Bombe atomiche USA sparse per l’Europa

http://www.peacelink.it/tematiche/disarmo/rischio_nucleare/nukes/italia.shtml

Le atomiche U.S.A. in Europa
RamsteinGermania55
BuechelGermania11
LakenheathRegno Unito33
IncirlikTurchia25
AvianoItalia18
Ghedi TorreItalia11
VolkelOlanda11
Kleine BrogelBelgio11
AraxosGrecia6
tot.181

I dati relativi alla presenza di bombe atomiche ad Aviano e a Ghedi Torre fanno riferimento al 1998 e sono citati da parecchie fonti; a seconda delle fonti i dati oscillano leggermente ma restano costanti i nomi delle postazioni.
Dal 1987 le basi devono soddisfare certi requisiti per ospitare le armi nucleari, il cosiddetto WS3 (Weapons Storage and Security Systems).
Nel 1998 le uniche basi italiane con sistemi WS3 erano Aviano e Ghedi Torre. Aviano ospitava bombe atomiche dagli anni ’50, Ghedi dal 1963.

Negli anni precedenti, nel culmine della guerra fredda, l’Europa era piena di bombe (circa 7000) e 19 basi italiane ospitavano bombe atomiche. Non e’ noto quali fossero queste 19 basi, si dice solo che l’Italia era l’unico paese ad ospitare testate nucleari in tutti i tre tipi di base (esercito, aviazione e marina). E’ comunque certa la presenza di testate nucleari in quel periodo nelle basi di Aviano, Ghedi Torre, Rimini, Longare, Comiso, Gioia del Colle, La Maddalena.
(Fonte: http://www.brook.edu/FP/PROJECTS/NUCWCOST/BASESIZE.HTM)

Il numero di testate nucleari dislocate in Europa rimase alto fino agli anni ’80 (5845 nel 1983), poi sono progressivamente calate.
Ecco come e’ variata la presenza di testate nucleari in Italia:
1975: 439
1985: 49
1992: 150
1998: 30

Tutte queste informazioni sono reperibili sul rapporto
“Taking Stock – Worldwide Nuclear Deployments 1998”
di William M. Arkin, Robert S. Norris, Joshua Handler
Pubblicato nel 1998 dal National Resource Defense Council

Potete scaricarlo in formato pdf da questo sito:
http://www.nrdc.org/nuclear/tkstock/tssum.asp


La Rinascita della Sinistra, 7 febbraio 1999

BOMBE ATOMICHE IN ITALIA: OMERTA’ E SILENZI UFFICIALI

di Lucio Manisco

Dati ufficiali della NATO.

DA 26 A 29 LE BOMBE ATOMICHE “B-61” DISLOCATE IN ITALIA.

Stravolta la strategia difensiva della NATO: previsti interventi nucleari contro i “rogue states”, gli stati definiti “fuori legge” dagli USA in Medioriente o in Africa. Il sottosegretario alla difesa Brutti si trincera dietro il segreto militare, ma il vice presidente del consiglio ammette la presenza degli ordigni sul territorio nazionale.

Gli Stati Uniti mantengono sulle basi NATO e su quelle della US Airforce in Europa sistemi di armi nucleari per complessive 170 – 180 ogive e bombe gravitazionali atomiche, in gran parte del tipo “B-61” da 300 kilotoni, di una potenza cioè venti volte superiore a quella dell’ordigno sganciato nel 1945 su Hiroshima. Il numero delle “B-61” dislocate in Italia oscilla da 26 a 29 per motivi esclusivamente tecnici (servicing ogni 18 mesi del materiale fissile “tritium”, altre verifiche e trasferimenti temporanei su altri teatri operativi); questo arsenale nucleare non include le armi atomiche della VI Flotta le cui unità utilizzano gli impianti logistici permanenti di tre basi navali italiane e quelle dei quattro o cinque sommergibili nucleari da attacco basati alla Maddalena.

