LA BIBBIA: UNA CATTIVA MAESTRA 5

Violenze, assassini, prostituzione, incesti: uno scenario orrendo raccontato dalla Parola di Dio

QUINTA PARTE

(ampiamente ripresa da Pepe Rodriguez [2])

Roberto Renzetti

Novembre 2010

AVVERTENZAQuando parlo di “Bibbia”, salvo avviso contrario, il riferimento è al “Vecchio Testamento”.

RIPRENDIAMO LA STORIA A PARTIRE DALLA DISTRUZIONE DEL TEMPIO NEL 587 A.C. FINO A QUELLA DEL 70 D.C.

         Nella Prima Parte di questo lavoro eravamo arrivati a delineare la storia del popolo eletto fino alla riforma religiosa che realizzò Giosia nel 621 a.C..

        Come già detto nella Prima Parte, ricerche scientifiche moderne hanno dimostrato che il Deuteronomio ed il resto dei libri deuteronomici sono stati redatti per conferire al Re Giosia una base d’autorità sulla quale fondare proprio la sua riforma religiosa che centralizzò la religione intorno ad un solo Tempio, quello di Gerusalemme, assegnando un grande potere ai sacerdoti leviti. Giosia fu abilissimo ad imporre la riforma attraverso gli scritti deuteronomici perché li fece ritrovare sotto le fondamenta del Tempio e li attribuì a Mosè. D’interesse è che alcuni scritti deuteronomici incaricati da Giosia narravano un promettente futuro per il popolo d’Israele (sembra dimostrato che la letteratura deuteronomica sia opera del profeta Geremia, aiutato dallo scriba Baruc, che collaborò dal 621 a.C. con Giosia nella riforma religiosa). Di fronte ai disastri provocati dai Re che seguirono, fino alla distruzione di Gerusalemme nel 587, quegli scritti diventarono inservibili, cosicché venne realizzata una nuova redazione con aggiunta di capitoli e con paragrafi intercalati ex novo, come quelle frasi di minaccia che Dio pronuncia rivolto agli ebrei se non avessero rispettato l’alleanza, in modo da far sembrare profetici di quanto sarebbe accaduto ciò che già si sapeva essere accaduto (e di questo ho parlato alla fine della Parte Quarta). Il lavoro di Giosia sarà portato a termine da Esdra: “salvaguardare l’eredità nazionale, continuare a dimostrare che Israele è sempre, malgrado tutto, il popolo di dio, che il suo futuro gli riserva un riscatto. Il profetismo messianico, ovverosia l’attesa di un liberatore che ripeta la figura di Davide e ricostruisca il regno di dio, diventa un motivo ricorrente, finché si trasforma in autentica ossessione e porterà, sotto la dominazione romana, ad una crisi fatale. L’imperatore Tito, interprete della esasperazione romana nei confronti di questo popolo, visto come affetto da una patologia teocratica maniacale, farà strage e rovina degli ebrei e della loro capitale, ed essi ricadranno improvvisamente nella condizione in cui si trovavano in Egitto, come emarginati vittime di una diaspora penosa” (David Donnini).

        Occorre riprendere la storia poco prima dalla caduta del Regno di Giuda e di Gerusalemme nel 587 a.C. ad opera dei Babilonesi guidati da Nabucodonosor. La città fu rasa al suolo, il territorio circostante devastato, un gruppo cospicuo del ceto nobiliare, tra cui il sommo sacerdote Seraia, giustiziato, la popolazione deportata, eccetto “vignaioli e contadini”. Anche la caduta del Regno di Giuda si configurava come la punizione di Dio per le colpe di Salomone, che non aveva condotto alcuna “guerra santa”, e di alcuni altri re. Era, in sostanza, il frutto della collera del Signore, indignato per tutti i peccati commessi”. 

        La storia che avevamo visto nella Parte Prima terminava con questa frase di Deschner:

L’Impero babilonese, che era sembrato solido e praticamente invincibile al tempo di Nabucodonosor, solo mezzo secolo dopo, crollava sotto i colpi della potenza persiana, il cui fondatore, Ciro II, riuscì ad espugnare la capitale Babilonia, senza scagliare neppure una freccia. Duecento anni più tardi, anche il grande impero persiano si era dissolto, divenendo facile preda dei Macedoni, guidati da Alessandro Magno, che, tra il 331 e il 323, fece di Babilonia la sua residenza. Al tempo dell’Impero seleucide (312-64), la città continuò a rivestire un ruolo di rilievo, fino alla penetrazione romana in quest’area. Ma già nell’anno 100 d. c., Babilonia era ormai, soltanto, un cumulo di celebri rovine.

Riprendo ora il seguito della storia da parte del medesimo autore.

LA REAZIONE DELLA CASTA SACERDOTALE E L’INIZIO DELLA SUA EGEMONIA

Il re di Giuda Ioiachin (597) relegato in esilio a Babilonia, aveva goduto di una cattività onorevole. Quando Ciro II, alla guida dei Persiani, conquistò l’Impero babilonese, “gli concesse a tutti i Giudei di fare ritorno in Palestina, la loro patria, dando applicazione pratica a quel principio, che, solo in tempi recenti, il moderno diritto dei popoli – reso vincolante: il rispetto dei prigionieri, cioè il riconoscimento di pari diritti ai nemici e la tolleranza nei riguardi delle religioni straniere(1). Egli ordinò, addirittura, la ricostruzione del Tempio a spese delle casse reali e restituì agli Ebrei gli arredi d’oro e d’argento che Nabucodonosor aveva loro depredato. Per questa ragione, persino l’Antico Testamento si esprime in termini benevoli a proposito di questo sovrano pagano: il “pastore di Dio”, l'”Unto” viene definito nel secondo libro di Isaia, il cui “spirito”, naturalmente, è stato risvegliato “dal SIGNORE”, il cui spirito, in realtà, era qualcosa di completamente diverso.

L’esiguo numero degli esuli tornò, dunque, in patria e, nel 520 a.c., diede avvio ai lavori di ricostruzione del cosiddetto secondo Tempio, di dimensioni maggiori del primo, che, nel 515, grazie soprattutto ai finanziamenti persiani, fu portato a termine. Gerusalemme, ora capitale della provincia persiana di Jehud, ma dotata di una rilevante autonomia interna, era, a poco a poco, risorta. Anche altre città furono ripopolate e poste sotto il controllo di un rappresentante del governo centrale persiano. Il primo fu Serubabel discendente della stirpe di David, cui, tuttavia, il clero rapidamente sottrasse il potere, dando inizio a quel processo che, nel periodo ellenistico, avrebbe portato il sommo sacerdote a governare la Giudea al pari di un sovrano. In realtà, già da tempo, questi era la guida spirituale e temporale della comunità giudaica strutturatasi in forma di una teocrazia, all’interno della quale la casta sacerdotale, in quanto classe più potente e più ricca di Gerusalemme, reggeva, in ogni ambito, le sorti dello Stato. L”‘Alleanza” con Jahwe fu rinnovata, e la “Nuova Alleanza” (berit hadasah) doveva configurarsi come qualcosa di completamente differente da quella stipulata sul monte Sinai, ma il cui imperativo fondamentale restava, in sostanza, “i pagani devono riconoscere che io sono il SIGNORE”. Di fatto si predicava l’esclusivismo, l’intolleranza religiosa, il nazionalismo, si propagandavano sogni escatologici, il trionfo assoluto di Jahwe, la fondazione del “Regno di Dio”. Qualsiasi idea di cosmopolitismo fu respinta dai profeti ebrei come “idolatria” tout court.

In tal senso, il sacerdote Esdra, rappresentante ufficiale, con titolo di “Scriba esperto nella legge del Dio dei cieli”, del culto di Jahwe presso la corte persiana, si comportò in modo ineccepibile. Egli apparteneva ai Zadocidi, eminente stirpe di sacerdoti che, a partire dalla fine della cattività babilonese, a partire cioè dalla pretesa rinascita nazionalistico-religiosa, per tre secoli, dispose della carica di sommo sacerdote e, probabilmente nel 458, o forse solo nel 398 a.c., o all’incirca a quella data, venne al servizio del re persiano Artaserse (I o II). Esdra, forte della protezione del SIGNORE, perseguì un unico obiettivo: propagandare la fede ortodossa, la legge di Mosè. Le donne forestiere e i loro figli dovevano essere cacciati dalle case dei Giudei, gli influssi stranieri respinti con vigore. Esdra, ritenuto il principale esperto della legge e il più importante riformatore del V-IV secolo, nello scagliarsi contro i matrimoni misti, si strappava “capelli e barba”, si gettava in ginocchio, piangeva, pregava e rimproverava gli Ebrei in questi termini: “Avete violato il patto di fedeltà al SIGNORE … non mischiatevi con le altre popolazioni che abitano questo territorio, con le donne straniere”. Esdra assumeva un atteggiamento radicale non lasciando mai aperta alle donne straniere la possibilità di convertirsi alla religione ebraica: di fatto conduceva una campagna per la purezza della razza. E naturalmente propinava la solita spiegazione che i preti danno per le catastrofi: “Per i misfatti da noi commessi, noi stessi, al pari dei nostri re e dei nostri sacerdoti, siamo stati in balia dei sovrani stranieri, uccisi, imprigionati, derubati, disonorati, così come accade anche oggi”. Inutile dire quanto queste parole trasudino di ogni sorta di sciovinismo, spingendo a odiare implacabilmente i pagani e a desiderare il loro annientamento. “Non concedete ai pagani pace e benessere, solo così, infatti, diverrete potenti e potrete godere dei frutti della terra, lasciandola per sempre in eredità ai vostri figli”.

Anche Neemia (il cui nome significa “Jahwe consola”) che era stato elevato al rango di coppiere di Artaserse e successivamente nominato governatore, allorché dalla Persia tornò a Gerusalemme (sicuramente tra il 445 e il 444), riprese con gli stessi toni la propaganda di Esdra. Anche Neemia, infatti, inveì contro le donne straniere, per quanto, in realtà, Abramo, il “progenitore”, che aveva goduto del pieno favore di Dio “malgrado non fosse circonciso” (San Giustino), avesse avuto un’egiziana, Agar, come concubina, e sua moglie Sara fosse stata in passato un’idolatra; e anche Isacco, suo figlio, aveva sposato Rebecca, una “pagana purosangue”, mentre Giacobbe, l’altro figlio, aveva avuto figli con Bila, una donna straniera, e poi con Zilpa che era pagana. Lo stesso Mosè, nonostante le proteste di Miriam e Aronne, aveva preso in moglie un’etiope, non senza l’approvazione di Jahwe. Tuttavia quando Neemia giunse a Gerusalemme da Babilonia, condannò senza esitazione la liberalità che fino a quel momento aveva dominato nell’ambito dei rapporti con donne straniere. “lo insultai, imprecai, picchiai alcuni uomini, li trascinai per i capelli e li feci giurare davanti a Dio …. In tal modo li liberai da ogni influsso straniero … “. Il divieto di mescolarsi con altre popolazioni aveva un suo preciso fondamento: doveva, non solo, servire a purificare la razza, ma, soprattutto, a educare il popolo di Dio, a rafforzarne la fede nel proprio destino di popolo eletto rispetto a tutti gli altri. Di fatto, il fanatismo di Esdra e Neemia diede i suoi frutti, a costo di conflitti e miserie. Non soltanto i sacerdoti furono tenuti a provare la loro origine giudaica per mezzo dell’esame degli antenati, controllati sui registri delle tribù, ma anche i matrimoni misti vennero sciolti e le donne straniere e i loro figli allontanati. In passato Dio stesso aveva legittimato i matrimoni con donne straniere prigioniere di guerra, anzi aveva, addirittura, consigliato di sposare “una bella fanciulla”, i cui genitori fossero stati appena uccisi, e di tenerla come moglie finché si fosse trovato diletto in lei. Ma, con il tempo, quelli della Thora divennero principi normativi, e ancor oggi nel giudaismo ortodosso i matrimoni misti sono proibiti. Sono consentite eccezioni solo nel caso in cui il partner non giudeo si converta.

Anche Neemia, in seguito patriota stimatissimo, istigò il nazionalismo ebraico, ricordando con grande efficacia il glorioso passato dei devoti antenati: “Hai consegnato nelle loro mani regni e popoli …. Hai umiliato dinanzi a loro gli abitanti della terra promessa … “. Ma ora “nella terra che tu hai dato ai nostri padri … siamo schiavi”.

Non sorprende che Neemia, tre giorni dopo il suo arrivo, si accinse a compiere di notte e con la nebbia “un giro d’ispezione segreto, al chiar di luna”, “senza aver rivelato ad alcuno ciò che il mio Dio mi aveva suggerito”, cioè di verificare “con precisione” le condizioni delle mura di Gerusalemme, vero scopo del suo viaggio. Alla vista di queste, egli esortò: “Venite, ricostruiamo la cinta muraria, per cessare di essere oggetto di scherno!”. Il “grande pericolo” che Neemia, come già Esdra, temeva era sostanzialmente quello della debolezza di fronte ai nemici esterni. All’interno del paese, la classe dirigente, la casta sacerdotale, da sempre in grado di trarre vantaggio dalle catastrofi, teneva ben salde le redini del potere(2) […]

LA GUERRA SANTA DEI MACCABEI

Dopo la conquista della Palestina da parte di Alessandro (332 a.C.), nel 198, alla dinastia dei Tolomei, che aveva assunto un atteggiamento piuttosto tollerante nei riguardi degli Ebrei, subentrò un’altra dinastia macedone, quella dei Seleucidi, molto meno ben disposta nei riguardi dell’elemento ebraico e sotto la quale si verificò una massiccia penetrazione dell’ellenismo in Giudea.

In particolare i ceti superiori, il clero, la nobiltà terriera e i ricchi mercanti, attratti dalla raffinata cultura greca e dal suo stile di vita improntato a maggiore libertà e larghezza di vedute, cominciarono a sentirsi “cittadini del mondo”, allontanandosi, in tal modo, sempre più dalla massa e dai circoli legati alla tradizione, chiusi nel loro geloso isolamento e orgogliosi di rappresentare il “seme sacro” dei padri. Agli occhi dei Greci questo atteggiamento aveva i connotati della “barbarie” e, ormai, nel II secolo a.c., il processo di ellenizzazione aveva coinvolto parte rilevante della popolazione più evoluta. Il II libro dei Maccabei presenta in toni negativi tale “fioritura dell’ellenismo” e l”’esterofilia dilagante”. A questa evoluzione della società ebraica cercò di opporsi il sommo sacerdote Onia III. Tuttavia, suo fratello Giasone, ricorrendo alla corruzione, riuscì a ottenerne la destituzione, divenendo sommo sacerdote al suo posto. Egli fece edificare a Gerusalemme un gymnasion e un ephebeion, chiaro segno di una volontà di istituire nella città santa le stesse condizioni politico-religiose dominanti nelle altre città del regno seleucida e di rendere Gerusalemme più simile possibile a una polis greca. Ma i tradizionalisti insorsero contro tale orientamento, in cui vedevano una minaccia ai costumi, alle leggi e alla religione del popolo ebraico. Con frequenza crescente si verificarono violenze, tumulti, scontri di piazza che spinsero il re seleucide Antioco IV Epifane, il “Nerone siriaco”, impegnato a tenere insieme il suo regno in crisi attraverso il ricorso a una politica di sincretismo religioso, ad adottare energiche contromisure. Nel 168 a.c., egli profanò il tempio di Gerusalemme, innalzando sull’ara destinata ai sacrifici un altare dedicato a Zeus Olimpio; inoltre, proibì la religione ebraica e mise a ferro e fuoco la città, non senza aver prima saccheggiato il tesoro del Tempio: 1800 talenti (circa 7,5 milioni di euro). Un precedente tentativo in tal senso era stato fatto da Seleuco IV e, tuttavia, in quel caso, tale tentativo era stato sventato dai sacerdoti che, travestiti da angeli a cavallo, avevano respinto dal Tempio i pagani ivi entrati sotto la guida di Eliodoro. Diversi secoli dopo, papa Leone X avrebbe ordinato a Raffaello di immortalare questo episodio straordinario sulle pareti del palazzo Vaticano.

Probabilmente nella primavera del 168 a.c., i sette “fratelli Maccabei”, insieme alla loro madre, morirono ad Antiochia. Anche se la loro esecuzione costituisce un fatto storicamente documentato, e non una “triste favola” o una “leggenda di martiri”, si può dire, però, con certezza che essi vennero giustiziati in quanto Ebrei ribelli e non in quanto testimoni della fede, o “difensori ante litteram del monoteismo”, come, invece, volle farli apparire la tradizione ebraica e quella cristiana: i Maccabei sono gli unici “martiri” venerati in comune dalle due religioni. Nel IV secolo, i cristiani presero possesso della sinagoga di Antiochia in cui erano custodite le presunte spoglie dei Maccabei, trasformarono l’edificio in una chiesa e fecero dei ribelli i “santi Maccabei”, eroi cristiani vissuti prima di Cristo, e ne spedirono le reliquie nel mondo per favorire l’ espansione del loro culto.

[…] In realtà, non furono i provvedimenti varati da Antioco IV a suscitare la rivolta, come, invece, da sempre, si è soliti sostenere, ma il contrario: la ribellione, che aveva cominciato a manifestarsi concretamente, spinse il re ad assumere una certa condotta politica. Gli eventi, la cui cronologia è ancora oggetto di vivaci discussioni, data la penuria delle fonti e la loro problematicità, precipitarono. Il partito nazionalista ebraico si venne progressivamente rafforzando, ebbe inizio in tal modo la “guerra di religione”, un”‘impresa gloriosa del popolo ebraico”, mentre i Chassidi, una setta che si ispirava a una fanatica osservanza della legge, formata da sacerdoti e laici, costituirono le milizie scelte dei ribelli. Sul finire dell’autunno del 165 a. c., Antioco IV revocò il divieto di praticare la religione ebraica; il suo successore, Antico V avviò una politica di pacificazione e di amnistie. Ma i rivoltosi avevano esteso il teatro della lotta oltre i confini della Giudea. E, forse, proprio perché fin dal principio il conflitto era stato legato a motivazioni di natura sociale e politica e queste ultime vennero assumendo un’importanza crescente, la “guerra santa” contro il dominio seleucide assunse sempre più i connotati di una prosecuzione dei gloriosi misfatti perpetrati in occasione della conquista della terra promessa e, in seguito, di una rinascita del regno d’Israele prima dell’esilio. Sotto la guida di Jahwe si aprì una sorta di nuova era sacra, gli uomini migliori della nazione ebraica furono chiamati a combattere, la legge di Mosè “fu difesa a spada tratta fino alla morte”. Il fattore di coesione dei combattenti era rappresentato dal tempio del Signore e dalla sua liberazione: “Jahwe è il mio vessillo”. In sostanza, il desiderio di vendetta e di morte venne considerato “un frutto della devozione”.

Il primo capo dei Maccabei rivoltosi – la cui sollevazione avrebbe condotto alla fondazione di un nuovo Stato e di una nuova dinastia, quella degli Asmonei – fu il sacerdote Mattatia (il cui nome significa ‘dono di Jahwe’) della stirpe di Asmon. Preso da “zelo religioso”, secondo il racconto biblico, egli colpì a morte un Israelita che, in obbedienza agli ordini degli ambasciatori del re, voleva offrire sacrifici e poi gli ambasciatori stessi, facendo così scoppiare una piccola guerra contro la guarnigione locale. Ma si era solo agli inizi. Dopo la morte di Mattatia, avvenuta nel 166 a. c., il comando della rivolta passò a uno dei suoi cinque figli, Giuda Maccabeo (dall’ebraico maqqaebaet, cioè martello) il “Carlo Martello dell’Antico Testamento”, l”’eroe con la spada consacrata”, “la vera anima della lotta”. Le sue specialità furono attacchi a sorpresa, sortite notturne, incendi appiccali approfittando del favore delle tenebre […]. Giuda Maccabeo praticò la guerriglia su vasta scala, arrivando addirittura a infrangere il divieto di combattere il Sabato. Approfittando anche del fatto che i Siriani erano in un conflitto con i Parti, sconfisse i generali nemici a Beth-Horon, Emmaus, Bethsura, conquistò Gerusalemme, purificando il tempio del SIGNORE dall”‘orrore delle devastazioni” prodotte da Antioco Epifane e facendo appendere la testa del comandante nemico, Nicanore, alla porta della città. Questo episodio sarebbe stato ricordato ogni anno con una festa solenne. Ancora una volta, l’intervento prodigioso di Dio aveva salvato il suo popolo. Quando, nel 163, Antioco IV morì combattendo contro i Parti, il reggente Lisia offrì pace e libertà di culto agli Ebrei. Mentre, tuttavia, il sommo sacerdote Alcimo e i fautori di un’inversione di tendenza, cioè i Chassidi, accettarono tale proposta, i Maccabei vi si opposero, manifestando la chiara intenzione di voler continuare la lotta in nome non più solo della libertà religiosa, ma anche dell’indipendenza politica e della cacciata dei “senza Dio” dalla terra d’Israele. Con le loro lotte essi finirono, paradossalmente ma significativamente, per gettare le basi “proprio di quella dinastia ellenistica contro cui gli ortodossi erano scesi in campo: poco più tardi Giuda, che aveva combattuto persino il Sabato, alla ricerca di un’intesa con Roma, avrebbe accettato il mondo pagano con le altre religioni e i suoi costumi di vita”. Dopo aver versato fiumi di sangue pagano, nel 161/160, Giuda stesso moriva in un disperato scontro con Bacchide, divenendo il prototipo dell’eroe ebraico e conquistandosi un posto d’onore nella galleria degli sterminatori cristiani, come modello del combattente per la fede.

Il fratello più giovane di Giuda, Gionata, approfittando di disordini interni al regno seleucide, con l’approvazione del re siriaco, divenne, nel 143, sommo sacerdote e governatore militare della Giudea, due cariche di primo piano che si completavano a vicenda. Gli successe, in qualità di “sommo sacerdote, comandante militare e principe dei Giudei”, il fratello Simone, assassinato nel 135, per mano di suo genero Tolomeo. La carica di sommo sacerdote era ereditaria. Se i due figli di Simone, Mattatia e Giuda, erano morti con lui, il terzo, Giovanni Ircano I (135-103), scampato all’attentato, divenne, a sua volta, un campione della guerra sacra dei Maccabei, arrivando a governare uno Stato praticamente indipendente. Prima con il sostegno dei Farisei, successivamente con quello dei Sadducei, la nobiltà ecclesiastica di Gerusalemme, Ircano, approfittando delle rivalità sorte intorno al trono di Siria, intraprese grandi campagne militari di espansione, come non se ne erano più viste dai tempi di Salomone. Portò avanti la penetrazione violenta dei Giudei nelle terre degli Idumei e dei Galilei; tuttavia, come sostiene Meyer, non si trattava delle solite guerre di espansione, ma di “speciali guerre sante di natura religiosa”. “Ciò che in realtà rappresentava una rapina assunse i connotati di un mero recupero di territori che costituivano parte dell’eredità lasciata dai padri”. Il sommo sacerdote cominciò, inoltre, a circondarsi del lusso caratteristico dei sovrani ellenistico-orientali e a far uso del loro cerimoniale, né si fece scrupolo di sottrarre 3000 talenti (diversi milioni di euro), dal tesoro della necropoli dei re, al fine, secondo [lo storico ebreo, ndr] Flavio Giuseppe, di rimpinguare le casse svuotate dalle continue guerre.

Giovanni Ircano distrusse anche la città di Samaria che, in età cristiana sarebbe definitivamente scomparsa dalla scena politica.

Samaria, capitale dell’antico regno d’Israele, sontuosamente edificata dal re Omri, svolse il ruolo di antagonista di Gerusalemme, e i suoi abitanti, una popolazione mista di ebrei e pagani nel cuore della Palestina, erano invisi ai giudei più di chiunque altro. Quando l’ ssiro Sargon II, nel 722 a. c., dopo un assedio di tre anni, distrusse la ben munita Samaria, l’annientamento della città preoccupò molto poco Gerusalemme, come, del resto, non avrebbe suscitato la sua preoccupazione neppure la successiva distruzione della città rivale, avvenuta per mano di Demetrio Poliorcete, nel 296, al tempo delle guerre tra i Diadochi. I Samaritani, cui Alessandro Magno aveva consentito di edificare un tempio sulla montagna di Garizim, in evidente concorrenza con il tempio di Gerusalemme, praticavano una versione ridotta della religione ebraica. Della Sacra Scrittura riconoscevano solo il Pentateuco, i cinque libri di Mosè, e ritenevano gli Ebrei “impuri”. Questi ultimi, già al tempo della riedificazione del Tempio li avevano rinnegati. Nel 128, Giovanni Ircano smantellò il tempio sul monte Garizim, ma i Samaritani non persero il loro “spirito indomito”. Secondo Daniel-Rops, “essi nutrivano, addirittura, la pretesa di rappresentare la vera religione d’Israele”. Ma quale religione ammetterebbe di essere quella falsa! Nel 107, il sommo sacerdote Ircano distrusse anche Samaria. Mezzo secolo dopo, il governatore romano Aulo Gabinio riedificò la città che, di lì a poco, sotto Erode, avrebbe conosciuto una nuova fase di splendore.

Gionata (103-176), noto anche con il nome grecizzato di Alexandros Jannaios, figlio d’Ircano, dopo il regno durato un solo anno di suo fratello Aristobulo che aveva fatto imprigionare la maggior parte dei suoi fratelli e lasciato morire di fame la madre in carcere, si propose di continuare la politica del padre. In qualità di re e sommo sacerdote, intraprese campagne militari, spesso “sfortunate”, contro i Tolomei, i Seleucidi, i Nabatei, e, persino una guerra civile, durata sei anni, contro i Farisei, servendosi dell’ausilio di mercenari stranieri, la feccia della società, secondo le testimonianze contemporanee. Da questo conflitto risultò vincitore e ne approfittò per vendicarsi ferocemente. 800 dei suoi nemici “che avevano combattuto con quella crudeltà implacabile che è propria dei devoti che lottano per la conquista del premio ultraterreno”, vennero crocifissi, mentre nel complesso, secondo le stime di Flavio Giuseppe, perirono 50000 uomini. Alla fine, Gionata, un pirata spietato, spesso identificato con il “sacerdote empio” dei testi di Qumran, si trovò alla guida di tutta la Palestina, un regno grande all’ incirca quanto lo era stato quello di David. Pochi anni dopo, nel 64 a. c., i Romani, sotto la guida di Pompeo conquistarono queste terre, smembrarono lo Stato degli Asmonei, e ridussero Gerusalemme, dopo averla ampiamente distrutta, al rango di una città di provincia. Molti Ebrei furono uccisi, ma ancora più numerosi furono quelli di loro ridotti in schiavitù e inviati a Roma.

