L’INCAPACITÀ DI COMPRENDERE LA RIVOLUZIONE GALILEIANA (PARTI 3 e 4/1)

Roberto Renzetti

PARTE TERZA: DAL FALSO PRECETTO AL DIALOGO

IL FALSO PRECETTO

Tutte le carte dell’accerchiamento concordato erano ormai pronte. Galileo, resosi conto finalmente che doveva fare qualcosa, aveva scritto una lettera per perorare le sue credenze con nuove prove o ritenute tali (Discorso del flusso e reflusso del mare, 8 gennaio 1616). Egli credeva di aver trovato la prova del sistema copernicano nelle maree, sbagliando in grandissima parte. Ma le sue argomentazioni non erano controbattibili con facilità e la cosa non era andata giù ai suoi accusatori. A questo punto si inserisce il citato racconto che l’ambasciatore Guicciardini fa al Granduca di Toscana. La veemenza di Galileo nel sostenere le sue tesi non lo aiuta. Lo stesso ambasciatore  ci fa conoscere alcuni retroscena che coinvolgono il Papa. Orsini cercò di raccomandare Galileo al Papa Paolo V ma questi «mozzò il ragionamento, et gli disse che havrebbe rimesso il negozio ai SS.ri Cardinali del S.to Offizio; et partitesi Orsino, fece S. S.tà chiamare a sé Bellarmino, et discorso sopra questo fatto, fermarno che questa opinione del Galileo fusse erronea et heretica: et hier l’altro, sento fecero una congregazione sopra questo fatto per dichiararla tale».

Tale giudizio era perentorio e proveniva dallo stesso Papa. Quindi, da questo momento, tutto ha uno svolgimento predeterminato.

Si comincia il 19 febbraio 1616 con la trasmissione, dal Tribunale dell’Inquisizione(25) ai teologi, delle proposizioni da condannare:

Che il sole sii centro del mondo te per conseguenza immobile di moto locale. Che la terra non è centro del mondo né immobile, ma si muove secondo sé tutta, etiam di moto diurno“.

Solo 5 giorni dopo si ebbe il giudizio dei teologi (detti Qualificatori) che dichiararono essere la prima proposizione stultam et absurdam et formaliter haereticam, perché era contraria alla Sacra Scrittura sia letteralmente sia nella su interpretazione da parte di tutti i teologi ed i Dottori della Chiesa. Riguardo alla seconda proposizione il giudizio fu più blando. Essa fu ritenuta censurabile in filosofia ed erronea rispetto alla fede.

Questo giudizio dei teologi fu portato al Sant’Uffizio e ratificato dal Papa che ordinò a Bellarmino di convocare Galileo e di fargli abbandonare quella eretica teoria. Nel verbale si legge la conclusione del discorso del papa: “Se dovesse ricusare obbedienza il Padre commissario avanti a notaio e testi gli faccia ‘precetto‘ di astenersi assolutamente dall’insegnare o difendere tale dottrina, o trattare di essa. E se non acconsentisse, sia carcerato“.

La macchina repressiva era stata messa in moto ed il 3 marzo fu emanato il Decreto di interdizione della dottrina copernicana e di messa all’indice e sequestro delle opere di Copernico o copernicane(26) (i cardinali Maffeo Barberini e Caetani resistettero al bigotto Papa e riuscirono a non far dichiarare eretica l’opera di Copernico). Il De Revolutionibus era il primo libro che cadde sotto il decreto fino a che non fosse stato corretto (donec corrigantur), quindi il Commento a Giobbe di Didaco Stunica, la stessa Lettera di Foscarini, e tutte le altre opere che insegnavano il copernicanesimo. Il primo a finire in prigione fu, Lazzaro Scorriggio, l’ignaro stampatore napoletano di Foscarini che l’inquisitore Carafa fece sbattere in galera per non aver potuto presentare l’imprimatur. Incredibilmente Galileo si trovò a dover essere ottimista per quel che lo riguardava. Nessuna sua opera era stata nominata, tantomeno quella sulle macchie solari che era chiaramente copernicana. Una cosa era comunque certa: i suoi estimatori del Collegio Romano erano spariti dalla circolazione, anche quelli che

Roma: Palazzo del Collegio Romano sede dei gesuiti, oggi sede del Liceo Visconti

egli sapeva essere copernicani, come  de Cuppis e Grienberger.

La cosa riguardava anche Galileo che fu convocato dal Bellarmino nella sua residenza di Santa Maria in Via e, alla presenza del Commissario generale Segizi (notaio) e di due testimoni, lo ammonì(27) di essere in errore e di abbandonare le sue credenze “indi senz’altro (successive ac incontinenti) il Commissario fece precetto e ingiunzione a detto Galileo ancor presente e costituito, in nome del Papa e di tutta la Congregazione del Sant’Uffizio, di abbandonare detta opinione, né altrimenti, in qualsiasi modo, di tenerla, insegnarla o difenderla, a voce o per iscritto; che altrimenti si procederebbe contro di lui da parte del Sant’Uffizio. Al quale precetto Galileo acconsentì e promise di obbedire“.

E’ a questo punto utile riportare l’analisi della vicenda e del documento fatta dal grande studioso di Galileo, Giorgio de Santillana:

Il documento lascia subito perplessi per via della contraddizione interna. Le istruzioni nella prima parte dicevano: “Nel caso che rifiuti di obbedire”; ora nulla indica nella seconda che Galileo abbia elevato obbiezioni o fatto opposizione, anzi, è scritto che acquievit. È a questo punto, successive ac incontinenti, che il Commissario generale gli dà lettura dell’ingiunzione formale di abbandonare e di non discutere più in alcun modo l’opinione incriminata. Se si considera poi il fondo della questione, vi è di che stupirsi maggiormente: che la notifica gli fosse fatta dal cardinale in persona, costituiva un segno di considerazione, e non si accordava col seguito poliziesco (mentre si noti che a Foscarini, religioso legato dal voto d’obbedienza, non era stato dato alcun preavviso ufficiale, perché si giudicava che egli avesse parlato a suo rischio e pericolo). La convocazione a palazzo rappresenta una forma corretta e su un piano di dignità formale. Per una ironia della sorte, era questa proprio l’udienza che Galileo aveva tanto atteso. E si noti come si inquadra la cosa: Galileo il 26 febbraio è ammesso in udienza, per vana e formale che sia, solo ed appunto perché è venuto a Roma in veste di chi sollecita chiarimenti e direttive, onde non rischiar di contravvenire alle intenzioni di Santa Chiesa; quindi ancora, essendosi tutto svolto come doveva, sono esentate in seduta del 3 marzo, dalla proibizione amministrativa le sue Lettere Solari, pur copernicanissime, e assai più lette delle disquisizioni di Foscarini e Stunica. Si vuol premiare la sua buona volontà, e si conta che darà opera egli stesso a modificare le tesi. La logica di tutta quanta l’operazione è manifesta.
Ma in questa logica, che si estende fino al marzo, dove troverebbe posto una intimazione sub poenis? Cade fuori di ogni costrutto. Il dispositivo delle istruzioni a Bellarmino era concepito in modo da far fronte ad ogni eventualità, inclusa quella, suggerita da Caccini, che Galileo avesse a smascherarsi come eretico discepolo di Bruno e si dovesse venire all’arresto seduta stante. Ma Galileo, come era ragionevole prevedere, acquievit. E davvero non sarebbe stato quello il momento di discutere. Di fronte a Bellarmino circondato dalla sua corte di “segugi bianchi e neri” del Signore, che lo alloquiva in camera del trono, Galileo non poteva, checché pensasse, se non inchinarsi in silenzio.
Dal punto di vista della forma, il documento riesce altrettanto inspiegabile. Le istruzioni dicevano “avanti a notaio e a testi” ma il notaio non ha firmato, e nessun funzionario dell’Inquisizione è stato menzionato come testimone secondo l’uso. Non bisogna dimenticare che di regola, quando l’Inquisizione notificava una ingiunzione o precetto, l’accusato era richiesto di firmare di sua mano, e la firma doveva essere legalizzata. Qui, invece, anche dalla minuta, si direbbe trattarsi di un semplice verbale di notifica.
Non solo il protestante Gebler, ma uno storico cattolico, Reusch, nel 1870 hanno attirato l’attenzione su questo fatto. Altro fatto strano: non solo non è fatta menzione di testimoni ufficiali, ma al loro posto intervennero due familiari della Casa del cardinale, che certo non erano affatto qualificati per prender parte a una procedura dell’Inquisizione.
E poi il documento è al suo posto?
Il “dossier” può sembrare incompleto a chi spera di trovarvi una minuta istruttoria. Ma non lo è. Si tratta di un incartamento legale formato dai dati strettamente necessari alla preparazione di una sentenza e in quanto tale, può dirsi completo o quasi. La numerazione delle pagine, iniziata al momento stesso in cui i primi documenti erano introdotti, è ininterrotta. Sappiamo dunque che non vi manca nulla, o piuttosto assai poco; e questo poco manca palesemente: due fogli contigui, appartenenti allo stesso doppio foglio, sono stati accuratamente tagliati, prima della numerazione del fascicolo, ma in modo da lasciare dei margini molto grandi, quasi per ricordarci la loro esistenza. Vengono subito dopo la copia falsificata da Lorini della Lettera a Castelli (foglio 346). Un’altra mezza pagina è tagliata allo stesso modo, in fronte alla pagina 376 che contiene la proposìtio censuranda. Lo stesso è avvenuto per le pagg. 431, 455, 495, e può essersi trattato di pagine bianche. La maniera in cui ciascun quinterno è costituito è chiara e naturale: ogni atto legale, o documento ufficiale, è stato scritto o cominciato sulla prima pagina [recto] d’un nuovo doppio foglio, incorporato di poi e cucito nel fascicolo, in ordine cronologico, cosicché nel contesto restano evidentemente un gran numero di mezzi fogli bianchi. Anche questi sono numerati; alcuni sono stati utilizzati per annotazioni amministrative, copie di ordinanze e istruzioni, tutte nel dovuto ordine. Ma non vi è una sola lettera, un solo rapporto, atto legale o copia conforme che non cominci sulla prima pagina di un nuovo foglio. Con questa sola eccezione : l’ingiunzione di Bellarmino. Questo documento essenziale è annotato su uno spazio che per caso s’è trovato disponibile, fornito dal rovescio dei fogli di due altri documenti. La sua posizione e la forma in cui è stato redatto basterebbero a rivelare che non vuol esser considerato se non come trascrizione.
Le cartelle 378 verso e 379 recto, che combaciano, sono rispettivamente il verso della seconda pagina bianca del rapporto dei Qualificatori (pag. 377) ed il recto bianco del secondo mezzo foglio della pagina 357, ove si trova la deposizione di Caccini. Altre simili trascrizioni sono state redatte nello stesso modo (per esempio quelle che si riferiscono agli ordini del papa, 352 verso, e quella che si trova su una pagina non numerata dopo la pagina 354). La procedura seguita è del tutto regolare per la prima parte del testo, le istruzioni della Congregazione a Bellarmino, il 25 febbraio (vedi nota 27, ndr), perché il documento originale ha il suo luogo proprio tra i Decreta e viene riprodotto qui solo per informazione. Ma si passa poi, senza averne l’aria, alla seconda parte (vedi nota 27, ndr), datata 26 febbraio, che è l’ingiunzione vera e propria e che avrebbe dovuto essere conservata in originale.
Il testo che abbiamo non pretende di essere l’originale ma una semplice trascrizione. Ma allora, dov’è l’originale? Dovrebbe trovarsi evidentemente su un foglio separato, al suo posto, come tutti gli altri originali. Ora esso non si trova affatto nel fascicolo, e non vi è stato mai inserito, come risulta dalla numerazione ininterrotta delle pagine. Dunque la prova delle decisioni prese nei riguardi di Galileo è fornita non da un documento legale, autentico o meno, ma da una annotazione. È strano che tanti storici accorti si siano lasciati sfuggire questo particolare. Pensavano forse che il dossier dell’Inquisizione fosse stato trasportato alla residenza di Bellarmino, come un registro, perché vi venisse scritto il protocollo sul retro delle pagine? I dossier non uscivano mai dagli uffici; i verbali, redatti altrove, vi erano inseriti in un secondo tempo.
Non c’è dubbio che avremmo dovuto trovarvi un originale – le istruzioni a Bellarmino sono chiare — e che esso avrebbe dovuto essere firmato dal notaio, controfirmato dal cancelliere del Santo Uffizio e, eventualmente, da Galileo medesimo. Ma questo documento, se mai ci fu, deve essere stato soppresso prima di entrare nel dossier. Diciamo “se mai ci fu” perché è verosimile che non sia stato mai redatto nell’originale e che appaia solo sotto l’aspetto di una trascrizione che non pretende di essere altro che una copia. Lo scrivano poteva sempre dichiarare più tardi in confessione o sotto giuramento di non aver mai falsificato un documento, ma di aver solo redatto una minuta, che, dal punto di vista giuridico, era senza valore, perché tutte le firme mancavano.
Non vogliamo asserire che tutti i precetti dell’Inquisizione dovessero contenere una dichiarazione di ricevuta; vi sono anzi numerosi esempi del contrario; ma questo poteva avvenire per gli affari correnti, per esempio il comando non discedendi; e anche in questo caso erano controfirmate da funzionari qualificati: quando pronunciava un ordine fuori del suo quartier generale, l’inquisitore era accompagnato dai suoi assistenti che servivano da testimoni. Ma in questo caso, se le istruzioni venute dall’alto sono state seguite, si tratta di un precetto in cui si esige sottomissione formale. Ci attenderemmo quindi di trovare: “Io G. G. ho ricevuto precetto come sopra e prometto di obbedire”. Dire che la dichiarazione di ricezione non fosse necessaria, equivale a dire che l’ingiunzione sia stata formulata senza che Galileo avesse fatto l’obbiezione che avrebbe dovuto motivarla; in tal caso si sarebbe commessa una grave irregolarità e l’ingiunzione sarebbe contestabile solo su questa base.
Malgrado tutta la sua prudenza, l’amanuense ha voluto strafare. Per rispettare l’uso ha prima trascritto il testo del decreto pontificale del 25 febbraio; ma se avesse potuto prevedere che l’originale del decreto sarebbe andato perduto — come è avvenuto — avrebbe preferito tagliarsi la mano piuttosto che conservare qui il testo incriminante che oggi fa saltare agli occhi la contraddizione flagrante che esiste tra gli ordini e la loro esecuzione.
Dal momento che era esplicitamente ammesso che Galileo non aveva opposto resistenza, non v’era alcuna ragione valida perché il commissario gli facesse personalmente “divieto assoluto di insegnare e di discutere la dottrina quovis modo” ; perché questo andava oltre i termini del decreto e si applicava soltanto a coloro che erano in istato di “veemente suspicione” (nel qual caso l’acquiescenza diveniva tecnicamente una abiura). Il decreto stesso, nella forma in cui era redatto per tutti i buoni credenti, autorizzava implicitamente la discussione del copernicanesimo come ipotesi matematica; interdiceva soltanto il presentarlo come verità filosofica, compatibile con la teologica. Nessuna menzione di Galileo e delle sue opere: ora, come si può immaginare che, una volta divenuto sospetto, gli sia stato usato nel decreto lo straordinario trattamento di favore che esentava dalla proibizione le sue Lettere Solari? Invece pronta e sicura corse la voce, per opera dei soliti “circoli bene informati” che Galileo era stato tratto a fare ammenda. Scrive Matteo Caccini: ”In questa Congregazione coram summum Pontificem il Sig. Galilei fece l’abiurazione”. Castelli scrive da Pisa: “Qui è stato scritto che V. S. ha abiurato segretamente in mano del’Ill.mo C. Bellarmino” e Sagredo da Venezia : “S’è sparsa voce esser lei trasferita costì a Roma con incommodo, sforzatamente, per mali ufficii di quelli nostri amici confederati con Rocco Berlinzone, i quali hanno fatto passar voce che sia stata ella chiamata all’Inquisizione per render conto se il sole si muove; aggiungendosi che, per schermire, convegna ella far palesemente il collo torto. Credo che questi ladroni facciano ancora altrove il loro potere contro di noi; ma Iddio, sì come spero, dissiperà i suoi mali consegli”.
Per mettere fine a queste voci e salvaguardare il suo onore personale, Galileo domandò a Bellarmino, con una breve e dignitosa lettera che ci è giunta, un certificato, e l’ottenne senza indugio nei seguenti termini:
“Noi Roberto Cardinale Bellarmino, havendo inteso che il Sig.or Galileo Galilei sia calunniato o imputato di havere abiurato in mano nostra, et anco di essere stato per ciò penitenziato di penitentie salutari, et essendo ricercati della verità, diciamo che il suddetto Sig. Galileo non ha abiurato in mano nostra né di altri qua in Roma, né meno in altro luogo che noi sappiamo, alcuna sua opinione o dottrina, né manco ha riceuto penitentie salutari né d’altra sorte, ma solo gl’è stata denuntiata la dichiarazione fatta da N.ro Sig.re et publicata dalla Sacra Congregazione dell’Indice, nella quale si contiene che la dottrina attribuita al Copernico sia contraria alle Sacre Scritture, et però non si possa difendere né tenere. Et in fede di ciò habbìamo scritta et sottoscritta la presente di nostra propria mano, questo dì 26 di Maggio 1616.”
È certo che qui non è menzionata alcuna ingiunzione; anzi, viene formalmente smentita l’ammenda che avrebbe normalmente dovuto seguire l’ingiunzione. Gli storici ex parte hanno sostenuto trattarsi d’un gesto caritatevole da parte della Chiesa che, per considerazione verso Galileo e verso il granduca, avrebbe consentito a rilasciare un certificato di onorabilità, ma — sapendo di avere a che fare con un uomo pericoloso e ostinato — avrebbe tentato di mantenerlo nel dritto cammino mediante una ingiunzione segreta. Questa spiegazione può apparir valida a prima vista, ma rimane che l’ingiunzione avrebbe dovuto essere fatta e conservata, come tutte le altre, in forma regolare. Almeno negli atti segreti dell’amministrazione dovrebbe trovarsi un qualche riferimento a questo atto. E qui interviene un documento decisivo che fu rintracciato solo nel secolo scorso.
Durante le brevi settimane della Repubblica romana del 1849, dopo la fuga del papa, si trovarono aperti gli archivi, e alle febbrili ricerche di Antonio Gherardi fu dato scoprire taluni Decreta della Congregazione del Sant’Uffizio che si riferiscono alla causa di Galileo. Fra questi vi è il verbale della seduta del 3 marzo, che fa seguito a quello già noto del 25 febbraio:
Il Cardinale Bellarmino riferisce che Galileo Galilei matematico è stato, giusta gli ordini di questa S. Congregazione, ammonito di aver a abbandonare [deserendam, che sostituisce il cancellato disserendam] l’opinione che ha finora sostenuto, essere il Sole, ecc. e che ha acconsentito [acquievit] ; ed essendo stato fermato il decreto della Congregazione dell’Indice, il quale interdice e sospende rispettivamente gli scritti di Nicolo Copernico, Didaco a Stunica e Paolo Foscarini, il Santissimo ha ordinato che tale decreto d’interdizione e sospensione venga pubblicato dal Maestro del Sacro Palazzo.
Ecco un documento redatto per le sole autorità, un rapporto riservato sugli affari in corso. Esso corrisponde esattamente alle istruzioni del 25 febbraio. Tali istruzioni avevano previsto i tre atteggiamenti successivi da adottare nel caso di obbedienza, d’obiezione, o d’ostinazione da parte di Galileo: avvertimento, ingiunzione, arresto (sottolineatura mia, ndr). Ora, il rapporto dice semplicemente che l’avvertimento fu accolto con l’acquiescenza e passa agli altri argomenti: se vi fosse stato precetto, ne sarebbe stata fatta almeno menzione; altrimenti si sarebbe dovuto allegare un rapporto separato del commissario generale, e non ve n’è traccia. In base a questo solo rapporto alle autorità non poteva risultare che si era dovuto venire a precetto formale; per diciassette anni — come vedremo — esse non ne ebbero, a quanto pare, la minima idea. Galileo neppure.