Secondo un comunicato della United States Air Force del 12 febbraio 1998 diciotto nuovi impianti sotterranei per lo stoccaggio, la sicurezza e il servicing di altrettante bombe “B-61” sono stati completati il 22 gennaio del 1996 sulla base statunitense di Aviano: fanno parte dell’armamento del 31mo Stormo di caccia-bombardieri dual use “F-16” al comando del quartier generale del 31mo Gruppo Logistico degli Stati Uniti. Secondo lo stesso comunicato altri undici impianti sotterranei per altrettante “B-61” sono diventati operativi sulla base NATO di Ghedi – Torre utilizzata dal Sesto Stormo di Tornado italiani ma sotto l’effettivo controllo del 31mo MUNSS degli Stati Uniti.

I depositi esposti a ritorsioni convenzionali

Dai costi relativamente bassi di queste strutture-bunker si deduce che esse siano destinate, in caso di incidenti, a contenere la dispersione dei materiali fissili (uranio, plutonio, tritium) delle bombe, ma non a prevenire una catastrofica contaminazione radioattiva su centinaia e centinaia di chilometri quadrati qualora le strutture stesse vengano colpite da missili tattici a testate convenzionali, quali ad esempio quelli di cui dispone la Federazione Jugoslava.

I dati fin qui riferiti sono in gran parte di dominio pubblico negli USA in quanto vengono evidenziati dagli atti del Congresso, più specificamente da quelli del sottocomitato della Camera dei Rappresentanti per gli stanziamenti della difesa; vengono periodicamente ottenuti da diversi centri di studi strategici in base al “Freedom of Information Act“; più semplicemente vengono enunciati dai rapporti divulgati dalla NATO: basterà qui citare il comunicato finale della conferenza ministeriale del Consiglio Nordatlantico indetta a Berlino il 2 e 3 giugno 1996 ed il documento allegato sulla strategia militare dell’alleanza che reca la sigla MC 400-1. Dati sostanzialmente analoghi vengono publicati in Italia dal Centro di Cultura Scientifica “Alessandro Volta, Landau Network”, diretto dal Prof. Maurizio Martellini dell’Università di Como: l’ultimo eccellente studio dal titolo “Sulla Politica Nucleare della NATO” reca la data del 20 gennaio c.a. .

Ha destato pertanto viva sorpresa la dichiarazione resa il 1 del c.m. nel programma televisivo RAI “Porte Chiuse” di A. Purgatori dal sottosegretario alla difesa Brutti secondo cui la presenza di bombe atomiche americane sul territorio nazionale non poteva essere da lui nè confermata nè smentita “in quanto coperta da segreto militare“.

È stata questa sconcertante affermazione – contraddetta nello stesso programma TV dallo studioso americano William Arkin, da Zbigniew Brzezinski, ex consigliere per la sicurezza nazionale nell’Amministrazione Carter, e dallo scrittore Gore Vidal – a indurre gli On. Armando Cossutta e Tullio Grimaldi del PdCI a presentare il 3 del c.m. una interpellanza parlamentare in cui si chiede al Presidente del Consiglio ed ai Ministri della Difesa e degli Esteri di chiarire, alla vigilia del 2000 e dieci anni dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, quale sia la posizione del nostro governo su un tema di tale gravità, apparentemente sottaciuto e comunque sottratto all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale.

Replicando l’11 c.m. ad un’altra interpellanza del deputato leghista Edouard Ballaman, il vice presidente del consiglio Sergio Mattarella, non curandosi delle asserzioni del sottosegretario alla difesa, ha ammesso a tutti gli effetti la presenza di armamenti nucleari americani sul territorio nazionale sostenendo tra l’altro che essi avevano registrato una riduzione dell’80 per cento in Europa ed in Italia. Alludeva ovviamente allo smantellamento degli euromissili “Pershing-2” e “Cruise” e non certo alle B-61 dislocate nell’ultimo decennio nelle seguenti basi NATO o USA: Araxos (6), Grecia; Buchel (11), Ramstein (54), Germania;Volkel (11), Olanda; Klein Brogel (11), Belgio; Incirlik (25), Turchia; Lakenheath (33), Gran Bretagna. Le altre 20 o 25 bombe nucleari sono probabilmente dislocate su altre basi quali ad esempio: Balikesir e Murted in Turchia; Memmingen e Noervenich in Germania.

