AMNESTY
Le donne «danno» di guerra
MA.FO.
Donne e ragazze pagano un prezzo spaventoso nei conflitti armati. Sono quelle che sopportano il peso di una violenza incredibile: sono «un danno collaterale non riconosciuto» delle guerre che insanguino il pianeta. Lo afferma Amnesty international in un rapporto diffuso ieri (Lives blown apart, «Vite spezzate»: su http://www.amnesty.org), parte della sua campagna globale »Basta alla violenza contro le donne». L’organizzazione per i diritti umani sottolinea che «la violenza contro le donne durante i conflitti non è un fatto “naturale” ma è ordinata, accettata o tollerata. Persiste perché chi la commette sa che resterà impunito». per questo Amnesty chiede che la violenza contro le donne sia tra i primi casi di cui si occuperà la Corte criminale internazionale. Il rapporto è più che credibile, purtroppo. Esamina i conflitti armati in corso o recenti in Colombia, Iraq, Sudan, Cecenia, Nepal, Afghanistan e parecchi altri (una trentina). Diversi tra loro, questi conflitti hanno in comune il ripetersi di violenza verso le donne. «Donne e ragazze non sono solo uccise. Sono violentate, sottomesse sessualmente, mutilate, umiliate. Costumi, culture e religioni hanno costruito sulle donne l’immagine delle depositarie dell’«onore» delle proprie comunità: svilire la sessualità di una donna, distruggerne l’integrità fisica sono diventati il mezzo per terrorizzare, diminuire e “sconfiggere” intere comunità, e per punire, umiliare e intimidire le donne stesse», commenta Irene Khan, segretaria generale di Amnesty.
E’ una cronaca che si ripete, anche se arriva sui media internazionali solo in casi «esemplari»: molto si parlò ad esempio di stupri durante il conflitto in Ruanda un decennio fa (o nei Balcani, dove furono complemento della «pulizia etnica»), ma molto poco si dice della violenza verso le donne in Iraq nell’ultimo anno e mezzo di conflitto. Qualcosa filtra a proposito di Darfur (Amnesty cita il caso di ragazze di 12 anni catturate dai miliziani e «usate come mogli», o schiave, o entrambe le cose), ma poco o nulla sappiamo del Congo, della Colombia, l’Afghanistan… Le testimonianze sono terribili: e dicono che le sopravvissute a violenza sessuale soffrono non solo di trauma psicologico ed emotivo, e del rischio di Hiv/Aids e altre malattie, ma spesso anche dell’ostracismo delle proprie comunità – anche per questo ammettere di essere vittima di violenza sessuale è tanto difficile.
Tutto questo oltre al peso «normale» della guerra: donne costrette a fuggire dai propri villaggi e città, profughe sole ad occuparsi di bambini e ammalati, a cercare cibo e acqua per la sopravvivenza – esponendosi a ulteriore rischio di aggressione.
Due cose premono a Amnesty International, anzi tre. Una è che questo carico di «violenza di guerra» sulle donne sia riconosciuto: «Le vite e i corpi delle donne sono state troppo a lungo un danno di guerra taciuto». La seconda è che le donne siano riconosciute come parte in causa con un ruolo da giocare nella ricostruzione di comunità e nazioni: «Di solito sono gli uomini che hanno iniziato le guerre a prendere le decisioni su come ristabilire la pace. (…) Senza coinvolgimento attivo delle donne in ogni processo di pace non può esserci sicurezza, né giustizia né pace».
Amnesty insiste infine perché la Corte criminale di giustizia (Icc) dia alle donne «una strada per ottenere giustizia». Fare giustizia, sostiene l’organizzazione per i diritti umani, non è solo questione tecnica: significa affermare che lo stupro e la violenza sessuale sono crimini, ridare dignità e senso di sé alle vittime. Soprattutto, mandare il segnale che questa violenza non è accettabile, spingere gli stati a farsi carico del problema. Il successo dell’azione penale della Icc dipenderà infatti dalla collaborazione degli stati – nelle indagini, raccogliere prove, proteggere i/le testimoni che possono correre rischi, oltre a dare immediata assistenza alle vittime, cure mediche, protezione. «Se i governanti mondiali sono pronti a fare più che qualche pia dichiarazione di condanna dello stupro», dice Irene Khan, «devono adottare piani d’azione centrati sulla Corte internazionale e sostenuti dai sistemi nazionali».
Il Messaggero on line
Domenica 14 Ottobre 2001
Calogero:
«Un ordigno nucleare si fabbrica in garage»
di ANTONELLA STOCCO
ROMA – Antrace, vaiolo, gas assassini, incubo collettivo dell’ultimo secolo in guerra e in pace; spettri di un’apocalisse possibile rianimati e ricondotti alla ragione: scienza e medicina, strategie militari e manuali di sopravvivenza ai tempi del terrorismo. Ma non è la guerriglia chimica o batteriologica l’unica minaccia di oggi: c’è un altro fantasma che si aggira tra il disfacimento dell’Urss, la proliferazione delle cellule terroristiche, islamiche e non, e la cattiva coscienza degli stati occidentali. Buono per un’altra strage, per una rappresaglia all’attacco in corso in Afghanistan. E’ l’ uranio altamente arricchito: soltanto la Russia ne possiede oltre un milione di chili custoditi in precarie condizioni di sicurezza. Bastano cento chili per costruire a casa un ordigno nucleare, concettualmente non è difficile. Dall’Isaac Newton institute di Cambridge il professor Francesco Calogero, fisico teorico e presidente del council del “Pugwash”, il movimento mondiale degli scienziati per il disarmo nucleare a cui è stato assegnato nel ’95 il Nobel per la pace, racconta come la possibilità nucleare nella guerra “asimmetrica” con il terrorismo islamico sia un’arma a doppio taglio.
Professor Calogero, si può mettere a confronto il rischio di un attacco batteriologico con quello di un’esplosione nucleare per mano di terroristi?
«La diffusione a scopo distruttivo di agenti batteriologici presenta diverse difficoltà pratiche, la costruzione di un ordigno nucleare non ne presenta nessuna: non serve essere un fisico, un ingegnere. Basta saper maneggiare gli esplosivi e disporre di un appartamento, di un garage. Il solo problema è procurarsi l’uranio arricchito nell’isotopo 235».
Teoricamente, dovrebbe essere impossibile…
«Teoricamente. Non esiste certo un mercato legale dell’uranio altamente arricchito, e nemmeno un mercato nero. Esistono dei canali, esiste un rischio concreto. Bin Laden e i suoi certamente hanno pensato a un sistema così semplice di distruzione di massa, e già da tempo. Altro è capire se sono in possesso dell’uranio. Il milione di chili nelle mani dei russi dovrebbe essere custodito in alcuni depositi, nel contesto di un sistema sociale al collasso, dove gli addetti alla sicurezza spesso non ricevono nemmeno il magro stipendio. E’ possibile che un eventuale trafugamento di qualche centinaio di chili passi inosservato».
Come si fa ad attraversare le maglie strette dei controlli nei paesi occidentali con cento chili di uranio arricchito?
«L’uranio arricchito è molto pesante. Cento chili corrispondono al volume di quattro o cinque palle da tennis. E’ leggermente radioattivo e quindi sarebbe individuato nei controlli ufficiali, ma le vie clandestine sono infinite. Per questo, e non da ora, la questione russa sull’uranio è stata terreno di un allarme di proporzioni mondiali, di dibattiti e accordi faticosi e in parte disattesi tra Stati Uniti ed ex Urss».
Che fine ha fatto l’accordo Usa-Russia per il de-arricchimento e la vendita dell’uranio?
«E’ in corso; e da accordo sulla sicurezza si è trasformato in accordo con risvolti commerciali. Non solo: il progetto originale per il depotenziamento di 500 tonnellate di uranio russo, da utilizzare poi come combustibile nelle centrali nucleari, procede con grande lentezza. Finora sono state trattate circa 150 tonnellate, il ritmo è di 30 tonnellate l’anno. Ci vorranno vent’anni, mentre il rischio dell’uso terroristico di ordigni nucleari è qui, è ora. E’ necessario riflettere, rivedere gli accordi».
Nella guerra del Golfo e in Kosovo la Nato ha usato tonnellate di proiettili appesantiti dall’uranio impoverito, scoria del processo di arricchimento a scopo nucleare. Poi le morti per linfoma, anche di militari italiani, la millenaria contaminazione ambientale. Non è questo “il metallo del disonore”?