Si tenga bene a mente tutto questo perché sarà di estrema importanza quando discuteremo del Processo a Galileo.

Galileo, dunque non era spaventato e la cosa risulta chiaramente dalle sue lettere di questo periodo. Tra l’altro l’ambasciatore Guicciardini, riferisce al Granduca (13 maggio) che Galileo fa una vita di stravizi in Roma e spende e spande a più non posso egli ha un umore fisso di scaponire i frati … e combattere con chi egli non può se non perdere: però un poco prima o poi … sentiranno costà che sarà cascato in qualche stravagante precipizio. Non era spaventato perché non ne aveva motivo! E tanto meno da quel Papa che, egli non poteva sapere, era stato il suo più duro nemico. E ciò è dimostrato dall’udienza che quello stesso Papa, Paolo V Borghese, gli concesse 5 giorni dopo, trattenendolo per ben tre quarti d’ora rassicurando Galileo che nessuno in Vaticano avrebbe dato orecchio alle calunnie. Mettendo tutto insieme ne risulta che quel processo verbale del 26 febbraio non avvenne e che mai fu fatto precetto a Galileo di non difendere quovis modo il copernicanesimo. Insisto: è importante ricordare che Galileo venne AMMONITO dall’insegnare e difendere la teoria copernicana e non gli venne fatto PRECETTO. Ciò è fondamentale dal punto di vista del Diritto Canonico: se gli fosse stato fatto precetto sarebbe stato recidivo e la cosa sarebbe risultata nei suoi precedenti penali; l’ammonizione non prevedeva nessuna delle due cose dette.

Sollecitato da più parti dalle autorità fiorentine di non stuzzicare il cane che dorme, Galileo il 30 giugno se ne tornò a Firenze ripromettendosi in una lettera di raccontare a voce le cose incredibili che aveva scoperto a Roma nel campo dell’ignoranza, invidia ed empietà. E così noi siamo privati di queste informazioni.

VERSO IL DIALOGO: IL METODO E LE COMETE

Galileo ha ora il compito più importante dopo i grandi successi scientifici che ha avuto. Smontando il sistema aristotelico, occorre costruire tutto il tessuto che improvvisamente viene a mancare. In poche parole, il sistema di Aristotele è un tutt’uno consistente, il mettere in discussione la sua cosmologia, sconvolge l’intera fisica. E, o si sostituisce con un altra, o l’intero discorso è monco e poco credibile. Ed è proprio qui che Galileo fa le cose che lo faranno passare alla storia dell’umanità. Non è certo il fatto che egli abbia suppostamente dimostrato la validità del sistema copernicano che lo ha reso famoso, ma il fatto che abbia rimpiazzato una fisica ingenua, quella di Aristotele (per di più malamente manipolata da San Tommaso), con una fisica che aveva in sé gli elementi correttivi e che poteva sempre essere falsificata.

Galileo già aveva lavorato in differenti campi della fisica ed in ognuno di essi sempre si era scontrato con le spiegazioni aristoteliche che non erano altro che descrizioni ingenue dei fenomeni naturali che non reggevano all’indagine critica dell’esperienza. Vi erano tante credenze radicate che, quando andava bene, erano basate sul buon senso, quando si aveva a che fare con persone colte avevano a che fare con la fisica di Aristotele, ma quando andava male (ed era nella gran maggioranza dei casi che comprendeva tutte le classi sociali) si scontrava con durezza con un mondo immerso in magia, astrologia, alchimia, numerologia. E la cosa era da molti anni arrivata anche nelle corti papali coinvolgendo gli stessi pontefici. Gli stessi scienziati contemporanei a Galileo non erano immuni da metafisiche varie. Certamente tutti facevano gli oroscopi, alcuni vivevano in atmosfere mistiche e numerologiche fantastiche (Kepler), altri oltre ad avere crisi mistiche facevano gli alchimisti (Newton) … . L’impresa era quindi veramente titanica, occorreva ripartire da una base dopo averla costruita e occorreva poi che di queste cose ne diventasse partecipe il maggior numero di persone.

I lavori di maggior rilievo affrontati fino ad allora da Galileo riguardavano alcune questioni di cinematica, il moto, l’accelerazione, la caduta dei gravi, l’idrostatica, insieme a questioni di meccanica applicata.