Le nuove direttive di Clinton

Esistono peraltro altri recenti sviluppi che hanno riproposto in termini di incalzante attualità lo stesso tema:

1) la decisione in data 22 gennaio c.a. del Presidente Clinton di identificare nel terrorismo internazionale, negli Stati o nei gruppi che lo appoggiano, i nuovi avversari che vanno pertanto combattuti con ogni mezzo convenzionale o nucleare, nazionale e della NATO, ad un costo aggiuntivo di 2 miliardi e 800 milioni di dollari per il contribuente americano (ma già nel giugno 1996 il Pentagono aveva contemplato la possibilità di un attacco nucleare contro un presunto impianto sotterraneo di armi chimiche a Tarhunah in Libia);

2) l’aspra reazione negativa USA alla proposta del governo socialdemocratico tedesco – proposta prontamente ritirata – di rimettere in discussione il first use, l’impiego preventivo ed unilaterale di armi nucleari da parte della NATO;

3) l’opposizione, principalmente francese all’interno dell’alleanza atlantica, all’unilateralismo egemonico della “iperpotenza USA”, criticato persino da Papa Wojtyla.

Questi ed altri sviluppi critici, deliberatamente ignorati dai mass media nazionali, sono maturati in seguito ad una serie di imposizioni e diktat USA che hanno stravolto la strategia difensiva articolata sul deterrente nucleare della NATO, un’alleanza investita dopo il crollo dell’Unione Sovietica di compiti militari non più statutari e su sempre più estesi teatri operativi euro-asiatici ed africani. Il rafforzamento del dispositivo nucleare americano in Italia, con l’aumento da 13.000 a 16.000 degli effettivi USA sul territorio nazionale, in contrasto con la riduzione degli stessi effettivi negli altri paesi europei, è stato posto in atto in base ad accordi bilaterali tra i governi di Roma e quello di Washington, accordi di cui diede per primo notizia lo stesso Presidente Clinton in un intervista concessa alla rivista “Limes” nell’ottobre del 1996: ” Negli ultimi sei mesi – rivelò in quell’occasione il Capo dell’Esecutivo USA – in stretta collaborazione con il governo italiano abbiamo preso alcune importanti decisioni riguardanti cospicui investimenti nel potenziamento delle istallazioni che le forze statunitensi possono utilizzare in Italia. Questo rappresenta un chiaro impegno alla nostra presenza in Italia vista come componente essenziale della nostra futura presenza in Europa.” Non risulta che tali accordi siano stati sottoposti all’esame delle Commissioni Difesa della Camera e del Senato come prevede l’Art. 80 della Costituzione che così recita: “Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica o coimportano variazioni del territorio o oneri alle finanze o modificazioni delle leggi.” Il caso della base di Sigonella potenziata ed estesa sul territorio limitrofo con un cospicuo contributo finanziario italiano, basterebbe da solo a indicare l’inadempienza di questo mandato costituzionale, senza menzionare quella macroscopica dell’Art. 11.

La prolungata ed in alcuni casi rafforzata presenza di armi atomiche americane in Italia viene così motivata nel documento ufficiale “National Security Strategy” del 1997: “Le forze nucleari strategiche costituiscono un’assicurazione vitale per un futuro incerto, una garanzia dei nostri impegni per la sicurezza degli alleati ed un deterrente per coloro che contemplino l’acquisizione o lo sviluppo di loro arsenali atomici… Una componente aggiuntiva di armi nucleari non strategiche e di forze convenzionali dislocate in posizioni avanzate aggiunge credibilità ai nostri impegni.”