«No: l’uso bellico dell’uranio impoverito ha salvato più vite di quante ne abbia danneggiate, poiché è utilizzato anche per schermare i carri armati. Certo, se il pulviscolo radioattivo viene direttamente respirato il danno alla salute è possibile, ma nel complesso lo scenario apocalittico da più parti evocato dopo l’uso bellico dell’uranio impoverito è totalmente privo di fondamento».
Tornando al rischio terroristico-nucleare, lei lo ha ribadito in molte pubblicazioni uscite anche negli Stati Uniti. Con quali risultati?
«Nessuno o quasi. La responsabilità del controllo è dei potenti del mondo. Certo, l’uranio altamente arricchito ce l’hanno anche gli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Francia che però non sono certo stati-colabrodo».
Dopo l’11 settembre, l’etica degli scienziati di Pugwash che si battono per il disarmo nucleare come può essere condivisa dagli Stati impegnati nella guerra al terrorismo?
«Un passaggio cruciale per diminuire il rischio di catastrofi nucleare è stato rappresentato dalla fine della Guerra Fredda. E certamente nella lotta al terrorismo sarebbe insensato l’uso di armi di distruzione di massa; è un contesto in cui non possono avere alcun ruolo. E’ invece giunta l’ora di introdurre il concetto di responsabilità personale per politici, scienziati e tecnici impegnati nello sviluppo di queste armi messe al bando: perché possano essere processati come criminali internazionali per atti contro l’umanità».
il manifesto 19 dicembre 2004
KOSOVO
Quei silenzi degli invasori «umanitari»
JOHN PILGER
Ridotto al silenzio dall’evidenza della catastrofe anglo-americana in Iraq, il partito internazionale della guerra «umanitaria» dovrebbe essere chiamato a rispondere della sua crociata in Kosovo. Essa è stata il modello della «marcia di liberazione» di Tony Blair. Proprio come oggi l’Iraq, così è stata squassata la Jugoslavia, lo stato multietnico che nella guerra fredda fu l’unico a rifiutare entrambi i blocchi. Per preparare l’opinione pubblica all’aggressione illegale e non provocata, Clinton e Blair dissero bugie grandi come quelle di Bush e Blair sull’Iraq, col corredo di giustificazioni fraudolente fornite dai media nella primavera 1999. A dare l’avvio fu il segretario alla difesa William Cohen. «Abbiamo riscontrato l’assenza di 100.000 uomini [albanesi] dell’età idonea al servizio militare… potrebbero essere stati assassinati». David Scheffer, ambasciatore Usa per i crimini di guerra, annunciò: «225.000 uomini di etnia albanese dai 14 ai 59 anni» potrebbero essere stati uccisi. Blair evocò l’Olocausto e «lo spirito della seconda guerra mondiale». La stampa britannica seguì l’esempio. «Fuga dal genocidio» scrisse il Daily Mail. «Echi dell’Olocausto», il Sun e il Mirror. Nel giugno 1999, finiti i bombardamenti, le squadre investigative internazionali cominciarono a esaminare il Kosovo. L’Fbi denunciò «la più grande scena del crimine» nella storia dell’agenzia. Settimane dopo, non avendo trovato neanche una fossa comune, l’Fbi tornò a casa. Anche la squadra spagnola se ne andò e il suo capo protestò che lui e i suoi colleghi erano diventati parte di una «capriola semantica da parte delle macchine propagandistiche di guerra, perché non abbiamo trovato una – una sola – fossa comune».
Nel novembre 1999, il Wall Street Journal pubblicò i risultati di una sua inchiesta liquidando «l’ossessione delle fosse comuni». Invece dei «massacri che alcuni investigatori si erano aspettati… si osservano uccisioni sparpagliate [quasi sempre] in zone dove è stato attivo l’Esercito di liberazione del Kosovo». Il Journal concludeva che la Nato aveva avanzato le sue teorie sui massacri serbi quando «vide una stampa esausta avvicinarsi alla notizia opposta: civili uccisi dalle bombe della Nato». La guerra in Kosovo è stata «crudele, amara, selvaggia; non genocidio». Un anno dopo il Tribunale internazionale per i crimini di guerra, creato di fatto dalla Nato, ha annunciato che i cadaveri rinvenuti nelle «fosse comuni» del Kosovo erano 2.788, comprendendo i combattenti da entrambe le parti, i serbi e i rom uccisi dall’Esercito di liberazione del Kosovo. Come le armi di distruzione di massa in Iraq di cui si è tanto favoleggiato, le cifre usate dal governo Usa e da quello britannico, riprese dai media, erano invenzioni – insieme ai «campi di stupro» e alla tesi sostenuta da Clinton e Blair secondo cui la Nato non avrebbe mai bombardato i civili deliberatamente. Chiamati in codice «fase tre», i target civili della Nato comprendevano il trasporto pubblico, gli ospedali, le scuole, i musei, le chiese. «Era di pubblico dominio che la Nato era passata alla fase tre», disse James Bissell, ambasciatore canadese a Belgrado durante l’attacco, «altrimenti, non avrebbero bombardato i ponti di domenica pomeriggio e i mercati».
L’Esercito di liberazione del Kosovo era cliente della Nato. Pur indicato sette anni prima dal Dipartimento di Stato come organizzazione terrorista alleata di al-Qaeda, l’Uck fu accolto a braccia aperte: il segretario agli esteri Robin Cook permetteva che lo chiamassero sul suo telefono portatile. […]
La scintilla per il bombardamento della Jugoslavia, secondo la Nato, sarebbe stata la mancata firma serba alla conferenza di pace di Rambouillet. Passò quasi sotto silenzio il fatto che l’accordo di Rambouillet contenesse una Appendice B segreta, inserita dalla delegazione di Madeleine Albright all’ultimo momento. Prevedeva l’occupazione militare di tutta la Jugoslavia, un paese con tristi ricordi dell’occupazione nazista. […] L’Appendice B fu studiata per provocare il rifiuto. Mentre cadevano le prime bombe, il parlamento di Belgrado, comprendente alcuni dei più fieri oppositori di Milosevic, votò a stragrande maggioranza per rigettarla. Altrettanto rivelatore era il capitolo dedicato all’economia del Kosovo, che auspicava una «economia di libero mercato» e la privatizzazione di tutti i beni del governo. «La Jugoslavia – ha osservato lo scrittore balcanico Neil Clark – era l’ultima economia nell’Europa centro-meridionale non colonizzata dal capitale occidentale, con ancora prevalente la forma di autogestione dei lavoratori sperimentata da Tito: pubblici il petrolio, le miniere, il 75% dell’industria».
Nel 1999, al summit di Davos dei capitribù neo-liberal, Blair rimproverò Belgrado non per la sua gestione del Kosovo, ma per non avere abbracciato appieno la «riforma economica». Nella campagna di bombardamento che seguì, furono prese di mira le compagnie di stato, piuttosto che i siti militari. La distruzione da parte della Nato di soli 14 carri armati dell’esercito jugoslavo stride con i bombardamenti su 372 impianti industriali, tra cui la fabbrica automobilistica Zastava, che lasciarono senza lavoro centinaia di migliaia di persone. «Non fu bombardato neanche un sito straniero o appartenente a privati», ha scritto Clark.