Galileo inizia ad inquadrare tutte le cose che ha già studiato in un diverso contesto. Egli è un profondo conoscitore della fisica aristotelica per averla insegnata ai massimi livelli per molto tempo. E, quando ancora non convertito al copernicanesimo, ha scoperto (1583) la legge dell’isocronismo del pendolo; realizzato (1585) la bilancia idrostatica mutuandola da Archimede; ha studiato e pubblicato (1587) dei teoremi sul centro di gravità dei corpi; ha approfondito (1590) varie questioni relative al movimento nel suo De motu; è entrato in applicazioni pratiche (1593) ed in particolare ha studiato la meccanica applicata; ha realizzato (1598) il compasso geometrico-militare (una specie di regolo calcolatore), un altro strumento; ed ha fatto varie altre cose (studi di cosmologia aristotelica, studi anatomici, studi matematici, …). Insomma è una persona colta, curiosa ed estremamente creativa. Non si accontenta mai della prima spiegazione semplice, cerca sempre di capire oltre; è il primo che realizza l’intersezione tra la tradizione platonica e quella aristotelica, l’applicazione della matematica nella descrizione e spiegazione dei fenomeni naturali; la cosa non è semplice e rappresenta il massimo dei processi astrattivi realizzabile. Un fatto naturale, un fenomeno, ci si presenta empiricamente in un qualsivoglia modo. Le variabili che lo riguardano sono una grande quantità. L’idea di formalizzare è complessa perché si tratta di seguire, al massimo, tre variabili (con una mantenuta costante). Ma la natura non offre quasi mai due variabili chiaramente individuabili e non ne mantiene quasi mai una costante. Per realizzare questo occorre osservare un fatto naturale (dato empirico) e riprodurlo in laboratorio in condizioni controllate in modo da poter realizzare quasi il medesimo fenomeno ma tale da poter essere ripetuto più volte al fine di poter seguire quelle variabili che interessano (dato dell’esperienza). In questo modo si stilano cataloghi di esperienze, con misure soggette ad essere sempre più precise dalle quali è possibile ricavare una legge che è una valutazione asintotica dei dati dell’esperienza medesima. Ciò prevede che esperienze successive rientrino nei limiti di validità della legge e, se così non avvenisse, è la legge che viene meno e su di essa sarà necessario lavorare per sistemarla o buttarla via. In somma sintesi questo metodo non fornisce delle verità ma un avvicinamento sempre migliore alla conoscenza della realtà con il metodo che permette il controllo delle cose fatte. E chi parlasse di meccanicismo confonde i meccanismi automatici e metafisici di Aristotele con una conoscenza che si confronta con varie cose: fatti naturali, pregiudizi dello scienziato che indagherà in un modo o in un altro a seconda di quale è la sua formazione e il suo criterio di studio, realizzazione di esperienze, formulazione di leggi e loro controllo in qualunque tempo con nessuna preclusione alla loro refutazione. Di questo si tratta e non di sostituire una metafisica fattasi religione con altra metafisica più gradita. Una conoscenza dinamica che si accorda con il dinamismo e l’imprenditorialità della borghesia emergente in contrasto con il mondo statico ed immutabile di nobiltà e clero. Il lavoro di Galileo, sotto questo aspetto è oscuro per i non addetti ai lavori, per filosofi, sociologi, teologi. Non sono letteralmente in grado di capire il lavoro di uno scienziato in un laboratorio. Come possono capire il lavoro di mesi dietro ad un piano inclinato di quattro metri di lunghezza, il peregrinare per una moltitudine di botteghe artigiane per trovare al pialla più affilata, il realizzare questo per rallentare il tempo, al fine di studiare la caduta, per mostrare una deviazione dalla legge aristotelica del moto ? Qui non si tratta di mettersi a tavolino, pensare intensamente e scrivere abbondantemente. No! Qui siamo in altro mondo nel quale non vi è cittadinanza per chi non si faccia umile allievo e pretenda primati di sorta. Ed occorre anche imparare la matematica, prendere confidenza con infinitesimi ed infiniti. L’elaborazione della conoscenza della natura parte dalle ipotesi su un fenomeno (la teoria a priori del ricercatore), si sottopongono le teorie alla prova dell’esperienza, si deve misurare e confrontare con uno strumento, si passa alla formalizzazione che fa poi una sua parte per elaborazione successiva. E qui occorre seguire il linguaggio sintetico della matematica, pena la completa non comprensione del tutto.

E’ utile fare un esempio relativo alla logica che era alla base delle spiegazioni aristoteliche e confrontarlo con la logica radicalmente diversa che Galileo via via impone. Il corretto sillogismo aristotelico relativo alla scoperta delle fasi di Venere, si presenterebbe in questa forma: se il sistema planetario fosse eliocentrico, Venere presenterebbe fasi come la Luna. Il sistema planetario è eliocentrico. Perciò Venere presenta fasi come la Luna. Se però si fa attenzione, ci si rende subito conto che questo sillogismo è solo un buon esercizio mentale che nulla ha a che vedere con il dato sperimentale. Sarebbe stato necessario prima ammettere il sistema copernicano per poi dedurne l’esistenza. Galileo, infatti, costruisce un altro sillogismo, errato rispetto alla logica aristotelica, ma indicativo di un modo nuovo e diverso di ragionare: se il sistema planetario fosse eliocentrico, Venere presenterebbe le fasi come la Luna. Venere presenta le fasi. Perciò il sistema planetario è eliocentrico. Si tratta di un cambiamento radicale, non di errori rispetto alla logica precedente. E questo esempio è fatto solo per mostrare un cambiamento radicale spesso non considerato dagli illustri filosofi proprio perché non familiarizzati con il passaggio, essenziale, dell’esperienza.

Galileo, quindi, di ritorno da Roma nel 1616 continua il suo lavoro sulla strada della nuova fisica al fine di portare sostegno alla teoria di Copernico con un attacco su più fronti alla cosmologia di Aristotele che si fondava sulla fisica di Aristotele. Egli non è intimorito dall’Inquisizione perché non ha avuto a che fare con questa istituzione della Chiesa. E’ passato indenne con un ammonimento a non andare oltre sul sostegno a Copernico fino a che non sia in grado di dimostrarne la verità assoluta. Naturalmente vi sarebbe qui da discutere cosa è la verità assoluta, il suo carattere metafisico assolutamente non conciliabile con uno studioso della natura ma, per quel che ora serve al nostro discorso, basti dire  che Galileo accetta di buon grado la sfida. Sta praticamente zitto per un poco di tempo fino a che altri fenomeni non verranno a provocarlo ed a stimolarlo sulla strada di spiegazioni che portino acqua al suo mulino. Vi è comunque un certo rancore in lui nei riguardi dei pretesi avanzati gesuiti. Nel momento in cui l’apertura supposta di questi avrebbe potuto aiutare la causa del copernicanesimo, si sono ritirati in silenzio senza intervenire in alcun modo a sostegno di quanto Galileo, da solo, portava avanti. Ed è utile dire questo perché Galileo avrà modo di far valere la sua opinione rispetto a teorie elaborate dal Collegio Romano, proprio nel 1618, quando (è la provocazione della natura alla quale mi riferivo) compariranno in cielo tre comete.

Come già detto, secondo la cosmologia di Aristotele, ogni variabilità, tutto ciò che muta, ogni cosa che inizia e finisce, che si genera e si corrompe, deve aver luogo sotto il primo cielo, quello della Luna. Tutto ciò che è etereo, infinito, immutabile riguarda ciò che è al di sopra del cielo della Luna (Luna compresa). In questo senso le comete ed i fulmini erano classiche cose che dovevano avvenire al di sotto del cielo della Luna. Una delle spiegazioni che venivano date delle comete dai peripatetici era la seguente: il fuoco sale al di sopra dell’aria allo stesso modo del vapore caldo e secco; vapori e fuochi che tendono verso l’alto, raggiungono il cielo della Luna (che, ricordiamolo, è una sfera di cristallo) qui per una sorta di attrito con questo cielo in rapida rotazione, vengono messi in rotazione e quando si scaldano al punto giusto, si accendono e bruciano rapidamente, come le meteore, o lentamente, come le comete, quando i venti caldi ravvivano il fuoco.

Galileo fu sollecitato da più parti, dai suoi amici, di dire qualcosa, di intervenire nel dibattito che si era aperto nel mondo degli studiosi. Egli era al momento a letto, sofferente di artrite e non era in grado di fare osservazioni. Ma, di fronte alle tante richieste (anche dall’Arciduca Leopoldo d’Austria), fece un commento ad una conferenza tenuta in Roma da un anonimo (un gesuita del Collegio Romano, padre Grassi), Disputatio astronomica de tribus cometis anni MDCXVIII. L’interpretazione del Grassi coincideva con quanto Thyco aveva dimostrato per la cometa del 1577: quei corpi dovevano essere molto lontani dalla Terra, poiché la misura di parallasse dava esito negativo. Le comete dovevano quindi trovarsi in una zona al di là del cielo della Luna e prima di quello del Sole. Ma qui credo occorra capire. 

Durante la sua permanenza a Roma, Galileo aveva acquistato un estimatore, il giovane e colto prete Giovanni Battista Rinuccini di origini patrizie fiorentine, nipote di un Cardinale e da poco dottore in giurisprudenza in Pisa. Rinuccini scrisse(28) a Galileo il 2 marzo 1619 dicendogli che a Roma 

s’aspetta con gran desiderio il discorso che dicono haver ella promesso sopra la cometa; et io lo desidero sopra gl’ altri per mia particolar curiosità, oltre all’ esser parziale di tutte le cose sue.
I Gesuiti n’ hanno publicamente fatto un Problema, che si stampa
(29), e tengono fermamente che sia nel cielo ; et alcuni fuora de’ Gesuiti spargono voce che questa cosa butta in terra il sistema del Copernico e che egli non ha il maggior contrario argomento di questo: però s’io dicessi a V. S. che mi par mill’ anni di saper l’opinion sua, credo che me lo perdonerà.

La cosa scosse Galileo che non voleva comunque esporsi personalmente. Fece quindi pubblicare dal suo amico, allievo ed assistente, Mario Guiducci, un libello, il Discorso delle comete (giugno 1619)(30), nel quale le opinioni espresse contro le tesi della Disputatio del Collegio Romano e più generali erano sue. E Galileo sapeva che quelle tesi provenivano da padre Grassi da lui conosciuto nel soggiorno romano, uno di quelli che lo aveva sostenuto in occasione della presentazione del Nuncius Sidereus ma che era sparito nell’ultimo soggiorno romano del nostro.Varie cose si possono dire sulla risposta che Galileo dà al libello di Grassi. Intanto che Galileo, come varie volte testimoniò dopo la scomparsa di Galileo il suo allievo Viviani, non capiva questa cosa come varie altre; quindi che vedere passare una tesi a sostegno del sistema astronomico di Tycho (anche se con diversi imbrogli, come ad esempio il fatto che le comete non ruotavano come quella di Thyco intorno al Sole, ma intorno alla Terra), sostenuta ipocritamente da quella congrega di gesuiti, era una sporca operazione, una sorta di sfregio ed un approfittare del silenzio imposto ai copernicani per far avanzare le verità delle Chiesa che, in questo caso, non erano enunciate come ipotesi matematiche ma affermate come vere per sistemare la questione dei rapporti tra scienza e fede.