La “Direttiva 60” promulgata dal Presidente Clinton enuncia chiaramente l’opzione del primo impiego di armi nucleari tattiche in missioni volte a prevenire la proliferazione di armi atomiche o di altre armi di distruzione di massa – chimiche e batteriologiche – posta in atto da “paesi terzi”, in particolar modo da “rogue states“, da quegli stati che secondo le decisioni variabili e unilaterali di Washington vengono stigmatizzati come “stati fuori legge” (Iraq, Libia, Sudan, Cuba, Siria e Iran hanno fatto parte o fanno tuttora parte della lista dei reprobi). Ma c’è di più: le armi nucleari sub-strategiche dislocate in Italia e in Europa possono essere impiegate “contro soggetti o gruppi non presenti al livello istituzionale di Stato, contro i loro centri operativi che dispongano di mezzi non atomici di distruzione di massa“.

Fantomatica “co-decisione” italiana

L’integrazione della “Direttiva 60” e dei nuovi criteri di impiego di armi atomiche nella preesistente strategia dell’alleanza verrà approvata dalla conferenza dei Capi di Governo della NATO indetta per l’aprile del corrente anno. Tale integrazione (già in atto),secondo i nuovi vincoli imposti da Washington, non verrà sottoposta all’approvazione dei parlamenti dei paesi alleati.

L’estensione dell’uso di armi nucleari su altri bersagli non previsti dagli statuti NATO ha riproposto allarmanti quesiti sulla cosidetta “co-decisione”: Un esempio dei più calzanti è quello dei Tornado italiani dislocati a Ghedi-Torre e i cui piloti vengono addestrati a l’impiego delle undici bombe atomiche “B-61” custodite nei “weapons storage and security systems” (WS3) della base. Il governo italiano potrebbe decidere di non coinvolgere questi aerei in interventi nucleari USA contro la Libia o contro altri paesi mediorientali o africani? Sembrerebbe di no: secondo le decisioni prese a Glenneagles dal Nuclear Planning Group della NATO “una particolare considerazione verrà estesa bilateralmente dagli Stati Uniti ai governi eventualmente coinvolti nell’impiego di armi atomiche“; ma secondo alcuni esperti della NATO rimarrebbe in vigore la direttiva enunciata nel 1964 dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale Charles E. Johnson: “Conseguentemente all’impegno NATO su modalità nucleari della difesa comune, gli alleati non nucleari dell’alleanza in caso di guerra assumono a tutti gli effetti il ruolo di potenze nucleari“. Co-decisione dunque fino ad un certo punto: una volta proclamato lo stato di emergenza o di guerra, i dispositivi nazionali, come i Tornado di Ghedi-Torre, sottratti ai poteri decisionali dei rispettivi governi, riceverebbero ordini unicamente dai comandi USA in Europa.


manifesto 22/10

Noi non abbiamo paura della bomba
Documento segreto degli Usa: in Italia ordigni “poco sicuri”

– ANGELO MASTRANDREA –

Sarebbero al massimo 28 le bombe B-61 statunitensi in Italia, divise tra le
basi di Aviano e Ghedi-Torre. La previsione è stata fatta dagli esperti in
base ai “buchi”, dei depositi in cui verrebbero piazzate le bombe. I “buchi”
sarebbero infatti trenta, anche se non si conosce la loro esatta posizione
e, se si considera che almeno due o tre vengono lasciati in “stato di
attesa”, vale a dire vuoti, per permettere di spostarvi le bombe quando
vengono effettuati impianti di manutenzione agli altri “buchi”, ecco che le
atomiche italiane vengono stimate in ventisette-ventotto.

In realtà, non si ha nessuna certezza che i “buchi” siano pieni di bombe. Ma
le probabilità sono molto alte, stando allo studio di Robert Norris
pubblicato ieri sul Bollettino degli scienziati atomici e da quanto si
intuisce in un documento del Dipartimento della difesa americano, di cui “il
manifesto” è riuscito a entrare in possesso. Lo scritto, ottenuto in base al
Freedom act dal Landau network di Como, porta la data del 28 luglio 1998 e
riferisce dei risultati di alcune ispezioni agli ordigni atomici nella base
di Aviano. In particolare di quelle condotte, tra il 16 e il 19 gennaio del
’96, per accertare la sicurezza degli ordigni. E’ evidente che condizione
necessaria per le ispezioni è che ci sia qualcosa da ispezionare, vale a
dire un certo numero di testate atomiche.