Eretto sulle fondamenta di questa enorme bugia, il Kosovo oggi è un vilento «libero mercato» di droghe e prostituzione in mano alla criminalità, sotto amministrazione Onu. L’Uck ha sottoposto a pulizia etnica più di 200.000 serbi, rom, bosniaci, turchi, croati, ebrei, mentre le forze Nato stavano a guardare. Secondo l’Onu, gli squadroni dell’Uck hanno bruciato, saccheggiato o demolito 85 chiese ortodosse e monasteri. Anche se la Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza riconosce il Kosovo come parte integrante della Jugoslavia, e non autorizza l’amministrazione Onu a svendere alcunché, le compagnie multinazionali si vedono offrire in leasing per 10 o 15 anni le industrie e le risorse della provincia, comprese le grandi miniere di Trepca, tra i più ricchi giacimenti al mondo. […]Su questa «democrazia futura» (Blair) depredata, assassina, e ora quasi etnicamente pura, vegliano 4.000 soldati americani a Camp Bondsteel, una base permanente di 775 acri. Nel frattempo procede come una farsa il processo a Milosevic procede come una farsa. […]Milosevic era un bruto; come banchiere, era anche considerato l’uomo dell’occidente pronto a implementare le «riforme economiche» in linea con le richieste del Fmi, della Banca mondiale e della Comunità europea. A sue spese, egli si è rifiutato di cedere la sovranità. L’impero non si aspetta niente di meno.
copyright pilger/il manifesto, traduzione marina impallomeni
il manifesto 19 dicembre 2004
Vulcano Kosovo, rumori di eruzione
Carla Del Ponte dall’Aja ci parla di Haradinaj, capo militare dell’Uck, interrogato dal Tribunale internazionale per i crimini di guerra negli stessi giorni in cui è diventato primo ministro in Kosovo, grazie a un accordo «di scambio» col leader moderato Rugova. Un’operazione che sta riaccendendo la polveriera balcanica
TOMMASO DI FRANCESCO
Le notizie che, in queste ore e per tutto il mese di dicembre, si sono rincorse dal Kosovo – cadute impietosamente nel silenzio di tutta la stampa italiana attenta alle ceneri del fallimento della guerra preventiva in Iraq – preannunciano una prossima esplosione del «vulcano» Kosovo. Il leader militare delle milizie dell’ex Uck, Ramush Haradinaj è diventato primo ministro negli stessi giorni in cui era interrogato all’Aja; Belgrado ha chiesto alle Nazioni unite e all’amministrazione Unmik della regione di destituirlo «immediatamente» altrimenti saltano i negoziati del 2005; la Nato, preoccupata, ha avvisato che «se incriminato deve dimettersi»; Carla Del Ponte, procuratore del Tribunale dell’Aja – dove l’abbiamo raggiunto telefonicamente – ha già annunciato un provvedimento d’accusa contro leader albanesi del Kosovo; dulcis in fundo, la Chiesa ortodossa serba, di fronte al definitivo rifiuto dello stesso Tribunale dell’Aja di processare i leader della Nato per i bombardamenti indiscriminati contro i civili nel 1999 – «perché non ha competenza sul caso non essendo la Federazione jugoslava al momento della denuncia ancora membro dell’Onu» -, rilancia denunciando al Tribunale di Strasburgo l’Alleanza atlantica per la sua inadempienza nella vigilanza dei monasteri devastati in terra kosovara in questi 5 anni dopo la guerra. Siamo sul crinale del 2005, l’anno della verifica degli accordi di pace di Kumanovo del giugno 1999 che posero fine alla campagna di bombardamenti «umanitari» della Nato, che per 78 giorni devastarono l’allora Federazione jugoslava con migliaia di vittime civili e tanti, irraccontabili, effetti collaterali. Il risultato è stato un protettorato militare, consegnato dall’esercito di Belgrado alle truppe atlantiche, con l’obbligo di salvaguardare la minoranza serba. E’ stata una litania di stragi e disastri: 1300 serbi rom e albanesi moderati uccisi, altrettanti desaparecidos, si è avviata una contropulizia etnica sotto gli occhi «vigili» della Nato che ha portato alla fuga 200.000 serbi e alla distruzione di 150 chiese e monasteri ortodossi. Un protettorato Nato amministrato dall’Onu che, con i suoi amministratori, ha di fatto avviato la regione – secondo quegli accordi di pace ancora parte integrante della Serbia – verso una deflagrante indipendenza.
Questi i fatti, fino all’esplosione dei pogrom di marzo e poi alle elezioni etniche ma avallate dalla comunità internazionale, dove non hanno votato per protesta i pochi serbi rimasti e dove i kosovaro-albanesi che sono andati alle urne sono stati meno della metà degli aventi diritto. Ha vinto, ma senza la maggioranza, l’Ldk di Ibrahim Rugova che, per governare e per scambio di favori politici, si è alleato con il settore peggiore dello schieramento albanese, vale a dire Ramush Haradinaj, leader militare dell’Uck e responsabile di efferati crimini contro civili serbi addirittura prima della guerra «umanitaria» della Nato. Haradinaj alla fine, nello sconcerto generale in Kosovo e nello stupore della comunità internazionale, è diventato all’inizio di dicembre primo ministro.
«Rugova ci ha stupiti», ci dice al telefono il procuratore del Tribunale dell’Aja Carla Del Ponte, «non dico altro, non parlo di politica, ma lo stupore è stato forte». Parla dell’inaspettata elezione a Pristina come premier di Haradinaj, proprio nei giorni del suo interrogatorio al Tribunale penale internazionale – che Haradinaj ha minimizzato: «è stata un’intervista» -; e soprattutto nei giorni in cui la Del Ponte ha autorizzato l’arresto e il trasferimento al tribunale di tre luogotenenti dell’Uck che erano alle dipendenze dello stesso Haradinaj: il processo contro di loro si è aperto il 15 novembre, i tre sono accusati di «uccisioni, trattamenti crudeli, atti disumani» commessi nel 1998 e nel 1999 contro civili serbi e albanesi moderati, detenuti nel campo di concentramento aperto dalle milizie dell’Uck nella località di Lapushnik. Carla Del Ponte racconta di vivere letteralmente barricata dentro il Tribunale, dove oggi si svolgerà una protesta di estremisti kosovaro albanesi, e ci conferma: «pronti, a fine anno, tra pochi giorni, 6 o 7 capi d’accusa contro la leadership dell’ex Uck». Quanto al timore che la nomina a premier possa essere stata fatta proprio per impedire l’iniziativa penale del Tribunale internazionale, Del Ponte risponde: «Il fatto che si tratti di un premier non costituisce assolutamente per noi motivo di impunità».
La protesta per questo atteggiamento di Rugova e la nomina di Haradinaj è partita subito dai banchi del «parlamento» kosovaro, dal moderato Veton Surroi che ha stigmatizzato l’«operazione di scambio», denunciando che una tale coalizione «prepara solo nuove crisi di governo, non sarà in grado di gestire le sfide del negoziato del 2005».
Naturalmente le proteste più forti sono venute da Belgrado dove il premier serbo Vojslav Kostunica ha definito la nomina di Haradinaj «una provocazione» chiedendo subito all’Aministrazione Onu-Unmik della regione di destituire Haradinaj e ricordando il doppio standard della Bosnia dove il plenipotenziario della comunità internazionale, Paddy Ashdown, ha ripetutamente destituito ministri, premier, funzionari solo sospettati di legami con criminali di guerra. Il ministro serbo della giustizia Zoran Stojkovic ha annunciato che nel prossimo anno di negoziati, se Haradinaj si presenterà a Belgrado «sarà arrestato». L’unico disponibile a incontrare comunque Haradinaj è stato il presidente della Serbia-Montenegro, il montenegrino Svetozar Marovic, che ha suscitato la rivolta dell’opinione pubblica serba, a dimostrazione di come questa vicenda riapra inaspettatamente anche lo scontro mai sopito sul ruolo «secessionista» del Montenegro.
Ma la stessa comunità internazionale in settimana si è dichiarata preoccupata. Ha cominciato l’Alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza dell’Unione europea, Javier Solana: «Potrebbe non essere opportuno che il garante degli standard richiesti dalla comunità internazionale per il Kosovo diventi qualcuno che magari comparirà davanti al tribunale dell’Aja». Poi è stata la volta addirittura del segretario della Nato Jaap de Hoop Scheffer che ha affermato che il premier Haradinaj, se fosse incriminato, dovrebbe dimettersi perché «c’è assoluta esigenza per lui e per il suo seguito di comportarsi responsabilmente». Perfino il neo-ministro degli esteri italiano Gianfranco Fini ha espresso su questo «diffuse preoccupazioni».
Eppure, nonostante tutti questi diffusi e motivati timori per una vicenda che nell’area potrebbe reinnescare la guerra – come ha dimostrato l’anno e mezzo di guerra civile in Macedonia, dopo il Kosovo e come dimostrano i tanti, troppi ritrovamenti di armi fatti anche dai militari italiani impegnati in questo e nello sminare dalle cluster bomb il territorio che «noi» abbiamo bombardato – l’amministratore Unmik Jessen Petersen ha respinto ogni richiesta, dichiarando che la destituzione «non sarebbe democratica». Mentre arrivano troppe, allarmanti conferme sulla ricostituzione di una nuova formazione paramilitare kosovaro albanese.
