdotto. Finché profughi e sindacalisti le hanno portate in tribunale
Marina Forti
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/29-Settembre-2007/art35.html
Il «progetto Yadana» illustra bene in quale complicità si possno trovare le aziende straniere che investono in Birmania. Forse dice anche perché le potenze mondiali sono così restie a sanzioni economiche contro una giunta militare che spara su manifestanti…
Yadana significa «tesoro» in birmano, ed è il nome di un giacimento di gas nel mare delle Andamane. Per sfruttarlo, nei primi anni ’90 il governo militare di Rangoon ha avviato un progetto ambizioso: costruire un gasdotto per trasferire il gas naturale estratto dai giacimenti off-shore delle Andamane fino in Thailandia, sulla costa del Golfo del Siam.
Nel 1993 dunque un consorzio tra Total (francese, ora Total-Fina-Elf) e Unocal (californiana) ha firmato un accordo con l’azienda di stato birmana, Myanma Oil and Gas Enterprise, che possiede una partecipazione sia nei pozzi di gas che nel gasdotto: è stato stimato in un paio di miliardi di dollari, ed è il maggiore investimento straniero realizzato in Birmania. Nell’ottobre ’95 la joint venture è diventata operativa. Ditte francesi, giapponesi e italiane hanno partecipato alla produzione e posa del gasdotto, impiegando il lavoro di 2.500 persone (di cui solo 300 tecnici stranieri, il resto era manodopera locale). Nel 1998 il lavoro era terminato e poteva cominciare la produzione.
Per la popolazione locale il progetto Yadana è stata una tragedia. Per preparare il terreno, nei primi anni ’90 Tatmawdaw («Esercito del popolo», l’esercito birmano) ha cominciato a aprire strade nella foresta, evacuare i villaggi lungo il tracciato del gasdotto, costruire alloggi per i militari, eliporti, e una ferrovia. Solo verso la fine del ’94 un sindacalista birmano in esilio è venuto a conoscenza, ed è stato attraverso i racconti dei profughi che avevano cominciato a fuggire dalla zona del gasdotto.
Le storie dei fuggiaschi si confermavano l’un l’altra. A volte un villaggio era preso di sorpresa, le capanne rase al suolo, uomini e donne di quasi ogni età arruolati a forza a lavorare per l’esercito. A volte un gruppo di persone cercava di sottrarsi ai lavori forzati fuggendo. Altri sono scappati attraverso la foresta senza aspettare l’arrivo dei militari, rifugiandosi al di là del fiume che segna la frontiera con la Thailandia. Molti hanno raccontato di stupri e uccisioni.
Storie di brutalità incredibile, che hanno scosso anche chi conosceva la violenza della giunta militare. Dirigente di un sindacato nazionale, U Maung Maung era fuggito da Rangoon (poi ribattezzata Yangoon) dopo il massacro del 1988, quando i militari hanno represso una rivolta per la democrazia sparando sulla folla. Nella seguente ondata di arresti ed esecuzioni tremila persone furono uccise. Maung era fuggito in Thailandia, come molti studenti e attivisti di quel movimento.
U Maung Maung riassume: tra il 1993 e ’94 circa 150mila persone sono state strappate ai propri villaggi e costrette a fuggire, rifugiandosi in Thailandia: private dei mezzi di sussistenza e insieme anche della propria libertà, dignità e vita sociale. Altri attivisti birmani in esilio si sono imbattuti nei fuggiaschi del Tenasserim: come Ka Hsaw Wa, cofondatore di EarthRights International. Finché sindacalisti e attivisti per i diritti umani hanno deciso di chiamare in causa le aziende occidentali del progetto Yadana: Total e Unocal.
Nel settembre del 1996 la Federazione dei Sindacati della Birmania ha fatto causa alle due aziende petrolifere presso il tribunale di San Francisco, California, a nome di un gruppo di profughi birmani e con il sostegno del International Labor Rights Fund, organizzazione statunitense per i diritti del lavoro. Un’altra causa, a nome di un altro gruppo di profughi, è stata presentata da EarthRights International. In entrambi i casi, le aziende petrolifere erano accusate di complicità in omicidi, riduzione ai lavori forzati, stupri e violenze commessi dall’esercito birmano nell’ambito del progetto Yadana.