Una “guerra santa” durata più di cento anni si era conclusa. Pochi Maccabei erano morti di morte naturale. Giuda Maccabeo era caduto combattendo, suo fratello Gionata era stato assassinato, così come Simone; Ircano II, nipote di Giovanni Ircano I, era stato giustiziato da Erode, alleato dei Romani, Aristobulo II era stato avvelenato, suo figlio Alessandro giustiziato come Antigono Mattatia, l’ultimo sovrano della dinastia degli Asmonei. Anche la figlia di Alessandro, Marianne, andata in sposa a Erode nel 37 a. C., finì vittima degli intrighi di palazzo, al pari di sua madre Alessandra e dei suoi figli Alessandro e Aristobulo. […]

LA GUERRA GIUDAICA (66-70 D. c.)

Furono gli zeloti, un partito nazionalista ebraico, fondato nel 6 d.c., e formato in principio solo da sacerdoti di origine gerosolimitana, a organizzare la reazione contro l’occupazione romana. Nonostante sostanziali differenze, esistono tra gli zeloti e i cristiani alcuni punti di contatto. Non è un caso che uno dei discepoli di Gesù, un certo Simone, nel Vangelo di Luca, venga chiamato lo “zelota”, e in quello di Matteo “il cananeo”, trascrizione letterale dell’aramaico qanna’i, cioè “lo zelante”. Gli zeloti, cui la ricerca più recente ascrive sempre maggiore importanza nella ricostruzione della storia di Gesù, erano fortemente sensibili alle profezie apocalittiche di ogni sorta che circolavano in seno alla società ebraica, in particolare a quella secondo cui “uno di loro avrebbe conquistato il dominio del mondo”. Pertanto, già due decenni prima che scoppiasse il conflitto vero e proprio, essi erano impegnati nella lotta contro quei Giudei che sembravano ai loro occhi dimentichi della propria patria, e contro i Romani. Chiamati dai loro nemici “sicari”, in quanto facevano uso di un piccolo coltello, “sica”, con la lama ricurva, che erano soliti piantare nella schiena del malcapitato, in un primo momento seminarono il terrore soprattutto tra i ricchi Ebrei che, per salvaguardare i propri patrimoni, si erano mostrati favorevoli a scendere a patti con i Romani. La prima vittima fu, probabilmente il “sommo sacerdote Gionata”. “Compivano i loro misfatti in pieno giorno e nel cuore della città; specie nei giorni di festa si mescolavano tra la folla e colpivano gli avversari con i piccoli pugnali che nascondevano sotto le vesti. Una volta che la vittima era stramazzata al suolo, simulavano di prendere parte allo sdegno e alla sorpresa collettiva e con la loro condotta disinvolta si rendevano insospettabili”. Flavio Giuseppe che, nel bel mezzo della guerra, era passato dalla parte dei Romani, considerava gli zeloti dei briganti e degli assassini a tradimento, ma racconta anche che avevano “numerosi seguaci” e “godevano delle simpatie dei giovani”.

All’interno di questi gruppi estremisti si predicava la guerra contro Roma e si leggevano con straordinario interesse i due libri dei Maccabei – che la Chiesa solo a partire dal Concilio ha incluso nella “Sacra Scrittura” – ci si esaltava di fronte alle loro “imprese eroiche” e si sperava di poter ripetere anche contro i Romani quanto era riuscito contro i Greci. Si aprì in tal modo la guerra  giudaica (66-70), un conflitto così sanguinoso da logorare duramente le forze militari romane.

L’impresa compiuta con il favore di Dio, dapprima sotto la guida del figlio del sommo sacerdote Eleazar ben Simon e di Zacharia ben Phalek, e successivamente al comando di Giovanni di Gischalla, ebbe inizio nel giorno del Sabato, con il massacro dei pochi Romani di stanza nella fortezza Antonia di Gerusalemme e nel ben munito palazzo reale. Prima della resa era stata promessa alla guarnigione l’incolumità. In realtà, invece, venne graziato solo un ufficiale che aveva accettato di farsi circoncidere. (In seguito, anche i cristiani si asterranno dall’uccidere gli Ebrei che accettavano di convertirsi). Nelle vicine città greche di Damasco, Cesarea, Ascalona, Scitopoli, Ippo, Gadara, gli Elleni massacrarono gli Ebrei: per Damasco si parla di 10500 o 18000 uomini. I ribelli Ebrei, intanto, infiammati dal loro credo e dal ricordo esaltante della guerra dei Maccabei, ripulivano l’intera Giudea delle minoranze.

I Romani decisero allora d’intervenire, affidando in un primo momento le operazioni al governatore della Siria, Gaio Cestio Gallo, e, successivamente, a uno dei migliori generali di Nerone, l’ex mercante di muli, Tito Flavio Vespasiano, la cui azione politica e militare fu rallentata dalla morte di Nerone e dalla caduta di Galba. Comunque, nel 68, quasi tutta la Palestina era ridotta in suo potere; anche l’insediamento monastico di Qumran sul Mar Morto era stato raso al suolo, ma la sua preziosa biblioteca, scoperta intorno agli anni Cinquanta del XX secolo, si salvò in quanto venne nascosta tra le grotte della montagna. Pure i Samaritani che avevano preso parte alla guerra vennero decimati. 11600 di loro furono massacrati sul monte Garizim. A Gerusalemme, intanto, già conquistata da Vespasiano, i figli di Dio, in particolare due fazioni ebraiche rivali, continuavano a combattere tra loro per le strade della “malfamata città”. Le due fazioni si scontrarono con una terza addirittura nel Tempio, divenuto insieme alla zona circostante un caposaldo degli zeloti, mentre si celebravano i riti sacri! In tutto questo le masse soffrivano la fame ogni giorno di più, gli Ebrei si ammazzavano tra loro in scontri di piazza quotidiani, mentre quelli di loro fatti prigionieri dai Romani venivano passati a fil di spada o crocifissi. Vespasiano, acclamato imperatore dalle sue truppe, abbandonò la Palestina e fece ritorno a Roma. Due anni dopo, tuttavia, al principio di settembre del 70, suo figlio Tito, che già a Cesarea, a Beirut e altrove aveva fatto sbranare i prigionieri Ebrei costringendoli a combattere con le fiere, e poi bruciandone i corpi ancora vivi, mise fine alla guerra con un bagno di sangue. Chi ancora viveva a Gerusalemme, ridotta ormai a un cumulo di rovine, venne ucciso oppure venduto come schiavo. Il Tempio fu raso al suolo e, nello stesso giorno, i tesori, che da più di sei secoli erano lì custoditi, furono dati alle fiamme. Unicamente intorno alle fortezze di Erodeion, Macairo e Masada si continuò a combattere ancora qualche anno; alla fine i loro difensori, insieme alle donne e ai bambini si diedero la morte.

Nel 71, il vincitore entrò in trionfo a Roma, dove ancora oggi l’arco a lui dedicato ricorda l’impresa gloriosa …

Il massacro era costato centinaia di migliaia di vite umane; Gerusalemme era stata rasa al suolo, come a suo tempo Cartagine e Corinto; i territori circostanti entrarono a far parte del fisco imperiale. Imposte pesantissime – fino al prelievo di un quinto del primo raccolto – si abbatterono sui vinti, mentre bande di predoni compivano quotidianamente scorrerie. La vita religiosa continuò, comunque, a fiorire sotto la guida di un consiglio formato da 72 scribi, con al vertice un “principe”. La preghiera quotidiana, detta Schemone esre, modello per il Padrenostro cristiano, fu arricchita da un’invocazione contro i Minnim, i cristiani, in cui si auspicava la loro maledizione e il loro annientamento. Dunque, né in Palestina, né altrove, fu possibile impedire agli Ebrei l’esercizio del loro culto, e questo, probabilmente perché, come sostiene Mommsen, “si ebbe una certa esitazione a vedere nella religione ebraica il motivo scatenante della guerra”. Alcuni decenni dopo, nel secondo atto di questa “guerra all’ultimo sangue nel nome di Dio”, il fiasco sarebbe stato ancora più clamoroso.

Qui ci fermiamo con la parte storica, essendo arrivati ad abbracciare il periodo in cui si situa Gesù del quale dovrò occuparmi in futuri articoli. Ma c’è un aspetto, solo accennato, che merita un minimo di approfondimento per i futuri sviluppi nella nascita del Cristianesimo.

LE PROFEZIE DALL’ESILIO

         Dopo la distruzione di Gerusalemme nel 587, abbiamo detto che alcuni ebrei furono deportati a Babilonia. Nonostante si parli di deportazioni di massa, si trattava di poche persone. Geremia, un autorevole profeta, afferma che in totale furono deportate a Babilonia 4600 persone:

28 Questa è la gente che Nabucodònosor deportò: nell’anno settimo tremilaventitré Giudei; 29 nell’anno decimo ottavo di Nabucodònosor furono deportati da Gerusalemme ottocentotrentadue persone; 30 nell’anno ventitreesimo di Nabucodònosor, Nabuzaradàn capo delle guardie deportò settecentoquarantacinque Giudei: in tutto quattromilaseicento persone. [Ger. 52, 28-30]

Nel Secondo Libro dei Re la cifra non va oltre i 20 mila:  

14 Deportò tutta Gerusalemme, cioè tutti i capi, tutti i prodi, in numero di diecimila, tutti i falegnami e i fabbri; rimase solo la gente povera del paese. 15 Deportò in Babilonia Ioiachìn, la madre del re, le mogli del re, i suoi eunuchi e le guide del paese, conducendoli in esilio da Gerusalemme in Babilonia. 16 Tutti gli uomini di valore, in numero di settemila, i falegnami e i fabbri, in numero di mille, e tutti i guerrieri più prodi furono condotti in esilio a Babilonia dal re di Babilonia. [2 Re 24, 14-16]

Si trattava però dell’élite sociale ed intellettuale della popolazione in massima parte cittadina. Tra questi vi erano sacerdoti e scribi che più sentirono il senso della patria perduta raccontandola nei testi che scrissero in una situazione di profonda umiliazione mescolata con il desiderio di non corrompersi in mescolanze con i babilonesi. Tra questi intellettuali maturò una profonda coscienza di aver peccato contro il Signore che, proprio per questo, li aveva puniti. Maturava in questo periodo anche un sentimento, che sarà poi alla base anche del Cristianesimo, quello della virtù redentrice della sofferenza, della espiazione attraverso il sacrificio. Alla fine del percorso sofferente si insinuò l’idea del riscatto del popolo di Israele attraverso la speranza in un personaggio che avrebbe riportato il popolo a riconquistare il paradiso perduto. Questo personaggio, il messia, avrà prima le caratteristiche di un condottiero e poi quelle di un sacerdote. Questa trasformazione è chiara conseguenza del passaggio della speranza del popolo da una salvezza civile ad una religiosa, a seguito del passaggio del potere ai sacerdoti. L’esilio a Babilonia eliminò, per la prima volta, l’elemento politico nella storia di Israele e tutto divenne religioso. Ma anche la casta dei sacersoti sarà messa in discussione per il grande potere che aveva accumulato anche attraverso le grandi disponibilità economiche (vedi nota 1). E’ di grande utilità seguire il cambiamento degli scritti profetici in corrispondenza della sofferenza nella deportazione. Lo faccio attraverso il lavoro di Pepe Rodriguez [1] nel quale inserirò i testi profetici solo citati:

Come è facile indovinare, le profezie che sono state scritte durante l’esilio, contrariamente a quelle datate in tempi precedenti, sono tutte di consolazione. Cosi, in testi come Isaia, Gioele, Zaccaria o Salmi, si coincide nel presentare la promessa di un miracoloso intervento del Signore che distruggerà tutti i popoli pagani, in modo particolare i babilonesi. Per la stessa ragione, non stupisce la confluenza delle speranze nel messianismo regale davidico con le intense speculazioni escatologiche che sorgono in mezzo alla costretta povertà dell’esilio. Il testo di Zaccaria(3) [del IV secolo] dove si annuncia l’arrivo a Gerusalemme di un re che cavalca un asino:

9 Esulta grandemente figlia di Sion,
giubila, figlia di Gerusalemme!
Ecco, a te viene il tuo re.
Egli è giusto e vittorioso,
umile, cavalca un asino,
un puledro figlio d’asina.
10 Farà sparire i carri da Efraim
e i cavalli da Gerusalemme,
l’arco di guerra sarà spezzato,
annunzierà la pace alle genti,
il suo dominio sarà da mare a mare
e dal fiume ai confini della terra. [Zac. 9, 9-10]

risulta emblematico delle chiare speranze che albergavano dietro l’imminente ritorno a Giuda, ma anche delle condizioni poco più che patetiche in cui credevano che si sarebbe trovato il messia davidico dopo le miserie subite dalla cattività babilonese.

Anche il profeta Daniele, un contemporaneo di Zaccaria che  secondo la tradizione visse alla corte del re Nabucodonosor senza attraversare difficoltà economiche, postulò il messianismo escatologico, ma lo fece in linea con l’ambiente che respirava, senza, cioè, nessun segno di miseria. Nel settimo capitolo del libro di Daniele viene descritta la futura vittoria del popolo ebreo sulle altre nazioni (simboleggiate da quattro bestie mostruose) per mano di «uno simile ad un figlio di uomo»:

13 Guardando ancora nelle visioni notturne,
ecco apparire, sulle nubi del cielo,
uno, simile ad un figlio di uomo;
giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui,
14 che gli diede potere, gloria e regno;
tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano;
il suo potere è un potere eterno,
che non tramonta mai, e il suo regno è tale
che non sarà mai distrutto. [Dan. 7, 13-14]

Ma ciò che per Daniele era stato un simbolo all’interno di una visione, il «figlio di uomo» che voleva descrivere un personaggio di portamento reale, avrebbe finito per trasformarsi in una questione fondamentale per la fede nel momento in cui questo «figlio di uomo» cominciò a essere identificato con un personaggio divino che viveva con Dio fin dagli inizi dei tempi e che verrà chiamato a occupare la presidenza il giorno del Giudizio universale. Più in là vedremo come questa sbagliata e capricciosa interpretazione onirica verrà impiegata dai primi cristiani per contribuire alla fondazione del loro disegno sulla personalità divina di Gesti di Nazareth.

Il profeta Ezechiele, deportato a Babilonia insieme con la élite di Gerusalemme, rispecchiò alla perfezione il sentire degli ebrei durante quegli anni. Nel suo testo leggiamo che Dio ha annunciato attraverso la sua bocca che la nazione ebraica sarebbe rinata grazie al soffio del Signore:

1 La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa; 2 mi fece passare tutt’intorno accanto ad esse. Vidi che erano in grandissima quantità sulla distesa della valle e tutte inaridite. 3 Mi disse: «Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?». Io risposi: «Signore Dio, tu lo sai». 4 Egli mi replicò: «Profetizza su queste ossa e annunzia loro: Ossa inaridite, udite la parola del Signore. 5 Dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. 6 Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete: Saprete che io sono il Signore». 7 Io profetizzai come mi era stato ordinato; mentre io profetizzavo, sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l’uno all’altro, ciascuno al suo corrispondente. 8 Guardai ed ecco sopra di esse i nervi, la carne cresceva e la pelle le ricopriva, ma non c’era spirito in loro. 9 Egli aggiunse: «Profetizza allo spirito, profetizza figlio dell’uomo e annunzia allo spirito: Dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano». 10 Io profetizzai come mi aveva comandato e lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande, sterminato.
11 Mi disse: «Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la gente d’Israele. Ecco, essi vanno dicendo: Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti. 12 Perciò profetizza e annunzia loro: Dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese d’Israele. 13 Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio. 14 Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nel vostro paese; saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò». Oracolo del Signore Dio. [Ez 37, 1-14]

che il popolo sarebbe stato purificato grazie al ritorno della pratica della Legge e questo per via dell’istaurarsi di «un’alleanza di pace, che sarà con loro un’alleanza eterna»:

26 Farò con loro un’alleanza di pace, che sarà con loro un’alleanza eterna. Li stabilirò e li moltiplicherò e porrò il mio santuario in mezzo a loro per sempre. 27 In mezzo a loro sarà la mia dimora: io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. 28 Le genti sapranno che io sono il Signore che santifico Israele quando il mio santuario sarà in mezzo a loro per sempre». [Ez 37, 26-28];

che Israele e Giuda sarebbero di nuovo tornate unite:

19 tu dirai loro: Dice il Signore Dio: Ecco, io prendo il legno di Giuseppe, che è in mano d’Efraim e le tribù d’Israele unite a lui, e lo metto sul legno di Giuda per farne un legno solo; diventeranno una cosa sola in mano mia. [Ez 37, 19];

che la dinastia davidica sarebbe stata ristabilita attraverso il Messia indicato come «mio servo Davide»:

23 Non si contamineranno più con i loro idoli, con i loro abomini e con tutte le loro iniquità; li libererò da tutte le ribellioni con cui hanno peccato; li purificherò e saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio. 24 Il mio servo Davide sarà su di loro e non vi sarà che un unico pastore per tutti; seguiranno i miei comandamenti, osserveranno le mie leggi e le metteranno in pratica. 25 Abiteranno nella terra che ho dato al mio servo Giacobbe. In quella terra su cui abitarono i loro padri, abiteranno essi, i loro figli e i figli dei loro figli, attraverso i secoli; Davide mio servo sarà loro re per sempre. [Ez 37, 23-25];

ecc. Queste profezie non sono state altro che l’anelito di un gruppo che si afferrò alla speranza per non soccombere.

D’altra parte, Ezechiele, in quanto membro della classe sacerdotale, non si limitò alla redazione di metafore di futuro, ma più pragmaticamente, irrobustì tutto ciò che potesse facilitare il potere al clero (riti, rigide gerarchie, riposo settimanale con sacrifici … ) per disporre così di un sistema di controllo sociale capace, quando fosse arrivato il momento, di riorganizzare la nazione ebraica.

E finalmente l’occasione si verificò nel 520 a.c. quando il re persiano Dario I, che aveva bisogno di una colonia amica in Palestina da usare eventualmente come base che facilitasse le sue intenzioni d’intraprendere la conquista dell’Egitto, ordinò il ritorno a Giuda di tutta la élite ebraica che si trovava ancora nell’esilio babilonese. La liberazione si produsse settantasette anni dopo la sconfitta degli ebrei per mano di Nabucodonosor. Anche in questa circostanza vi fu il solito sacerdote redattore che aggiunse al libro di Geremia una profezia a posteriori dove venivano annunciati i particolari dell’invasione dei babilonesi, delle condizioni dell’esilio, che questo si sarebbe mantenuto per settant’anni e che poi sarebbero arrivati i persiani:

8 Per questo dice il Signore degli eserciti: Poiché non avete ascoltato le mie parole, 9 ecco manderò a prendere tutte le tribù del settentrione, le manderò contro questo paese, contro i suoi abitanti e contro tutte le nazioni confinanti, voterò costoro allo sterminio e li ridurrò a oggetto di orrore, a scherno e a obbrobrio perenne. 10 Farò cessare in mezzo a loro le grida di gioia e le voci di allegria, la voce dello sposo e quella della sposa, il rumore della mola e il lume della lampada. 11 Tutta questa regione sarà abbandonata alla distruzione e alla desolazione e queste genti resteranno schiave del re di Babilonia per settanta anni. 12 Quando saranno compiuti i settanta anni, io punirò il re di Babilonia e quel popolo – dice il Signore – per i loro delitti, punirò il paese dei Caldei e lo ridurrò a una desolazione perenne. 13 Manderò dunque a effetto su questo paese tutte le parole che ho pronunziate a suo riguardo, quanto è scritto in questo libro, ciò che Geremia aveva predetto contro tutte le nazioni.
14 Nazioni numerose e re potenti ridurranno in schiavitù anche costoro, e così li ripagherò secondo le loro azioni, secondo le opere delle loro mani». [Ger 25, 8-14]

Gli ebrei, tornati nella loro terra e in una situazione di grande euforia e fervore religioso, hanno dato per acquisito il momento del recupero della grazia del Signore e dell’ avvento definitivo del «regno di Dio». Il profeta Zaccaria arrivò a mettere il timbro messianico a Zorobabel, il re della casa davidica che Dario I insediò come governatore di Giuda, anche se è pur vero che, per via della tremenda importanza acquisita dal clero durante l’esilio, tale ruolo messianico fu diviso con il sommo sacerdote:

11 Quindi gli domandai: «Che significano quei due olivi a destra e a sinistra del candelabro? 12 E quelle due ciocche d’olivo che stillano oro dentro i due canaletti d’oro?». 13 Mi rispose: «Non comprendi dunque il significato di queste cose?». E io: «No, signor mio». 14 «Questi, soggiunse, sono i due consacrati che assistono il dominatore di tutta la terra». [Zc 4, 11-14]

Non a caso a partire da allora si cominciò a parlare di un messianismo sacerdotale che accompagnava, e qualche volta sostituiva, il messianismo reale davidico.

Nonostante le promesse degli oracoli del Signore ai profeti Zaccaria e Aggeo, né con Zorobabel, né con i successori arrivò alcun «regno di Dio» e ciò contribuì a raffreddare parecchio la componente nazionalista radicale tipica della religione ebraica; anche se, a riprova del futuro celeste che li attendeva, durante i due secoli di dominazione dell’impero achemenida (persiani), il clero fu consacrato come la massima autorità del paese.

Nel secolo successivo, il V a.c., non sarebbe già stato tempo di profeti ma di scribi, legislatori e saggi, cioè dei burocrati che hanno disegnato l’ebraismo. Anche se, comunque, continuarono ad apparire profeti, come Malachia, che alzarono la voce … ma ora contro gli stessi sacerdoti che detenevano il potere. Così, per esempio, Malachia annunciò di nuovo il «giorno del Signore» ma, a differenza dei suoi predecessori Amos o Sofonia, vide in quel giorno escatologico l’occasione per depurare il sacerdozio, per ristabilire l’alleanza tra Dio e il clero:

4 Così saprete che io ho diretto a voi questo monito,
perché c’è anche un’alleanza fra me e Levi,
dice il Signore degli eserciti. [Mal. 2, 4]

e per «purificare i figli di Levi»:

3 Siederà per fondere e purificare; purificherà i figli di Levi, li affinerà come oro e argento, perché possano offrire al Signore un’oblazione secondo giustizia. [Mal. 3, 3]

[…]

A questo punto della storia – ed è questo l’elemento da conservare per il resto dell’opera – il lavoro di architettura dottrinale di un pugno di pensatori religiosi – i profeti e i redattori dei testi biblici sacerdotali e deuteronomici – aveva già gettato in modo definitivo le fondamenta. Queste avrebbero avuto una doppia funzione: al di sotto di esse sarebbe sepolto il jahvismo, insieme con il dio adorato dagli ebrei fin dall’epoca dei patriarchi; al di sopra, si sarebbe edificato il modello di dio e di teologia che avrebbe dato i natali all’ebraismo e al suo figlio involontario, il cristianesimo.

A quanto qui spiegato da Pepe Rodriguez vi è da aggiungere una profezia di altro profeta anteriore all’esilio, Isaia [VIII secolo a. C], profezia che, messa insieme alle altre, delineerà la figura di Gesù:

1 Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse [la stirpe di Davide, ndr],
un virgulto germoglierà dalle sue radici.
2 Su di lui si poserà lo spirito del Signore,
spirito di sapienza e di intelligenza,
spirito di consiglio e di fortezza,
spirito di conoscenza e di timore del Signore.
3 Si compiacerà del timore del Signore.
Non giudicherà secondo le apparenze
e non prenderà decisioni per sentito dire;
4 ma giudicherà con giustizia i miseri
e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese.
La sua parola sarà una verga che percuoterà il violento;
con il soffio delle sue labbra ucciderà l’empio.
5 Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia,
cintura dei suoi fianchi la fedeltà.
6 Il lupo dimorerà insieme con l’agnello,
la pantera si sdraierà accanto al capretto;
il vitello e il leoncello pascoleranno insieme
e un fanciullo li guiderà.
7 La vacca e l’orsa pascoleranno insieme;
si sdraieranno insieme i loro piccoli.
Il leone si ciberà di paglia, come il bue.
8 Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide;
il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi.
9 Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno
in tutto il mio santo monte,
perché la saggezza del Signore riempirà il paese
come le acque ricoprono il mare. [Isa. 11, 1-9]

        C’è da aggiungere che lo stesso Isaia identificò nel Messia, più oltre ad Alessandria chiamato Cristo, con lo schiavo sofferente o anche lo schiavo di Dio (ebèd Jahvè). Costui è un personaggio che, attraverso l’oppressione, la sofferenza ed il dolore, ha la missione di restituire agli uomini la giustizia, di ridare loro la felicità, di fargli conoscere il vero Dio.

        Sembra estremamente chiaro, dopo aver letto quanto fin qui scritto, che la Bibbia è l’insieme dei libri che raccontano la storia di un popolo, costituitosi come tale dall’esodo dall’Egitto, nel mito di una religione. La Genesi e l’Esodo descrivono tutti i miti e le leggende che vorrebbero una etnia che discende dalla figura chiave di Abramo che cede poi il passo al padre della nazione, Mosè. Per far questo era indispensabile trasformare un egiziano in un ebreo (comunque mai circonciso) e inserirlo dentro un mito assiro-babilonese risalente a circa il 2500 a.C. quello dell’uomo salvato dalle acque, come appunto Sargon il Grande di Akkad che fu salvato dalle acque da un dignitario di corte della città semitica su cui regnò dal 2334 al 2279 a.C., muovendo poi alla conquista di un impero, il primo grande impero della storia (e salvati dalla acque fu anche Noè e saranno poi Perseo e Romolo). Questo Mosè egiziano-ebreo(4) porterà con sé il monoteismo di Akhenaton che subirà trasformazioni radicali nel monoteismo ebraico allo stesso modo che il monoteismo ebraico sarà trasformato in quello cristiano. Un dio guida sempre le azioni del popolo e questo popolo, nel tempo, creerà una struttura inscindibile dal suo dio. I profeti, scrivendo dopo che i fatti erano accaduti, costruiranno immagini fantastiche degli eletti da Dio in cornici miracolose, con nascite annunciate e gesta guidate dal dio. Fino a Davide, il padre politico, il messia, il costruttore del “regno di dio”, la figura mitica che si affianca ad Abramo e Mosè.