E’ il vulcano Kosovo. Può riesplodere a giorni, ma anche a ore. E le parti potrebbero invertirsi, dato anche il diffuso malcontento contro le promesse di indipendenza che gli europei della Nato non mantengono, a fronte invece del fortissimo quanto destabilizzante legame «culturale» e politico con l’Amministrazione Usa. Washington, prima con Bill Clinton ora con George W. Bush è già impegnata per l’indipendenza del Kosovo – uno stato zona-franca per ogni traffico malavitoso e sotto tutela degli Stati uniti che presso Urosevac hanno allestito Camp Bondsteel, la più grande base militare di tutto il sud est europeo. E in queste ore l’amministrazione Bush si mostra disposta ad appoggiare Ramush Haradinaj solo perché è il più ricattabile e quindi più condizionabile. Ai margini del vulcano.
il manifesto 20 dicembre 2004
Uranio, muore un carabiniere
E un’inchiesta di Rainews24 rilancia l’allarme nei poligoni sardi
SARA MENAFRA
Picchetto d’onore ieri mattina a Genova per il funerale di Emilio Di Zazzo, brigadiere in servizio al battaglione Piemonte stroncato a 46 anni da un tumore alle tonsille, probabilmente collegato all’esposizione ai proiettili di uranio impoverito durante i conflitti nei Balcani. Di Zazzo era stato uno dei primi a partire, nel 1999, per la missione italiana in Kosovo voluta dal governo D’Alema. Da allora era stato più volte anche in Albania e in Bosnia. L’ultimo incarico all’estero nel novembre del 2003: tre mesi a Nassiriya. La malattia, scoperta solo nell’agosto di quest’anno, ha avuto un decorso rapidissimo. Anche se la moglie del brigadiere ripete a tutti che «L’Arma ha spiegato che tra le missioni in Kosovo e la malattia non c’è nessun collegamento», secondo l’Osservatorio militare, quella di Di Zazzo è la trentatreesima morte da uranio impoverito nelle nostre forze armate.
Le prove del rapporto tra l’esposizione alle esplosioni e alcuni tumori e malformazioni diventano di giorno in giorno più evidenti. Intervistata da Rainews 24 giusto ieri sera (in un servizio trasmesso da Primo piano), la professoressa Antonietta Gatti di Modena ha spiegato di aver trovato le stesse nanoparticelle di metalli pesanti nelle interiora di un agnello deforme nato nei pressi del mega-poligono sardo di Salto di Quirra (Nuoro) e nello sperma di un militare diventato sterile al ritorno dai Balcani. Non materiale radioattivo, e quindi non uranio, ma «antimonio». E’ la prova che l’uranio non c’entra nulla? «No, dimostra solo che il passaggio è più complesso. Le bombe all’uranio – spiega ora la professoressa Gatti – esplodono a 3000 gradi. Questa temperatura causa la fusione di materiali pesanti, che si trasformano in nanoparticelle capaci di superare le barriere del corpo. Una ricerca dell’Università cattolica di Leuven dimostra che, se respirate, queste microsfere entrano nel sangue dopo 60 secondi e in un’ora arrivano al fegato». Si spiegherebbe così perché, anche se le ricerche fatte fin ora non hanno mai dimostrato che le aree colpite dai proiettili all’uranio rimangono contaminate, in queste zone morti e malattie aumentano. Sono le stesse conclusioni contenute nel rapporto della base Usa di Eglin del 1978. Anche allora i militari che sperimentavano i primi proiettili all’uranio impoverito non trovarono il territorio contaminato dalle radiazioni, ma nanoparticelle di sostanze mai trovate prima dell’esplosione e soprannominate «airborn», nate nell’aria.
Tenere il punto su morti e malattie all’interno dell’esercito è difficile, soprattutto da quando, nel marzo scorso, l’Esercito si è attrezzato con un «Compendio» delle procedure da seguire con i militari ammalati. La circolare ad uso interno diffusa dallo Stato maggiore ha un prontuario di raggelante cinismo, che va dal sostegno economico agli auguri per le festività da inviare ai malati. In caso di decesso, si legge a pagina 12, l’Unità di appartenenza deve «inviare alle famiglie un ufficiale che illustri i benefici previsti» e le procedure per accedere al «sostegno morale e materiale». Da quando questa circolare è attiva le informazioni sul numero di militari ammalati sono sempre più scarse. Anche il nome di Di Zazzo mancava nel conto tenuto dall’Osservatorio militare. «Nell’Esercito – denuncia Domenico Leggiero, presidente dell’Osservatorio – il clima di omertà su queste questioni è diventato insopportabile». Ora le aspettative sono concentrate soprattutto sulla commissione parlamentare d’inchiesta, istituita a novembre ma non ancora in funzione. I lavori dovrebbero cominciare entro il prossimo febbraio.
7 novembre 2004
ZNet | Vision & Strategy
Pace?…
Discorso di accettazione del Premio per la Pace di Sydney
Arundhati Roy
Adesso è ufficiale. La Sydney Peace Foundation è profondamente legata al business del gioco d’azzardo e del rischio calcolato. Lo scorso anno per il Premio per la pace di Sydney ha scelto, molto coraggiosamente, la dott.ssa Hanan Ashrawi, palestinese. E come se non bastasse, quest’anno – con tutta la gente che c’è al mondo – è riuscita a scegliere me!
Tuttavia mi piacerebbe fare una rimostranza. Mie fonti mi informano che la dott.ssa Ashrawi aveva un presidio tutto per sé. Questa è una discriminazione. Richiedo un trattamento uguale per tutti i premi della pace. Posso fare formale richiesta alla Fondazione di organizzare un presidio contro di me dopo la conferenza? Da quello che ho sentito, non dovrebbe essere difficile organizzarlo. Se questo preavviso non basta, allora mi andrà bene anche domani.
Quando è stato annunciato il Premio per la Pace di Sydney di quest’anno, sono stata sottoposta da parte di quelli, che mi conoscono bene, ad alcune osservazioni proprio maliziose: “Perché lo danno alla più grande agitatrice che si conosca? Nessuno ha detto loro che tu non hai un briciolo di pace in corpo? E – indimenticabile! – Arundhati cos’è il Premio per la Pace di Sydney? A Sydney c’era una guerra che hai aiutato a fermare?”
Parlando per me stessa, io sono assolutamente felice di ricevere il Premio per la Pace di Sydney. Ma devo accettarlo come un premio letterario, in onore di una scrittrice per i suoi scritti, perché diversamente dalle molte virtù , che mi sono falsamente attribuite, io non sono un’attivista, o una leader di un movimento di massa e sicuramente non sono la “voce dei senza voce”. (Voi, naturalmente, sapete che non c’è una cosa come i “senza voce”. Ci sono solo quelli che sono deliberatamente messi a tacere o che preferibilmente non vengono ascoltati.) Sono una scrittrice che non può pretendere di rappresentare altri che se stessa. Così anche se mi piacerebbe, sarebbe presuntuoso da parte mia dire che accetto questo premio a nome di coloro, che sono impegnati nella lotta dei poveri e dei diseredati contro i potenti. Detto questo, posso dire di accettarlo come l’espressione di solidarietà della Sydney Peace Foundation con un tipo di politica, un tipo di opinione sul mondo, che sottoscrivono milioni di noi al mondo?
Potrebbe sembrare un’ironia che a una persona, che impiega la maggior parte del suo tempo a pensare strategie per la resistenza e a tramare, per scombussolare quella che si ritiene essere la pace, sia dato un premio della pace. Si deve ricordare che io provengo da un paese essenzialmente feudale: e ci sono poche cose più inquietanti di una pace feudale. Talvolta nei vecchi cliché c’è del vero. Non ci può essere pace senza giustizia. E senza resistenza non ci sarà nessuna giustizia.
Ad essere sotto attacco oggi, non è semplicemente la giustizia in quanto tale, ma l’idea di giustizia. L’assalto a settori vulnerabili e fragili della società è nello stesso tempo così completo, così crudele e così abile – e ancora avvolgente, specificamente mirato, chiaramente brutale e incredibilmente subdolo -, che la sua audacia senza limiti ha eroso la nostra definizione di giustizia. Ci ha costretto a ridimensionare le nostre opinioni e a ridurre le nostre aspettative. Anche fra i ben intenzionati, il concetto ampio e magnifico di giustizia viene a poco a poco sostituito col discorso ridimensionato e più fragile dei “diritti umani”.