Ma vi era un aspetto che credo essere il più importante. Tycho, come ho detto, costruisce il suo sistema dalle osservazioni astronomiche e dal pregiudizio di un mondo piccolo. Il non aver trovato la parallasse stellare lo convinse quindi dell’immobilità della Terra. Le successive osservazioni di Galileo avevano fatto capire, a chi era in grado di farlo, in relazione alla moltitudine di stelle non visibili ad occhio nudo, che il cannocchiale non ingrandiva oggetti molto lontani o meglio, il cannocchiale ingrandisce tanto meno quanto più gli oggetti sono lontani. I gesuiti, poiché avevano osservato le comete ed avevano visto che con il cannocchiale esse risultavano impercettibilmente ingrandite, ne traevano la conclusione che tali comete dovessero trovarsi molto distanti dalla Terra. Tale ragionamento violentava l’esperienza ed il suo cannocchiale. Se il ragionamento fosse stato vero, sarebbe stato possibile, misurando di quanto ingrandisce il cannocchiale, stabilire la distanza degli oggetti e ciò non è. 

Oltre a questo anche un’altra argomentazione veniva portata contro le cose discusse da Grassi ed era relativa alla parallasse. Quest’ultima è un  utilissimo strumento in astronomia ma occorre stare attenti al suo uso corretto. Ad esempio non si può usare con oggetti che si muovono con chi osserva. Se la applicassimo ad esempio ad un arcobaleno, che cambia posizione con chi osserva, non osserveremmo parallasse e dovremmo allora concludere che l’arcobaleno è infinitamente lontano, cosa che non è. Occorre poi essere molto attenti alla natura delle cose. Ad esempio l’alone che osserviamo intorno alla Luna è certamente molto in alto ma non è fisicamente intorno alla Luna, quindi a quale oggetto applichiamo la misura di parallasse ? Allo stesso modo, non ha senso parlare della parallasse delle comete finché non si sa di che materia sono costituite. Questa è quindi una critica di tipo metodologico ma che fa perfettamente al caso visto che si discuteva proprio della natura delle comete. E di errori di questo tipo Grassi ne fece altri, come quello di dare prima per buono il sistema thyconico e poi argomentare sulle comete. L’operazione era profondamente scorretta in una epoca, anche qui, dove quello era l’argomento principe di discussione. Ma anche se Galileo avesse accettato il sistema thyconico, probabilmente sarebbe risultata più offensiva la critica, come osserva Stillman Drake,

 che aggiunge: non c’è alcun modo di trattare la pseudoscienza senza alienarsi i suoi sostenitori (figurarsi la metafisica! ndr).

Si trattava quindi di negare ogni validità al discorso di Grassi senza passare attraverso la difesa di Copernico e l’unica strada da percorrere era quella che Galileo percorse: il fenomeno delle comete che non conosciamo potrebbe anche consistere in vapori che s’innalzano dalla Terra e che, arrivati al cielo della Luna, vengono trascinati rapidamente apparendoci come comete. Ma potrebbero anche essere riflessi di luce solare, o altro che non sappiamo (noto qui che Galileo non prese alcuna posizione, smontò solo quella di Grassi; ma Grassi successivamente gli rinfacciò proprio l’aver preso la posizione che era di Aristotele).

Tra le argomentazioni di Galileo-Guiducci vi è il sarcasmo del pisano che emerge un poco dovunque. Si sente la sua indignazione che punta al ridicolo dell’interlocutore. Ad esempio, proprio sulla vicenda dell’ingrandimento operato dal cannocchiale su oggetti lontani, si dice(31):

La fallacia, dunque, depende non dall’immensità della lontananza, ma dallo splender dell’oggetto: anzi lo stesso si vede accadere ne’ nostri lumi terreni, per brevi intervalli remoti ; sì che a chi stesse pure ostinato che, per provar l’immensità della lontananza, concludesse l’argomento preso dal poco aggrandimento del telescopio, si potrebbe agevolmente dare ad intendere che una candela accesa e posta in altezza di cento o dugento braccia fosse tra le stelle fisse, poiché pochissimo viene dall’occhiale ingrandita.

Grassi sapeva, come gli altri gesuiti, che il sistema di Thyco, come quello copernicano, prevedeva la demolizione della fisica di Aristotele ma questa cosa erano disposti ad accettarla pur di sbarazzarsi di Copernico in nome di una spiegazione astronomica moderna. L’attacco di Galileo aveva scompaginato il tentativo ipocrita. Ed i gesuiti, da buoni preti, divennero i principali nemici di Galileo. Iniziarono con un altro libro di Grassi, la Libra astronomica, firmato con lo pseudonimo di Lothario Sarsi.

Lo pseudonimo convinse Galileo che quell’opera fosse stata scritta non da Grassi, tanti erano gli errori in essa(32). Ma tutto il Collegio Romano ne andava fiero … e Galileo se ne convinse. Grassi, ne la Libra, iniziò nel modo più sgradevole possibile, ricordando a Galileo che la teoria copernicana era stata condannata. Questo, come osserva Shea, è uno degli esempi di come la censura del 1616 inibiva e viziava la discussione scientifica. Il fatto poi che questa censura venga portata come argomentazione per aver ragione la dice lunga sui metodi dei gesuiti (che sarebbero i più aperti nella Chiesa !). Dopo di ciò, Grassi fa delle osservazioni che vorrebbero essere taglienti (ma risultano ridicole) sull’uso della parallasse (prima screditata e poi usata contro gli aristotelici), su alcune cose prima ammesse e poi negate e sulla posizione di Galileo sulle comete (che, come detto, gli era stata affibbiata, nonostante Galileo continuasse dubitativo sulla spiegazione di  un fenomeno che non comprendeva). Il fatto è che Grassi proprio non capiva l’approccio differente ai fatti della natura. Il non decidere vuol solo dire che non si ha una teoria e Grassi, per avere un bersaglio, deve assegnare a Galileo una posizione che non ha.

Intanto Kepler pubblicava un libro sulle comete, il De cometis (1619). Era un’opera chiaramente copernicana e quindi violava la proibizione della Chiesa. Ma la Chiesa nulla poteva nella terra di Kepler. Iniziavano studi liberi fuori d’Italia e l’Italia iniziava a perdere terreno. Il baricentro della ricerca scientifica si spostava dall’ Italia al centro ed al nord d’Europa. Questo spostamento di baricentro lo si può intendere anche osservando che lo scienziato, all’epoca, era uno studioso complessivo e non lo si poteva appartare da un campo di ricerca così importante senza che l’intero edificio della sua ricerca crollasse interamente.


IL SAGGIATORE

La risposta alla Libra è il grande manifesto scientifico di Galileo, Il Saggiatore(33) dell’ottobre 1623 (la Libra, oltre al segno zodiacale nel quale era comparsa la cometa più grande, è una bilancia ma Il Saggiatore, bilancia esquisita e giusta,  è una bilancia di precisione utilizzata dai saggiatori dell’oro: e qui emerge il pisano rispetto al savonese). L’opera era pronta nel 1621 ma la pubblicazione curata dall’Accademia dei Lincei (che intervenne a stemperarla e renderla meno polemica, anche se restò molto dura) fu ritardata per varie vicende non d’interesse. Sta di fatto che nel frattempo (1621) era morto Bellarmino, era salito al soglio pontificio (estate 1623) il cardinale Maffeo Barberini con il nome di Urbano VIII. Il cardinale Barberini era stato molto disponibile con Galileo in Roma (oltre ad averlo difeso quando era scoppiata la polemica sul galleggiamento dei corpi in Firenze) ed i due avevano discusso molto proprio delle questioni che stavano a cuore a Galileo, tra cui naturalmente il sistema copernicano. Insomma Galileo poteva aver la presunzione di dirsi amico del Papa. Questo fatto lo convinse a dedicare Il Saggiatore proprio ad Urbano VIII.

Il libro dovrebbe controbattere punto per punto la Libra di Grassi, e lo fa. Utilizza in modo più esteso, sistematizzandoli, gli argomenti già usati per difendere la non possibilità di decidere sulla natura delle comete e quindi la non possibilità d’uso della parallasse unita alla ignoranza del ricavare conclusioni da un cattivo uso del cannocchiale (piccolezza degli oggetti lontani). Aggiunge altri argomenti ai molti già usati. Ma Il Saggiatore diventa, per la più parte e come già da me annunciato, uno splendido trattato di metodo scientifico, un testo dove per la prima volta si enuncia con completezza il metodo sperimentale di Galileo, un chiaro ed efficace argomentare di teoria della conoscenza.