“Anche in seguito, dopo lo scisma dei due regni che avvenne alla morte di Salomone, e quando il paese iniziò a subire un plurisecolare destino di dominazioni straniere, sotto gli assiri, i babilonesi, i persiani, i greci e i romani, le scritture sono caratterizzate da un fine primario: salvaguardare l’eredità nazionale, continuare a dimostrare che Israele è sempre, malgrado tutto, il popolo di dio, che il suo futuro gli riserva un riscatto. Il profetismo messianico, ovverosia l’attesa di un liberatore che ripeta la figura di Davide e ricostruisca il “regno di dio”, diventa un motivo ricorrente, finché si trasforma in autentica ossessione e porterà, sotto la dominazione romana, ad una crisi fatale. L’imperatore Tito, interprete della esasperazione romana nei confronti di questo popolo, visto come affetto da una patologia teocratica maniacale, farà strage e rovina degli ebrei e della loro capitale, ed essi ricadranno improvvisamente nella condizione in cui si trovavano in Egitto, come emarginati vittime di una diaspora penosa. E’ il momento in cui l’eredità monoteistica di Akhenaton, che aveva subito una prima grande trasformazione con la sintesi biblica, subisce una seconda grande trasformazione con la sintesi cristiana. Occorreranno ancora cinquecento anni perché maturino in medio oriente le condizioni per la terza sintesi: quella coranica”. [da Donnini]

        Sulla nascita del Cristianesimo, del Messia Gesù, sul suo essere figlio di Dio, sulla storia degli zeloti, degli esseni, su quegli ebrei che si ribellano a Roma con la minaccia di distruzione del tempio, sulla scelta di crocifiggere Gesù Cristoς (Gesù Cristo o Gesù Messiae non Gesù Barabbaς (Gesù Barabba o Gesù figlio di Dio), sul fatto che di questo evento trascendente (la crocifissione di Gesù) nessuno storico dell’epoca abbia parlato, … su tutto questo scriverò un altro articolo. Ora vorrei passare ad un argomento apparentemente marginale rispetto alle finalità conclamate della Bibbia, le conoscenze scientifiche che vi fanno capolino. E’ utile capire cosa Dio, che ispirò la Bibbia che è Parola di Dio, sapesse di fatti naturali.

LE CONOSCENZE SCIENTIFICHE NELLA BIBBIA



        Questo capitolo ha in linea di principio un carattere diverso rispetto a tutti gli altri. L’ho riservato alla fine proprio per andare qui a controllare la Parola di Dio. E l’unico controllo possibile è con i dati di fatto che solo la scienza offre.

        Sono uno scienziato che sa bene quanto le conoscenze scientifiche siano provvisorie. Nessuno scienziato degno di questo nome dirà che “questa è la verità”. Le conoscenze sono sempre provvisorie, ve ne sono alcune che sono provvisoriamente molto forti (ad esempio: la velocità della luce come velocità limite; il secondo principio della termodinamica; …), altre che non hanno la medesima valenza (ad esempio: la definizione di forza), ma nessuno scienziato direbbe che, deboli o forti che siano, sono vere sempre, comunque e dovunque. Al massimo si dice che sono vere oggi, qui, con le conoscenze che abbiamo. Dico anche, per coloro che non hanno confidenza con il mondo delle scienze, che la matematica non c’entra con il mondo delle scienze della natura. La matematica, una creazione del pensiero può costruire ogni verità che si autodefinisce come tale. Nessun problema perché, insisto, la matematica è una pura ed avanzatissima creazione della mente.

        Aver detto questo è importante rispetto alla cialtroneria circolante che parla di verità scientifiche. Se si passa invece ad una religione, per ora una qualunque, lì vi sono verità indiscutibili, dogmi, dei credo acritici ed assoluti. La discussione annosa e noiosa delle relazioni tra fede e scienza sono delle colossali sciocchezze. La scienza è sempre aperta a tutto e non ha dogmi da difendere. Al massimo vi sono dei conservatori che difendono con tutte le loro forze un paradigma scientifico affermatosi in una data epoca (Ampère nella sua difesa dell’azione a distanza; Lorentz che non rinuncia all’etere; …). Ma, anche costoro, alla fine si sono arresi o non hanno discusso il nuovo paradigma in termini di negazione.  Con la religione le cose sono radicalmente diverse: è impossibile discutere i principi fondanti la medesima. Chi lo fa viene espulso da quell’ambito, da quella congrega, da quella setta, da quella Chiesa. Si può essere cristiani e discutere il fatto che Gesù sia un Dio ? Si può essere ebrei e dire che Mosè non era un ebreo  e che Geova era un macellaio criminale e violento ? Inutile insistere mi pare che i termini siano chiari. Ed è anche chiaro come vanno a finire le intersezioni tra scienza e fede: ci si può volere bene fino a quando non si toccano punti cruciali. Sulla fisica, ad esempio, ormai la Fede ha abbandonato ogni velleità di interferire. Lo fa in modo brutale, come è suo costume, nelle scienze biologiche, sovrapponendo, non scienza a scienza ma, dogma a scienza. Che senso ha affermare che la vita inizia quando spermatozoo ed ovulo si incontrano ? Che senso ha dire che una persona in stato vegetativo da vari anni è viva e deve essere mantenuta tale ? Che senso ha dire che la mia vita è proprietà di una legge dello Stato ?

        Tutti i normalmente pensanti sanno che la religione si infila in questioni scientifiche sempre e soltanto per dire no, per ostacolare, per fermare, per diffamare. La religione, tutte le religioni con assoluta preminenza della Chiesa cristiana, sa bene che ogni avanzamento della conoscenza è una mina sotto i privilegi del clero. Si coniughi questa mia affermazione come si vuole ma non si dica che il supposto Gesù fosse un sostenitore dell’arricchimento del clero ed un avversario della procreazione eterologa. Perché, nella storia tanti dei sono spariti, morti ? Perché la loro funzione è stata razionalizzata, spiegata. Eolo se ne è andato in pensione, insieme a Giove pluvio, insieme a Vulcano e consimili.

        Fino ad ora le interferenze sono state solo della fede sulla scienza. I signori teologi si infilano, nella massima parte senza alcuna conoscenza specifica, in questioni che non conoscono decretando il non accordo della data scoperta o verità scientifica momentanea con la fede. E così un grande biologo come Darwin vien attaccato con virulenza, addirittura denigrato e dileggiato (paragonato ad una scimmia) per il solo aver avanzato la teoria dell’evoluzione che contrasta con le sciocchezze bibliche della creazione. Darwin non ha mai detto che chi vuole abbeverarsi all’irrazionale non lo faccia (anche perché ogni essere razionale sa che l’irrazionale è una bestia che vince e vincerà sempre perché molto più facile da gestire e soprattutto per consolare), ma preti di vario grado in varie epoche hanno creato casi indegni di intolleranza, dai creazionisti ai disegnatori intelligenti (chi, che, che cosa ?). Mentre scrivo queste cose le interferenze continuano, anche attraverso utili idioti che si fanno portatori di leggi che condizionano la vita di ognuno di noi. Sembrano disponibili al dialogo ma sono delle bestie trionfanti che quando ne hanno la possibilità ti si buttano addosso e ti sbranano. Oggi operano su questioni che loro definiscono vita allo stesso modo con cui hanno torturato Galileo. E chi non è indifferente allo scempio non può più fare colui che lascia correre sollevando un sopracciglio. E’ ora di intervenire con tutte le forze disponibili per sbarazzarci di questi personaggi che mentre ci condannano vivono in un mondo di solo privilegio.

        Poiché, come ho più volte ricordato, la Chiesa sostiene con forza che la Bibbia è parola di Dio, cerchiamo di capire cosa sa Dio di scienza. Il problema è capire se Dio ha la stessa cultura scientifica del suo tempo o se ha qualche conoscenza in più, magari sfuggitagli, nella dettatura allo scriba o al profeta. Iniziamo quindi a capire qual era la fonte della cultura scientifica degli uomini al tempo della scrittura della Bibbia.    

        La scienza degli antichi era la conoscenza di vari ambiti che riguardavano la vita pratica dell’uomo. Possiamo, in linea di massima, pensare che gli uomini delle antiche culture si occupassero della loro condizione fisica, della durezza di alcune pietre che lavoravano, della possibilità di ottenere una gittata maggiore da una lancia o da una freccia. Con il passare del tempo, quando dalla caccia si passò all’agricoltura ed all’allevamento, l’interesse deve essersi diretto alla condizione degli animali, alla loro alimentazione che serviva alla propria, ed ambedue dipendenti dall’agricoltura. Vi era poi, ancora legato a quanto ora detto, il tentativo di conoscere i fenomeni atmosferici, il loro ripetersi con un qualche ordine, quindi la conoscenza delle stagioni ed il riproporsi annuale di vari fenomeni, tutto in connessione con fenomeni astronomici utili per individuare date importanti, ad esempio, per la semina ed il raccolto.

        Per documentarci sulla scienza ebraica, del popolo d’Israele, la nostra unica fonte è la Bibbia con la grave difficoltà che questo insieme di libri hanno un carattere religioso, completamente estraneo ad un testo vagamente scientifico. Questo popolo, che ebbe un’influenza unica sulle religioni monoteistiche dell’intera umanità, non sembra proprio aver avuto alcuna importanza per originalità, in ogni ambito scientifico, al tempo antico. Tutte le conoscenze che avevano queste persone furono tratte da civiltà vicine o con le quali vennero a contatto (Mesopotamia, Egitto, Canaan), senza elaborazione alcuna. E’ altresì vero che Israele, dopo essere passata alla monarchia dal primitivo nomadismo, ebbe un periodo relativamente breve per poter sviluppare una cultura propria non religiosa (dall’XI all’VIII secolo a.C.) prima di passare a varie dominazioni. Il capitolo quindi delle conoscenze scientifiche nel popolo d’Israele, dall’antichità alla distruzione del Tempio da parte di Tito, è un capitolo che ha scarsa importanza.

        Le conoscenze matematiche erano basate su due sistemi numerici, il decimale ed il sessagesimale. Il primo derivato dall’abitudine di usare le mani per contare, il secondo derivato da Babilonia. E’ il numero  60 che regola i pesi nelle leggi di Ezechiele: 12 Il siclo [unità di peso equivalente a circa mezzo grammo, ndr] sarà di venti ghere: venti sicli, venticinque sicli e quindici sicli saranno la vostra mina [Ez. 45, 12]; il numero 12 è poi presente dovunque nella Bibbia, a partire dal numero delle tribù fino al numero delle porte di Gerusalemme. Questo sistema conviveva però con il decimale come si desume dall’Esodo: 25 L’argento raccolto, in occasione del censimento della comunità, pesava cento talenti e millesettecentosettantacinque sicli, in sicli del santuario, 26 cioè un beka a testa, vale a dire mezzo siclo, secondo il siclo del santuario, per ciascuno di coloro che furono sottoposti al censimento, dai vent’anni in su. Erano seicentotremilacinquecentocinquanta. [Es. 38, 25-26]. Qua e là compaiono poi altri strani sistemi che non fanno storia per la loro citazione sporadica. Per parte sua la geometria riguardava solo operazioni di agrimensura che, seppure fatte con metodi empirici, mostravano grande abilità.

        La lingua utilizzata in Palestina fu l’ebraico che era di origine cananea. La Bibbia è in gran parte redatta in ebraico con libri in aramaico (che soppianterà l’ebraico dopo l’esilio) ed altri in greco. La scrittura è invece di derivazione fenicia, quindi alfabetica e non ideografica. La base era un alfabeto di 22 lettere ridotto alla sola annotazione delle consonanti. Su questa base gli ebrei elaborarono delle modifiche sui segni consonantici con l’annotazione delle vocali lunghe. Dopo l’esilio gli ebrei adottarono un aramaico modificato fino a farlo diventare l’ebraico quadrato, lingua in gran parte ancora oggi in uso. Questa lingua convisse per lungo tempo con l’ebraico antico.

        La medicina ebraica non è rappresentata in nessuno scritto particolare ma, come per molti altri campi della conoscenza, da varie istruzioni sparpagliate nella Bibbia. Si tratta di nozioni impregnate di religiosità e magia non senza alcuni tentativi di natura empirica.

        La conoscenza del corpo era molto superficiale poiché era vietata la dissezione in quanto il morto avrebbe contaminato il vivente. Si tentava la cura delle ferite, delle fratture, delle malattie della pelle. La cura della lebbra e di altre malattie della pelle, è descritta nel Levitico:

Levitico 13

1 Il Signore aggiunse a Mosè e ad Aronne: 2 «Quando uno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti, suoi figli. 3 Il sacerdote esaminerà la piaga sulla pelle del corpo; se il pelo della piaga è diventato bianco e la piaga appare depressa rispetto alla pelle del corpo, è piaga di lebbra; il sacerdote, dopo averlo esaminato, dichiarerà quell’uomo immondo. 4 Ma se la macchia sulla pelle del corpo è bianca e non appare depressa rispetto alla pelle e il suo pelo non è diventato bianco, il sacerdote isolerà per sette giorni colui che ha la piaga. 5 Al settimo giorno il sacerdote l’esaminerà ancora; se gli parrà che la piaga si sia fermata senza allargarsi sulla pelle, il sacerdote lo isolerà per altri sette giorni. 6 Il sacerdote, il settimo giorno, lo esaminerà di nuovo; se vedrà che la piaga non è più bianca e non si è allargata sulla pelle, dichiarerà quell’uomo mondo: è una pustola. Quegli si laverà le vesti e sarà mondo. 7 Ma se la pustola si è allargata sulla pelle, dopo che egli si è mostrato al sacerdote per essere dichiarato mondo, si farà esaminare di nuovo dal sacerdote; 8 il sacerdote l’esaminerà e se vedrà che la pustola si è allargata sulla pelle, il sacerdote lo dichiarerà immondo: è lebbra.
9 Quando uno avrà addosso una piaga di lebbra, sarà condotto al sacerdote, 10 ed egli lo esaminerà; se vedrà che sulla pelle c’è un tumore bianco, che questo tumore ha fatto imbiancare il pelo e che nel tumore si trova carne viva, 11 è lebbra inveterata nella pelle del corpo e il sacerdote lo dichiarerà immondo; non lo terrà isolato, perché certo è immondo.
12 Se la lebbra si propaga sulla pelle in modo da coprire tutta la pelle di colui che ha la piaga, dal capo ai piedi, dovunque il sacerdote guardi, 13 questi lo esaminerà; se vedrà che la lebbra copre tutto il corpo, dichiarerà mondo colui che ha la piaga: essendo tutto bianco, è mondo. 14 Ma quando apparirà in lui carne viva, sarà chiamato immondo. 15 Il sacerdote, vista la carne viva, lo dichiarerà immondo; la carne viva è immonda: è lebbra. 16 Ma se la carne viva ridiventa bianca, egli vada dal sacerdote e il sacerdote lo esaminerà; 17 se vedrà che la piaga è ridiventata bianca, il sacerdote dichiarerà mondo colui che ha la piaga: è mondo.
18 Quando uno ha avuto sulla pelle della carne un’ulcera che sia guarita 19 e poi, sul luogo dell’ulcera, appaia un tumore bianco o una macchia bianca, rosseggiante, quel tale si mostrerà al sacerdote, 20 il quale l’esaminerà e se vedrà che la macchia è depressa rispetto alla pelle e che il pelo è diventato bianco, il sacerdote lo dichiarerà immondo; è una piaga di lebbra che è scoppiata nell’ulcera. 21 Ma se il sacerdote, esaminandola, vede che nella macchia non ci sono peli bianchi, che non è depressa rispetto alla pelle e che si è attenuata, il sacerdote lo isolerà per sette giorni. 22 Se la macchia si allarga sulla pelle, il sacerdote lo dichiarerà immondo: è una piaga di lebbra. 23 Ma se la macchia è rimasta allo stesso punto, senza allargarsi, è una cicatrice di ulcera e il sacerdote lo dichiarerà mondo.
24 Quando uno ha sulla pelle del corpo una scottatura prodotta da fuoco e su questa appaia una macchia lucida, bianca, rossastra o soltanto bianca, 25 il sacerdote l’esaminerà; se vedrà che il pelo della macchia è diventato bianco e la macchia appare depressa rispetto alla pelle, è lebbra scoppiata nella scottatura. Il sacerdote lo dichiarerà immondo: è una piaga di lebbra. 26 Ma se il sacerdote, esaminandola, vede che non c’è pelo bianco nella macchia e che essa non è depressa rispetto alla pelle e si è attenuata, il sacerdote lo isolerà per sette giorni. 27 Al settimo giorno il sacerdote lo esaminerà e se la macchia si è diffusa sulla pelle, il sacerdote lo dichiarerà immondo: è una piaga di lebbra. 28 Ma se la macchia è rimasta ferma nella stessa zona e non si è diffusa sulla pelle, ma si è attenuata, è un tumore di bruciatura; il sacerdote dichiarerà quel tale mondo, perché si tratta di una cicatrice della bruciatura.
29 Quando un uomo o una donna ha una piaga sul capo o nella barba, 30 il sacerdote esaminerà la piaga; se riscontra che essa è depressa rispetto alla pelle e che v’è del pelo gialliccio e sottile, il sacerdote lo dichiarerà immondo: è tigna, lebbra del capo o della barba. 31 Ma se il sacerdote, esaminando la piaga della tigna, riscontra che non è depressa rispetto alla pelle e che non vi è pelo scuro, il sacerdote isolerà per sette giorni colui che ha la piaga della tigna. 32 Se il sacerdote, esaminando al settimo giorno la piaga, vedrà che la tigna non si è allargata e che non v’è pelo gialliccio e che la tigna non appare depressa rispetto alla pelle, 33 quel tale si raderà, ma non raderà il luogo dove è la tigna; il sacerdote lo terrà isolato per altri sette giorni. 34 Al settimo giorno, il sacerdote esaminerà la tigna; se riscontra che la tigna non si è allargata sulla pelle e non appare depressa rispetto alla pelle, il sacerdote lo dichiarerà mondo; egli si laverà le vesti e sarà mondo. 35 Ma se, dichiarato mondo, la tigna si è allargata sulla pelle, 36 il sacerdote l’esaminerà; se nota che la tigna si è allargata sulla pelle, non cercherà se vi è il pelo giallo; quel tale è immondo. 37 Ma se vedrà che la tigna si è fermata e vi è cresciuto il pelo scuro, la tigna è guarita; quel tale è mondo e il sacerdote lo dichiarerà tale.
38 Quando un uomo o una donna ha sulla pelle del corpo macchie lucide, bianche, 39 il sacerdote le esaminerà; se vedrà che le macchie sulla pelle del loro corpo sono di un bianco pallido, è un’eruzione cutanea; quel tale è mondo.
40 Chi perde i capelli del capo è calvo, ma è mondo. 41 Se i capelli gli sono caduti dal lato della fronte, è calvo davanti, ma è mondo. 42 Ma se sulla calvizie del cranio o della fronte appare una piaga bianca tendente al rosso, è lebbra scoppiata sulla calvizie del cranio o della fronte; 43 il sacerdote lo esaminerà: se riscontra che il tumore della piaga nella parte calva del cranio o della fronte è bianco tendente al rosso, simile alla lebbra della pelle del corpo, 44 quel tale è un lebbroso; è immondo e lo dovrà dichiarare immondo; la piaga è sul suo capo.
45 Il lebbroso colpito dalla lebbra porterà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: Immondo! Immondo! 46 Sarà immondo finché avrà la piaga; è immondo, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento.
47 Quando apparirà una macchia di lebbra su una veste, di lana o di lino, 48 nel tessuto o nel manufatto di lino o di lana, su una pelliccia o qualunque altra cosa di cuoio, 49 se la macchia sarà verdastra o rossastra, sulla veste o sulla pelliccia, sul tessuto o sul manufatto o su qualunque cosa di cuoio, è macchia di lebbra e sarà mostrata al sacerdote. 50 Il sacerdote esaminerà la macchia e rinchiuderà per sette giorni l’oggetto che ha la macchia. 51 Al settimo giorno esaminerà la macchia; se la macchia si sarà allargata sulla veste o sul tessuto o sul manufatto o sulla pelliccia o sull’oggetto di cuoio per qualunque uso, è una macchia di lebbra maligna, è cosa immonda. 52 Egli brucerà quella veste o il tessuto o il manufatto di lana o di lino o qualunque oggetto fatto di pelle, sul quale è la macchia; perché è lebbra maligna, saranno bruciati nel fuoco. 53 Ma se il sacerdote, esaminandola, vedrà che la macchia non si è allargata sulle vesti o sul tessuto o sul manufatto o su qualunque oggetto di cuoio, 54 il sacerdote ordinerà che si lavi l’oggetto su cui è la macchia e lo rinchiuderà per altri sette giorni. 55 Il sacerdote esaminerà la macchia, dopo che sarà stata lavata; se vedrà che la macchia non ha mutato colore, benché non si sia allargata, è un oggetto immondo; lo brucerai nel fuoco; vi è corrosione, sia che la parte corrosa si trovi sul diritto o sul rovescio dell’oggetto. 56 Se il sacerdote, esaminandola, vede che la macchia, dopo essere stata lavata, è diventata pallida, la strapperà dalla veste o dalla pelle o dal tessuto o dal manufatto. 57 Se appare ancora sulla veste o sul tessuto o sul manufatto o sull’oggetto di cuoio, è una eruzione in atto; brucerai nel fuoco l’oggetto su cui è la macchia. 58 La veste o il tessuto o il manufatto o qualunque oggetto di cuoio che avrai lavato e dal quale la macchia sarà scomparsa, si laverà una seconda volta e sarà mondo. 59 Questa è la legge relativa alla macchia di lebbra sopra una veste di lana o di lino, sul tessuto o sul manufatto o su qualunque oggetto di pelle, per dichiararli mondi o immondi».