Se ci si pensa, questo è un allarmante cambiamento di modello. La differenza è che le nozioni di eguaglianza e di parità sono state rimosse e eliminate dall’equazione. È un processo di logoramento. Quasi inconsciamente, cominciamo a parlare di giustizia per i ricchi e di diritti umani per i poveri. Di giustizia per il mondo dei capitalisti, di diritti umani per le sue vittime. Giustizia per gli Americani, diritti umani per gli Afgani e per gli Irakeni. Giustizia per le caste indiane superiori, diritti umani (se si dà mai il caso) per i dalits e gli adivasis. Giustizia per gli Australiani bianchi, diritti umani (e il più delle volte neanche questi) per gli aborigeni e gli immigrati.
Diventa sempre più che evidente che la violazione dei diritti umani è una componente intrinseca e necessaria del processo di attuazione nel mondo di una struttura politica ed economica coercitiva ed ingiusta. Senza la violazione dei diritti umani su scala gigantesca, il progetto neoliberista rimarrebbe nel regno dei sogni della politica. Ma le crescenti violazioni dei diritti umani sono descritte come lo sfortunato, quasi casuale, effetto di un sistema politico ed economico, altrimenti accettabile. Come se fossero un piccolo problema, che possa essere brigato con una piccola attenzione straordinaria da parte di una ONG. Questo è il perché in aree di aspro conflitto – nel Kashmir e in Iraq, ad esempio – i professionisti dei diritti civili sono visti con un certo sospetto. Nei paesi poveri molti movimenti di resistenza, che combattono l’enorme ingiustizia e mettono in discussione i principi, che stanno alla base di quanto costituisce “liberazione” e “progresso”, considerano le ONG per i diritti umani come i missionari dei tempi moderni, che sono venute per smussare le asprezze dell’imperialismo. Per disinnescare la rabbia politica e per mantenere lo status quo.
Solo poche settimane fa la maggioranza degli australiani ha votato per rieleggere primo ministro John Howard, che – fra l’altro – ha condotto l’Australia a partecipare all’invasione e all’occupazione illegale dell’Iraq. L’invasione dell’Iraq sicuramente passerà alla storia come una delle guerre più vigliacche, che si siano mai combattute. È stata una guerra, in cui una banda di nazioni ricche, armate di un numero di bombe nucleari sufficiente a distruggere diverse volte il mondo, hanno circondato una nazione povera, falsamente accusata si avere armi nucleari, hanno usato le Nazioni Unite per costringerla al disarmo, poi l’hanno invasa, l’hanno occupata e ora la stanno mettendo in vendita.
Parlo dell’Iraq, non perché tutti ne parlano (tristemente a costo di lasciare che altri orrori si consumino fuori dalla luce dei riflettori in altri posti), ma perché è un segno di come vanno le cose. L’Iraq segna l’inizio di un nuovo ciclo. Ci offre l’opportunità di vedere all’opera la cricca militar-capitalistica , che sarà conosciuta come “Impero”. Il nuovo Iraq non è che l’inizio.
Mentre si intensifica la battaglia per il controllo delle risorse mondiali, il colonialismo economico per mezzo dell’esplicita aggressione militare mette in scena una replica. L’Iraq è il culmine logico del processo della globalizzazione capitalistica, in cui si sono fusi neocolonialismo e neoliberismo. Se potessimo sbirciare dietro il sipario di sangue, intravvederemmo le spietate transazioni che hanno luogo dietro le quinte. Ma prima di tutto diamo uno sguardo, brevemente, al palcoscenico.
Nel 1991 il presidente USA Gorge Bush senior, mise in scena l’operazione Tempesta nel Deserto. Nella guerra furono uccisi decine di migliaia di Irakeni. Il territorio dell’Iraq fu bombardato con più di 300 tonnellate di uranio impoverito, quadruplicando il cancro fra i bambini. Per più di 13 anni, ventiquattro milioni di Irakeni hanno vissuto in una zona di guerra ed è stata loro negato cibo, medicine ed acqua potabile. Nella febbre elettorale USA, ricordiamoci che i livelli di crudeltà non si sono modificati a seconda che l’inquilino della Casa Bianca fosse repubblicano o democratico. Mezzo milione di bambini irakeni sono morti a causa del regime delle sanzioni economiche al rialzo fino all’operazione “Shock and Awe” (shock e rispettoso timore).
Fino a poco tempo fa, mentre c’era un accurato elenco di quanti soldati americani hanno perso la vita, non avevamo nessuna idea di quanti Irakeni siano stati uccisi. Il generale USA Tommy Franks ha detto: “Non teniamo conto delle salme” (intendendo le salme irakene). Avrebbe potuto aggiungere: “Non teniamo conto neanche della Convenzione di Ginevra”. Un recente studio dettagliato, rapidamente condotto dal giornale medico Lancet e ampliamente recensito, valuta a 100.000 gli Irakeni che hanno perso la vita a partire dall’invasione del 2003. Cioè cento sale riunioni, come questa, piene. Cioè cento sale piene di amici, di genitori, di fratelli, di colleghi, di amanti, come voi. La differenza è che qui oggi non ci sono molti bambini: non dimentichiamo i bambini dell’Iraq. Tecnicamente il bagno di sangue è chiamato bombardamento di precisione. Nel linguaggio comune massacro.
Moltissime cose ora sono di conoscenza comune. Quelli, che sostengono l’invasione e votano per gli invasori, non possono nascondersi sietro l’ignoranza. Devono veramente credere che questa brutalità, di portata epica, sia giusta e sacrosanta o, quanto meno, accettabile, perché è nel loro interesse.
Così il “moderno” mondo “civilizzato” – puntualmente costruito su un’eredità di genocidio, di schiavitù e di colonialismo – ora controlla la maggior parte del petrolio mondiale. E la maggior parte delle armi mondiali, la maggior parte del denaro mondiale e la maggior parte dei media mondiali. I media irrigimentati, al servizio delle multinazionali, nei quali il principio della Libertà di Parola è stato sostituito dal principio della Libertà di Parola, Se Sei d’Accordo.
Il capo degli ispettori dell’ONU per gli armamenti, Hans Blix, ha detto di non aver trovato nessuna prova di armi nucleari in Iraq. Ogni briciolo di prova presentato dai governi USA e britannico si è scoperto che era falso: sia che si trattasse dei rapporti dell’acquisto di uranio dal Niger da parte di Saddam Hussein, sia che si trattasse del rapporto presentato dallo spionaggio britannico, che si è scoperto che è stato plagiato da una vecchia tesi di laurea. E ancora, come preludio alla guerra, giorno dopo giorno, i giornali e canali TV più “rispettabili” degli USA hanno fattogrossi titoli sulla “prova” dell’arsenale irakeno di armi nucleari. Ora vien fuori che la fonte di questa “prova” confezionata di un arsenale irakeno di armi nucleari era Ahemed Chalabi, che (come il generale Suharto in Indonesia, il generale Pinochet in Cile, lo Scià di Persia, i Talebani e, naturalmente, lo stesso Saddam Hussein) è stato rifornito di milioni di dollari dalla buona vecchia CIA.
Così, un paese è stato bombardato per negligenza. È vero che c’è stato qualche mormorio di giustificazione. Spiacenti per quel popolo, ma ci dovevamo veramente dare una smossa. Stanno venendo fuori nuove voci su armi nucleari in Iran e in Siria. E indovinate un po’ chi dà notizia di queste nuove voci? Gli stessi reporter che fecero i falsi “scoop” sull’Iraq. Un A Team veramente inquadrato.
Il capo della britannica BBC ha dovuto dimettersi e un uomo si è suicidato, perché un reporter della BBC ha accusato l’amministrazione Blair di aver rivelato i rapporti dell’intelligence sul programma irakeno per le armi di distruzioni di massa. Ma il capo della Gran Bretagna mantiene la sua carica, anche se il suo governo ha fatto ben più che rivelare i rapporti dell’intelligence. È responsabile dell’invasione illegale di un paese e del massacro di massa del suo popolo.
Dalla gente, che come me visita l’Australia, ci si aspetta che, al momento della compilazione del modulo del visto, risponda alla seguente domanda: “Ha mai commesso o è stata mai implicata nel reato di crimini di guerra o di crimini contro l’umanità o i diritti umani?” George Bush e Tony Blair otterrebbero il visto per l’Australia? Secondo i principi del diritto internazionale devono certamente essere definiti criminali di guerra.