Bombe di nuova generazione B-61 a uranio arricchito con eleuterio, da
montare su Tornado e F-16, e a tecnologia così avanzata che il pilota ne può
regolare la potenza in base all’obiettivo da colpire. Si va da pochi
chilotoni, più o meno la potenza della bomba che devastò Hiroshima, a una
capacità di distruzione anche dieci volte maggiore. Due terzi di queste
bombe sono ad Aviano, il restante a Ghedi. Pronte ad essere utilizzate, ma
nemmeno tanto. Il documento in nostro possesso testimonia, infatti, come gli
ispettori non abbiano trovato “soddisfacenti” i livelli di sicurezza degli
ordigni in almeno la metà delle dodici “aree” visionate. Sicurezza che, va
precisato, non concerne un eventuale rischio ambientale o la situazione più
o meno di degrado in cui verserebbe la base, ma soprattutto i controlli
contro i rischi di attentato o di furto e le procedure di dismissione.

Le bombe della Nato
A vincolare i paesi della Nato all’accettazione del nucleare militare non è,
come potrebbe sembrare, chissà quale antico trattato, ma il recente accordo
del 24 aprile del ’99. L’articolo 62 parla, infatti, di “pianificazione
nucleare collettiva”, “stanziamento di forze nucleari in tempo di pace” e
“accordi di consultazione”, tutti termini che hanno caratterizzato il
dibattito sul nucleare in seno alla Nato fin dalla sua creazione. Più avanti
si legge: “l’Alleanza conserverà forze nucleari adeguate in Europa. Queste
forze devono avere le caratteristiche necessarie di flessibilità e capacità
di sopravvivenza appropriate, per essere percepite come un elemento
credibile ed efficace della strategia atlantica di prevenzione dei
conflitti”. Una precisa dichiarazione di volontà politica, per niente
segreta, checché ne dicano oggi, a bubbone scoppiato, i governi che vi hanno
aderito. Recedere dal nucleare significherebbe dunque sconfessare quanto siera voluto pochi mesi fa, in piena guerra del Kosovo. Il lato che rimane
oscuro, invece, riguarda i numerosi e complessi trattati bilaterali sulle
procedure operative (“first strike”, “doppia chiave”, ecc.). Questi accordi
sono, e rimangono, vincolati dal segreto militare.

Mentre non varrebbero, nel caso dell’Italia, le norme del Trattato di non
proliferazione nucleare, adottato dal nostro paese, semplicemente perché
queste bombe non sono italiane, ma della Nato. E allora le vie d’uscita si
riducono a due: tenersi le bombe e restare nella Nato o, viceversa,
rifiutare le bombe e uscire dalla Nato. Tertium non datur, o almeno così
sembra.

Andiamo ora a vedere quali sono queste forze nucleari che rappresentano il
cuore del programma di “difesa nucleare collettiva”. In sette paesi europei
sarebbero dislocate circa 180 bombe per aereo, destinate ai
cacciabombardieri F-16 o ai Tornado (gli stessi utilizzati nella guerra in
Kosovo) e di potenza variabile, come abbiamo spiegato prima. Recentemente è
stato portato a termine, inoltre, un programma per la costruzione di nuovi
depositi di armi nucleari in Europa, detto Ws3. Con strutture che
servirebbero a “ospitare le armi tattiche all’interno dei rifugi antiaerei
protetti per innalzare il livello di sopravvivenza, di sicurezza e di difesa
delle armi”.

Il paese col più alto numero di bombe è la Germania (55 a Ramstein, 11 a
Buechel), seguita dalle 33 testate britanniche di Lakenheath. 25 ordigni
sarebbero anche nella base strategica di Incirlik, da dove partono quasi
quotidianamente aerei Usa e inglesi per colpire l’Iraq. Delle atomiche
“italiane” abbiamo già detto. 11 bombe a testa anche al Belgio (Kleine
Brogel) e all’Olanda (Volkel). Fanalino di coda la Grecia, con sei bombe ad
Araxos (ma la notizia è stata smentita ufficialmente, ieri, dal governo di
Atene).