Levitico 14

1 Il Signore aggiunse a Mosè: 2 «Questa è la legge da applicare per il lebbroso per il giorno della sua purificazione. Egli sarà condotto al sacerdote. 3 Il sacerdote uscirà dall’accampamento e lo esaminerà; se riscontrerà che la piaga della lebbra è guarita nel lebbroso, 4 ordinerà che si prendano, per la persona da purificare, due uccelli vivi, mondi, legno di cedro, panno scarlatto e issòpo5 Il sacerdote ordinerà di immolare uno degli uccelli in un vaso di terracotta con acqua viva. 6 Poi prenderà l’uccello vivo, il legno di cedro, il panno scarlatto e l’issòpo e li immergerà, con l’uccello vivo, nel sangue dell’uccello sgozzato sopra l’acqua viva. 7 Ne aspergerà sette volte colui che deve essere purificato dalla lebbra; lo dichiarerà mondo e lascerà andare libero per i campi l’uccello vivo. 8 Colui che è purificato, si laverà le vesti, si raderà tutti i peli, si laverà nell’acqua e sarà mondo. Dopo questo potrà entrare nell’accampamento, ma resterà per sette giorni fuori della sua tenda.
9 Il settimo giorno si raderà tutti i peli, il capo, la barba, le ciglia, insomma tutti i peli; si laverà le vesti e si bagnerà il corpo nell’acqua e sarà mondo. 10 L’ottavo giorno prenderà due agnelli senza difetto, un’agnella di un anno senza difetto, tre decimi di efa di fior di farina, intrisa nell’olio, come oblazione, e un log di olio; 11 il sacerdote che fa la purificazione, presenterà l’uomo che si purifica e le cose suddette davanti al Signore, all’ingresso della tenda del convegno. 12 Il sacerdote prenderà uno degli agnelli e l’offrirà come sacrificio di riparazione, con il log d’olio, e li agiterà come offerta da agitare secondo il rito davanti al Signore. 13 Poi immolerà l’agnello nel luogo dove si immolano le vittime espiatorie e gli olocausti, cioè nel luogo sacro poiché il sacrificio di riparazione è per il sacerdote, come quello espiatorio: è cosa sacrosanta. 14 Il sacerdote prenderà sangue del sacrificio di riparazione e bagnerà il lobo dell’orecchio destro di colui che si purifica, il pollice della mano destra e l’alluce del piede destro. 15 Poi, preso l’olio dal log, lo verserà sulla palma della sua mano sinistra; 16 intingerà il dito della destra nell’olio che ha nella sinistra; con il dito spruzzerà sette volte quell’olio davanti al Signore. 17 E del rimanente olio che tiene nella palma della mano, il sacerdote bagnerà il lobo dell’orecchio destro di colui che si purifica, il pollice della destra e l’alluce del piede destro, sopra il sangue del sacrificio di riparazione. 18 Il resto dell’olio che ha nella palma, il sacerdote lo verserà sul capo di colui che si purifica; così farà per lui il rito espiatorio davanti al Signore. 19 Poi il sacerdote offrirà il sacrificio espiatorio e compirà l’espiazione per colui che si purifica della sua immondezza; quindi immolerà l’olocausto. 20 Offerto l’olocausto e l’oblazione sull’altare, il sacerdote eseguirà per lui il rito espiatorio e sarà mondo.
21 Se quel tale è povero e non ha mezzi sufficienti, prenderà un agnello come sacrificio di riparazione da offrire con il rito dell’agitazione e compiere l’espiazione per lui e un decimo di efa di fior di farina intrisa con olio, come oblazione, e un log di olio. 22 Prenderà anche due tortore o due colombi, secondo i suoi mezzi; uno sarà per il sacrificio espiatorio e l’altro per l’olocausto. 23 L’ottavo giorno porterà per la sua purificazione queste cose al sacerdote, all’ingresso della tenda del convegno, davanti al Signore. 24 Il sacerdote prenderà l’agnello del sacrificio di riparazione e il log d’olio e li agiterà come offerta da agitare ritualmente davanti al Signore. 25 Poi immolerà l’agnello del sacrificio di riparazione, prenderà sangue della vittima di riparazione e bagnerà il lobo dell’orecchio destro di colui che si purifica, il pollice della mano destra e l’alluce del piede destro. 26 Il sacerdote si verserà di quell’olio sulla palma della mano sinistra. 27 Con il dito della sua destra spruzzerà sette volte quell’olio che tiene nella palma sinistra davanti al Signore. 28 Poi bagnerà con l’olio che tiene nella palma, il lobo dell’orecchio destro di colui che si purifica, il pollice della mano destra e l’alluce del piede destro, sul luogo dove ha messo il sangue del sacrificio di riparazione. 29 Il resto dell’olio che ha nella palma della mano, il sacerdote lo verserà sul capo di colui che si purifica, per fare espiazione per lui davanti al Signore. 30 Poi sacrificherà una delle tortore o uno dei due colombi, che ha potuto procurarsi; 31 delle vittime che ha in mano, una l’offrirà come sacrificio espiatorio e l’altra come olocausto, insieme con l’oblazione; il sacerdote farà il rito espiatorio davanti al Signore per lui.
32 Questa è la legge relativa a colui che è affetto da piaga di lebbra e non ha mezzi per procurarsi ciò che è richiesto per la sua purificazione».
33 Il Signore disse ancora a Mosè e ad Aronne: 34 «Quando sarete entrati nel paese di Canaan, che io sto per darvi in possesso, qualora io mandi un’infezione di lebbra in una casa del paese di vostra proprietà, 35 il padrone della casa andrà a dichiararlo al sacerdote, dicendo: Mi pare che in casa mia ci sia come della lebbra. 36 Allora il sacerdote ordinerà di sgomberare la casa prima che egli vi entri per esaminare la macchia sospetta perché quanto è nella casa non diventi immondo. Dopo questo, il sacerdote entrerà per esaminare la casa. 37 Esaminerà dunque la macchia; se vedrà che l’infezione sui muri della casa consiste in cavità verdastre o rossastre, che appaiono più profonde della superficie della parete, 38 il sacerdote uscirà dalla casa, alla porta, e farà chiudere la casa per sette giorni. 39 Il settimo giorno il sacerdote vi tornerà e se, esaminandola, riscontrerà che la macchia si è allargata sulle pareti della casa, 40 il sacerdote ordinerà che si rimuovano le pietre intaccate e si gettino in luogo immondo, fuori di città. 41 Farà raschiare tutto l’interno della casa e butteranno i calcinacci raschiati fuor di città, in luogo immondo. 42 Poi si prenderanno altre pietre e si metteranno al posto delle prime e si intonacherà la casa con altra calce.
43 Se l’infezione spunta di nuovo nella casa dopo che le pietre ne sono state rimosse e la casa è stata raschiata e intonacata, 44 il sacerdote entrerà ad esaminare la casa; trovato che la macchia vi si è allargata, nella casa vi è lebbra maligna; la casa è immonda. 45 Perciò si demolirà la casa; pietre, legname e calcinacci si porteranno fuori della città, in luogo immondo. 46 Inoltre chiunque sarà entrato in quella casa mentre era chiusa, sarà immondo fino alla sera. 47 Chi avrà dormito in quella casa o chi vi avrà mangiato, si laverà le vesti.
48 Se invece il sacerdote che è entrato nella casa e l’ha esaminata, riscontra che la macchia non si è allargata nella casa, dopo che la casa è stata intonacata, dichiarerà la casa monda, perché la macchia è risanata. 49 Poi, per purificare la casa, prenderà due uccelli, legno di cedro, panno scarlatto e issòpo; 50 immolerà uno degli uccelli in un vaso di terra con dentro acqua viva. 51 Prenderà il legno di cedro, l’issòpo, il panno scarlatto e l’uccello vivo e li immergerà nel sangue dell’uccello immolato e nell’acqua viva e ne aspergerà sette volte la casa. 52 Purificata la casa con il sangue dell’uccello, con l’acqua viva, con l’uccello vivo, con il legno di cedro, con l’issòpo e con lo scarlatto, 53 lascerà andare libero l’uccello vivo, fuori città, per i campi; così farà il rito espiatorio per la casa ed essa sarà monda.
54 Questa è la legge per ogni sorta di infezione di lebbra o di tigna, 55 la lebbra delle vesti e della casa, 56 i tumori, le pustole e le macchie, 57 per insegnare quando una cosa è immonda e quando è monda. Questa è la legge per la lebbra».

Ho voluto riportare per intero questi due brani che mostrano che non vi è nulla di scientifico in queste pratiche che sono solo magiche. Vi compaiono numeri magici, riti da ripetere come fanno oggi gli stregoni di tribù primitive che almeno usano polveri, fanghi, foglie da applicare sulle bolle che compaiono sulla pelle. Tutto è finalizzato non alla guarigione ma alla definizione dell’affezione, monda o immonda. Una sorta di individuazione della malattia per allontanare l’ammalato al fine di non infettare gli altri. Si noti infatti che la stessa parola lebbra si applica sia all’uomo che agli abiti che alle abitazioni. La lebbra sembra che fosse diffusa da invasione di topi.

        La Bibbia riserva anche attenzione a malattie sessuali spesso confuse con le regole mestruali femminili considerate tali da rendere immonde le donne in tali periodi:

Levitico 15

1 Il Signore disse ancora a Mosè e ad Aronne: 2 «Parlate agli Israeliti e riferite loro: Se un uomo soffre di gonorrea nella sua carne, la sua gonorrea è immonda. 3 Questa è la condizione d’immondezza per la gonorrea: sia che la carne lasci uscire il liquido, sia che lo trattenga, si tratta d’immondezza. 4 Ogni giaciglio sul quale si coricherà chi è affetto da gonorrea, sarà immondo; ogni oggetto sul quale si siederà sarà immondo. 5 Chi toccherà il giaciglio di costui, dovrà lavarsi le vesti e bagnarsi nell’acqua e sarà immondo fino alla sera. 6 Chi si siederà sopra un oggetto qualunque, sul quale si sia seduto colui che soffre di gonorrea, dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell’acqua e sarà immondo fino alla sera. 7 Chi toccherà il corpo di colui che è affetto da gonorrea si laverà le vesti, si bagnerà nell’acqua e sarà immondo fino alla sera. 8 Se colui che ha la gonorrea sputerà sopra uno che è mondo, questi dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell’acqua e sarà immondo fino alla sera. 9 Ogni sella su cui monterà chi ha la gonorrea sarà immonda. 10 Chiunque toccherà cosa, che sia stata sotto quel tale, sarà immondo fino alla sera. Chi porterà tali oggetti dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell’acqua e sarà immondo fino alla sera. 11 Chiunque sarà toccato da colui che ha la gonorrea, se questi non si era lavato le mani, dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell’acqua e sarà immondo fino alla sera. 12 Il vaso di terracotta toccato da colui che soffre di gonorrea sarà spezzato; ogni vaso di legno sarà lavato nell’acqua.
13 Quando chi è affetto da gonorrea sarà guarito dal male, conterà sette giorni dalla sua guarigione; poi si laverà le vesti, bagnerà il suo corpo nell’acqua viva e sarà mondo. 14 L’ottavo giorno, prenderà due tortore o due colombi, verrà davanti al Signore, all’ingresso della tenda del convegno, e li darà al sacerdote, 15 il quale ne offrirà uno come sacrificio espiatorio, l’altro come olocausto; il sacerdote compirà per lui il rito espiatorio davanti al Signore per la sua gonorrea.
16 L’uomo che avrà avuto un’emissione seminale, si laverà tutto il corpo nell’acqua e sarà immondo fino alla sera. 17 Ogni veste o pelle, su cui vi sarà un’emissione seminale, dovrà essere lavata nell’acqua e sarà immonda fino alla sera.
18 La donna e l’uomo che abbiano avuto un rapporto con emissione seminale si laveranno nell’acqua e saranno immondi fino alla sera.
19 Quando una donna abbia flusso di sangue, cioè il flusso nel suo corpo, la sua immondezza durerà sette giorni; chiunque la toccherà sarà immondo fino alla sera. 20 Ogni giaciglio sul quale si sarà messa a dormire durante la sua immondezza sarà immondo; ogni mobile sul quale si sarà seduta sarà immondo. 21 Chiunque toccherà il suo giaciglio, dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell’acqua e sarà immondo fino alla sera. 22 Chi toccherà qualunque mobile sul quale essa si sarà seduta, dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell’acqua e sarà immondo fino alla sera. 23 Se l’uomo si trova sul giaciglio o sul mobile mentre essa vi siede, per tale contatto sarà immondo fino alla sera. 24 Se un uomo ha rapporto intimo con essa, l’immondezza di lei lo contamina: egli sarà immondo per sette giorni e ogni giaciglio sul quale si coricherà sarà immondo.
25 La donna che ha un flusso di sangue per molti giorni, fuori del tempo delle regole, o che lo abbia più del normale sarà immonda per tutto il tempo del flusso, secondo le norme dell’immondezza mestruale. 26 Ogni giaciglio sul quale si coricherà durante tutto il tempo del flusso sarà per lei come il giaciglio sul quale si corica quando ha le regole; ogni mobile sul quale siederà sarà immondo, come lo è quando essa ha le regole. 27 Chiunque toccherà quelle cose sarà immondo; dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell’acqua e sarà immondo fino alla sera. 28 Quando essa sia guarita dal flusso, conterà sette giorni e poi sarà monda. 29 L’ottavo giorno prenderà due tortore o due colombi e li porterà al sacerdote all’ingresso della tenda del convegno. 30 Il sacerdote ne offrirà uno come sacrificio espiatorio e l’altro come olocausto e farà per lei il rito espiatorio, davanti al Signore, per il flusso che la rendeva immonda.
31 Avvertite gli Israeliti di ciò che potrebbe renderli immondi, perché non muoiano per la loro immondezza, quando contaminassero la mia Dimora che è in mezzo a loro.
32 Questa è la legge per colui che ha la gonorrea o un’emissione seminale che lo rende immondo 33 e la legge per colei che è indisposta a causa delle regole, cioè per l’uomo o per la donna che abbia il flusso e per l’uomo che abbia rapporti intimi con una donna in stato d’immondezza».

Si noti che nei versicoli dall’1 all’8 vi è la ricetta per la cura della lebbra.

        Altre malattie frequenti  e di conseguenza prese in considerazione erano quelle degli occhi, le insolazioni, gli eccessi gastronomici. Vediamo cosa si dice per l’insolazione:

 18 Il bambino crebbe e un giorno uscì per andare dal padre fra i mietitori. 19 Egli disse al padre: «La mia testa, la mia testa!». Il padre ordinò a un servo: «Portalo dalla mamma». 20 Questi lo prese e lo portò da sua madre. Il bambino stette sulle ginocchia di costei fino a mezzogiorno, poi morì. [2 Re 4, 18-24]

nessuna cura, solo la presa d’atto della morte del bambino. Riguardo ad una ubriacatura (comunissima tra gli eletti da Dio) invece:

36 … Nabal teneva in casa un banchetto come un banchetto da re. Il suo cuore era allegro ed egli era ubriaco fradicio. Essa non gli disse né tanto né poco fino allo spuntar del giorno. 37 Il mattino dopo, quando Nabal ebbe smaltito il vino, la moglie gli narrò la faccenda; il cuore gli si tramortì nel petto [perse conoscenza, ndr] ed egli rimase come una pietra [paralizzato, ndr]. 38 Dieci giorni dopo il Signore colpì Nabal ed egli morì. [1 Sam. 25, 36-38]

E’ quindi Dio che ammazza Nabal, il resto è del tutto accessorio. Allo stesso modo le malattie sono sempre un qualcosa inviato o da Dio o da qualche Demone. La causa naturale non veniva comunque ignorata nel caso di cadute (fratture) e ferite da incidenti. Vediamo alcuni casi: Tobia diventa cieco perché è stato colpito nell’occhio da un escremento di uccello; quando la peste imperversa su un popolo è Dio che ha colpito:  6 Allora incominciò a pesare la mano del Signore sugli abitanti di Asdod, li devastò e li colpì con bubboni, Asdod e il suo territorio [1 Sam. 5, 6]; Giobbe caduto malato ripete: la mano di Dio mi ha colpito. Spesso Dio si serve di Satana, il suo angelo accusatore, per colpire e così: 7 Satana si allontanò dal Signore e colpì Giobbe con una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo [Gio. 2, 7] ed è sempre un angelo, quello della peste, che colpisce Gerusalemme:

15 Così il Signore mandò la peste in Israele, da quella mattina fino al tempo fissato; da Dan a Bersabea morirono settantamila persone del popolo. 16 E quando l’angelo ebbe stesa la mano su Gerusalemme per distruggerla, il Signore si pentì di quel male e disse all’angelo che distruggeva il popolo: «Basta; ritira ora la mano!».
Ora l’angelo del Signore si trovava presso l’aia di Araunà il Gebuseo. 17 Davide, vedendo l’angelo che colpiva il popolo, disse al Signore: «Io ho peccato; io ho agito da iniquo; ma queste pecore che hanno fatto? La tua mano venga contro di me e contro la casa di mio padre!».
18 Quel giorno Gad venne da Davide e gli disse: «Sali, innalza un altare al Signore sull’aia di Araunà il Gebuseo». [2 Sam. 24, 15-18]

        La malattia è quindi un castigo divino che a volte arriva con l’intermediazione di un angelo, come nel caso delle malattie mentali, le convulsioni, l’epilessia; in questi ultimi casi è l’angelo che si è sistemato all’interno del corpo malato. La cura è quindi affidata a pratiche religiose o magiche con un limite a priori: se il male viene da Dio, solo Dio può eliminarlo. Quindi preghiere, riti, sacrifici, … Anche la cacciata di un angelo dal corpo di un malato passa per l’intermediazione divina ed anche qui, oltre a quanto detto prima, si ricorre a pratiche magiche gestite da chi si dedica al rapporto con Dio e cioè i sacerdoti.

        Insieme alle cure magiche vi sono veri e propri miracoli che inizieranno in epoca di decadenza con Elia ed Eliseo che, sdraiandosi vicino ai morti li resusciteranno:

17 In seguito il figlio della padrona di casa si ammalò. La sua malattia era molto grave, tanto che rimase senza respiro. 18 Essa allora disse a Elia: «Che c’è fra me e te, o uomo di Dio? Sei venuto da me per rinnovare il ricordo della mia iniquità e per uccidermi il figlio?». 19 Elia le disse: «Dammi tuo figlio». Glielo prese dal seno, lo portò al piano di sopra, dove abitava, e lo stese sul letto. 20 Quindi invocò il Signore: «Signore mio Dio, forse farai del male a questa vedova che mi ospita, tanto da farle morire il figlio?». 21 Si distese tre volte sul bambino e invocò il Signore: «Signore Dio mio, l’anima del fanciullo torni nel suo corpo». 22 Il Signore ascoltò il grido di Elia; l’anima del bambino tornò nel suo corpo e quegli riprese a vivere. [1 Re 17, 17-22]

32 Eliseo entrò in casa. Il ragazzo era morto, steso sul letto. 33 Egli entrò, chiuse la porta dietro a loro due e pregò il Signore. 34 Quindi salì, si distese sul ragazzo; pose la bocca sulla bocca di lui, gli occhi sugli occhi di lui, le mani nelle mani di lui e si curvò su di lui. Il corpo del bambino riprese calore. 35 Quindi si alzò e girò qua e là per la casa; tornò a curvarsi su di lui; il ragazzo starnutì sette volte, poi aprì gli occhi. [2 Re 4, 32-35]

        A parte i riti magici e le preghiere qua e là compaiono anche delle cure: Ezechia che ha un ascesso vi applica un impiastro di fichi; Tobia apprende dall’arcangelo Raffaele che per curare la cecità originata dagli escrementi dell’uccello deve utilizzare del fegato di pesce. In epoca più vicina all’era cristiana, lo storico Flavio Giuseppe ci parla degli Esseni che erano famosi come guaritori attraverso radici e pietre (ricordo che vi è una ricostruzione storica che vuole Gesù essere un esseno). Le ferite venivano cosparse d’olio e venivano bendate ed il chirurgo che aveva curato la ferita doveva essere pagato da chi l’aveva procurata: 18 Quando alcuni uomini rissano e uno colpisce il suo prossimo con una pietra o con il pugno e questi non è morto, ma debba mettersi a letto, 19 se poi si alza ed esce con il bastone, chi lo ha colpito sarà ritenuto innocente, ma dovrà pagare il riposo forzato e procurargli le cure. [Es. 21, 18-19].

        Solo in epoca ellenistica comparve tra gli ebrei la terapeutica razionale che discendeva dalla medicina ippocratica da cui alcuni ebrei avevano attinto. Ma ciò non trovò tutti gli ebrei d’accordo e chi ricorreva a questa medicina era accusato di ricorrere a dei medici e non a Dio:

12 Nell’anno trentanovesimo del suo regno, Asa si ammalò gravemente ai piedi. Neppure nell’infermità egli ricercò il Signore, ricorrendo solo ai medici. [2 Cro. 16, 12]

        Nella stessa epoca troviamo anche chi, come nel Libro del Siracide scritto da Yeshua ben Sira nel II secolo a.C. (noto anche come Ecclesiastico da non confondere con l’Ecclesiaste, ndr), parla con rispetto dei medici raccomandando la cura del medico insieme alla preghiera a Dio:

1 Onora il medico come si deve secondo il bisogno,
anch’egli è stato creato dal Signore.
2 Dall’Altissimo viene la guarigione,
anche dal re egli riceve doni.
3 La scienza del medico lo fa procedere a testa alta,
egli è ammirato anche tra i grandi.
4 Il Signore ha creato medicamenti dalla terra,
l’uomo assennato non li disprezza.
5 L’acqua non fu forse resa dolce per mezzo di un legno,
per rendere evidente la potenza di lui?
6 Dio ha dato agli uomini la scienza
perché potessero gloriarsi delle sue meraviglie.
7 Con esse il medico cura ed elimina il dolore
e il farmacista prepara le miscele.
8 Non verranno meno le sue opere!
Da lui proviene il benessere sulla terra.
9 Figlio, non avvilirti nella malattia,
ma prega il Signore ed egli ti guarirà.
10 Purìficati, lavati le mani;
monda il cuore da ogni peccato.
11 Offri incenso e un memoriale di fior di farina
e sacrifici pingui secondo le tue possibilità.
12 Fa’ poi passare il medico
– il Signore ha creato anche lui –
non stia lontano da te, poiché ne hai bisogno.
13 Ci sono casi in cui il successo è nelle loro mani.
14 Anch’essi pregano il Signore
perché li guidi felicemente ad alleviare la malattia
e a risanarla, perché il malato ritorni alla vita.
15 Chi pecca contro il proprio creatore
cada nelle mani del medico. [Sir. 38, 1-15]

        Dopo questa breve rassegna delle conoscenze ebraiche all’epoca della scrittura della Bibbia, arriviamo alla parte più importante per mole da dover trattare, quella relativa alla cosmologia ed al calendario, e in senso più lato all’astronomia.

 

L’ASTRONOMIA NELL’ANTICO TESTAMENTO

        Partiamo dalle conoscenze astronomiche del popolo d’Israele, conoscenze che deriviamo dalla lettura della Bibbia, perché la Bibbia fu l’unica produzione a noi nota di letteratura israelitica. Uno studio molto importante in proposito lo realizzò, agli inizi del secolo scorso, l’astronomo italiano Giovanni Schiaparelli. Per introdurre questa parte mi servo dell’Introduzione dello stesso Schiaparelli al suo lavoro:

1. Al popolo ebreo non toccò in sorte la gloria di creare i principi delle scienze, e nemmeno quella di levare ad alto grado di perfezione l’esercizio delle belle arti; l’una e l’altra delle quali cose furono grande ed imperitura lode dei Greci. Non fu un popolo conquistatore [è l’opinione di Sciaparelli, ndr]; e poco o nulla conobbe dell’alta politica e della sapienza amministrativa per cui tanto fu celebrato il nome di Roma. La sua propria indole e il corso degli eventi lo fecero atto invece alla non meno importante missione di purificare il sentimento religioso, e di preparare la via al monoteismo, nella quale segnò le prime luminose tracce. Nel travaglioso adempimento di questo gran compito Israele visse, sofferse, ed esaurì tutto se stesso. La sua storia, la sua legislazione, la sua letteratura furono essenzialmente coordinate a questo scopo; la scienza e l’arte furono per lui cose secondarie. Nessuna meraviglia pertanto, che piccoli e deboli passi siano stati da esso segnati nel campo delle concezioni e delle speculazioni scientifiche, e che in ciò sia stato grandemente superato dai suoi vicini del Nilo e dell’Eufrate.

Non si creda tuttavia, che gli Ebrei fossero indifferenti alle cose della natura, che non avessero posto attenzione ai suoi spettacoli cosi varii e cosi maravigliosi, e che non avessero cercato di rendersene ragione in qualche modo. Anzi, dovunque nei loro monumenti letterari si rende manifesto un profondo sentimento della natura, e un animo aperto all’osservazione acuta dei fenomeni ed all’ammirazione di ciò che in quelli v’ha di bello e di grandioso. L’interpretazione ch’essi diedero di tali fenomeni (per quanto ancora è possibile rintracciarla in frammentarie e spesso incerte indicazioni sparse qua e là per incidenza nei libri dell’Antico Testamento) sembra a noi, come sempre accade per le cosmologie primitive, assai più fantastica che razionale: essa però non fu tanto esclusiva opera dell’immaginazione, da degenerare in mitologia arbitraria e sfrenata, quale si osserva presso gli Arii dell’India e presso gli Elleni del tempo preistorico. Esclusivamente assorti nel culto di Jahve, all’onnipotenza di questo gli Ebrei riferirono tutta l’esistenza del mondo, e le mutazioni di esso fecero dipendere dall’arbitrio spesso mutabile di lui, né loro si affacciò mai la possibilità che le operazioni della natura materiale si facessero secondo norme invariabilmente stabilite. Quindi la base di una cosmologia semplice e chiara, in perfetto accordo colle idee religiose, atta a soddisfare interamente uomini di tipo primitivo e d’animo semplice, pieni d’immaginazione e di sentimento, ma poco avvezzi ad analizzare le cose e le ragioni delle cose.

[…]

4. Infinite sono presso gli scrittori biblici le immagini e le comparazioni tratte dal cielo, dalla terra, dagli abissi, dal mare, dai fenomeni dell’aria e dell’acqua, e da tutto il mondo animale e vegetale. La  viva impressione ch’essi ne ricevevano trovasi espressa nel modo più sublime da uno dei loro grandi pensatori, l’autore del libro di Giobbe.

 Nei capitoli XXXVIII e XXXIX, che possono considerarsi come una delle più belle cose della letteratura ebraica, s’introduce a parlare Dio medesimo; il quale per convincere Giobbe ch’egli ha torto di lamentarsi delle sue (benché non meritate) disgrazie, gli fa vedere ch’ei nulla conosce degli ordini, secondo cui è costituito e governato il mondo, e nulla può capire dei disegni dell’Onnipotente. E a questo proposito gli pone sott’occhio in serie i grandi misteri della natura, affinché Giobbe si convinca della propria insipienza e del proprio nulla [il testo della Bibbia riportato di seguito non è quello di Schiaparelli ma quello della Bibbia CEI]:

Giobbe 38

1 Il Signore rispose a Giobbe di mezzo al turbine:
2 Chi è costui che oscura il consiglio
con parole insipienti?
3 Cingiti i fianchi come un prode,
io t’interrogherò e tu mi istruirai.
4 Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra?
Dillo, se hai tanta intelligenza!
5 Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai,
o chi ha teso su di essa la misura?
6 Dove sono fissate le sue basi
o chi ha posto la sua pietra angolare,
7 mentre gioivano in coro le stelle del mattino
e plaudivano tutti i figli di Dio?
8 Chi ha chiuso tra due porte il mare,
quando erompeva uscendo dal seno materno,
9 quando lo circondavo di nubi per veste
e per fasce di caligine folta?
10 Poi gli ho fissato un limite
e gli ho messo chiavistello e porte
11 e ho detto: «Fin qui giungerai e non oltre
e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde».
12 Da quando vivi, hai mai comandato al mattino
e assegnato il posto all’aurora,
13 perché essa afferri i lembi della terra
e ne scuota i malvagi?
14 Si trasforma come creta da sigillo
e si colora come un vestito.
15 È sottratta ai malvagi la loro luce
ed è spezzato il braccio che si alza a colpire.
16 Sei mai giunto alle sorgenti del mare
e nel fondo dell’abisso hai tu passeggiato?
17 Ti sono state indicate le porte della morte
e hai visto le porte dell’ombra funerea?
18 Hai tu considerato le distese della terra?
Dillo, se sai tutto questo!
19 Per quale via si va dove abita la luce
e dove hanno dimora le tenebre
20 perché tu le conduca al loro dominio
o almeno tu sappia avviarle verso la loro casa?
21 Certo, tu lo sai, perché allora eri nato
e il numero dei tuoi giorni è assai grande!
22 Sei mai giunto ai serbatoi della neve,
hai mai visto i serbatoi della grandine,
23 che io riserbo per il tempo della sciagura,
per il giorno della guerra e della battaglia?
24 Per quali vie si espande la luce,
si diffonde il vento d’oriente sulla terra?
25 Chi ha scavato canali agli acquazzoni
e una strada alla nube tonante,
26 per far piovere sopra una terra senza uomini,
su un deserto dove non c’è nessuno,
27 per dissetare regioni desolate e squallide
e far germogliare erbe nella steppa?
28 Ha forse un padre la pioggia?
O chi mette al mondo le gocce della rugiada?
29 Dal seno di chi è uscito il ghiaccio
e la brina del cielo chi l’ha generata?
30 Come pietra le acque induriscono
e la faccia dell’abisso si raggela.
31 Puoi tu annodare i legami delle Plèiadi
o sciogliere i vincoli di Orione?
32 Fai tu spuntare a suo tempo la stella del mattino
o puoi guidare l’Orsa insieme con i suoi figli?
33 Conosci tu le leggi del cielo
o ne applichi le norme sulla terra?
34 Puoi tu alzare la voce fino alle nubi
e farti coprire da un rovescio di acqua?
35 Scagli tu i fulmini e partono
dicendoti: «Eccoci!»?
36 Chi ha elargito all’ibis la sapienza
o chi ha dato al gallo intelligenza?
37 Chi può con sapienza calcolare le nubi
e chi riversa gli otri del cielo,
38 quando si fonde la polvere in una massa
e le zolle si attaccano insieme?
39 Vai tu a caccia di preda per la leonessa
e sazi la fame dei leoncini,
40 quando sono accovacciati nelle tane
o stanno in agguato fra le macchie?
41 Chi prepara al corvo il suo pasto,
quando i suoi nati gridano verso Dio
e vagano qua e là per mancanza di cibo?