Comunque, immaginarsi che il mondo cambierebbe, se fossero rimossi dai loro incarichi, è un’ingenuità. La cosa tragica è che i loro rivali politici non sono realmente contrari alle loro politiche. Nella campagna per le elezioni presidenziali USA si è fatto fiamme e fuoco su chi fosse il “migliore Comandante in Capo” e l’amministratore più valido per l’Impero americano. La democrazia non offre più agli elettori una vera scelta. Offre solo una scelta fittizia.
Anche se in Iraq non è stata trovata alcun’arma di distruzione di massa, una stupefacente nuova prova ha rivelato che Saddam Hussein pianificava un nuovo programma di armamenti. (Nella stessa maniera in cui io programmavo di vincere una medaglia d’oro alle olimpiadi per il nuoto sincronizzato). Meno male per la dottrina della guerra preventiva! Dio solo sa quali altri cattivi pensieri stava rimuginando: mandare per posta dei Tampax ai senatori americani o liberare conigliette in burqas nella metropolitana di Londra. Senza dubbio tutto verrà alla luce nel corso del libero e giusto processo a Saddam Hussein, che si farà presto nel nuovo Iraq.
Tutto, tranne il capitolo in cui verremmo a conoscenza di come gli USA e la Gran Bretagna lo hanno adoperato grazie al denaro e all’assistenza materiale al tempo, in cui conduceva gli attacchi omicidi contro i Kurdi e gli Sciiti irakeni. Tutto eccetto il capitolo in cui verremmo a conoscenza del fatto che un rapporto di 12.000 pagine, presentato all’ONU dal governo di Saddam Hussein, è stato censurato dagli USA, perché elencava ventiquattro grandi imprese USA, che hanno partecipato al programma irakeno per l’armamento nucleare e convenzionale prima della guerra del Golfo (Comprende la Bechtel. La DuPont, l’Eastman Kodak, l’Hewlett Packard, l’International Computer System e la Unysis).
Così l’Iraq è stato “liberato”. Il suo popolo è stato sottomesso e i suoi mercati sono stati”liberati”. Questa è la litania del neoliberismo. Libera i mercati. Sfrutta il popolo.
Il governo USA ha privatizzato e venduto interi settori dell’economia dell’Iraq. Le politiche economiche e le leggi fiscali sono state completamente riscritte. Le compagnie straniere adesso possono comprare il 100% delle imprese irakene ed esportare i profitti. Questa è una vera e propria violazione delle leggi internazionali, che regolano una forza d’occupazione, ed è una delle principali ragioni della furtiva, frettolosa, sciarada del “passaggio” di potere a un “governo irakeno ad interim”. Una volta che il passaggio di proprietà del’Iraq è stato completato, una dose leggera di vera democrazia non farà male. Di fatto potrebbe essere una buona presentazione della versione capitalistica della Teologia della Liberazione, altrimenti nota come Nuova Democrazia.
Non sorprende il fatto che la vendita all’asta dell’Iraq ha provocato una corsa tumultuosa alla mangiatoia. Imprese, quali la Bechtel e la Halliburton, la compagnia un tempo guidata dal vicepresidente USA Dick Cheney, si sono aggiudicate enormi contratti per il lavoro di “ricostruzione”. Un breve curriculum vitae di queste imprese ci darà una conoscenza generalissima di come nell’insieme lavorano, non solo in Iraq, ma in tutto il mondo. Scegliamo, per esempio, la Bechtel, solo perché la povera piccola Halliburton è sotto inchiesta per l’accusa di aver sovrapprezzato la distribuzione del carburante in Iraq e per i suoi contratti per “risanare” l’industria petrolifera irakena al costo veramente pesante di 2,5 miliardi di dollari.
Il Bechtel Group e Saddam Hussein sono vecchie conoscenze d’affari. Molti dei loro accordi sono stati negoziati nientemeno che da Donald Rumsfeld. Nel 1988, dopo che Saddam Hussein aveva gasato migliaia di Kurdi, la Bechtel firmò contratti col suo governo, per costruire a Baghdad un impianto a doppio uso.
Storicamente il Bechtel Group ha avuto e continua ad avere legami strettissimi con l’establishment repubblicano. Si potrebbe dire che la Bechtel e l’amministrazione Reagan-Bush siano una squadra. L’ex Segretario alla Difesa, Caspar Weinberger, era consigliere generale della Bechtel. L’ex vice Segretario all’Energia, W.Kenneth Davis, era vicepresidente della Bechtel. Riley Bechtel, il presidente della compagnia, è nella Commissione presidenziale per le esportazioni. Jack Sheenan, un generale dei marines in pensione, è vicepresidente anziano della Bechtel e membro dell’US Defence Policy Board. L’ex Segretario di Stato Gorge Shultz, che è nel consiglio d’amministrazione del Bechtel Group, è stato presidente dell’ufficio consultivo del Comitato per la Liberazione dell’Iraq.
Quando dal New York Times gli fu chiesto se si preoccupava che si presentasse un conflitto di interessi fra questi due “lavori”, disse: “Non so se la Bechtel ne [dall’invasione dell’Iraq] ricaverebbe un qualche vantaggio. Ma se c’è da fare del lavoro, la Bechtel è il tipo di compagnia che potrebbe farlo”. Alla Bechtel in Iraq sono stati assegnati contratti per la ricostruzione per un valore superiore al miliardo di dollari, che includono contratti per la ricostruzione di impianti elettrici, reti elettriche, acquedotti, sistemi fognari e strutture aeroportuali. Questa – se non grondasse sangue – sarebbe una farsa.
Fra il 2001 e il 2002, nove membri su trenta del US Defense Policy Group erano collogati a compagnie, alle quali sono stati assegnati contratti della Difesa per 76 miliardi di dollari. C’era un tempo, in cui le armi venivano fabbricate per combattere le guerre. Ora le guerre vengono combattute per vendere armi.
Fra il 1990 e il 2002 il Bechtel Group ha dato un contributo di 3,3 milioni di dollari sia ai repubblicani che ai democratici. Dal 1990 si è aggiudicato più di 2000 contratti governativi per un valore di 11 miliardi di dollari. È un incredibile ricavo su un investimento, non vi pare?
E Bechtel lascia traccein tutto il mondo. Questo è quello che vuol dire essere una multinazionale.
Il Bechtel Group ha attirato per la prima volta l’attenzione internazionale, quando firmò con Hugo Panzer, l’ex dittatore boliviano, un contratto per privatizzare l’acquedotto della città di Cochabamba. La prima cosa, che fece la Bechtel, fu di aumentare il prezzo dell’acqua. Centinaia di migliaia di persone, che non potevano letteralmente permettersi di pagare le bollette della Bechtel, scesero in piazza. Un enorme sciopero paralizzò la città. Fu dichiarata la legge marziale. Sebbene alla fine la Bechtel sia stata costretta a scappar via dai suoi uffici, attualmente sta negoziando per il pagamento – da parte del governo boliviano – di milioni di dollari per la perdita dei potenziali profitti. Che, come vedremo, si sta trasformando nello sport più popolare delle grandi compagnie.
In India, la Bechtel e la General Electric (GE) sono le due proprietarie del noto e attualmente defunto progetto energetico della Enron. Il contratto della Enron, che legalmente obbliga il Governo dello stato del Maharashtra a pagare alla Enron la somma di 30 miliardi di dollari, è stato il contratto più grosso mai sottoscritto in India. La Enron non si è vergognata di vantarsi dei milioni di dollari, che ha speso, per “educare” i politici e i burocrati indiani. Il contratto della Enron nel Maharashtra, che è stato il primo progetto privato a “percorso veloce” per l’energia, è stato riconosciuto come la più grossa frode della storia del paese. (L’Enron era un’altra fra le maggiori contribuenti elettorali del partito repubblicano). L’elettricità, che la Enron produceva, era così esorbitante che il governo decise che era più conveniente non pagare l’elettricità e pagare le spese fisse obbligatorie specificate nel contratto. Ciò vuol dire che il governo di uno dei più poveri paesi del mondo paga alla Enron 220 milioni di dollari per non produrre elettricità.