Galileo, contrariamente a quanto continuano a scrivere alcuni storici, come il prestigioso Shea (che evidentemente non ha letto i lavori originali sull’argomento), non sa cosa sono le comete e non avanza quindi una sua teoria sulle comete, e lo dice così: 

Parmi d’aver per lunghe esperienze osservato, tale esser la condizione umana intorno alle cose intellettuali, che quanto altri meno ne intende e ne sa, tanto più risolutamente voglia discorrerne; e che, all’incontro, la moltitudine delle cose conosciute ed intese renda più lento ed irresoluto al sentenziare circa qualche novità. … 

Racconta poi un aneddoto. Un signore che si dilettava ad allevare uccelli, sentì un dolce suono di notte e andò per prendere quell’uccello. Si accorse però che si trattava di un pastorello che suonava uno zufolo. Andando poi a spasso il giorno seguente sentì un dolce suono che proveniva da un piccolo tugurio. Entrò per vedere se si trattava di un uccello o di uno zufolo … ma si accorse che era una persona che suonava un violino. Entrando poi in chiesa si fermò per guardare dietro la porta chi aveva suonato  e si stupì molto nell’accorgersi che si trattava del cigolar dei cardini. Andando infine nell’osteria ed udendo un suono provenire da un tavolo si volse per vedere chi suonava il violino ma vide uno che fregando il polpastrello d’un dito sopra l’orlo d’un bicchiero, ne cavava soavissimo suono e così via con molte altre esemplificazioni …. per concludere: Io potrei con altri molti essempi spiegar la ricchezza della natura nel produr suoi effetti con maniere inescogitabili da noi, quando il senso e l’esperienza non lo ci mostrasse, la quale anco talvolta non basta a supplire alla nostra incapacità; onde se io non saperò precisamente determinar la maniera della produzzion della cometa, non mi dovrà esser negata la scusa, e tanto più quant’io non mi son mai arrogato di poter ciò fare, conoscendo potere essere ch’ella si faccia in alcun modo lontano da ogni nostra immaginazione; … lo scopo che abbiamo avuto Guiducci ed io è di promuover quelle dubitazioni che ci è paruto che rendano incerte l’opinioni avute sin qui, e di proporre alcuna considerazione di nuovo, acciò sia essaminata e considerato se vi sia cosa che possa in alcun modo arrecar qualche lume ed agevolar la strada al ritrovamento del vero …

E più oltre, a Grassi che continua ripetendo l’essere le cose vere perché dette da diverse autorità e financo da poeti, egli risponde:

parermi cosa assai nuova che, di quel che sta in fatto, altri voglia anteporre l’attestazioni d’uomini a ciò che ne mostra l’esperienza.

… vi chiarirete quanta sia la forza dell’umane autorità sopra gli effetti della natura, sorda ed inessorabile a i nostri vani desiderii.

Queste poche righe sono una lezione importante a quanti pensavano che Galileo tentava di soppiantare un’autorità (Aristotele) con un altra autorità (la sua). Non vi sono verità che si cercano ma spiegazioni a posteriori. E’ inutile che noi pensiamo che le cose vanno in un determinato modo se l’esperienza non ce lo conferma. Insomma, e molti nostri contemporanei dovrebbero alfine rendersene conto e non sovrapporre ciò che credono ai dati di fatto, la scienza produce conoscenze provvisorie che via via possono essere smentite da esperienze sempre più sofisticate. E lo scienziato opera in un universo complicatissimo del quale egli è in grado di conoscere poche cose. E’ un processo che si arricchisce continuamente (ma non linearmente) di spiegazioni a fatti diversi; tali spiegazioni producono la conoscenza di nuovi fenomeni che si tenterà di spiegare e così via. Il processo è infinito e l’uomo-Achille non raggiungerà mai l’universo-tartaruga. Chi crede in una scienza portatrice di verità, è semplicemente persona che non sa in cosa consiste la ricerca scientifica.

Il discorso si sposta poi sul rapporto dei nostri sensi con la realtà esterna (la cometa che vediamo con il cannocchiale è percepita dal nostro occhio a seguito di interazioni della luce con le lenti. Quando la luce è entrata nell’occhio, l’elaborazione di quell’immagine non è più oggettiva). Quando percepiamo, con gli strumenti del senso, qualcosa e la descriviamo tendiamo ad assegnare agli oggetti ed ai fenomeni delle proprietà che esprimiamo con delle parole. Quindi sensi, fenomeni, descrizione di essi sono legati in qualche modo ma non possiamo certo dire che tutto, lungo la sequenza, sia oggettivo. Intanto dipende da come sono fatti i sensi di ciascun osservatore la realtà. E’ possibile che vi sia un dato fenomeno descritto in modo diverso perché percepito in modo diverso. Diventa allora indispensabile un criterio per capire cosa è realtà e cosa nostra percezione di essa (apparenza). Data questa questione fondamentale ne segue subito un’altra: il ragionare, il discutere, il sistemare, l’organizzare, … deve essere sulla realtà e non sull’apparenza. Se ci imbarcassimo in discussioni su ciò che  a noi appare rischiamo di fare errori clamorosi. Quali sono quindi le cose esterne, i fenomeni, e  quali le proprietà che noi gli assegniamo in quanto ci provengono dal senso ? Galileo dice:

Restami ora che, conforme alla promessa fatta di sopra a V. S. Illustrissima, io dica certo mio pensiero intorno alla proposizione “Il moto è causa di calore”, mostrando in qual modo mi par ch’ella possa esser vera. Ma prima mi fa di bisogno fare alcuna considerazione sopra questo che noi chiamiamo caldo, del qual dubito grandemente che in universale ne venga formato concetto assai lontano dal vero, mentre vien creduto essere un vero accidente affezzione e qualità che realmente risegga nella materia dalla quale noi sentiamo riscaldarci.

Per tanto io dico che ben sento tirarmi dalla necessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch’ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch’ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch’ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch’ella si muove o sta ferma, ch’ella tocca o non tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, né per veruna imaginazione posso separarla da queste condizioni (e queste sono le cose che la scienza deve e può studiare, ndr); ma ch’ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata: anzi, se i sensi non ci fussero scorta, forse il discorso o l’immaginazione per se stessa non v’arriverebbe già mai. Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori, etc., per la parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso l’animale, sieno levate ed annichilate tutte queste qualità; tuttavolta però che noi, sì come gli abbiamo imposti nomi particolari e differenti da quelli de gli altri primi e reali accidenti, volessimo credere ch’esse ancora fussero veramente e realmente da quelli diverse.

Si sta discutendo di qualità oggettive e soggettive (quelle che Locke chiamerà “primarie” e “secondarie”) anche qui attaccando la filosofia peripatetica che voleva le ultime insite nei corpi e non assegnate ad esse dai nostri sensi. In particolare Galileo sta spiegando una sua affermazione relativa al calore prodotto dal moto. Egli afferma la sua «inclinazione a credere» che ciò che in noi produce la sensazione di calore «siano una moltitudine di corpicelli minimi in tal e tal modo figurati, mossi con tanta e tanta velocità» e che il loro contatto con il nostro corpo «sentito da noi, sia l’affezione che noi chiamiamo caldo» (è una ripresa dell’atomismo di Democrito, fumo negli occhi per gli aristotelici). Continua Galileo: «inclino assai a credere che il calore sia di questo genere, e che quelle materie che in noi producono e fanno sentire il caldo, le quali noi chiamiamo con nome generale fuoco, siano una moltitudine di corpicelli minimi, in tal e tal modo figurati, mossi con tanta e tanta velocità; li quali, incontrando il nostro corpo, lo penetrino con la lor somma sottilità, e che il lor toccamento, fatto nel lor passaggio nella nostra sostanza e sentito da noi, sia l’affezzione che noi chiamiamo caldo, grato o molesto secondo la moltitudine e velocità minore o maggiore di essi minimi che ci vanno pungendo e penetrando» (si noti che questa, in certo modo è l’enunciazione della teoria cinetica, ndr). E perché Galileo è entrato in tale discussione ? Ancora per controbattere Grassi che lo controbatteva. Grassi, infatti, gli rinfacciava la concezione aristotelica delle comete. In tale concezione, come accennato, il moto sarebbe la causa dell’incendio delle comete e questo è ancora conseguenza della concezione aristotelica che vorrebbe una freccia lanciata, riscaldarsi lungo il cammino. Galileo contesta ciò con numerosi esempi, introduce il suo termoscopio, rovescia le argomentazioni di Grassi sostenendo che una freccia infuocata, se viene lanciata si spegne e quindi si raffredda, … fino ad arrivare a sostenere che il moto è calore ma in una visione radicalmente differente da chi lo vorrebbe far diventare aristotelico. Galileo è nella condizione di un pugile che ha una mano legata dietro la schiena. Egli può attaccare ma senza far ricorso a Copernico. Può solo demolire quella fisica che Grassi continuava a mantenere nel sistema thyconico, e lo fa in modo splendido continuando a colpire Grassi in ogni suo riferirsi ad Aristotele, ad ogni sillogismo utilizzato, ad ogni argomentazione portata a sostegno delle sue tesi.