Giobbe 39

1 Sai tu quando figliano le camozze
e assisti al parto delle cerve?
2 Conti tu i mesi della loro gravidanza
e sai tu quando devono figliare?
3 Si curvano e depongono i figli,
metton fine alle loro doglie.
4 Robusti sono i loro figli, crescono in campagna,
partono e non tornano più da esse.
5 Chi lascia libero l’asino selvatico
e chi scioglie i legami dell’ònagro,
6 al quale ho dato la steppa per casa
e per dimora la terra salmastra?
7 Del fracasso della città se ne ride
e gli urli dei guardiani non ode.
8 Gira per le montagne, sua pastura,
e va in cerca di quanto è verde.
9 Il bufalo si lascerà piegare a servirti
o a passar la notte presso la tua greppia?
10 Potrai legarlo con la corda per fare il solco
o fargli erpicare le valli dietro a te?
11 Ti fiderai di lui, perché la sua forza è grande
e a lui affiderai le tue fatiche?
12 Conterai su di lui, che torni
e raduni la tua messe sulla tua aia?
13 L’ala dello struzzo batte festante,
ma è forse penna e piuma di cicogna?
14 Abbandona infatti alla terra le uova
e sulla polvere le lascia riscaldare.
15 Dimentica che un piede può schiacciarle,
una bestia selvatica calpestarle.
16 Tratta duramente i figli, come se non fossero
suoi,
della sua inutile fatica non si affanna,
17 perché Dio gli ha negato la saggezza
e non gli ha dato in sorte discernimento.
18 Ma quando giunge il saettatore, fugge agitando le
ali:
si beffa del cavallo e del suo cavaliere.
19 Puoi tu dare la forza al cavallo
e vestire di fremiti il suo collo?
20 Lo fai tu sbuffare come un fumaiolo?
Il suo alto nitrito incute spavento.
21 Scalpita nella valle giulivo
e con impeto va incontro alle armi.
22 Sprezza la paura, non teme,
né retrocede davanti alla spada.
23 Su di lui risuona la faretra,
il luccicar della lancia e del dardo.
24 Strepitando, fremendo, divora lo spazio
e al suono della tromba più non si tiene.
25 Al primo squillo grida: «Aah!…»
e da lontano fiuta la battaglia,
gli urli dei capi, il fragor della mischia.
26 Forse per il tuo senno si alza in volo lo sparviero
e spiega le ali verso il sud?
27 O al tuo comando l’aquila s’innalza
e pone il suo nido sulle alture?
28 Abita le rocce e passa la notte
sui denti di rupe o sui picchi.
29 Di lassù spia la preda,
lontano scrutano i suoi occhi.
30 I suoi aquilotti succhiano il sangue
e dove sono cadaveri, là essa si trova.

Questa magnifica enumerazione, che parrà lunga soltanto a chi tutto suol giudicare secondo le idee del proprio tempo, contiene un quadro completo del mondo fisico, quale forse non era ancora stato concepito da alcuno. Né questa è la sola rassegna delle cose naturali, che s’incontri nell’Antico Testamento. Oltre a quella notissima che offre la Genesi nella storia della creazione, un’altra pur grandiosa se ne trova nel Salmo CIV. Notevoli ancora, sebbene più brevi e meno complete sono altre in Giobbe (capit. XXVI), nei Salmi CXXXVI e CXLVIII, e nel libro dei Proverbi al capo VIII. Si vede che questo argomento e per la sua grandiosità e per la sua varietà scuoteva la fantasia di quel popolo e dava ai suoi maggiori poeti occasione di pitture attraenti, capaci di destar l’ammirazione allora, oggi, ed in ogni tempo.

[…]

… allontanava gli Ebrei dallo studio del cielo il vedere, che le vicine nazioni della Mesopotamia erano state condotte dall’Astronomia all’Astrologia, e da questa all’Astrolatria, cioè al culto del Sole, della Luna, e di tutta la milizia del cielo; culto, che per essi era un’abbominazione non minore del sacrificare a Baal, ad Astarte o a Moloch; divenuto tanto più detestabile, dopo che sotto alcuni re di Giuda, era penetrato perfino in Gerusalemme, profanando lo stesso tempio di Jahve. Non si stancavano perciò i Profeti di minacciare i più terribili castighi agli adoratori degli astri. Uno dei maggiori scrittori dell’esilio, l’anonimo autore della seconda parte (cap. XL-LXVI) del libro che porta il nome di Isaia, vaticinando l’umiliazione di Babilonia [ISAIA XLV1I, 13-14], esclamava: «Sorgano dunque in tuo aiuto i misuratori del cielo, che contemplano le stelle, e che ad ogni mese ti annunciano ciò che deve avvenire di te. Ecco, son diventati come stoppia che il fuoco consuma, nulla può salvarli dalla forza delle fiamme». […]  L’orrore contro il culto degli astri si trova portato presso Isaia a tal segno, da fargli predire la loro distruzione [ISAIA XXXIV, 4]: «E tutta la milizia dei cieli si dissolverà, e il cielo si arrotolerà come un libro, e tutto l’esercito suo scorrerà giù, come cade una foglia dalla vite o dal fico». Il contatto forzato, a cui Israele dovette venire coi suoi oppressori di Ninive e di Babilonia, non poteva certo indurlo a partecipare dei costumi loro, delle loro arti e del loro sapere; egli si concentrò nel proprio lutto e nelle proprie speranze aspettando tempi migliori.

6. Considerate queste cose, nessuno potrà maravigliarsi che l’Astronomia presso gli Ebrei sia rimasta press’a poco in quel medesimo stadio, che sappiamo esser stato raggiunto (e talvolta sorpassato) da
parecchie nazioni barbare dell’America e della Polinesia. […]

Non condivido questo giudizio di Schiaparelli perché la data che fa iniziare la dominazione di Babilonia su Israele è localizzata nel VI secolo a.C. quando altri popoli avevano già elaborato una quantità notevole di osservazioni con conseguenti cosmologie. Più accettabile è il pensare che fosse l’oppressione di Jahve con i suoi sacerdoti, la loro morsa su quel popolo, ad impedire ogni avanzamento nella conoscenza del cosmo. D’altra parte cose analoghe sono accadute dalle parti nostre con l’oppressione della Chiesa (dal III al XVII secolo) e, in modo più tragico, hanno iniziato a svilupparsi nell’Islam a partire dal XVI secolo fino ad oggi, senza speranze apparenti per il futuro.

        Da notare che Schiaparelli non ha la visione della Bibbia come Parola di Dio. Egli, da valente scienziato qual era, ha una visione pragmatica delle cose e semplicemente attribuisce, come è del tutto naturale, al popolo di Israele le conoscenze che sono riportate nella Bibbia. Se le cose fossero discusse in questi termini lo scrivere questo capitolo non avrebbe senso. Basterebbe prendere atto che quella era la conoscenza di quel popolo in quel tempo ed in quel luogo e fine di ogni commento. E’ il fatto che discutiamo della Parola di Dio, del fatto che queste conoscenze, quelle che troviamo nella Bibbia, furono ispirate e dettate direttamente da Dio. E’ questo che ci fa discutere di un Dio ignorantello o, quantomeno, cattivo divulgatore.

        Riporto di seguito alcuni brani di Schiaparelli che raccontano la concezione che della Terra si ricava dalla Bibbia (senza citazioni che possono essere trovate sul testo che utilizzo):

Fuori della parte abitata dai discendenti di Noè erano, più tosto immaginati che conosciuti, ancora altri spazi estendentisi fino al gran mare perimetrale, che supponevasi lambire le colonne del cielo, cioè la base della gran vòlta. La Genesi e diversi profeti parlano del giardino di Dio nella regione appellata Eden, sede prima di Adamo e di Eva. Sembra che immaginassero questo luogo nelle parti orientali della terra; e questa supposizione si conservò a traverso le tradizioni cristiane fino a Cristoforo Colombo. Ancora più orientale di Eden si stimava la terra di Nod abitazione di Caino e dei suoi discendenti (Genesi, IV, 16).

16. Il piano formato dalle terre e dai mari era considerato come finito, e come chiuso entro limiti determinati, di cui si trova frequente menzione. La terra è fondata stabilmente nel suo luogo: frequente è l’allusione ai suoi fondamenti, alle sue pietre angolari, per similitudine desunta dalle costruzioni degli uomini. Non si devono già questi cardini intendere come punti di appoggio sovra una base: perché allora dove sarebbe appoggiata questa base? I cardini sono semplicemente punti fissati in modo irrevocabile per volontà divina, dai quali la terra non si può smuovere in alcun senso; eccetto quando Jahve medesimo la scuote, ciò che si manifesta per mezzo del terremoto.
La terra dunque, fissata sui cardini, non ha bisogno di base né di appoggio fuori di sé: così solo si può intendere, come sia detto nel Salmo CXXXVI, che la terra è fondata sulle acque, e come Giobbe possa affermare (c. XXVI, 7), che la terra è fondata sul nulla. Queste sono semplici indicazioni di posizione relativa. Lo strato superiore della terra, come vedremo, sta sopra le acque inferiori; tutta la massa della terra poi, comprese le dette acque, è sospesa nello spazio e si appoggia quindi sul nulla.

17. La massa terrestre, che regge nella sua parte superiore i continenti ed i mari, si estende in profondità fino alle parti infime del mondo; a questa estensione, come già si disse, davano gli Ebrei il
nome di tehom, che implica profondità, e si rende opportunamente da noi col nome di abisso. «I tuoi giudizi sono un grande abisso» dice al Signore l’autore del Salmo XXXVI, per designare una inscrutabile profondità. «Tu mi hai di nuovo tratto fuori dagli abissi della terra» dice al Signore l’autore del Salmo LXXI, cioè dal più profondo della miseria. Come parte dell’Universo è numerato l’abisso nel Salmo CXXXV: «il Signore fa tutto quello che gli piace in cielo, in terra, nel mare ed in tutti gli abissi»: dove l’enumerazione cominciando dal luogo più alto, che è il cielo, scende per gradi al luogo più profondo.

Ma più spesso l’abisso è collegato colla nozione delle acque sotterranee. «Egli ha accumulato in una sola massa le acque del mare, ed ha posto gli abissi nei serbatoi (Ps. XXXIII, 7)»: dove gli abissi figurano come immense masse d’acqua. Da esse traggono origine le fonti del mare, o le fonti del grande abisso, che ci rappresentano una cavità sotterranea piena d’acqua, ed assai maggiore di tutte le altre, dalla quale eruppero le acque del diluvio. Derivano pure da questa massa d’acqua abissale le fonti e le sorgenti dei fiumi, che sono accennate in più luoghi come la più grande benedizione di una contrada. Pittoresca è l’espressione di questo fatto nel Salmo XVIII: «Allora apparvero le fonti delle acque, e furono messi a nudo i fondamenti della terra». Anche i Proverbi (VIII, 24) mettono in relazione gli abissi colle sorgenti, dove si dice, che la Sapienza era già nata «quando ancora non esistevano gli abissi, né fonti gorgoglianti d’acque».

18. Immaginavano dunque gli Ebrei una immensa massa d’acque sotterranee, le quali insieme con quelle dei mari e dei laghi costituivano il sistema delle acque inferiori, così dette per distinguerle dalle acque superiori, che si supponevano stare sopra il firmamento, come si dirà. Queste acque sotterranee dall’una parte per mezzo di meati e di caverne sorgevano alla superficie asciutta della terra, producendo le fonti ed i fiumi; dall’altra penetravano nelle bassure dei mari e dei laghi, mantenendone il livello per mezzo di aperture e di canali esistenti nel fondo; così intendiamo le espressioni fonti del mare e fonti del grande abisso. Questa disposizione, facendo una sola massa delle acque superficiali e delle acque sotterranee, permetteva agli Ebrei di spiegare come il mare non inondi pel continuo affluire dei fiumi, e come le fonti siano perenni: dando così una ragione semplice e per quel tempo ingegnosa, della circolazione delle acque e dalle fonti al mare, e dal mare alle fonti. In tutti gli scrittori biblici sembra ignorata l’origine delle fonti per condensazione delle acque atmosferiche.
Il fatto del risalire le acque inferiori dalle profondità sotterranee alla superficie vincendo la gravità naturale era considerato come un effetto dell’onnipotenza di Dio, il quale «chiama le acque dal mare e le diffonde sopra la superficie della terra».

19. L’abisso non è infinito, come non è infinito il cielo; esso abbraccia la parte inferiore del mondo; come il cielo, la terra, ed il mare, ha i suoi limiti. La sua profondità è del medesimo ordine di grandezza immensa, che l’altezza del cielo e la larghezza della terra; e non può esser misurata dagli uomini. […]

20. Sul contorno del gran circolo occupato dalle terre e dai mari si eleva il sistema dei cieli, il regno della luce, mentre l’abisso è il regno delle tenebre; e primo dal basso in alto il cielo denominato […]firmamento. […]

È una vôlta solidissima, la quale presso Giobbe (XXXVII, 18) vien comparata ad uno specchio di metallo; una vôlta trasparente, che lascia passare la luce degli astri, collocati più alto; della quale l’ufficio principale è di sostenere le acque superiori, tenendole sospese in alto sopra la terra, e separate dalle acque inferiori dei continenti, dei mari, e degli abissi; come si narra nel bel principio della Genesi (1, 7). […]

21. Per mezzo di cataratte o saracinesche (arubboth) regolate dalla mano di Jahve le acque superiori vengono distribuite sopra la terra in forma di pioggia, non senza norma di tempo e di luogo. Notissima è la descrizione del diluvio, nel quale ad inondar la terra si apersero, oltre alle fonti del grande abisso, anche le cataratte del cielo. […]

Attesa la forma rotondeggiante e convessa del firmamento, le acque superiori non potrebbero starvi su, se una seconda parete non le contenesse lateralmente e di sopra. Perciò una seconda vôlta sopra a quella del firmamento chiude con esso uno spazio, dove stanno i serbatoi … della pioggia, della grandine, e della neve. I quali sono ministri ora della bontà, ora della collera dell’ Onnipotente, e dalla sua mano son mantenuti pieni, mentre l’acqua caduta non ritorna più in alto, ma si converte in semi ed in frutti per uso degli animali e degli uomini. Nella zona inferiore di detto spazio, a livello delle terre e dei mari ed intorno ad esse, stanno i serbatoi dei venti, i quali aprendosi or da una parte or dall’altra in
tutte le direzioni dell’orizzonte danno origine alle correnti aeree. […]

23. Come si vede, con questo concetto del firmamento distributore dei venti, delle piogge, della neve, e della grandine, viene tolta alle nuvole la loro funzione principale, quella di apportare la pioggia. Esse salgono su dalle estremità della terra e si espandono pel cielo: in esse Jahve pone il suo arco, cioè l’iride. Questa rozza cosmografia non è però quella di tutti gli scrittori biblici; non è per esempio quella del dotto e geniale pensatore, che scrisse il libro di Giobbe. Nella sua opinione le nuvole son quelle che
contengon la pioggia, e la distribuiscono sulla terra. Secondo questo modo di vedere, il firmamento non ha più alcuna parte nella distribuzione delle piogge, e non è più necessaria la supposizione delle acque superiori. Quando vuol far piovere, l’Onnipotente serra le acque nelle sue nuvole, le quali s’incaricano di spanderle qua e là dov’è ordinato. Tuttavia presso Giobbe si parla ancora dei serbatoi della neve e della grandine, preparati per il giorno dell’inimicizia e della pugna (XXXVIII, 22-23), separando manifestamente questi prodotti dalla pioggia e dal tuono, di cui si fa menzione poco più sotto (XXX­VIII, 25-28). […]

24. In generale si deve riconoscere, non essere agevol cosa il presentare un’indagine esauriente di quanto dicono gli scrittori Ebrei intorno alla causa e al modo d’operare dei fenomeni meteorologici. Trattandosi di opinioni derivanti per lo più dall’immaginazione, anzi che dallo studio critico dei fatti, è da aspettarsi una certa diversità dall’uno all’altro scrittore. Diventa allora difficile distinguere o conciliare tali opinioni, rappresentate per lo più da poche frasi spesso indeterminate nel loro significato; senza parlare della possibilità che certe parole non si abbiano ad interpretare strettamente secondo la lettera, ma piuttosto in senso metaforico, o a modo di similitudine.

Quanto ha raccontato Schiaparelli sulla cosmografia ebraica della Terra, degli abissi e del firmamento lo rappresenta in una figura riassuntiva e suggestiva:

Nella figura 1 rappresenta: ABC il cielo superiore, ADC il contorno dell’abisso, AEC il piano della terra e dei mari, SSR diverse parti del mare, EEE diverse parti della Terra. In GHG si ha il profilo del firmamento o cielo inferiore, in KK i serbatoi dei venti, in LL i serbatoi delle acque superiori, della neve e della grandine: M è lo spazio occupato dall’aria nel quale corron le nubi. In NN si hanno le acque del grande abisso, in xxx le fonti del grande abisso. PP è lo Scheol o limbo, Q la sua parte inferiore, l’inferno propriamente detto.

Si può qui aggiungere che dall’alto del suo trono, quando Dio guardava gli uomini, li vedeva grandi come cavallette. A questo punto Schiaparelli passa a descrivere le concezioni bibliche degli astri.

26. Intorno al sopra descritto corpo o sistema formato dal firmamento e dalla terra cogli abissi, il quale rappresenta la parte centrale ed immobile dell’Universo, si aggirano gli astri, e primamente il Sole e la Luna, posti, a quanto sembra, in distanze poco differenti dalla terra. Il Sole (schemesch) è l’opera più magnifica dell’Onnipotente: «egli esce fuori come uno sposo dalla camera nuziale, egli esulta come un eroe nella sua corsa vittoriosa. Sorge da una estremità del cielo e il suo giro arriva fino all’altra estremità; niente si sottrae al suo calore» (Ps. XIX, 5-7). Il suo corso è continuato giorno e notte: «il Sole si leva, il Sole tramonta, e di nuovo si affretta verso il luogo dove dovrà risorgere» (Qoheleth I, 5). Qui è indicato chiaramente il corso sotterraneo del Sole dal punto di tramonto a quello del nascere
consecutivo. Quanto alla Luna (in ebraico jareach, poeticamente lebanah, la bianca), il suo corso non poteva esser supposto molto diverso da quello del Sole. Luna e Sole si trovano continuamente associati come due grandi luminari destinati l’uno a dominare il giorno, l’altro la notte, per la determinazione dei giorni, dei mesi, e degli anni, e per servire anche a manifestazioni prodigiose, a presagio di avvenimenti straordinari. Benché il loro ufficio di regolare il tempo richiedesse una certa regolarità di movimenti e di periodi, pure non si considerava come impossibile che arrestassero il loro corso, od anche tornassero indietro, al comando di Giosuè e di altri uomini prediletti da Jahve. […E] Secondo quanto si narra nella parte storica del libro che porta il nome d’Isaia, questo profeta avrebbe fatto non solo fermare, ma tornare indietro il Sole. […]

27. Le eclissi del Sole e della Luna non erano ignote agli Ebrei. Essi non ne sapevano la causa, e solevano considerarle come segni annunziatori di castighi divini, né i profeti mancarono di confermar quest’opinione. Presso Gioele dice il Signore: «io farò prodigi in cielo ed in terra, sangue e fuoco e colonne di fumo: il Sole si convertirà in tenebre, e la Luna in sangue». Similmente Amos (VIII, 9): «ed
avverrà in quel giorno, dice il Signore Iddio, che farò tramontare il Sole a mezzodì e spanderò sulla terra le tenebre a giorno chiaro». […]

29. Sopra il corso del Sole e della Luna, all’ultimo limite delle cose visibili si estende il cielo delle stelle, talvolta confuso col firmamento. Ma mentre il firmamento è riputato solido e rigido a guisa di vôlta, il cielo delle stelle ci vien presentato come qualche cosa di flessibile e di sottile a guisa di coperta o di padiglione. In più luoghi si dice dai profeti, che Iddio ha teso il cielo, ciò che non sembra si possa dire di una vôlta solida. […]  Questa idea, che il cielo stellato sia qualche cosa di sottile e di flessibile, portante le stelle attaccate a foggia di ricamo, è espresso nel modo più vivace dal primo Isaia, il quale predice come segno dell’ira divina, che «tutto l’esercito del cielo si dissolverà, e i cieli si arrotoleranno come un libro, e tutto l’esercito loro scorrerà giù, come cade la foglia dalla vite o dal fico». […] il potere di conoscer tutte le stelle, di numerarle, e di distinguerle coi loro nomi è riservato a Dio solo, che conta il numero delle stelle, e tutte le chiama coi nomi loro (Ps. CXLVII, 4). Dio solo ha piena cognizione delle leggi che governano il cielo, e il potere di regolare l’azione che esso esercita sopra la terra (Job. XXXVIII, 33). […]

31. … presso gli Ebrei troviamo conosciute le costellazioni dell’Orsa e di Orione, le Plejadi, ed assegnato a ciascuna un proprio nome, che più d’una volta occorre nell’Antico Testamento. Soltanto è da confessare, che la nomenclatura di quei gruppi, e in generale tutto ciò che concerne l’uranografia degli Ebrei presenta ancora molti dubbi quanto alla sua interpretazione. I fatti assicurati sono pochi, molte le congetture più o meno incerte. […]

33. Per arrivare a definire quali astri fossero compresi nella milizia del cielo [una classe di astri, a cui per un certo tempo si prestò adorazione presso gli Ebrei], osserviamo primieramente, che menzione di essa comincia soltanto a proposito degli ultimi re d’Israele, i quali sono accusati di aver eccitato l’ira di Dio con l’adorazione della milizia del cielo e con altre empietà. Questo culto, introdotto sotto l’influenza dell’invasione assira, passò anche alla corte di Giuda ai tempi di Achaz; e non fu abolito che dal pio Giosia. […] la milizia del cielo dovette essere compresa in quella classe di astri, della cui adorazione gli Assiri ed i Babilonesi furon maestri agli Ebrei.

Ora il culto astrale di quelle due nazioni comprendeva, oltre al Sole ed alla Luna, anche Venere e gli altri pianeti minori; sono in tutto sette astri [dei pianeti singolarmente considerati due soltanto si possono rintracciare nell’Antico Testamento, nda], alle cui divinità fu consacrato da Nabucodonosor il gran tempio di Borsippa (oggi rovina sotto il nome di Birs Nemrod), siccome è noto. A questi però non si limitava la teologia babilonese; la quale introdusse ancora come oggetti di venerazione superstiziosa una quantità di spiriti buoni e di spiriti maligni connessi con determinate stelle o gruppi di stelle. Le schiere di questi spiriti o divinità subordinate erano designate dai Babilonesi col nome di milizie del cielo nello stesso modo, che gli spiriti dominatori della terra eran denominati milizie della terra. […]

Sole, Luna, Venere, e la milizia del Cielo sopra un monumento babilonese del secolo XII prima dell’êra volgare.

36. Aveano pure gli Ebrei posto attenzione alle comete? Sembra che sì: quando Gioele193 fa dire all’Eterno, che Egli darà sangue e fuoco e colonne di fumo, è possibile che alluda a comete, sebbene una tal descrizione possa anche adattarsi a qualche meteora straordinaria di quelle che soglionsi chiamare bolidi. Le colonne di fumo si devono nell’uno e nell’altro caso intendere per strisce o code di vapor luminoso. Certamente poi di un bolide è lo spettacolo descritto con vivi colori nella Genesi (XV, 17), dove si narra di un sacrifizio fatto da Abramo: «ed essendo tramontato il Sole, e fattasi densa oscurità, ecco apparve quasi un braciere fumante, ed una lampada di fuoco, che passò attraverso fra le parti delle vittime». Reminiscenza di un bolide si potrebbe pur trovare in una descrizione di Ezechiele (I, 4).
Una caduta abbondante di pietre meteoriche sembrò a taluno accennata nel libro di Giosuè (X, 11) come avvenuta nel medesimo giorno che vide fermato il Sole. «Ed avvenne, che mentre essi (i nemici) fuggivano davanti ad Israele, e stavano presso la discesa di Bethhoron, Jahve lanciò sopra di loro grosse pietre dal cielo fino ad Azeqa, cosi che ne morirono più sotto le pietre della grandine, che per la spada dei figli d’Israele». La menzione di pietre della grandine può far dubitare che si tratti non di meteoriti, ma piuttosto di una grandinata, di quelle che, secondo Giobbe (XXXVIII, 22-23), Iddio teneva in serbo «per il tempo dell’inimicizia, e pei giorni della guerra e della pugna».[…]

39. Circa l’uranografia degli Ebrei poche notizie possiamo ricava­re dall’Antico Testamento, e queste anche per lo più assai incerte. Tutte le nostre fonti si riducono a tre passi del libro di Giobbe e ad uno di Amos, dove son fatti i nomi di alcune fra le costellazioni più notabili del cielo. Ma la identificazione di questi nomi con costellazioni oggi conosciute, non può farsi sopra basi sicure. […]

56. Propriamente dunque nell’Antico Testamento non si trova designazione sicura che di sei costellazioni, le quali sarebbero da identificarsi più o meno plausibilmente con le seguenti: Orsa Maggiore, Orsa Minore, Hyadi con Aldebarano, Orione, Plejadi, e i così detti penetrali dell’ Austro. L’Orsa Maggiore, le Hyadi, Orione e le Plejadi si trovano anche in Omero e generalmente in quasi tutte le cosmografie primitive. Ai penetrali dell’Austro invece non allude Omero, il quale dimorando sotto una latitudine più elevata (circa 38°), di quelle stelle alcuna non poté vedere (per esempio Canopo), altre vide troppo basse, ed immerse nei vapori dell’orizzonte.