Ora che la Enron ha cessato di esistere, Bechtel e GE chiamano in giudizio il governo indiano per 5,6 miliardi di dollari. Questa non è che una minima parte di denaro che loro (o la Enron) hanno effettivamente investito nel progetto. Una volta di più, è la proiezione del profitto, che avrebbero conseguito, se il progetto fosse stato realizzato. Per darvi un’idea delle proporzioni, 5,6 miliardi di dollari, un po’ di più dell’importo, di cui il governo indiano avrebbe bisogno annualmente per un progetto per garantire l’occupazione nelle campagne, che fornirebbe un salario di sopravvivenza per milioni di persone, che ora vivono nella povertà più abietta, schiacciate dal debito, dal trasferimento forzato, dalla malnutrizione cronica e dal WTO. Questo in un paese, dove i contadini soffocati pieni di debiti sono spinti al suicidio, non a centinaia, ma a migliaia. La proposta di un Progetto per Garantire l’Occupazione nelle Campagne è schernito dalla borghesia indiana come un’ irragionevole, utopica, rivendicazione sostenuta dalla sinistra “folle” e nuovamente al potere.”Da dove verrà il denaro?” – chiedono con tono derisorio. E con tutto ciò, ogni discorso sulla revoca di un cattivo contratto con una grande azienda notoriamente corrotta, come la Enron, si ritrova gli stessi cinici a sprecare il fiato sulla fuga dei capitali e sui terribili rischi di “creare un cattivo clima per gli investimenti”. L’arbitrato fra Bechtel, GE e governo indiano si sta svolgendo proprio ora a Londra. La Bechtel e la GE hanno ragione di sperare. Il Segretario indiano alle Finanze, che aveva strumentalmente approvato il disastroso contratto con la Enron, è tornato a casa dopo pochi anni passati al Fondo Monetario Internazionale (FMI). Non solo è tornato a casa, ma è tornato a casa con una promozione. Ora è Vicepresidente della Commissione per la Pianificazione.
Pensateci: il profitto speculativo di un unico progetto di una grossa impresa basterebbe a dare cento giorni di lavoro all’anno al minimo salariale (calcolato sulla base della media ponderata dei differenti stati) a 25 milioni di persone. Cioè a cinque milioni di persone in più della popolazione dell’Australia. Questa è la scala dell’orrore del neoliberismo.
Ma nella storia della Bechtel c’è di peggio. Con quella che può essere definita assoluta mancanza di scrupoli – come scrive Naomi Klein – la Bechtel ha citato con successo in giudizio l’Iraq distrutto dalla guerra per “riparazioni di guerra” e “mancati profitti”. Le sono stati riconosciuti 7 milioni di dollari.
Così tutti i giovani laureati in gestione aziendale, non si affaticano a studiare ad Harvard o a Wharton. Ecco la Guida al Successo Aziendale per il Manager Pigro: Primo, riempi il tuo consiglio d’amministrazione di vecchi dipendenti del governo. Poi, riempi il governo di membri del tuo consiglio d’amministrazione. Ungi e mescola. Quando nessuno può dire dove finisce il governo e dove comincia la tua azienda, mettiti d’accordo col tuo governo per equipaggiare e armare uno spietato dittatore in un paese ricco di petrolio. Guarda altrove, mentre ammazza la sua stessa gente. Cuocilo a fuoco lento. Usa il tempo guadagnato per mettere insieme alcuni miliardi di dollari in contratti governativi. Poi, mettiti nuovamente d’accordo col tuo governo, mentre rovescia il dittatore e bombarda i suoi sudditi, prendendo appositamente di mira le infrastrutture essenziali, uccidendo per di più centomila persone. Raccogli un altro miliardo di dollari o l’equivalente in contratti per “ricostruire” le infrastrutture. Per coprire viaggio e accessori, chiama il paese devastato in giudizio per l’indennizzo dei mancati profitti. Alla fine, diversifica. Compra una stazione TV, così alla prossima guerra puoi esporre in vetrina il tuo hardware e la tua tecnologia militare, mascherandola come informazione sulla guerra. E alla fine, istituisci a nome della tua compagnia un Premio per i Diritti Umani. Potresti attribuire il primo, postumo, a Madre Teresa di Calcutta. Non potrà devolverlo o rifiutarlo.
All’Iraq, invaso ed occupato, sono stati fatti pagare 200 milioni di dollari in “indennizzi” per mancati profitti a compagnie quali Halliburton, Shell, Mobil, Nestlè, Pepsi, Kentucky Fried Chicken e Toy R Us. Questa è una cosa a parte rispetto al gigantesco debito di 125 miliardi di dollari, che è costretto a restituire al FMI, che come l’angelo della morte incombedall’alto col suo Programma di Aggiustamento Strutturale. (Benché in Iraq non sembra che ci siano rimaste molte strutture da aggiustare. Se si fa eccezione per la fantomatica Al Qaeda).
Nel Nuovo Iraq, la privatizzazione ha aperto nuovi orizzonti. L’esercito USA, in aiuto all’occupazione, ingaggia sempre più mercenari privati. Il vantaggio con i mercenari è che, quando vengono uccisi, non vengono inclusi nel conteggio delle salme di soldati USA. Serve a gestire l’opinione pubblica, cosa particolarmente importante in un anno elettorale. Le prigioni sono state privatizzate. La tortura è stata privatizzata. Abbiamo visto a cosa porta. Altre attrattive nel Nuovo Irak cono la chiusura dei giornali. Le stazioni televisive bombardate. I giornalisti uccisi. I soldati USA hanno sparato su folle di contestatori disarmati, uccidendo parecchie persone. Il solo tipo di resistenza, che è riuscita a sopravvivere, è folle e brutale come la stessa occupazione. In Irak c’è spazio per una resistenza laica, democratica, femminista, non violenta? Non ce n’è proprio.
Questo è il motivo, per cui creare la resistenza di massa, laica e non violenta all’occupazione USA tocca a noi che viviamo fuori dell’Iraq. Se non riusciamo a farlo, allora corriamo il rischio di permettere che l’idea di resistenza sia gestita dal terrorismo e sia confusa con esso e sarebbe un peccato, perché non sono la stessa cosa.
Così, cosa significa pace in questo mondo incivile, militarizzato, dominato dalle multinazionali? Cosa significa in un mondo dove un agguerrito sistema di appropriazione ha creato una situazione, in cui i paesi poveri, che sono stati rapinati per secoli dai regimi coloniali, sono soffocati dal debito nei confronti di quegli stessi paesi, che li hanno rapinati e devono rimborsare il debito a rate di 382 miliardi di dollari all’anno? Cosa significa pace in un mondo in cui la somma della ricchezza di 587 miliardari è superiore alla somma del prodotto lordo dei 135 paesi più poveri del mondo? O quando i paesi ricchi, che pagano sussidi agricoli di un miliardo di dollari al giorno, cercano di costringere i paesi poveri ad abbassare i loro sussidi? Cosa significa pace per la gente dell’Iraq, della Palestina, del Kashmir, del Tibet e della Cecenia occupate? O per gli aborigeni dell’Australia? O per i Kurdi in Turchia? O per i Dalits e gli Adivasis in India? Cosa significa pace per i non mussulmani nei paesi islamici, o per le donne dell’Iran, dell’Arabia Saudita e dell’Afghanistan? Cosa significa per i milioni di persone che sono state sradicate dalle loro terre dalle dighe e dai progetti di sviluppo? Cosa significa pace per i poveri, che sono attivamente rapinati delle loro risorse e per i quali la vita quotidiana è una feroce battaglia per l’acqua, la casa, la sopravvivenza e, soprattutto, per un’apparenza di dignità? Per loro la pace è guerra.
Sappiamo molto bene chi trae vantaggio dalla guerra nell’età dell’Impero. Ma dobbiamo anche chiederci onestamente chi trae vantaggio dalla pace nell’età dell’Impero. Vendere guerra è criminale. Ma parlare di pace, senza parlare di giustizia, potrebbe facilmente diventare una sorta di sostegno alla capitolazione. E parlare di giustizia senza smascherare le istituzioni e i sistemi, che perpetrano l’ingiustizia, è più che ipocrita.
È facile incolpare i poveri di essere poveri. È facile credere che il mondo sia stato preso in una spirale di terrorismo e di guerra. Questo è quello che permette al presidente americano di dire: “Si è con noi o con i terroristi”. Ma sappiamo che questa è una scelta fasulla. Sappiamo che il terrorismo è solamente la privatizzazione della guerra. Che i terroristi sono per il libero mercato della guerra. Credono che il legittimo uso della violenza non è prerogativa esclusiva dello Stato.
È ingannevole operare una distinzione morale fra l’indicibile brutalità del terrorismo e l’indiscriminata carneficina della guerra. Non possiamo tollerare il primo e condannare l’altra.