In queste basi il personale militare americano e del paese ospitante
verrebbe addestrato all’uso delle bombe nucleari durante azioni belliche
simulate. Lo sottolinea il rapporto sulla “Nato e le armi nucleari americane
in Europa”, opera degli esperti Paolo Cotta-Ramusino e Maurizio Martellini.
Mentre il giornalista statunitense William Arkin aveva reso noto, nel numero
di novembre-dicembre ’98 del Bollettino degli scienziati atomici, che la
nuova dottrina dell’aviazione americana del 31 marzo ’98 (“Operazioni
nucleari”) ricorda che gli obiettivi dei bombardamenti nucleari devono
includere “porti, centri industriali e oleodotti”.


CRONACHE

http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2002/05_Maggio/26/nuke.shtml 

Unità speciali chiamate «i centurioni» sorvegliano le testate

A Ghedi, l’ultima base delle atomiche «italiane»

Nel Bresciano sei bombe nucleari Usa destinate ai nostri caccia Il bunker sotterraneo dove la Guerra fredda non è ancora finita

Martedì a Pratica di Mare finirà la Guerra fredda. Ma in Italia ci sono due basi dove l’allarme atomico non è mai cessato. Una è notissima: Aviano, la grande struttura statunitense che sorveglia i Balcani. L’altra invece è nel cuore della Lombardia, a meno di cento

chilometri da Milano: a Ghedi nel Bresciano un bunker sotterraneo protegge le ultime bombe termonucleari americane presenti in un aeroporto italiano. Almeno sei ordigni, con la potenza distruttiva di ottanta Hiroshima. Sono nelle mani di duecento soldati Usa, premiati con indennità speciali e tenuti continuamente in stato di allerta. Un arsenale attivo dagli anni Sessanta, in attesa dell’ordine che tutti speravano non dovesse mai arrivare: in caso di attacco sovietico, le bombe sarebbero state agganciate sotto le ali dei caccia italiani. In un hangar a bordo pista due jet erano sempre pronti al decollo, per incenerire i comandi dell’Armata rossa nei Balcani. Ma la missione è stata superata dalla storia: non ci sono più orde di tank schierate per invadere la frontiera orientale, il Patto di Varsavia si è dissolto e i bersagli di una volta sono diventati i nuovi alleati. Il muro di Berlino è crollato, anche l’Urss è scomparsa senza che nei depositi d’acciaio di Ghedi sia cambiato nulla: l’allarme prosegue, notte e giorno. «Endeavor to persevere», lo sforzo di perseverare: così recita il motto dei custodi dell’atomica bresciana.

SEGRETO INTERNAZIONALE- 
La presenza degli ordigni a Ghedi non è mai stata confermata ufficialmente: la politica di Washington è quella di non fornire mai informazioni sulle dotazioni nucleari dei reparti all’estero. E’ un comportamento che spesso ha provocato scontri con alcuni degli alleati, in particolare con il Giappone dove la memoria di Hiroshima e Nagasaki resta forte. Ma numerose fondazioni americane si sono dedicate a penetrare il muro del silenzio, sfruttando le notizie raccolte dal Congresso e i documenti contabili resi pubblici negli Usa, per tracciare la radiografia degli arsenali. Lo studio più importante è stato completato da due esperti del «Bollettino degli scienziati atomici», l’organizzazione che promuove l’«orologio dell’apocalisse»: le lancette che indicano all’umanità il livello di pericolo dell’olocausto nucleare. Secondo il dossier curato da William Arkin e Robert Norris, il deposito bresciano venne costruito nel ’63 e gestito da un’unità speciale, il «Detachment 1200» dell’aviazione Usa. Il reparto ha cambiato nome tre volte: oggi si chiama «831° squadrone supporto munizionamento», i «centurioni» di Ghedi. Il simbolo mostra infatti un elmo da centurione, una spada e le sagome di due caccia italiani: come a dire, noi siamo la testa e la lama degli alleati.