Nonostante la paura della divinizzazione degli astri, in alcuni passi della Bibbia alle luminarie celesti (gli astri) vengono associate personalità più o meno mitiche: il Sole è paragonato ad un eroe che ogni mattina si alza festoso e abbandona il suo rifugio per compiere il proprio viaggio e le stelle del mattino inneggiano in coro allo spettacolo della creazione. L’uragano è tutto rappresentato in chiave mitologico-religiosa: il tuono è la voce di Jahve; i lampi sono le frecce scoccate dal suo arco; arco che quando terminano i lampi viene deposto sulle nuvole; l’arcobaleno è la fine dell’ira di Dio ed il segno della pace fatta. I punti cardinali sono fissati in riferimento all’ombelico del mondo degli israeliti e cioè la Palestina, infatti l’Occidente è chiamato Mare (il Mediterraneo), il sud è Negeb, dal nome del deserto situato a sud.

        Fin qui l’astronomia e la cosmografia del popolo eletto così come Dio gliela ha dettata ed insegnata. Ben poca cosa, anzi miserrima. La Parola di Dio qui fa acqua da tutte le parti e non perché non si parla in modo chiaro di costellazioni, perché in definitiva il loro aggregato ed il loro nome è cosa umana, ma perché le lezioni di Dio sulla cosmografia, sui venti, sulle meteore, su tutto ciò che abbiamo visto è ridicolo per un Dio che parli al suo popolo.

        Oltre questi aspetti astronomici, il libro di Sciaparelli si sofferma anche sul calendario di Dio, cioè quello ebraico. Vediamolo.

IL CALENDARIO BIBLICO

        La celebrazione delle varie feste religiose esigeva un calendario che le sapesse individuare in modo preciso. Mentre l’individuazione delle date utili per l’agricoltura può essere dotato di qualche giorno di tolleranza, le feste devono cadere in giorni determinati con precisione. Ed al popolo di Israele si riproposero tutti i problemi che erano stati di altri popoli. Seguiamo Schiaparelli:

74 … La Genesi, dopo narrate le opere fatte da Dio nel primo giorno della creazione, così conclude: e fu sera e fu mattina il primo giorno. E lo stesso ripete per tutti i giorni della creazione come regola invariabile. La sera s’intendeva pertanto precedere la mattina. […]

75. Quest’uso di cominciare il giorno civile o nychthemeron colla sera, è stato originariamente praticato da quei popoli, che ebbero per regola di porre il principio del loro mese nel momento in cui la Luna nuova si faceva loro visibile nel crepuscolo vespertino. … Fra l’una e l’altra cosa esisteva una certa dipendenza; era naturale infatti che si cominciasse a contare il primo giorno del mese dal medesimo istante, da cui si supponeva aver principio il mese stesso; ed è facile vedere quali inconvenienti avrebbe portato seco l’uso di cominciare il mese in un momento, e il primo giorno di esso mese in un altro. Ora gli Ebrei, come si vedrà, in ogni epoca della loro storia usarono contar i mesi dall’istante in cui la falce luminosa della Luna cominciava a rendersi visibile dopo la congiunzione col Sole; cioè dall’istante del novilunio apparente. La pratica di cominciar il giorno colla sera ne derivò come conseguenza presso gli Ebrei, come presso altri popoli, fra i quali son da nominare i Greci. […]

80. … Ma l’idea dell’ora, cioè di una divisione regolare del giorno in parti uguali, pare rimanesse sconosciuta agli Ebrei ancora per qualche tempo dopo l’esilio: certo è almeno, che la parola corrispondente non esiste nell’ebraico dell’Antico Testamento, e solo comincia a comparire nei dialetti di Palestina dopo che l’ebraico cessò di esser parlato nell’uso famigliare: dialetti che appartengono al ramo aramaico delle lingue semitiche. Con ciò siamo condotti a considerare la questione del così detto orologio solare di Achaz, il quale sarebbe stato collocato nel palazzo reale di Gerusalemme per ordine di quel Re, 730 anni circa avanti Cristo. […]

82. …  Noi dovremo dunque rappresentarci la cosa in questo modo: che Achaz, in occasione delle nuove costruzioni da lui ordinate nel Tempio e nel palazzo reale, abbia fatto fare una gradinata, detta perciò ma’aloth Achaz, cioè i gradini di Achaz. Su questi gradini si proiettava l’ombra di qualche parte più alta del rimanente edilìzio; la quale scorrendo di gradino in gradino, si andava abbassando, in quell’ora del giorno in cui si pone il prodigio. Non è impossibile che alcuno usasse quegli scalini come punti di riferimento per regolarsi sul tempo; è questo un procedimento ovvio, e di analoghi se ne praticarono sempre e dovunque. Che che ne sia, nell’intendimento dello scrittore il prodigio fu questo: che dopo esser discesa l’ombra per dieci gradini, essa li risalì d’un tratto al cenno d’Isaia. La seconda delle due narrazioni esposte implicherebbe anche una retrogradazione del Sole, non chiaramente accennata nella prima; un prodigio dunque uguale od anzi maggiore di quello onde si fa merito a Giosuè. […]

85. Il computo dei mesi e il calendario delle feste presso gli Ebrei fu in ogni tempo, ed ancora presentemente è, regolato sulle fasi della Luna; né si trova presso di loro, come potrebbe aspettarsi, alcuna traccia dell’antico calendario egiziano. Nel Salmo CIV leggiamo che Iddio fece la Luna per la determinazione dei tempi. Tutte le feste ebraiche eran regolate sulla Luna. […]

87. Nelle diverse epoche della loro storia gli Israeliti usarono l’un dopo l’altro (e talvolta anche contemporaneamente) diversi sistemi di mesi. Quali nomi adoperassero prima di conquistare la Terra di Canaan, non è noto. Dopo la conquista essi si valsero dei nomi cananei fino all’epoca di Salomone e alla fondazione del primo Tempio. Ma i nomi e l’ordine dei mesi cananei furono aboliti quando, colla edificazione del Tempio, alle cose del culto fu data una forma più regolare e più strettamente nazionale. Allora si cominciò a designare i mesi coi loro nomi ordinali, senza altra speciale designazione; e per gli scopi religiosi qnest’uso durò finché Gerusalemme fu distrutta da Tito. Ma già subito dopo il ritorno dall’esilio sotto Zorobabele troviamo adottati nell’uso civile i nomi babilonesi, i quali, dopo la distruzione del secondo Tempio, finirono per avere il sopravvento anche nell’uso religioso, e fino ad ora continuano nella pratica esclusiva delle Sinagoghe. […]

91. … Cosi gl’Israeliti, pur conservando l’ordine dei mesi e senza turbare il rituale delle loro feste, a poco a poco s’avvezzarono ai nomi dei mesi babilonesi, prima nell’uso civile, poi, dopo Tito, anche nell’uso religioso; e definitivamente li consacrarono nel calendario che da quindici secoli è adoperato in tutte le Sinagoghe. In questo calendario però il principio dell’anno fu posto in autunno e nel novilunio con cui s’inizia il mese di Thischri. In conseguenza di tale mutazione il mese intercalare Veadar venne ad occupare nell’anno il settimo posto, mentre prima occupava il tredicesimo. […]

92. Come la Luna serviva a determinare i mesi, così il Sole determinava la durata e successione degli anni. L’anno ebraico era un anno solare. Non era un anno vago come quello degli Egiziani antichi, né come quello dei Mussulmani, perché la sua determinazione facevano gli Israeliti dipendere dal corso delle stagioni e dal rinnovarsi dei lavori agricoli. […]

In quest’anno però il principio e il decorso dei mesi eran regolati dalle fasi della Luna: quindi non si può dubitare che il calendario degli Ebrei sia stato in ogni tempo un calendario lunisolare, come quello dei Babilonesi, dei Siri e dei Greci. In un tal computo l’anno cominciava con quel novilunio, che segnava il principio del primo mese. Ma il punto d’origine non fu sempre il medesimo per il popolo d’Israele nei diversi periodi della sua storia.[…]

95. … la numerazione dei mesi era sempre quella dell’anno religioso, che cominciava in primavera col 1° mese o col Nisan, almeno per quanto concerne le epoche dell’Antico Testamento. Ma l’uso di cominciare l’anno civile in autunno col Tischri, secondo il modo dei Siri, andò prevalendo sempre più e continuò anche sotto i  Seleucidi, sotto gli Asmonei, e nelle scuole giudaiche posteriori; finalmente prevalse anche nel calendario religioso sistemato dai Rabbini nel secolo IV di Cristo, che oggi ancora è in uso.

96. Si è accennato di sopra come l’anno degli Israeliti fin dai primi tempi fosse regolato secondo il corso del Sole, in modo da rinnovarsi parallelamente alla vicenda delle stagioni (§ 92). Noi dobbiamo ora esaminare questo punto con qualche maggior precisione, ed indicare qual posizione nell’anno ebraico avessero le feste: feste di carattere agricolo, e quindi indissolubilmente legate alle vicende dell’atmosfera e al corso annuo del Sole.
Nel primo mese, nella sera che chiudeva il 14° giorno e cominciava il 15°, essendo la Luna nel plenilunio, si celebrava la Pasqua, e la festa continuava per 24 ore fino alla sera del giorno seguente quindicesimo. Cominciava pure colla sera quattordicesima del primo mese la settimana degli azimi e durava sette giorni fino alla sera ventunesima da quella del novilunio. In quello dei sette giorni che cadeva dopo il Sabbato, si faceva l’offerta dell’‘omer: cioè si offriva un covone di spighe d’orzo novello qual primizia, coi riti prescritti in Levit. XXIII, 10-13. Abbiamo qui la prima relazione del calendario ebraico colle stagioni: dovean cioè, qualche giorno dopo la metà del primo mese, le spiche dell’orzo essere intieramente formate o quasi, quantunque non fosse necessario di averle mature affatto e disseccate. L’orzo comincia a maturar in Palestina col principio di aprile, e nei luoghi più bassi e più caldi si comincia a tagliarlo alla fine dello stesso mese. Onde è chiaro, che il primo novilunio, inizio del primo mese e dell’anno ebraico, non poteva aver luogo che agli ultimi di marzo al più presto, e il sacrifizio del ‘omer al più presto alcuni giorni prima della meta d’aprile. A partire da questo sacrifizio era permesso di mietere e di cibarsi
del grano nuovo. Il taglio del frumento ritardava di qualche tempo su quello dell’orzo, e vi eran inoltre ritardi dovuti al clima più freddo dei terreni più elevati; in conclusione la messe non era finita che nella seconda metà di maggio. Seguiva alla messe la festa detta delle settimane, per la quale l’epoca prescritta era di sette settimane o 49 giorni dopo il giorno del ‘omer: «dal giorno dell’offerta del ‘omer numerate sette settimane complete: fino al giorno dopo la settima settimana contate cinquanta giorni». Nel cinquantesimo aveva luogo l’offerta delle settimane, e la festa della messe; la quale poteva ritardare, secondo gli anni ed i luoghi, fino alla fine di giugno. Questa è una seconda relazione, che fissava il calendario ebraico rispetto alle stagioni. Il 50° giorno dall’offerta del ‘omer, che ricorreva nella prima metà del terzo mese (dal 6 al 13 del mese all’incirca), doveva capitare a messe compiuta.
Altre feste (oltre a quelle consuete dei Sabbati e dei novilunii) non occorrevano nel calendario ebraico fino al settimo mese. Ma il primo giorno del settimo mese si celebrava con suono di trombe la festa commemorativa del theru’ah, o dell’allegro schiamazzo. Si è voluto ravvisar qui la memoria dell’antico uso di celebrare allegramente con strepiti d’ogni genere il principio dell’anno, quando esso cadeva in autunno, e coincideva colla vendemmia, o di poco la seguiva. La corrispondente festa nel principio del primo mese non è mai stata celebrata; nel nuovo sistema dei mesi il principio dell’anno non era contrassegnato da alcuna solennità speciale, diversa da quella che si usava per tutti i novilunii.

Nel settimo mese e precisamente nel plenilunio il 15 del mese cominciava la terza delle grandi solennità annuali, quella che anticamente si chiamava la festa dei raccolti e più tardi la festa dei tabernacoli. Essa durava 7 giorni dal 15 al 21 e si celebrava come ringraziamento, dopo finita la raccolta dell’uva e delle olive. La sua epoca cadeva di regola nell’ottobre nostro; e dovevano in quel tempo esser finite le raccolte del campo e della vigna; il che dà una terza connessione del calendario ebraico colle stagioni e col corso del Sole. […]

100. La lunghezza del periodo mensile determinato dalle fasi lunari non si adatta facilmente a tutti gli usi della vita sociale. Diversi popoli, giunti che furono ad un certo grado di civiltà, hanno sentito la necessità di dividere il tempo in intervalli più brevi, sia per regolare le feste e le cerimonie religiose, sia per avere un ordine facilmente osservabile nei mercati e in quelle altre cose, che ricorrono ad intervalli di pochi giorni. Quindi l’origine di cicli comprendenti un piccol numero di giorni. […]

101. La durata di una lunazione essendo di circa 29½ giorni, il quarto di essa risulta di giorni 7 e 3/8. Ma non potendosi qui procedere altrimenti che per numeri intieri, forza è attenersi al numero intiero più vicino. Onde nasce il periodo di 7 giorni come il più prossimo rappresentante del quarto di luna. La prima e più antica forma della settimana fu dunque di contare a partir dal principio del mese (o dal novilunio) successivamente 7, 14, 21 e 28 giorni, lasciando alla fine uno o due giorni di resto, per ricominciare in ugual modo il computo a partir dal novilunio seguente. Questa forma di settimana legata alle fasi lunari fu in uso anticamente presso i Babilonesi. […]

102. Dalla settimana legata alle fasi lunari era facile passare alla settimana puramente convenzionale e rigorosamente periodica, quale oggi noi l’abbiamo. Infatti la prima era soggetta a tutte le irregolarità ed incertezze che accompagnano la determinazione del novilunio; era naturale risolvere queste difficoltà col farne un periodo perfettamente uniforme di 7 giorni, senza alcuna dipendenza dalla luna o da qualsiasi altro fenomeno celeste. Così era facile renderne pubblico e popolare l’uso, connettendolo con qualche atto civile o religioso, per esempio con una festa o con un mercato, da celebrarsi sempre nel medesimo giorno di ciascun periodo, od anche con entrambe queste cose. Se a tale concetto siano giunti gli Ebrei per propria riflessione, o se lo abbiano ricevuto da altri non è più possibile decidere. Certo l’istituzione della settimana è da mettersi fra i ricordi più antichi della nazione ebraica, e il sabbato come giorno di riposo obbligatorio si trova menzionato nei più antichi documenti della legge. […] È possibile che la sua origine risalga ai primi principi del popolo ebraico, e sia ben anco anteriore a Mosè. Diffuso dagli Ebrei nella loro dispersione, adottato dagli astrologi caldei per uso delle loro divinazioni, accolto dal Cristianesimo e dall’Islamismo, questo ciclo così comodo e così utile per la cronologia ormai è adottato in tutto il mondo. […]

103. Non pare che gli Ebrei dessero nomi speciali ai giorni della settimana, fuori che al Sabbato, il quale era considerato come l’ultimo dei sette, come ben si conviene al riposo, che deve succedere al lavoro. Nessuna traccia di tali nomi si vede nei libri dell’Antico Testamento. […]

Ai giorni veniva assegnato il nome che discende dl numero d’ordine: il primo giorno è la nostra domenica; il secondo giorno è il lunedì; … ; il sesto giorno era chiamato in aramaico vigilia ed in greco preparazione.

        Solo dalla fine del II secolo a.C. il calendario cambia. Leggiamo da Dupont-Sommer:

Verso la fine del secondo secolo a. C., i libri dei Giubilei e di Enoch ci fanno conoscere un tipo di calendario del tutto nuovo, fondato essenzialmente sulla divisione dell’anno in quattro stagioni di tre mesi, vale a dire in quattro trimestri: all’interno di ogni trimestre o stagione, il primo e il secondo mese sono di trenta giorni, il terzo di trentuno giorni; ogni stagione conta così novantun giorni, e cioè esattamente tredici settimane. L’anno intero comporta dunque 364 giorni: esattamente 52 settimane. Questo sistema è essenzialmente ma rigorosamente tra il ciclo solare (le quattro stagioni annuali), il ciclo dei mesi (3 mesi per stagione, 12 per anno) e il ciclo delle settimane (13 settimane per stagione, 52 settimane per anno). È chiaro, che, essendo l’insieme di 12 mesi propriamente lunari, in realtà di 354 giorni, si produce una differenza di 10 giorni per ogni anno di 364 giorni, e che il sistema induce a celebrare la «neomenia» (il primo giorno di ognuno dei dodici mesi) in un momento spesso in discordanza con la fase reale della luna. È d’altronde chiaro che essendo l’anno solare realmente di 365 giorni e 1/4, esiste, per questo motivo, una differenza di un giorno e un quarto ogni anno, in rapporto al movimento reale del sole; non sappiamo per mezzo di quali correzioni un tale calendario riuscisse a conciliare su questo punto il sistema con la realtà. Lo sforzo che viene tuttavia dimostrato per armonizzare praticamente i tre cicli disparati del sole, dei mesi e delle settimane è senza dubbio notevole. I manoscritti recentemente scoperti a Qumran, presso il Mar Morto, rivelano come questo calendario fosse precisamente quello della setta ebraica degli Esseni nel primo secolo a.C. Non può essere stato inventato prima dell’epoca ellenistica: la divisione fondamentale dell’anno in quattro stagioni è presso gli Ebrei un’innovazione, attinta verosimilmente al mondo ellenistico; poiché l’antica Israele conosceva soltanto due stagioni: una stagione secca e torrida (l’estate) e una stagione piovosa e fredda (l’inverno).

Nell’antica Israele non esistevano ère per contare e datare gli anni: ci si riferiva semplicemente a qualche avvenimento importante: «due anni dopo il terremoto », «l’anno in cui il Tartano venne ad Asd6d », ecc. Negli atti ufficiali e negli annali dei re, gli anni erano contati a partire dall’avvento al trono del re. Più tardi all’epoca ellenistica, fu adottata l’èra dei Seleucidi, che inizia al primo Nisan, 311 a. C.

Riprendiamo ora Schiaparelli per trovare altre periodizzazioni temporali:

108. PERIODI DI SETTE ANNI. Fin dai primi tempi della legislazione mosaica fu usato l’intervallo di sette anni per regolare certe prescrizioni religiose o civili. Una di queste riguardava la liberazione obbligatoria degli schiavi di nazione israelitica nel settimo anno di servizio. […]

109. RIPOSO DELLA TERRA, ANNO SABBATICO. Alle prime origini della legge mosaica sembra risalire l’usanza del riposo settennale della terra, detto anche Sabbato della terra, o anno sabbatico, la quale pare sia stata originariamente istituita, sia per il riposo del terreno, necessario in un’epoca di agricoltura non molto progredita, sia ad intento benefico. […]

114. GIUBILEO. Quei legislatori del Levitico che vennero dopo Esdra, abolito il periodo settennale dell’anno di libertà e quello dell’anno di remissione, tentarono di surrogarvi il periodo cinquantennale del Giubileo, così chiamato, perché si annunziava il suo principio nell’autunno del cinquantesimo anno suonando con trombe e corni a ciò appropriati, detti jobel, una musica allegra. L’ordinamento di questo ciclo è così definito: «Tu conterai sette sabbati di anni, cioè sette anni sette volte, sì che il tempo dei sette sabbati sia di quarantanove anni; e allora farai correre suon di tromba il giorno dieci del settimo mese, nel giorno di espiazione, per tutto il paese. E santificherete il cinquantesimo anno nel paese, e proclamerete libertà per tutti i suoi abitatori. Giubileo sarà per voi e ritornerà ciascuno alla sua proprietà, e ciascuno alla sua famiglia. Giubileo sarà per voi questo cinquantesimo anno; non seminerete, e non mieterete ciò che cresce spontaneamente, e non vendemmierete sulle viti non potate…. Nel vendere o nel comprare (un campo) non ingannatevi l’un l’altro; secondo il numero degli anni trascorsi dal Giubileo crescerai e diminuirai il prezzo; perché ciò che si compera è il numero dei prodotti… Non è permesso di vender la terra per sempre, perché mia è la terra, e voi siete presso di me ospiti ed usufruttuari… E quando il tuo fratello divenuto povero si vende a te, non trattarlo come schiavo; ma come un operaio, un avventizio di casa fino all’anno del Giubileo rimanga egli presso di te; poi se ne vada libero, egli ed i suoi figliuoli, e ritorni alla sua famiglia e alla proprietà dei suoi padri. Perché miei servi essi sono, che io ho liberato dalla terra d’Egitto, essi non devono essere venduti come schiavi». Come si vede lo scopo di tutte queste ordinanze è ridurre ad un periodo più lungo, e quindi rendere meno gravi e più facilmente osservabili le ricorrenze settennali dell’anno di libertà, dell’anno di remissione, e del riposo della terra, prescritte nel Primo Codice e nel Deuteronomio.

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

        Abbiamo fatto una lunga cavalcata attraverso la Bibbia, il libro con il maggior numero di edizioni nel mondo. Ho già detto che, a mio giudizio, questo libro è tanto edito e venduto quanto poco letto e comunque capito. Il libro è in modo del tutto chiaro un libro che descrive la storia mitologica di un insieme di tribù nomadi che si unisce per formare un popolo. Questo popolo è alla ricerca di terra, di unità e si afferra ad un Dio che, quel popolo, deicide essere stato alla loro origine medesima. Questo Dio, secondo gli scritti di quel popolo, lo sceglie come popolo eletto e lo guida alla conquista delle terre che occuperà con stragi inenarrabili. Non esiste pietà per nessuno che non sia del popolo di Israele e di Giuda. Gli stessi rappresentanti del popolo eletto saranno puniti con durezza quando non rispetteranno i comandamenti del Dio da loro scelto con comunione di intenti. La storia che la Bibbia racconta è un continuo decidere di Dio sulle sorti del suo popolo che condizionerà le sorti dei popoli vicini. Ogni evento sarà raccontato dopo che era accaduto come se fosse stato previsto da profeti illuminati direttamente da Dio.

        Sulla Bibbia e sulla sua attendibilità riporto alcune pagine di Christopher Hitchens:

Non c’è bisogno di dire che nessuno dei confusi e sinistri avvenimenti descritti nell’Esodo ha mai avuto luogo. Gli archeologi israeliani sono tra i migliori al mondo, anche se la loro dottrina talvolta è stata subordinata al desiderio di provare che il «patto» tra dio e Mosè poggiasse su dati di fatto. Nessuna squadra di scavatori e di studiosi ha mai lavorato con maggior lena, o con maggiori aspettative, degli israeliani che hanno setacciato il Sinai e la terra di Canaan. Il primo di costoro fu Yigael Yaadin, di cui sono ben noti i lavori eseguiti a Masala, il quale aveva ricevuto da David Ben Gurion l’incarico di portare alla luce i «titoli legali» di Israele sulla Terra Santa. Fino a poco tempo fa, i suoi sforzi palesemente politicizzati furono compensati da una certa apparente plausibilità. Ma in seguito sono stati intrapresi lavori assai più estesi e più oggettivi, eseguiti segnatamente da Israel Finkelstein dell’Istituto di archeologia dell’università di Tel Aviv e dal suo collega Neil Asher Silberman. Questi signori considerano la «Bibbia ebraica» o Pentateuco come una cosa splendida e la storia moderna di Israele come totalmente ispirata, sul che umilmente mi permetto di dissentire. Ma le loro conclusioni sono definitive e tanto più credibili perché portano testimonianze contro il loro personale interesse. Non c’è stata fuga dall’Egitto, non c’è stata peregrinazione nel deserto (per non dire dell’incredibile durata di quarant’anni menzionata nel Pentateuco), né c’è stata una drammatica conquista della Terra Promessa [questo a me consola un poco, ndr]. È stato tutto, molto semplicemente e piuttosto goffamente, inventato in un’epoca assai successiva. Nessuna cronaca egiziana ricorda l’episodio, neppure di passata, e l’Egitto è la potenza che ha sempre controllato militarmente Canaan come tutta la regione nilotica. Anzi, molte testimonianze vanno in senso opposto. L’archeologia conferma la presenza di comunità ebraiche in Palestina da molte migliaia di anni (ciò può dedursi, tra l’altro, dall’assenza di ossa di maiale negli ammassi di residui organici e di spazzatura) e dimostra che ci fu un «regno di David», per quanto piuttosto modesto, ma che tutti i miti mosaici possono essere tranquillamente scartati. Non penso si tratti di una conclusione «riduzionista», come la definiscono gli arcigni critici della fede. […]
Beh, i cristiani si sono messi al lavoro sulla base di un medesimo illusorio desiderio di «prove» molto prima che la scuola sionista di archeologia cominciasse a rigirare il terreno con la vanga. San Paolo, nella Lettera ai galati, trasmise la promessa fatta da dio ai patriarchi – quale patrimonio ininterrotto – ai cristiani, e tra Ottocento e primo Novecento non si poteva gettare una buccia di arancia nella Terra Santa senza colpire qualche fervente scavatore. Un posto di assoluto primo piano, qui, spetta al generale Gordon, il fanatico della Bibbia alla fine trucidato dal Mahdi a Khartum. Va poi ricordato William Albright di Baltimora che cercò instancabilmente di difendere la verità della Gerico di Giosuè e di altri miti. Alcuni di questi scavatori, dato il carattere primitivo delle tecniche dell’epoca, erano considerati seri e non soltanto improvvisati. Anche seri sul piano morale: l’archeologo domenicano francese Roland de Vaux rischiò di perdere ciò che aveva di più caro dicendo: «Se la fede storica di Israele non ha fondamento storico, questa fede è erronea, e di conseguenza lo è anche la nostra fede». Osservazione quanto mai onesta e ammirevole, sulla quale il buon padre potrebbe oggi essere preso in parola.
Molto prima che le ricerche, le traduzioni e gli scavi accurati dei nostri tempi ci illuminassero, era comunque alla portata di ogni persona pensante capire come la «rivelazione» del Sinai e il resto del Pentateuco fossero una fantasia sconnessa, ricucita molto tempo dopo i non-eventi che i libri di Mosè non riescono a descrivere in modo persuasivo e neppure plausibile. Da quando è stato istituito lo studio scolastico della Bibbia, i ragazzi più svegli hanno sempre turbato i loro insegnanti con innocenti interrogativi destinati, però, a restare senza risposta. Nessuno ha confutato, né allora né poi, queste parole scritte dall’autodidatta Tom Paine mentre, peraltro, soffriva atroci persecuzioni da parte di giacobini antireligiosi:

Questi libri sono sputi e Mosè non è il loro autore; e inoltre non sono stati scritti al tempo di Mosè, ma parecchie centinaia di anni dopo. Sono un tentativo di raccontare la storia della vita di Mosè e dei tempi in cui si dice sia vissuto, e anche dei tempi ancora precedenti, redatto da alcuni simulatori molto stupidi e ignoranti parecchi secoli dopo la morte di Mosè. Come oggi gli uomini scrivono storie di cose accadute, o che si suppone siano accadute, parecchie centinaia o migliaia di anni fa.