La vera tragedia è che moltissima gente al mondo è intrappolata fra l’orrore di una presunta pace e il terrore della guerra. Entrambi i tipi di violenza sono inaccettabili. Questi sono i due baratri fra i quali siamo stretti. Il problema è: come risaliremo fuori da questo crepaccio?
Per quelli, che sono materialmente ricchi, ma moralmente disagiati, la prima domanda da farsi è: si vuole veramente risalirne fuori? il crepaccio è diventato troppo comodo?
Se si vuole realmente uscirne fuori, c’è una novità buona e una cattiva.
La buona è che il partito dell’uscita ha cominciato la scalata da qualche tempo. È già compiuto metà della salita. Migliaia di attivisti in tutto il mondo si sono messi duramente al lavoro per preparare gradini e per assicurare le funi, per renderla più facile per noi. Non c’è un solo sentiero per la salita. Ci sono centinaia di vie per farla. Nel mondo ci sono da combattere centinaia di battaglie, che richiedono le vostre capacità, le vostre intelligenze, le vostre risorse. Nessuna battaglia è poco significativa. Nessuna vittoria è troppo piccola.
La cattiva è che le manifestazioni piene di colore, le marce alla fine della settimana e le gite annuali al Forum Sociale Mondiale non bastano. Si devono intraprendere iniziative di disobbedienza civile, che abbiano risultati reali. Forse non possiamo, premendo un pulsante, far comparire la rivoluzione. Ma ci sono diverse cose che potremmo fare. Per esempio, potreste fare un elenco di quelle compagnie, che hanno tratto profitto dall’invasione dell’Iraq e che hanno i loro uffici in Australia. Potreste dirne il nome, potreste boicottarle, occupare i loro uffici e costringerle a ritirarsi dall’affare. Può accadere in Bolivia, può accadere in India. Può accadere in Australia. Perché no?
È solo un piccolo suggerimento. Ma ricordate che, se la lotta ricorrerà all’uso della violenza, perderà visione, bellezza e immaginazione. E conseguenza più pericolosa di tutte, emarginerà le donne, che alla fine ne saranno vittime. E una lotta politica, che non ha le donne al suo cuore, alla sua testa, in suo sostegno e dentro di essa, non è per nulla una lotta.
Il punto è che bisogna gettarsi nella battaglia. Come ha detto l’eccellente storico americano, Howard Zinn: “Non si può rimanere neutrali su un treno in movimento”.
l’Unità 01.01.2005
Uranio, per il soldato Melis il ministero finisce in tribunale
di Davide Madeddu
Il ministero della Difesa finisce in tribunale per un militare morto dopo una missione all’estero. Sarà un giudice del tribunale civile a risolvere la controversia tra i genitori di Valery Melis, il militare di Quartu sant’Elena morto il 4 febbraio del 2004 dopo quattro anni di agonia tra un ospedale e l’altro a causa del linfoma di Hodgkin, e il ministero della Difesa.
Una vicenda drammatica che ha segnato la vita dei parenti e degli amici del giovane militare, impegnati negli ultimi mesi di vita in una vera e propria campagna di sensibilizzazione. E, dopo la scomparsa del giovane Valery i genitori hanno deciso di chiedere giustizia. Hanno bussato alla porta di un avvocato di Cagliari per citare in giudizio il ministero della Difesa. Rappresentati dall’avvocato Ariuccio Carta, i familiari del giovane militare morto a 26 anni, oggi chiedono che lo Stato venga condannato al risarcimento del danno. Valery Melis aveva partecipato a missioni in Kosovo e Albania. Due mesi dopo il ritorno dall’ultimo viaggio, la missione di pace a Skopje (nell’agosto del ‘99) i primi sintomi della malattia che nell’arco di quattro anni l’ha ucciso. A promuovere iniziative e manifestazioni in piazza erano stati gli amici di Valery. Tra questi anche un folto gruppo di tifosi del Cagliari che avevano portato uno striscione allo stadio con un appello che invitava a non dimenticare il giovane caporalmaggiore. A febbraio la prima udienza davanti al giudice. Una vicenda che ha un precedente. Recentemente il tribunale di Roma ha condannato lo Stato a risarcire 500 mila euro alla vedova di Stefano Melone, il maresciallo impegnato in diverse missioni all’estero (nei Balcani), morto a causa del linfoma di Hodgkin. E la vicenda di Valery Melis non è che l’ultima di una serie di vicende che hanno colpito i militari impegnati nelle diverse missioni. I giorni scorsi, infatti, sono stati resi noti gli esiti delle analisi che la professoressa Gatti, biologa dell’Università di Modena ha effettuato sui campioni di pelle e sangue di Marco Diana, il giovane maresciallo dell’ esercito che ancora oggi combatte contro un tumore e la burocrazia. «Nella mia pelle e nei campioni di tessuto che mi è stato asportato racconta sono stati trovati materiali che mai in un uomo si sarebbero potuti trovare, come cesio o rame». E Marco Diana sarà uno dei relatori e testimoni della conferenza nazionale sulle vittime delle guerre in programma per il 15 gennaio a Oristano. All’iniziativa, promossa da Salvatore Pilloni, il padre di Giovanni, il militare che ha scoperto di essere ammalato dopo una missione all’estero, parteciperanno anche Falco Accade, Pecoraro Scanio, Elettra Deiana e gli altri parlamentari del centro sinistra. A lanciare un appello al presidente del Senato Marcello Pera, chiedendo la «costituzione» della Commissione d’inchiesta sui militari che si sono ammalati nelle missioni all’estero è invece Lorenzo Forcieri, senatore dei Ds. «Non c’è più tempo da perdere fa sapere sino a oggi solamente i Ds e i Verdi hanno provveduto a nominare i loro rappresentanti all’interno della Commissione. È necessario che anche gli altri provvedano al più presto».
il manifesto 16 gennaio 2005
USA
Guerra chimica e «bomba gay»?
Ogni mezzo è lecito per sconfiggere il nemico, bisogna attrezzarsi a rinnovare le armi convenzionali. Le forze armate statunitensi avrebbero così escogitato sostanze chimiche che provocano degli effetti sorprendenti: un alito insopportabile, un comportamento omosessuale oppure l’attrazione di sciami di vespe inferocite. A rivelare questi progetti è stato il Us freedom of information by the Sunshine Project, incaricato della verifica delle ricerche sulle armi chimiche e biologiche. Il piano per la sperimentazione di «sostanze chimiche moleste, fastidiose e capaci di identificare cattivi soggetti», che doveva durate sei anni, è stato varato nel 1994 con un costo di 7,5 milioni di dollari. Per il capitano Mc Sweeney, direttore al Pentagono della sezione che si occupa di armi non letali, il dipartimento della difesa riceve centinaia di progetti di questo tipo, ma nessuno di quelli descritti nella relazione sono stati sviluppati. La bomba puzzolente avrebbe potuto persino essere superata dal fetore proprio delle zone di guerra. Ma è tutto vero?
il manifesto 22 gennaio 2005
Anche i danesi sevizianoCOPENHAGEN
Non solo gli americani e gli inglesi. E’ di ieri la notizia che un capitano donna e 4 sergenti del contingente danese dislocato nel sud-est dell’Iraq (500 militari) sono stati formalmente accusati dalla procura del ministero della difesa per abusi su prigionieri iracheni in un accampamento militare vicino a Bassora. La capitana deve rispondere di «negligenza» e i 4 sergenti di avere inflitto umiliazioni verbali ai prigionieri («maiali», «cani»), di averli tenuti senz’acqua e cibo, di averli costretti a inginocchiarsi in posizioni dolorose durante gli interrogatori. Le accuse si riferiscono a tre episodi diversi accaduti in marzo, aprile e giugno del 2004. Rischiano un anno di reclusione. L’accusa è venuta alla conclusione di un’indagine durata cinque mesi e avviata dopo la testimonianza-confessione della capitana della riserva Annemette Hommel, in seguito alla quale il ministro della difesa danese, Soeren Gade, aveva destituito lo scorso agosto 4 alti ufficiali del contingente in Iraq. Secondo la legislazione danese il caso dei 5 sarà giudicato da un tribunale di Copenhagen, con un giudice civile, anche se l’accusa sarà un militare. Potrebbe finire sotto processo anche l’ex comandante del battaglio inviato in Iraq, Henrik Flach.
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