Occorre sbarazzarsi del banale empirismo e non accontentarsi più del buon senso ma di ricercare le spiegazioni non ingenue della natura che ci circonda. Il mondo reale è un insieme di dati quantitativi e misurabili, di spazio e di «corpicelli minimi» che si muovono in esso. E’ proprio dello scienziato il distinguere ciò che nel mondo è obiettivo e reale e ciò che è invece soggettivo e relativo alla percezione dei sensi. E qui Galileo sta dicendo che Grassi sbaglia anche dal punto di vista dell’approccio ai fatti naturali (confonde i dati dei sensi con quelli della realtà) e, nel contempo, dice cose molto compromettenti, sta cioè rivendicando il primato della scienza sulla religione nella spiegazione del mondo.

Ma il discorso va avanti ed arriva al passo forse più noto de Il Saggiatore. Vediamo come ci si arriva. 

Galileo, come già detto (e qui torniamo alle prime pagine de Il Saggiatore), attaccava Grassi per la sporca operazione del sostegno al sistema thyconico, mediante le comete, al fine di non cambiare nulla di ciò che interessava: Terra immobile al centro dell’Universo e fisica aristotelica per descrivere il tutto. Galileo aggiunge ora la considerazione che chiamar ora in paragon Ticone, Tolomeo e Copernico, i quali non trattaron mai d’ipotesi attenenti a comete, non … ci abbia luogo opportuno. Inoltre è falso che Grassi abbia seguito Ticone, fuor che le dimostrazioni per ritrovare il luogo della cometa, …; anzi nessuna cosa vi è meno, che simile dimostrazione. Tolga Iddio che il P. Grassi avesse in ciò imitato Ticone, né si fusse accorto, quanto nel modo d’investigar la distanza della cometa per l’osservazioni fatte in due luoghi differenti in Terra, si mostri bisognoso della notizia de’ primi elementi delle matematiche.

E qui Galileo attacca con durezza per la solita questione che anche oggi ci occupa: chi non conosce la matematica la deve finire di dare giudizi su cose che non conosce. Inoltre quello che dice il Grassi che nel suo lavoro non vi è altro fuor che le dimostrazioni per ritrovare il luogo della cometa, sia detto con sua pace, non è vero; anzi nessuna cosa vi è meno, che simile dimostrazione. Tolga Iddio che il P. Grassi avesse in ciò imitato Ticone, né si fusse accorto, quanto nel modo d’investigar la distanza della cometa per l’osservazioni fatte in due luoghi differenti in Terra, si mostri bisognoso della notizia de’ primi elementi delle matematiche.

E quindi fuor del caso s’introducono Tolomeo e Copernico, de’ quali non si trova che scrivessero mai parola attenente a distanze, grandezze, movimenti e teoriche di comete, delle quali sole, e non d’altro, si è trattato, e con altrettanta occasione vi si potevano accoppiare Sofocle, e Bartolo, o Livio. Parmi, oltre a ciò, di scorgere nel Sarsi ferma credenza, che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all’opinioni di qualche celebre autore, sì che la mente nostra, quando non si maritasse col discorso d’un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda; e forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo, come l’Iliade e l’Orlando furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. Signor Grassi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. Ma posto pur anco … che l’intelletto nostro debba farsi mancipio dell’intelletto d’un altr’uomo …  e che nelle contemplazioni de’ moti celesti si debba aderire ad alcuno, io non veggo per qual ragione ei s’elegga Ticone, anteponendolo a Tolomeo e a Nicolò Copernico, de’ quali due abbiamo i sistemi del mondo interi e con sommo artificio costrutti e condotti al fine; cosa ch’io non veggo che Ticone abbia fatta … Essendo, dunque, sicuramente falsi li due sistemi, e nullo quello di Ticone, non dovrebbe il Grassi riprendermi se con Seneca desidero la vera costituzion dell’universo

Insomma Grassi imbroglia tirando in ballo Tolomeo e Copernico su un argomento che non hanno toccato, le comete. E ciò al fine di esaltare Thyco, tirato in ballo per dimostrazioni che non ha mai fornito e con il solito metodo di anteporre la supposta autorità di chi avrebbe detto una certa cosa piuttosto che tentare di dimostrarla. Non c’è niente da fare: per capire una cosa scritta con linguaggio matematico, occorre conoscere la matematica. La natura, pur essendo«sorda e inesorabile ai nostri vani desideri», pur producendo i suoi effetti«in maniere inescogitabili da noi», è scritta in linguaggio matematico (su tale fondamentale concetto, Galileo ritornerà in una lettera a Fortunio Liceti del 1641, un anno prima della sua morte) e per capirla occorre conoscere quel carattere. Inoltre, come dice espressamente Galileo, noi abbiamo l’abitudine di “non affermare per certe se non le cose che noi sappiamo indubitatamente, che così c’insegna la nostra filosofia e le nostre matematiche“. Questo è il criterio di verità di Galileo e non quello dell’alzata di mano attraverso quanti hanno sostenuto quell’ipotesi e meglio se sono famosi. Non si fa un solo passo in avanti se si pretende ogni volta di dover dire tutto, di dover esaurire completamente l’oggetto di studio. Ci si deve concentrare su studi che riguardino certi aspetti, certi fenomeni, il pretendere di avere subito la risposta sul funzionamento dell’Universo è sciocca. Quindi occorrono certe sensate esperienze e certe dimostrazioni per avvicinarsi a comprendere davvero il mondo circostante passo a passo. Il resto è metafisica. In definitiva il problema che si pone è questo: il sistema di Copernico non va bene perché lo dice la Chiesa; quello di Tolomeo è sbagliato per varie dimostrazioni che lo riguardano; quello di Thyco ha i gravi difetti che si vanno denunciando … Siamo fermi aspettando cosa fare.

Il Papa Urbano VIII fu entusiasta de Il Saggiatore (che si faceva leggere durante i pasti) e ricevette Galileo in Vaticano per ben sei volte in sei settimane, nel 1624. Nell’occasione lo incoraggiò a scrivere ancora confrontando i vari sistemi astronomici, incluso quello copernicano ma con la condizione, per quest’ultimo, che si parlasse solo in ipotesi, come se fosse una elaborazione matematica che, in quanto tale, non aveva nulla a che fare con la verità(34)

Nei giorni romani il nipote del Papa, il cardinale Francesco Barberini, ricevette Galileo. Quest’ultimo ebbe altre esplosioni di entusiasmo quando consegnò l’ultima sua creazione, il microscopio, al cardinale Zollern perché lo portasse al Duca di Baviera(35). Infine il Papa (che nel 1926 libererà dal carcere Tommaso Campanella) assunse in Vaticano diversi membri dell’Accademia dei Lincei (tra i quali accademici vi era anche Galileo) ed in particolare l’accademico Giovanni Ciampoli, grande amico di Galileo, fu nominato segretario particolare per la corrispondenza del Papa.

Sembrava proprio che il clima fosse cambiato e Galileo si sentì incoraggiato ad andare avanti con i suoi lavori. Iniziò così la lavorazione della sua opera principale, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano.

PARTE QUARTA: IL DIALOGO

I PRELIMINARI

Nell’anno 1624 Galileo fece un’altra operazione. Scrisse una lettera di Risposta a Francesco Ingoli(36), un accanito aristotelico, giurista di Ravenna e segretario della Congregazione di Propaganda Fide, che tempo addietro (1616) aveva sostenuto tesi contro Copernico nel suo opuscolo De situ et quiete Terrae contra Copernici systema disputatio. Il fine non era certo quello di convincere il personaggio ma quello di far conoscere in modo indiretto al Papa i contenuti del libro che si apprestava a scrivere. Galileo rispose a tutte le obiezioni che Ingoli aveva fatto sul moto della Terra ed aggiunse anche che il decreto del 1616 era dettato non da argomenti anticopernicani (molto deboli) ma da questioni teologiche. Fu Ciampoli a far leggere al Papa questa Risposta all’Ingoli. E la risposta piacque. E fu così che Galileo si sentì particolarmente motivato a scrivere il Dialogo(37). In questa risposta Galileo non disse nulla per sostenere il sistema copernicano ma operò con sottigliezza, demolendo ogni argomentazione a favore dell’immobilità della Terra. Solo in qualche punto emergevano le sue posizioni di fondo, come quando diceva se luogo alcuno nel mondo può chiamarsi suo centro, questo è il centro delle celesti conversioni; ed in questo è noto a ciascheduno che intende queste materie ritrovarsi il Sole e non la Terra e quando, in modo più pericoloso e riferendosi al decreto del 1616, diceva: La natura, Signor mio, si burla delle costituzioni e decreti dei principi, degli imperatori e dei monarchi, a richiesta dei quali non muterebbe un iota delle leggi e statuti suoi che è come dire che non ci sono decreti che tengano. 