[…]

Si potrebbe fare lo spoglio dell’ Antico Testamento libro per libro, qui soffermandoci per notare una frase lapidaria («L’uomo è nato per soffrire, – dice il libro di Giobbe, – cosi come le scintille volano in alto»), e qui un bel versetto, ma incontrando ovunque le stesse difficoltà. I personaggi raggiungono età incredibili, eppure concepiscono figli. Individui mediocri ingaggiano duelli o discussioni testa a testa con dio o con i suoi emissari, sollevando di nuovo la questione dell’ onnipotenza o anche del buon senso divini, e la terra è sempre inzuppata di sangue innocente. Per giunta, il contesto è oppressivamente limitato e locale. Nessuno di questi provinciali sembra avere idea di qualcosa che non sia deserto o greggi o mandrie o esistenza nomadica. Ciò è perdonabile in bifolchi chiusi nel loro piccolo universo, ovviamente, ma che dire della loro guida suprema e del loro iroso tiranno? Forse era fatto a loro immagine, anche se non era scolpito.

        Tutto quanto scrive la Bibbia, al di là delle immani tragedie raccontate, potrebbe essere ritenuto un insieme di leggende unite a pezzi di storia mitica di interesse culturale riguardante un popolo ed uno solo se non avesse assunto un ruolo dirompente non solo per quel popolo eletto ma per il mondo intero con la sua influenza, a mio giudizio, drammatica sulla nascita del Cristianesimo e dell’Islam.

        In particolare il Cristianesimo ha operato una scelta dogmatica, obbligata da alcuni passi dei Vangeli, che definisce la Bibbia Parola di Dio, cioè ispirata quando non dettata direttamente da Dio. E quanto ho io scritto in questi 5 articoli nasce proprio dal fatto che i libri della Bibbia sarebbero opera di Dio. Ebbene, in questa ipotesi, il Dio che sta dietro la Bibbia è un violento, un malvagio, un vero macellaio genocida. Inoltre, e qui arrivo alle ultime cose scritte, è entità che non conosce cosa ha creato, non sa come funziona o, comunque, non sa spiegarlo almeno ai suoi figli(5).

        Molto più semplice dire che la Bibbia è opera dell’uomo. E’ stata scritta da uomini che rappresentavano la cultura del loro tempo. E basta. Mettere un Dio dietro le spalle può essere consolatorio in certi momenti e per certi popoli ma è disastroso per l’intera umanità, soprattutto quando questo Dio lo si vuole infilare comunque e dovunque.

        Non c’è nulla di male ad avere fede. Deve essere un grande aiuto ed una grande consolazione per molti che soffrono nel mondo. Ma quando questa fede ha a capo un signore degli eserciti la disgrazia incombe su tutti ed allora questo Signore va combattuto perché è tuo nemico.

        Per ciò che riguarda gli sviluppi nella cultura e nella terra in cui vivo, l’Italia, mi occuperò prossimamente di andare a cogliere la nascita del Cristianesimo a partire da questa Bibbia crudele e violenta, un libro dell’orrore.

Roberto Renzetti


NOTE

(1) Deschner descrive con molti dettagli il modo di finanziamento, ossessivo ed ingordo, da parte del clero del Signore:

DENARO IN ABBONDANZA PER “DIO” – “DENARO SACRO”

Gli storici greci Ecateo e Aristea che visitarono la Palestina al tempo della restaurazione, intorno al 300 a.c., rimasero profondamente colpiti dallo sfarzo che accompagnava le apparizioni in pubblico del sommo sacerdote, e dagli oltre 700 sacerdoti che prestavano servizio al tempio. Anche l’autore del libro del Siracide, probabilmente uno saiba di origine gerosolimitana, racconta in termini celebrativi, intorno al 170 a.c., l’impressione prodotta dal sommo sacerdote sulla folla: “Come è maestoso … è come la stella del mattino in mezzo alle nubi … come le piante lussureggianti del Libano … i suoi fratelli gli fanno intorno corona come i virgulti del cedro … Allora tutto il popolo accorre e si prostra al suo cospetto … Egli scende dall’altare e leva le mani al cielo … e invoca la benedizione del Signore”.

Fin dal principio, il clero d’Israele si preoccupò di tutelare con cura i propri interessi, naturalmente perché Dio voleva che così fosse. “Devi condurre nella casa del SIGNORE, tuo Dio, il meglio delle primizie del tuo campo”. “Tutti i tributi che i figli di Israele offriranno al sommo sacerdote, saranno di sua pertinenza”. “Tutto il meglio dell’olio, del vino, del grano, le primizie le darai al SIGNORE … tutti i primi nati, sia che appartengano al genere umano, sia al bestiame … “. “Nessuno osi presentarsi al mio cospetto a mani vuote!” “Offra, piuttosto, per intero le decime al tempio”.

Tutti erano chiamati a compiere sacrifici sia a livello comunitario, sia a livello privato. Naturalmente, con il tempo, i tributi si raddoppiarono, quando non si triplicarono. Alla decima sul bestiame se ne aggiunse un’altra: se il carro era troppo pesante o il cammino troppo lungo, invece di pagare in natura, “prendi l’equivalente in denaro e portalo nella città che il SIGNORE, Dio tuo, ha scelto”. Esisteva anche una decima per i poveri, da versare soltanto ogni tre anni, in quanto la Palestina pullulava di gente di misere condizioni, la cui povertà crebbe ulteriormente tra il I secolo avanti Cristo e il I secolo dopo Cristo. I sacerdoti si appropriavano della decima parte “del raccolto e dei frutti degli alberi”, “di montoni e di pecore e di tutti i prodotti della pastorizia”. Per chi non pagava in natura, era prevista “una quinta parte aggiuntiva”. Una voce significativa nel complesso delle entrate del tempio di Gerusalemme era rappresentata dalle imposte, Già nell’Antico Testamento viene fatta menzione del denaro versato alla “tenda dell’incontro”, per espiare colpe di natura religiosa. Ogni ebreo maschio di età superiore ai venti anni, “per non incorrere in una disgrazia” doveva offrire “una moneta di venti grammi, secondo l’unità di peso custodita presso il tempio”. La morale di tutto ciò era: “Il ricco non deve versare di più, il povero di meno, di una moneta di venti grammi!” Il Tempio riceveva entrate anche in conseguenza di voti e di tutte le eventuali offerte sacrificali che avevano luogo in ogni momento dell’anno. Anche i re d’Israele, la cui residenza era collegata alla casa di Jahwe da una porta, e questo, senza sostanziali mutamenti per quasi quattro secoli, facevano omaggi al Tempio di Salomone, ma non mancavano di attingere anche loro alle casse di questo edificio di culto, la cui ricchezza costituì sempre un forte stimolo ai saccheggi. Al tempo di Roboamo, esse furono depredate da Sisak, sotto Amasia dal re d’Israele Joas, anche Nabucodonosor vi mise le mani, e insieme a lui molti altri. Occasionalmente pervennero al Tempio offerte da parte di sovrani stranieri. Nel I secolo d. c., la regina di Adiabene, Elena, insieme ai suoi figli Izates e Monobazos, si convertì alla religione ebraica. Questa dinastia la cui grandiosa tomba ancora oggi è perfettamente conservata a Gerusalemme, beneficò generosamente il Tempio; i principi di Adiabene parteciparono, addirittura, con i loro eserciti alla guerra condotta dagli Ebrei contro i Romani. Comunque erano soprattutto le schiere innumerevoli dei pellegrini a portare le elemosine prescritte. Al tempo dei re, ogni Ebreo maschio doveva recarsi tre volte l’anno al tempio di Gerusalemme. Dopo la diaspora, era possibile fare offerte unicamente nei luoghi in cui sorgevano appositi magazzini per lo stoccaggio dei tributi e delle elemosine. Solo durante la Pasqua, si recava a Gerusalemme un numero di pellegrini doppio degli abitanti della città, e le imposte pagate per avere un banco presso il mercato che si teneva a Pasqua nello spazio antistante il Tempio, finivano dritte nelle tasche del sommo sacerdote. A Gerusalemme si tenevano anche altri mercati, della frutta, del grano, del legno, del bestiame; nella “città santa” vi era, persino, una vendita all’incanto di schiavi. Alcune offerte, come quelle per la pace o per l’espiazione di una colpa o di un peccato, se ritenute particolarmente sante, toccavano del tutto, o in parte, al clero, e alcune dovevano essere pagate in moneta sonante. l Giudei, più di un milione, dispersi dalla diaspora, per tutto la durata del secondo Tempio, continuarono a inviare denaro in Palestina. Quasi ogni città aveva una cassa per la raccolta del “denaro sacro”. Da alcune terre, come Babilonia o l’Asia Minore, affluiva tanto denaro da attirare non solo i predoni, ma anche le autorità romane. l “saggi” continuarono a incoraggiare i pellegrinaggi, anche dopo la distruzione del secondo tempio, in quanto erano fonte di enormi entrate.

I santuari ebraici svolgevano, addirittura, la funzione di banche, utilizzando le loro cospicue ricchezze per fornire prestiti effettuati a un tasso d’interesse corrispondente a quello vigente nei paesi confinanti: il 12% nell’Egitto dei Tolomei, dal 33% al 50% in Mesopotamia. La Bibbia, naturalmente, tace di tutto ciò, anche se in essa era presente il divieto di riscuotere “interessi di alcun tipo”.

Intanto, però, il clero poteva disporre come nessun altro di denaro e offerte, e sempre, ovviamente, nel nome di Dio! In tal senso, si può dire che da un punto di vista finanziario, il clero cristiano sia stato un ottimo allievo di quello ebraico, che ben sapeva come spillare, “in mille modi diversi”, denaro alla gente. È ovvio che il sommo sacerdote e i suoi immediati sottoposti facessero la parte del leone. Lo storico ebraico Flavio Giuseppe documenta nei dettagli l’avidità dell’alto clero che si rifiutava di riconoscere gli altri templi dedicati al culto di Jahwe, come quello di Geroboamo a Bethel, un tempio statale analogo a quello di Gerusalemme, o i due santuari al di fuori della Palestina, quello di Elefantina e di Leontopoli, o quello, ancora, di Samaria. Si trattava, peraltro, di luoghi di culto in grado di esercitare una forza di attrazione che, soprattutto per quanto concerneva i Giudei allontanati dalla diaspora, era molto modesta. Il basso clero, invece, viveva in condizioni d’indigenza, doveva versare la decima parte delle decime e non poteva fare con certezza affidamento sul resto, spesso preda di ladri senza scrupoli, capaci di uccidere chiunque osasse opporgli resistenza. “Non di rado era l’alto clero a organizzare queste rapine”.

E proprio l’alto clero veniva spesso beneficato dai sovrani. Artaserse aveva consegnato a Esdra una lettera in cui ordinava di “portare a Gerusalemme l’oro e l’argento che il re e i suoi consiglieri di loro spontanea volontà avevano offerto al Dio d’Israele … insieme all’ oro e all’argento che riuscirai a raccogliere in tutto il territorio babilonese, e ai doni che il popolo e i sacerdoti vorranno versare per la casa del loro Dio in Gerusalemme. Prendi il denaro e acquista … E ciò di cui ancora avrai bisogno per il tempio del tuo Dio, lo riceverai dalle casse del re”. Artaserse, inoltre, vietò a Esdra “d’imporre tasse e tributi a qualsiasi sacerdote e a chiunque prestasse servizio nella casa di Dio”.

Al tempo di Neemia, allorché vi erano 4289 sacerdoti, ripartiti in 24 classi, le entrate del Tempio erano così ingenti che si dovettero costruire in altre città nuovi magazzini per le scorte. Neemia stesso esigeva “annualmente la terza parte di una moneta d’argento per il mantenimento della casa di Dio”, “legna da ardere per il tempio del Signore”, “i primi prodotti dei campi e primi frutti degli alberi … i nostri primogeniti e primi nati del nostro bestiame”, e via dicendo. In sostanza egli si preoccupava energicamente “dei tributi, delle primizie e delle decime … che, secondo la legge, spettavano a sacerdoti c leviti, in quanto il popolo di Giuda era molto soddisfatto del servizio reso dai suoi sacerdoti e dai suoi leviti”. È naturale che, con il tempo, si allargò progressivamente la schiera dei nemici di questo clero ricco e potente che, a partire dal periodo dei re aveva fatto in modo di definire i propri privilegi fin nei minimi dettagli. Proprio i leviti che svolgevano l’ufficio di cantori, guardiani delle porte e amministratori del Tempio, di servi tori dei sacerdoti e a volte di loro rappresentanti, ebbero con questi ultimi rapporti tesi. Il popolo sfruttato si rifiutava di pagare ai leviti le decime sul grano e sul vino che essi pretendevano, mentre i sacerdoti, a partire dall’età ellenistica, cominciarono a prelevare una parte delle decime spettanti ai leviti, per accrescere la proopria ricchezza ormai divenuta proverbiale.

Le differenze di classe erano profondamente marcate, e proprio all’interno del ceto dirigente si venne creando una spaccatura tra un gruppo ristretto fortemente conservatore e gli elementi orientali più o meno ellenizzati: una frattura di natura religiosa e culturale che lentamente avrebbe condotto alla catastrofe.

(2)  Alcuni aspetti della religione ebraica legati alle vicende storiche insieme alla storiografia riguardante i testi ed i documenti disponibili sono delineati da Liverani nel modo seguente:

L’ORIGINALITA’ RELIGIOSA

Il più grande lascito dell’antica cultura d’Israele è la religione monoteistica che si è trasmessa sino ai giorni nostri sia nel filone diretto del giudaismo sia in quello collaterale del cristianesimo. La nostra cultura è stata a lungo ed è tuttora attraversata dal problema della «unicità» dell’esperienza religiosa d’Israele, cui fa riscontro da parte dei discendenti del popolo d’Israele una convinzione di unicità e diversità che si traduce in una resistenza ad ogni assimilazione che non ha l’eguale su così lunga durata. Tramontata – almeno in ambito laico – la plausibilità della spiegazione teologica («popolo eletto»), si impone una spiegazione di carattere storico.

Una spiegazione storica (e conseguente «normalizzazione») dell’unicità deve innanzi tutto evitare ogni anacronistica retro-datazione che renderebbe diverso rispetto al mondo circostante ciò che è semplicemente posteriore. Questo rischio non è per nulla astratto, ma riflette quanto si è puntualmente verificato: il ricorrente procedimento di fornire autorevolezza mediante retro-datazione è stato applicato dagli innovatori religiosi col risultato di appiattire tutto un processo evolutivo in una fissità che vede il risultato finale precostituito sin dall’inizio nei suoi caratteri immutabili, Per di più noi ora, a distanza di millenni, corriamo il rischio di un ulteriore appiattimento se confrontiamo l’esito finale dello sviluppo religioso culminato nell’ebraismo con le condizioni di un generico mondo «antico-orientale» che ha invece anch’esso la sua profondità diacronica (di tre millenni almeno) e le sue varietà regionali, la sua pluralità di esperienza e i suoi processi evolutivi,

I riformatori religiosi del VI e poi del IV secolo proiettarono l’origine delle loro sistemazioni teologiche e cultuali nell’epoca formativa della comunità etnica e politica d’Israele, e la condensarono nel personaggio di Mosè, che avrebbe ricevuto direttamente da Yahweh le «tavole della legge» (cosicché lo yahwismo non conoscerebbe alcuna evoluzione da Mosè al giudaismo, dal XIII al IV secolo). Si tratta ovviamente di pura invenzione. Dai pochi dati coevi risulta chiaro che la situazione religiosa nella Palestina del XIII-X secolo era improntata alla massima complessità, Nelle varie città prevalevano diverse divinità con le rispettive organizzazioni di culto, tutte inserite in pantheon tipologicamente analoghi, ma differenti nei dettagli, e con un apparato mitologico ed iconografico comune solo nelle grandi linee, A questa religiosità agraria e cittadina dell’ambiente cananeo si aggiungeva la religiosità dei gruppi pastorali, che era tipologicamennte difforme, e basata su presupposti diversi,

Quando David e Salomone unificarono la regione, la fondazione del tempio di Yahweh a Gerusalemme, come annesso del palazzo reale, comportò la scelta di una divinità come centro del pantheon ufficiale del regno, e come divinità dinastica, La divinità scelta, Yahweh, non era verosimilmente nuova nella regione, ma certamente non era una delle divinità maggiori e più qualificate, più legate dunque ad un ambiente particolare o ad un patrimonio mitologico e cultuale già radicato, Non era neppure, a quanto pare, la divinità cittadina preesistente in Gerusalemme. Alcuni dei principali caratteri di Yahweh, se riferibili già ad epoca davidica, rinviano piuttosto alla tipologia nomaadico-pastorale che non a quella agraria: aniconismo, demitizzazione, isolamento familiare, collegamento con gli antenati genealogici. Si trattò comunque di una scelta «politica», in rapporto alla difficoltà di costituire uno Stato unitario su una base frammentata e diversificata.

Naturalmente in età monarchica la presenza di una divinità dinastica non esclude affatto altri culti. Continuano ad essere praticati i culti di altre divinità, e di altri complessi di divinità: soprattutto nelle altre città e regioni, che mantengono le tradizioni locali, ma anche nella stessa capitale, dato il suo ruolo di punto di riferimento per tutto il regno. Esistono poi altri templi di Yahweh al di fuori di Gerusalemme, che non sono nuove fondazioni regie, ma santuari antichi di altre divinità delle quali si è constatata una sostanziale identificabilità con Yahweh, e che però mantengono peculiarità di culto, di patrimonio mitologico, di clero. Infine, Yahweh stesso non è ancora quella divinità unica che diverrà poi: è epigraficamente attestato che aveva una divinità femminile per paredra, e dunque era inserito in una struttura politeistica in maniera non conflittuale. Nel corso del periodo monarchico si assiste comunque ad una crescita del prestigio di Yahweh, che i fedeli di altre divinità non possono certo ignorare: in alcuni casi si ha un processo di assimilazione (così per El, per ‘Elyon, e in genere per le divinità del tipo pastorale); in altri casi si ha una subordinazione e demonizzazione (così per Reshef, e in genere per gli dèi guaritori); nel caso della coppia Ba’al-Astarte, che era il pernio della religiosità agraria prevalente, si ha l’inizio di una conflittualità e contrapposizione.

Le lotte politico-militari con gli Stati vicini hanno delle conseguenze teologiche, che diventano più evidenti all’avvicinarsi del pericolo assiro. Si è già visto come la guerra sia vissuta come contrapposizione tra le divinità nazionali, e dunque le vittorie e le sconfitte siano interpretate in chiave teologica. Mentre è normale che la vittoria produca un aumento di prestigio interno del dio nazionale, e la conquista possa portare una diffusione del culto del dio dei vincitori, è invece da sottolineare come sia la sconfitta a produrre le conseguenze più importanti. Una sconfitta episodica viene interpretata non più tanto come prevalenza del dio altrui sul nostro, ma come volontà del nostro stesso dio di punirci per qualche «peccato» da noi commesso nei suoi confronti. E di fronte al disastro nazionale più completo, operato dalle truppe degli imperi aggressori, la spiegazione teologica che si impone è che il nostro dio è talmente potente da potersi permettere di «usare» per punirei gli stessi eserciti nemici, gli stessi re potentissimi, e gli stessi dèi altrui. Questo passaggio è notevole, perché in condizioni di reale politeismo l’esito delle guerre riflette il confronto tra dèi contrapposti; mentre la strumentalizzazione teologica degli dèi stranieri vincitori e la concentrazione della spiegazione nel rapporto tra dio e popolo mostrano un sostanziale disinteresse per tutti gli dèi che non siano il proprio dio nazionale.

Il processo può presumersi fino a qui comune a tutti i popoli aggrediti dagli Assiri, popoli che però (incluso l’Israele del nord) man mano che venivano inglobati e pareggiati nella macchina imperiale perdevano la loro individualità di culto e di tradizioni e la loro capacità di recupero. Diverso è il caso di Giuda: al culmine del processo c’è la resistenza all’aggressione assira e l’opera dei re riformatori Ezechia e Giosia, che cercano di far fronte alla piega sfavorevole degli eventi politico-militari con provvedimenti nella sfera religiosa. I provvedimenti sono soprattutto due: unicità del culto e definizione della «legge». La fedeltà all’unico dio nazionale è l’unica speranza di salvezza, ogni compromesso o cedimento ad altri dèi è causa probabile della punizione, e dunque quanto più le prospettive sono negative tanto più è necessaria una mobilitazione religiosa esclusiva. Il culto viene concentrato nel tempio di Gerusalemme, a sottolinearne le implicazioni nazionali; gli altri centri di culto vengono considerati irregolari, e i sacerdozi non yahwistici vengono perseguitati e dispersi. Per la prima volta si concepisce il disegno di un regno che venera un solo dio, e lo fa in un solo luogo. Nel tempio si rinviene «casualmente» un antico manoscritto che contiene il testo della legge divina. Se causa del successo o della disfatta è il comportamento della comunità nazionale, diventa in effetti necessario conoscere in dettaglio ed in forma non ambigua cosa si deve fare, cosa si deve evitare, quali sono i possibili «peccati» e le possibili contestazioni da parte del dio. Non è più solo la legittimità e l’efficienza del re a determinare l’ atteggiamento della divinità: segno che il prestigio della regalità (un tempo intermediaria unica tra comunità umana e mondo divino) si è affievolito e di molto; ora è il comportamento di tutti a diventare causa potenziale della rovina nazionale. Alla vigilia del collasso finale dunque emergono monolatria, tempio centrale, legge codificata, responsabilità collettiva.

Poco dopo le riforme di Giosia, subentra la distruzione di Gerusalemme (e del tempio «salomonico») ad opera delle armate babilonesi, e la fine della monarchia davidica, che nella fase finale era diventata punto di riferimento anche per gli ex sudditi israeliti del nord. La distruzione del tempio, la fine dell’indipendenza nazionale, le deportazioni della classe dirigente eliminano gran parte degli elementi di identità nazionale – e sono in effetti gli strumenti imperiali per distruggere le varie identità nazionali. Se non ci sono più un territorio, uno Stato, un re, un tempio, l’unico punto di riferimento resta la legge: la religione diventa una pratica che comporta un minimo di culto organizzato, un massimo di interiorizzazione ed anche di formalismo individuale (tabù alimentari, circoncisione, riposo del sabato, ecc.). Il membro della comunità israelitica, che è ormai una comunità religiosa, deve potersi distinguere per il suo comportamento in un mondo eterogeneo. Chi si mantiene fedele all’osservanza della legge (e dunque fedele all’unico vero dio, Yahweh) si considera membro di un «resto» di scampati al disastro nazionale in un mondo di «pagani» (adoratori di dèi falsi) – un «resto» che è apparentemente sconfitto ed emarginato, ma che sa di essere privilegiato a livello più profondo in quanto unico nucleo dei fedeli di Yahweh.

Tutto questo ha un senso se c’è una prospettiva di ribaltamento della condizione attuale, se c’è una speranza di far coincidere di nuovo la fedeltà al dio e alla legge con una prosperità economica e politica che al momento premia piuttosto i «pagani». La prospettiva può assumere due aspetti diversi: c’è un livello politico di restaurazione dell’unità nazionale, di recupero del territorio, di ricostruzione del tempio, di rifondazione della monarchia, di rifondazione della prosperità davidico-salomonica. Altrimenti, se tutto questo non può avvenire, occorre spostare la prospettiva di ribaltamento ad un livello non politico ma personale, e indirizzare la religione in senso escatologico, in una prospettiva «finale» quando premi e punizioni saranno finalmente assegnati dal giudice divino tenendo conto di meriti e colpe, senza più invischiamento nelle vicende storiche.

Le prospettive di un recupero politico sembrano potersi realizzare, quando l’impero persiano consente il ritorno degli esuli in Giudea, la rifondazione del tempio di Gerusalemme (il «secondo» tempio), l’adozione della legge di dio come valida anche civilmente, la costituzione di un nucleo di autonomia nazionale. Il nucleo di esuli giudei che ritornano alla terra dei padri vi trova una popolazione mista di vecchi residenti e nuovi immigrati, dedita a culti sincretistici, a matrimoni misti, abbastanza demotivata. I reduci, ferventi yahwisti, combattono contro questa situazione: restaurano tempio e legge, vietano matrimoni misti e sincretismo religioso, considerano illegittima la presenza sul territorio di coloro che non fanno parte della comunità religiosa yahwistica, sognano una restaurazione anche politica che però le condizioni generali non consentono di realizzare. Cade l’ideale monarchico, e il sacerdozio diventa unico punto di riferimento per l’unità nazionale. Il sacerdozio si arroga il compito della «interpretazione autentica» della legge, e squalifica tutto il culto che non si svolga nel tempio di Gerusalemme. Il secondo tempio è molto diverso dal primo, che era luogo del servizio religioso di ambito palatino; ora il tempio (sotto l’esempio babilonese) riscuote la decima, amministra la giustizia, e diventa punto di riferimento esclusivo per la comunità nazionale in contesto di impero universale. Se il razzismo, le lotte di religione, la squalifica e la persecuzione dei diversi sono il portato delle condizioni storiche di tutto il periodo del «secondo» tempio (fino alla distruzione di Tiro e alla diaspora romana), su tempi più lunghi però si sono costituite le condizioni per la soluzione escatologica e non politica della contraddizione tra meriti etici e realtà, e per l’emergere di una sfera individuale dapprima all’interno di una nazionalità chiusa, poi anche al di fuori di essa.