IL BUNKER – Il primo deposito sotterraneo è stato completamente ricostruito tra il ’94 e il ’96 secondo le nuove tecniche di sicurezza: oggi non c’è solo il pericolo di attacchi dal cielo, ma anche quello di incursioni terroristiche. Per questo ora ogni ordigno dispone di una sua «bara» corazzata mentre prima erano custoditi tutti insieme. Sono state costruiti undici «loculi», alcuni rimasti vuoti: si stima che le bombe presenti siano almeno sei. Nel giugno ’97 sono cominciati gli esami per provare l’efficienza della nuova struttura. Test per verificare la resistenza delle pareti e degli impianti speciali, ispezioni improvvise per controllare la riservatezza di codici e radio, raid notturni di parà per studiare la prontezza dei difensori. Tre anni di esercitazioni, poi è stata concessa la piena operatività del comando. Prima dell’11 settembre non era difficile trovare su Internet disegni e foto di questi bunker, detti in codice Ws3 e costruiti nei Paesi della Nato secondo lo stesso progetto. Ma dopo l’attacco alle Torri Gemelle tutte queste pagine web sono state oscurate. Paradossalmente, la censura non ha colpito il sito del reparto di Ghedi (http://www.aviano.af.mil/Ghedi/index.htm), dove non si fa mai cenno alle testate ma c’è uno scorcio della «cripta»: un’immagine confusa tra altre, con una squadra di tecnici che si addestra a innescare una testata.

LE BOMBE – Gli ordigni di Ghedi sono del tipo B-61, la bomba termonucleare americana costruita in più esemplari. E’ un’arma tattica, non destinata alla rappresaglia sulle metropoli nemiche: doveva servire per spazzare via le divisioni di carri armati sovietici nei Balcani. La potenza delle testate è compresa tra 0,3 chilotoni e 300 chilotoni, a seconda dei modelli: si ritiene probabile che a Ghedi gran parte sia da 200 chilotoni, ossia tredici volte l’ordigno che distrusse Hiroshima. Ogni arma può cancellare tutto nel raggio di un chilometro e uccidere qualunque persona su un’area tripla: in pratica, con una sola bomba si può distruggere Milano. Ma le procedure di sicurezza adottate dal Pentagono dovrebbero escludere il rischio di incidenti catastrofici. Inneschi e testate sono custoditi in locali separati: non è possibile che ci sia un’esplosione per errore. L’attivazione, poi, segue il principio della «doppia chiave»: occorrono due persone per rendere operativi i congegni, eliminando così l’incubo di gesti folli come quelli descritti da Stanley Kubrick nel «Doctor Strangelove».

SOVRANITA’ USA – Le bombe sono nelle mani del personale americano: l’unica autorità è quella del Pentagono. Fino al ’91 esisteva un altro bunker gemello: a Rimini, poco lontano dallo scalo di Miramare affollato di charter e turisti. Poi le atomiche sono state trasferite, perché dopo l’inizio del conflitto in Jugoslavia la postazione è sembrata troppo esposta. Ma sono rimaste in Italia, nella misteriosa «Area D» di Aviano dove l’anno scorso sarebbero state spostate anche le testate ritirate dalla Grecia: oggi nell’«Area D» dovrebbero esserci diciotto bombe termonucleari. Aviano è una struttura che gode di un’ampia extraterritorialità ma anche nell’aeroporto italiano di Ghedi le regole non cambiano: i nostri militari non hanno nessun potere sulle bombe. Dalla mensa al campo di basket, tutte le installazioni degli americani sono autonome e separate, sempre sorvegliate da «centurioni» in tuta mimetica. Un presidio fuori dal tempo, che ricorda la fortezza del «Deserto dei tartari» in perenne attesa di un nemico inesistente. Martedì proprio in Italia la Russia farà il primo passo per entrare nella Nato; l’altroieri Putin e Bush hanno deciso di dimezzare il loro arsenale nucleare: forse questo disarmo potrebbe partire da Ghedi, arsenale di una guerra finita ormai da dieci anni.

Gianluca Di Feo

26 maggio 2002



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