La sproporzione tra i contendenti è evidente: dei contadini semianalfabeti e due multinazionali dal fatturato superiore al prodotto interno lordo della Birmania. E però, le testimonianze raccolte nella giungla sono infine approdate in tribunale di San Francisco (anche se la corte ha ritenuto di potersi occupare solo di Unocal, non della socia francese Total).
Il caso «Doe versus Unocal» è per molti aspetti unico. Doe è il nome collettivo di quindici persone, i profughi birmani. I rifugiati restano in una situazione assai precaria nei loro accampamenti al limitare della giungla, senza terre da coltivare né un lavoro e senza uno statuto legale: per la Thailandia erano immigranti illegali. Per proteggerli, sono stati nominati «Jane Doe» o «John Doe» e un numero. Le loro testimonianze sono state riprese dalla stampa americana con grande clamore.
I legali di Unocal ribattevano che quelle storie, per quanto tragiche, non provano nulla contro la compagnia, le accuse erano infondate. Unocal non nega che i militari birmani abbiano seminato il terrore nella regione del gasdotto: però ha sostenuto che il lavoro forzato non è stato usato nella posa del gasdotto stesso, i 2.200 operai che hanno lavorato per il consorzio erano là per libera scelta e ricevevano il loro regolare salario; la compagnia non poteva sapere cosa facevano i militari, e in ogni caso non ne era responsabile.
Tra gli atti dell’accusa però diversi documenti chiamano in causa direttamente le due aziende petrolifere. Uno è la «valutazione di rischio» commissionata da Unocal a una ditta privata, Control Risk Group, quando l’affare Yadana si stava profilando: il rapporto ricevuto nel maggio 1992 diceva chiaro che il governo birmano «fa abitualmente uso di lavoro forzato per costruire strade», e avvertiva: «Ci sono informazioni credibili su attacchi dei militari a civili nella regione, la comunità locale è ormai terrorizzata». Ci sono poi le deposizioni di diversi dirigenti della stessa Unocal: ammettono che, ai termini del contratto, spettava proprio all’esercito garantire la sicurezza della pipeline.
Agli atti è anche la trascrizione di un incontro tra l’allora presidente di Unocal John Imre e un gruppo di attivisti per i diritti umani, all’inizio del 1995 presso la sede centrale dell’azienda in California: alle accuse di coprire la repressione militare aveva risposto: «Se il lavoro forzato va di pari passo con i militari, sì, ci sarà più lavoro forzato. Per ogni minaccia al gasdotto ci sarà una reazione». Più tardi, in tribunale, Imre precisò che non voleva con questo dare la sua approvazione al lavoro forzato. Infine, nel 1995, Unocal aveva ricevuto un altro allarme da un suo consulente, John Haseman, ex attaché militare all’ambasciata Usa in Myanmar: diceva che terribili violazioni dei diritti umani erano in corso nella regione meridionale. e «accettando la versione dei fatti Unocal appare nel migliore dei casi naive, nel peggiore un partner volente della situazione».
La difesa di Unocal – «non sapevamo, non siamo responsabili» infine ha perso. Nel settembre 2002, e in appello nel luglio 2003, il tribunale di San Francisco ha infatti giudicato che c’erano abbastanza elementi per rinviare a giudizio la compagnia petrolifera. E’ un precedente importante, anche se è finita in un patteggiamento extragiudiziario che ha evitato ai rappresentanti di Unocal di comparire in aula: un risarcimento per i querelanti e una forte somma per finanziare opere sociali per le persone che hanno sofferto a causa del gasdotto. Per la prima volta un’azienda multinazionale statunitense ha dovuto rispondere in tribunale per complicità nella violazione di diritti umani. Certo, quei risarcimenti restano briciole, rispetto al valore del gas che Total-Unocal continuano a estrarre dalla Birmania.
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