Il problema della «unicità» può allora essere ridimensionato e riformulato: perché le altre nazioni e le altre religioni che pure passarono attraverso lo stesso trattamento di deculturazione e deportazione non reagirono nello stesso modo? Perché non è rimasta una «Bibbia» di Tiro o di Damasco? Occorre a questo proposito ricordare la differenza sia di durata sia di metodi tra imperialismo assiro e imperialismo babilonese. I deportati assiri erano molto più numerosi, e furono dispersi in varie province, al loro posto subentrando deportati dalle altre province, e dovunque attuandosi (anche forzatamente) una simbiosi a livello sociale e familiare, e un conseguente sincretismo religioso. I deportati giudei in Babilonia erano pochi, tutti membri della classe dirigente, restarono uniti nell’ esilio, tornarono dopo pochi decenni, e trovarono la Giudea abbastanza vuota di popolazione. Si confronti la coesione dei reduci dall’esilio babilonese con l’assimilazione dei «Samaritani» (abitanti delle ex province assire nel nord, nel territorio dell’ ex regno d’Israele). Gerusalemme, sfuggendo al micidiale trattamento deculturativo assiro, riuscì a tramutare l’esilio babilonese e la perdita dell’identità politica in una molla per potenziare l’identità nazionale su base religiosa, trasmettendoci poi come corpus di testi genericamente religiosi il prodotto del suo sforzo di riscrivere la propria storia in funzione della difficile situazione finale.

LA RIFONDAZIONE STORIOGRAFICA

Se paragonata al resto del Vicino Oriente antico, la cultura israelitica di età pre-esilica si segnala per povertà di attestazioni. Non solo le grandi culture dell’Egitto e della Mesopotamia, ma anche il resto della fascia siro-palestinese, hanno restituito all’indagine archeologica resti più clamorosi e più espliciti di quelli d’Israele. Eppure la Palestina è stata oggetto di capillare ricerca archeologica assai più intensamente di ogni altra regione del Vicino Oriente e forse del mondo. Se si dovesse ricostruire la storia politica e culturale d’Israele sulla base di questi ritrovamenti se ne avrebbe un quadro estremamente povero e sommario. La ragione fondamentale sta nella effettiva povertà della zona, marginale in ogni senso (ecologicamente, politicamente), con fenomeni insediativi, politici, culturali di dimensione ridotta, rispetto alle aree vicine, particolarmente nell’età del ferro.

Ci sono poi dei motivi più specifici: innanzi tutto la capitale Gerusalemme, pur oggetto ormai di ripetuti scavi archeologici, ha restituito poco per l’età monarchica e poco potrà restituire, dato l’insistere di costruzioni posteriori sulle posizioni del tempio, del palazzo, della città davidica. In secondo luogo la scarsezza di monumenti figurativi può in parte derivare da correnti religiose sfavorevoli alla rappresentazione iconica – correnti che, pur non essendo così assolute e vincenti come si desumerebbe dall’Antico Testamento, hanno però avuto una loro efficacia. In qualche modo analogo è il caso singolare della mancanza di iscrizioni reali (rinvenute invece in tanti scavi dell’epoca in regioni più settentrionali), connessa a scelte culturali relative al tipo della regalità e del rapporto tra re e popolo.

C’è infine una certa sudditanza culturale rispetto a centri più fiorenti, soprattutto rispetto a Tiro (e alla Fenicia in genere): è quanto almeno fanno intendere da un lato la descrizione biblica della costruzione del tempio salomonico, che sarebbe stata opera di artigiani di Tiro, dall’altro il ritrovamento degli avori «fenici» di Samaria. La cultura materiale di base è invece meglio nota che non in altre zone, grazie allo sviluppo dell’attività di scavo in Palestina: conosciamo più in dettaglio (anche diacronico) lo sviluppo della ceramica, le piante delle case e le tecniche costruttive, le fortezze e le fortificazioni urbane, l’assetto complessivo delle cittadine palestinesi dell’età del ferro.

Quanto la Palestina è stata archeologicamente avara di testi scritti e di monumenti ufficiali, altrettanto notevole (ancora in opposizione al resto del Vicino Oriente antico) è per converso la presenza di quel corpus letterario tramandato, che è l’Antico Testamento: del quale è evidente il valore per la ricostruzione non solo della storia religiosa ma anche della storia politica e istituzionale d’Israele, ed infine e soprattutto della sua storia letteraria. Trattandosi di una raccolta di testi molto disparati e «stratificati», con interventi testuali plurimi, e con una notevole distanza tra episodi narrati ed epoca del narratore, due strategie sono concepibili. La prima strategia è quella di cedere alla facile tentazione di utilizzare i dati storici (storico-politici, storico-istituzionali, storico-culturali) contenuti nei libri dell’Antico Testamento per ricostruire le epoche cui si riferiscono. Usare dunque il libro della Genesi per ricostruire l’epoca «patriarcale», il libro di Giosuè per ricostruire l’epoca della conquista, il libro dei Giudici per ricostruire l’epoca omonima, e così via. La seconda strategia è quella di usare i vari testi per ricostruire l’epoca in cui furono scritti e i problemi che indussero a scriverli. Questa seconda strategia è di più difficile applicazione, perché richiede di riassegnare i singoli testi, e anzi i singoli interventi testuali, a precise epoche e precise problematiche, lavorando per linee interne; ma è l’unico procedimento corretto, mentre la prima strategia, troppo spesso applicata, presuppone una attendibilità che sarebbe tutta da dimostrare e che è per lo più poco plausibile.

Ricollocando alle epoche di redazione i singoli interventi testuali che assommati insieme costituiscono l’Antico Testamento, ci si accorge che la maggior parte di essi si colloca in epoca post-esilica (dunque in età achemenide ed ellenistica) e in misura minore proprio ai limiti estremi di essa, in età esilica. Certamente il complesso dell’Antico Testamento è da valutarsi e da apprezzarsi più nella prospettiva del secondo tempio che non del primo, più nel quadro del ritorno dall’esilio che non della formazione e dello sviluppo del regno d’Israele, e costituisce un caso colossale di ripensamento della storia passata, e di sua riscrittura, in funzione del presente (un presente assai posteriore alla storia narrata). Una sua considerazione qui è però giustificata per vari motivi. Il primo motivo è che gli scritti di età esilica e di età immediatamente pre-esilica (l’epoca dei re riformatori, che corrisponde allo strato «deuteronomico» nella ricostruzione critico-testuale), scritti particolarmente di carattere profetico e storiografico, costituiscono una documentazione preziosa sulle fasi finali della storia d’Israele all’interno della periodizzazione storica qui adottata. Inoltre tutto l’Antico Testamento contiene (stratificati e reimpiegati) materiali antichi che è possibile entro certi limiti ricostituire e «datare» (riassegnandoli ad ambienti ed epoche più antichi). Infine e comunque la sistemazione storiografica post-esilica costituisce l’esito di tutto lo sviluppo politico e culturale precedente, ed aiuta a comprenderlo nelle sue linee portanti – purché si sappia evitare ogni anticipazione teleologica ed ogni appiattimento della complessa vicenda su quello che ne è il risultato finale.

Per il periodo delle «origini», come si è già visto, lo scarto tra racconto biblico e realtà storica è pressoché totale, per l’impossibilità di avere fonti attendibili da quel periodo, per la maggiore distanza di tempo, per la pesante interferenza degli scopi «fondanti». Su questo periodo, la nostra documentazione archeologica e contestuale è tutto sommato più attendibile di ciò di cui potevano disporre gli autori del VI secolo: antiche storie di tenore leggendario, genealogie tramandate a memoria, etiologie.

Per l’età monarchica la situazione è diversa. Certamente vi sono delle deformazioni attribuibili all’epoca di redazione: ad esempio il regno davidico-salomonico è idealizzato e sopravvalutato, in quanto assunto a modello ottimale e archetipico; oppure la sequenza dei re successivi è tutta scandita su un giudizio di valore, con re «buoni» e «cattivi», a seconda che fossero stati o meno ferventi yahwisti; e così via. Ma per quanto riguarda le notizie fattuali trasmesse, quando accade di trovare dei riscontri esterni questi confermano sostanzialmente il racconto biblico: la stele di Mesha o gli annali assiri assumono ovviamente un’altra prospettiva, ed i due punti di vista interpretativi non coincidono, ma gli avvenimenti grosso modo corrispondono (con qualche problema cronologico ben comprensibile). Dunque i redattori – poniamo di età esilica – dovevano avere a loro disposizione delle fonti scritte cui attingere, delle «cronache» o «annali» di ambiente scribale palatino, forse anche qualche iscrizione regia, frutto di una storiografia ufficiale di età monarchica. La veste formale e la maturità storiografica risalgono però ad età tarda, senza che si possa accettare e sostanziare la pur diffusa pretesa che la storiografia israelitica prodigiosamente anticipi nel tempo quella greca e si lasci indietro (e di molto) quella vicino-orientale coeva. Le grosse sistemazioni sono (adottando le soluzioni più moderate) quella pre-esilica (VI secolo) detta «deuteronomistica» e quella post-esiJica (IV secolo) detta «sacerdotale», mentre i materiali più antichi sono da intendere piuttosto come tradizioni che non come precise fonti scritte.

Un secondo blocco documentario che, una volta chiarite le eventuali riletture e concrezioni posteriori, presenta grande interesse per la vicinanza agli avvenimenti narrati, risiede negli scritti profetici. Il genere letterario della «profezia» altro non è che il «codice» (fortemente teologizzato) di messaggi pertinenti nella stragrande maggioranza alla sfera politica (assai più che etica o religiosa): sia la politica interna dei regni di Giuda e Israele, sia e soprattutto il loro coinvolgimento nella politica internazionale (rapporti con gli altri regni siro-palestinesi, incombere dell’aggressione imperiale). Ne emerge soprattutto ciò che non può emergere dalla cronachistica ufficiale, e cioè la presenza di opinioni discordanti, di strategie politiche alternative, di contrasti interni. Ne emerge certamente quella teologia della storia di cui abbiamo già detto: ma attraverso di essa emergono anche i contrasti tra le nazioni siro-palestinesi. La possibilità di intravedere (tanto per fare un paio di esempi) gli argomenti del partito «fiilo-egiziano» e di quello «filo-babilonese», o di avere l’eco che la distruzione assira di un regno suscitò tra i regni vicini, sono possibilità rare, non perché altrove non si verificassero analoghe condizioni e analoghi dibattiti, ma perché quelli di ambito israelitico sono gli unici pervenutici, e danno un’idea di quella che doveva essere la temperie politica in tutta l’area vicino-orientale dell’età del ferro.

Fu la vicenda dell’aggressione imperiale, della deportazione e dell’esilio, e poi del ritorno e della rifondazione nazionale a fungere da stimolo per gran parte della letteratura ebraica antica. Le tre tappe principali furono: dapprima il grosso dibattito sulle strategie politiche locali, sulla sorte degli Stati vicini, sulla funzione stessa degli imperi; poi (nell’esilio) la ricezione di apporti babilonesi (e forse anche iranici) nel campo della storiografia, della sapienza, nella novellistica, nella produzione cultuale; infine la grande opera di riscrittura del passato in funzione del progetto politico incentrato sul secondo tempio. Prima di queste tre fasi importanti ma congiunturali, quel che ci resta della letteratura ebraica antica non si discosta di molto da quel che possiamo intravedere delle coeve letterature vicino-orientali in genere e siro-palestinesi in specie. L’originalità letteraria d’Israele (come quella religiosa) è tutto sommato il risultato della sua vicenda finale, di disgregazione politica e di nascita del Giudaismo – e la trasmissione di un patrimonio più antico è fenomeno da ridimensionare come prevalentemente illusorio.

(3) Il libro di Zaccaria si compone di due parti: .i primi otto capitoli contengono una serie di visioni concernenti il ritorno del popolo di Dio in Gerusalemme ed accompagnano la ricostruzione dopo l’esilio; i capitoli dal 9 al 14 contengono delle visioni relative alla venuta del Messia, gli ultimi giorni, la riunificazione di Israele, l’ultima grande guerra. Questi capitoli vengono considerati un’aggiunta databile al IV secolo a.C.

(4) Il nome Mosè era comune in Egitto. Il nome significa letteralmente fanciullo. Quando il fanciullo era di origini elevate il nome Mosè era associato a quello di un dio: Toth-Mose (Tuthmosis), Ra-Mose (Ramesse),  … cioè fanciullo di Toth, fanciullo di Ra. In questo caso la parola fanciullo diventa figlio. Il significato di salvato dalle acque fu inventato per legittimare la grandezza di un Capo, come lo fu Sargon, il più grande condottiero noto da miti accadici risalenti a circa il 2500 a.C.

(5) Arriviamo qui al falso problema della conciliabilità o meno della scienza con la fede. E’ inutile girare intorno a questa questione che riempie giornali e libri da anni. La cosa è banale: la scienza è una cosa e la fede è un’altra. Non è possibile avvicinarsi alla conoscenza avendo dei dogmi intoccabili. Qualunque ricerca che si muovesse con questi presupposti, se portasse a qualcosa, sarebbe un qualcosa di estremamente parziale e limitato. La mente dell’uomo deve poter muoversi con assoluta libertà. Altra cosa è la valutazione morale dei risultati della ricerca ma per fare tale valutazione non serve una fede che non ha alcun primato sulla medesima ragione dello scienziato. Soprattutto dopo aver letto la Bibbia risulta facile immaginare e vivere un’etica senza Dio. Inoltre, e non è cosa da poco, avere a che fare con chi parla di etica senza che conosca l’ABC dell’argomento del contendere è demoralizzante. Perché si capisca quanto dico elenco un rosario di sciocchezze che si possono leggere sul web:

Sebbene parte la Bibbia sia stata scritta in un’epoca in cui prevalevano idee fantasiose e stravaganti sul mondo, essa mostra di essere unica nelle sue esposizioni sulla creazione, sulla natura, su di Dio, etc.. La Bibbia a confronto di altri scritti dello stesso periodo risulta la più seria e la più credibile. … Nella Bibbia le affermazioni che riguardano le questioni scientifiche sono certamente di un livello di gran lunga superiore a quelle delle altre opere letterarie dell’epoca. Essa infatti non contiene concetti fantasiosi sul mondo o sugli elementi, mentre persino i dotti filosofi greci avevano nozioni assurde circa la luce, la creazione e l’astronomia, per non parlare poi del loro mondo religioso…. Fu anche Tolomeo ad asserire che la terra fosse piatta, mentre la Bibbia non contiene simili assurde dichiarazioni … E’ da notare anche che l’origine stessa della scienza moderna si fonda sulla verità della Scrittura. Il fatto che vi sia un Dio che ha creato e progettato un universo ben ordinato, ha spinto uomini come Newton a ricercare e poi scoprire alcune leggi scientifiche per spiegare quest’ordine. Perciò la scienza, anziché intaccare le fondamenta dell’autorità biblica, vi scopre le sue origini, anche se, essendo le Sacre Scritture immutabili, non possono, sempre ed in ogni cosa, concordare con la scienza, le cui cognizioni e presupposti vengono modificati di giorno in giorno. [Tratto da Incontrare Gesù]

È stato detto che la Bibbia non è un libro di scienza. Questo è vero. La Bibbia è la storia della redenzione. Ciò nonostante, siccome Dio è il suo autore, quando la Bibbia tocca punti di scienza o eventi della storia deve essere esattamente e incondizionatamente corretta. Anche qui le Scritture chiaramente dimostrano la loro divina paternità!
La geologia ci dice che la terra è di grande antichità. Con questo fatto la prima affermazione è completamente d’accordo. La creazione del mondo era “nel principio”. Il racconto di Genesi, però, aggiunge alle scoperte della geologia, dicendo che è stato il nostro grande Dio che ha creato tutte le cose.
Anche gli scienziati hanno confermato la logica dell’ordine degli eventi elencati nei sei giorni di Genesi 1. Solo evidenza che conferma questo racconto è stato trovato, così sostenendo il racconto biblico dell’emergenza della luce, la divisione del cielo, la separazione dei mari, eccetera. Naturalmente dobbiamo ammettere che questo racconto in Genesi è venuto dalla penna umana di Mosè. Ma come ha potuto capire quegli eventi non visti eppure stupendi nel loro ordine giusto? L’unica risposta che potrà mai soddisfare è che Dio diresse la penna di Mosè.
Benché l’evoluzione e la rivelazione hanno combattuto su questo punto per molti anni, è ormai concesso da molti che l’affermazione di Genesi che le specie sono fisse è giusta. Mosè scrisse che tutta la creazione doveva riprodursi “secondo la loro specie”. Oggi sappiamo sicuramente che piante e animali non riprodurranno tranne nel proprio gruppo. Non c’è neanche la ‘trasmissione di caratteristiche acquistati’. Nella luce delle scoperte scientifiche più recenti, il racconto delle Scritture riguardo alla creazione è meticolosamente corretto. Neanche una frase, e la Bibbia contiene delle frasi tremende, è dovuta essere riveduta, neanche con la più profonda ricerca scientifica moderna. Come ha potuto Mosè sapere queste cose?
È interessante notare che i precisi 16 elementi che compongono il corpo umano sono trovati nella polvere della terra. Infatti Mosè afferma che Dio prese della polvere della terra e ne creò il corpo dell’uomo.
In più, benché la Bibbia fosse scritto in un’era non scientifica, quando le persone credevano in teorie che adesso sappiamo di non essere vere, neanche una volta troviamo le Scritture con un errore scientifico. Quando il profeta Isaia scrisse, la gente credeva che la terra fosse piatta. Eppure questo profeta, scrivendo sotto ispirazione, contraddice la credenza generale e dichiara la sfericità della terra (Isaia 40:22).
Il patriarca Giobbe, forse uno dei primi scrittori nella Bibbia, fa delle affermazioni incredibili alla luce della conoscenza moderna. Parla delle “sorgenti del mare” (Giobbe 38:16), un fatto scoperto di recente. Parla della qualità vocale della luce (Giobbe 38:7), un mistero capito solo recentemente. Altri fatti scientifici come il valore di una caduta di neve (Giobbe 38:22) e il ruolo del fulmine nella pioggia (Giobbe 38:22) sono insegnati. Eppure solo con gli strumenti moderni abbiamo confermato la verità di questi fatti. Come poteva Giobbe saperli, tranne mediante la rivelazione da Dio?
Non è da moltissimo tempo che gli scienziati medicali hanno saputo del valore della circolazione del sangue. Ma Mosè scrisse che “la vita della carne è nel sangue” (Levitico 17:11). Insieme con questo è l’affermazione dell’apostolo Paolo che lo stesso sangue è trovato in tutte le razze della terra (Atti 17:26) e che il colore della pelle non cambia la composizione chimica del sangue. Anche questo è stato stabilito solo recentemente. È anche sorprendente la conoscenza da parte di Mosè dei principi dell’igiene (Levitico 13) e della dietetica (Levitico 11).
Le Scritture ripetutamente parlano di punti della storia. Siccome sono state scritte in un periodo di 1600 anni, si riferiscono costantemente a persone, posti ed eventi. Anche in questo, la loro esattezza è una prova di paternità divina e di rivelazione divina.
Tantissimo materiale archeologico è disponibile allo studente oggi. Una valutazione di questa evidenza dimostra chiaramente che le prime civilizzazioni possedevano molta intelligenza e cultura. La Bibbia è naturalmente d’accordo, insegnando che Dio creò Adamo pieno di saggezza e capacità (Genesi 1:27,31). Questo si oppone alla teoria che l’uomo è emerse lentamente dal mondo degli animali e che acquistò solo in modo graduale capacità e intelligenza.
Di ulteriore interesse è la quantità sempre crescente di informazioni che riguardano il diluvio al tempo di Noè. Tante scoperte da parte di archeologi in diverse parti del mondo antico indicano chiaramente una catastrofe marina che distrusse la vita, ammucchiò le ossa di persone e di animali in terribile confusione, e lasciò un tratto speso di limo. Che cosa poteva essere, se non il diluvio insegnato in Genesi?
Un gruppo di archeologi andò all’antica città di Ur dei Caldei. Anche questo autenticò il racconto della Bibbia. Ovviamente la città si era data all’idolatria, ma possedeva molta cultura. Fu una sorpresa trovare un’iscrizione con il nome Abramo (non identificato però con l’Abramo della Bibbia).
In Egitto troviamo evidenza per il soggiorno dei Giudei. In almeno una rovina ci sono mattoni con paglia, mattoni con stoppia e poi mattoni senza paglia. Anche Gerico è stata scoperta rivelando che le mura di quella città caddero verso l’esterno (Giosuè 6:20). Inoltre, la città fu incendiata (Giosuè 6:24) e campioni di materiale bruciato furono trovati. Anche interessante era il fatto che una sezione del muro non cadde (Giosuè 2:15, 6:22).
Non c’è tempo per menzionare tutti gli esempi; l’evidenza si accumula. Non solo per quanto riguardo gli eventi e le persone dell’Antico Testamento, ma ci sono anche tante conferme del Nuovo Testamento. Dall’altra parte, neanche una volta è stato trovato un chiaro errore nella Bibbia. Malintesi e ignoranza hanno trovato dei problemi, ma il risultato è sempre stato una chiara vittoria per le Scritture. [Tratto da La parola]

Qualcuno mi spieghi da dove si inizia a discutere con questi personaggi. Nella vita ordinaria si farebbe loro una carezza sulla testa dicendo loro bonariamente, si, si hai ragione. Ma questi affermano ed insegnano queste cose che sono pura barbarie che ci riporta nelle caverne. Hanno il potere per farlo e le loro bestialità valgono molto più di una conferenza fatta da uno scienziato.

        Concludo con chi si arrovella per spiegare il giorno più lungo di Giosuè:

Il professor C.A.L. Totten definito come eminente scienziato dell´università di Jale, scoprì un giorno mancante nel tempo solare e confermò con processi astronomici particolari gli eventi riportati nel racconto biblico.
Egli scrisse un libro nel 1890 “Il lungo giorno di Giosuè“.
Pare che nella tradizione storica di popoli antichi (babilonesi ecc.) si possa trovare una documentazione di un “giorno lungo” di “un giorno di lunghezza naturale doppia“.
In una recensione al libro del Prof. Totten è detto che egli conteggiò l´anno, il mese, il giorno e anche l´ora esatta dell´inizio del lungo giorno di Giosuè che doveva essere completato, per essere un giorno intero, dai quaranta minuti, di cui si allungò la giornata in cui Ezechia ottenne di essere miracolosamente guarito. Fra il lungo giorno di Giosuè e i due terzi di ora, di Ezechia, sarebbero passati 738 anni.
Il prof. Totten, nel libro citato, trascrive i suoi calcoli matematici definiti semplicemente “fantastici” e basati sul conteggio delle lunazioni e delle eclissi di luna. Secondo quei calcoli tra il lungo giorno di Giosuè e la compilazione del suo volume (nel 1890) passarono 3333 anni.
Il lungo giorno di Giosuè più i 40 minuti di Ezechia, esprimerebbero un rallentamento della terra di una rotazione e mentre il Prof. Totten ipotizza l´intervento di una cometa che avrebbe rallentato il giorno neutralizzando i raggi attinici, altri esaminano la possibilità che una gigantesca meteora o asteroide sia piombata sulla crosta della Terra rallentandola di circa una rotazione (nel giorno di Giosuè) mentre il fuso interno continuò a ruotare e infine riportò la superficie alla normale velocità di rotazione. Il dottor Totten ricorda che Newton ha dimostrato che la Terra può improvvisamente rallentare la sua rotazione senza apprezzabile danno alle popolazioni.
È scritto, sempre nelle recensioni al libro del Prof. Totten che, “esaminate diverse carte dell´Oceano Pacifico che appoggiano questa teoria, la carta dell´ottobre 1969 del “National Geographic Magazine” mostra una vasta zona di sprofondamento tra le Hawaj e le Filippine con lunghe linee di frattura nel fondo dell´Oceano che si irradiano verso i continenti.
L´effetto di rallentamento della Terra prodotto da un simile urto sarebbe massimo all´Equatore e risulterebbe in colossali onde di marea che potrebbero aiutare gli studi del dottor Northup sui depositi di sabbia della California...”
Conoscendo lo spessore della crosta terrestre, le dimensioni dell´asteroide necessario a rallentare la terra di un giro potrebbero essere come quelle del pianeta Cerere: 480 miglia di diametro. [eccetera …]

Consiglio a tutti la lettura di una raccolta molto ben fatta delle Inesattezze scientifiche della Bibbia. Si tratta di un lavoro molto benfatto addirittura con molto garbo.


BIBLIOGRAFIA

(1) Giovanni Filoramo (a cura di) – Storia delle religioni – Laterza 2005

(2) Ambrogio Donini – Breve storia delle religioni – Newton Compton 1991

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(7) Werner Keller – La Bibbia aveva ragione – Garzanti 1956

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(16) Mario Liverani – Antico Oriente – Laterza 1988

(17) AA.VV. (P. Matthiae, M.A. Levi, E. Bresciani, A. Pellizzari, S. Giorcelli) – La storia: Dalla preistoria all’antico Egitto – Biblioteca di Repubblica 2008

(18) Giovanni V. Schiaparelli – L’astronomia nell’Antico Testamento – U. Hoepli 1903

(19) David Donnini – Come nacque la Bibbia

(20) Enrico Galavotti – Le bugie della Bibbia

(21) Enrico Galavotti – Da Abramo ad Isacco

(22) Enrico Peyretti – In questa Bibbia crudele io non credo più 

(23) H. C. Puech (a cura di) – L’ebraismo – Laterza 1988

(24) Giovanni Schiapparelli – L’astronomia nell’Antico Testamento – Hoepli 1903-1905 [è possibile leggere questo libro, attraverso una traduzione dall’edizione tedesca fatta dal meritorio Progetto Manuzio, al seguente indirizzo: http://www.liberliber.it/biblioteca/s/schiaparelli/scritti_sulla_storia_1/pdf/schiaparelli_scritti_1 a partire dalla pagina 149].

(25) AA.VV. – Storia generale delle scienze – Casini 1965. In quest’opera vi è il saggio di P. Dupont-Sommer, La scienza ebraica antica.




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