Come già detto, a parte piccole osservazioni, la Risposta piacque al Papa e sembrò così a Galileo che potesse avviarsi alla redazione del Dialogo che gli richiese intorno ai cinque anni di lavoro, dal 1624 agli inizi del 1630. Vi furono poi tutti i passi da fare per la pubblicazione e solo nel 1631 si avviò il processo.L’autorizzazione spettava al Maestro del Sacro Palazzo a Roma, Niccolò Riccardi (detto Padre Mostro perché grasso ed erudito), che a maggio scrisse all’Inquisitore di Firenze dettandogli le regole a cui doveva sottostare il manoscritto per poter essere stampato. Intanto, e questa sembra sia stata una richiesta dello stesso Papa, il titolo e soggetto non si proponga del flusso e reflusso. La seconda richiedeva che Galileo poteva parlare solo di matematica considerazione della posizione copernicana intorno al moto della Terra senza mai sostenere la verità assoluta di tale moto. A queste condizioni fu concesso l’imprimatur. Galileo si mise all’opera per le correzioni e poi portare tutto personalmente a Roma ed avere l’imprimatur definitivo (osservo che se un’opera nasce con un titolo e lo si deve cambiare alla fine, correggere diventa complicato con il rischio di avere un prodotto non proprio coerente. Su questo argomento si veda oltre).

Un impedimento creò problemi: scoppiò la peste, quella raccontata dal Manzoni. Non ci si poteva muovere liberamente e Galileo restò bloccato a Firenze. Da Roma si ottenne il permesso di far fare la revisione del manoscritto da un consultore dell’Inquisizione, il domenicano Giacinto Stefani. La revisione, molto blanda, fu fatta e, anche se Padre Mostro non si fidava, l’imprimatur definitivo arrivò, il 24 maggio 1631, dall’Inquisitore generale di Firenze, Clemente Egidi, su licenza di Padre Mostro. Solo il Proemio e la Chiusa sarebbero stati concordati tra Galileo e censore. Il libro andò quindi alle stampe e fu pronto il 21 febbraio del 1632(37 bis).

L’ opera è scritta sotto forma di dialogo tra tre personaggi in differenti giornate. Questa idea era già stata utilizzata da Giordano Bruno nella Cena delle Ceneri ed anche la tipologia dei personaggi si somiglia. In Bruno vi sono Smitho (un amico di Bruno, educato alla filosofia aristotelica ma aperto al nuovo), Teofilo (lo stesso Bruno, colui che è portatore del nuovo) e Prudenzio (il pedante sostenitore della tradizione); in Galileo i suddetti ruoli sono rispettivamente di Sagredo, Salviati e Simplicio.

Prima di entrare a raccontare il contenuto del Dialogo, conviene raccontare in breve quali furono le reazioni immediate dell’autorità ecclesiastica e particolarmente del Papa.

Le accuse erano(38):

1. Aver posto l’imprimatur di Roma senz’ordine, e senza participar la publicazione con chi si dice aver sottoscritto.

2. Aver posto la prefazione [nella quale due concetti vengono detti esplicitamente: che si promulgò a gli anni passati in Roma un salutifero editto, che … imponeva opportuno silenzio all’opinione Pittagorica della mobilità della Terra e che egli espone le teorie copernicane in pura ipotesi matematica, ndr] con carattere distinto, e resala inutile come alienata dal corpo dell’opera, et aver posto la medicina del fine in bocca di un sciocco, et in parte che né anche si trova se non con difficoltà, approvata poi dall’altro interlocutore freddamente, e con accennar solamente e non distinguer il bene che mostra dire di mala voglia. [riguardo al Proemio è da osservare che è ora la Chiesa a reclamare una colpa ad una prefazione, ribaltando quanto essa stessa aveva sornionamente accettato con quella di Osiander all’opera di Copernico, ndr].

3. Mancarsi nell’opera molte volte e recedere dall’hipotesi, o asserendo assolutamente la mobilità della terra e stabilità del sole, o qualificando gli argomenti su che la fonda per dimostrativi e necessarii, o trattando la parte negativa per impossibile.

4. Tratta la cosa come non decisa, e come che si aspetti e non si presupponga la definizione.

5. Lo strapazzo de gl’autori contrarii e di chi più si serve Santa Chiesa.

6. Asserirsi e dichiararsi male qualche uguaglianza, nel comprendere le cose geometriche, tra l’intelletto umano e divino.

7. Dar per argomento di verità che passino i tolemaici ai copernicani, e non e contra.

8. Haver mal ridotto l’esistente flusso e reflusso del mare nella stabilità del sole e mobilità della terra, non esistenti. Tutte le quali cose si potrebbono emendare, se si giudicasse esser qualche utilità nel libro, del quale gli si dovesse far questa grazia.

In definitiva, si può riassumere il tutto nelle seguenti tre accuse principali:

– non aver dato il copernicanesimo come pura ipotesi matematica, ma averlo sostenuto come verità; 

– l’aver ridicolizzato le posizioni di chi difendeva il sistema tolemaico (lo stesso Papa!) mettendole in bocca di un cretino come Simplicio. E questo soprattutto   nella Chiusa(39)dove si doveva dire che il tutto era ipotetico, che passa inosservata perché messa in bocca a Simplicio e dove viene resa banale la tesi che il Papa aveva sostenuto al proprio Galileo, quella secondo cui Dio, nella sua infinita potenza, era in grado di far sì che i fenomeni osservabili potessero essere provocati in una infinità di maniere diverse tra loro. Con tali premesse, osservare i fenomeni non avrebbe mai potuto portare gli uomini alla verità. Inoltre, la frase di Salviati che segue sa di una grande forzatura: definire “mirabile dottrina” quella di uno che è stato maltrattato per tutta l’opera è posticcio;

– aver usato alcune furbizie tipografiche tra le quali, oltre alla citata, (e la cosa non poteva esserci nei capi d’accusa ufficiali) il fatto che nel frontespizio del Dialogo vi fosse il logo dello stampatore costituito da tre delfini che si rincorrono a cerchio. 

Ora il Papa aveva tre nipoti (all’epoca anche i figli dei Papi assumevano il ruolo di nipoti) che amava molto ed ai quali faceva molti favori. Il fatto che qualcuno potesse ironizzare lo fece infuriare. Discrete indagini a Firenze stabilirono che la cosa era del tutto casuale (in ogni caso Urbano VIII ebbe a dire che il Dialogo era più esecrando e pernicioso alla Santa Chiesa che le scritture di Lutero e Calvino).

C’è da dire che in massima parte fu la peste che vi pose lo zampino ma che vi fu anche negligenza da parte di coloro che dovevano controllare e a Roma e a Firenze (e si trattava di teologi e studiosi che godevano della fiducia del Papa!). La Chiusa sembra non sia stata neppure letta da Padre Mostro ed invece lo doveva fare. La cosa sarebbe stata di facile correzione per Galileo: mettere in bocca quelle poche cose magari a Sagredo avrebbero risolto molto. Il Proemio sarebbe stato facilmente riportabile ad uguale carattere. Credo che a Roma si fosse soprattutto preoccupati per le apparenze che erano quelle dette.

Il fatto che, nel corso delle conversazioni tra i tre personaggi, siano state riportate per bocca di Simplicio le obiezioni che lo stesso Papa aveva fatto a Galileo negli incontri del 1624 mi sembra peregrino. Non era il solo Papa che faceva esattamente le stesse obiezioni. Esse erano comuni a tutti gli aristotelici, compreso il Galileo precopernicano. E quest’ultimo, a me pare, deve essere stato il massimo serbatoio delle obiezioni che Galileo fa fare a Simplicio (per altri versi modellato, nel bene, all’amico Cremonini e, per il resto, a quel cialtrone di Ludovico delle Colombe, della lega del pippione).

Da ultimo è da notare che l’aver scritto il Dialogo in volgare lo rendeva ancora più pericoloso per il molto maggior numero di persone che sarebbe venuto a conoscenza dei suoi contenuti.

Passo ora al contenuto del Dialogo ma non nella sua descrizione puntuale. Cercherò solo di riassumere l’enorme mole di novità che essa comportava e di cogliere gli aspetti che ritengo rilevanti.


NOTE

(25) I documenti noti di questo primo processo a Galileo si trovano in E.N. Vol. 19 da pag. 272 a pag. 421.

(26) 

DECRETUM
Sacrae Congregationis Illustrissimorum S. R. E. Car-
dinalium, a S. D. N. Paulo Papa V Sanctaque Sede
Apostolica ad Indicem librorum, eorumdemque
permissionem, proibitionem, expurgationem et
impressionem in universa Republica Christia-
na, specialiter deputatorum, ubique publi-
candum.

Cum ab aliquo tempore dira prodierint in lucem inter alias nonnulli libri varias haereses atque errores continentes, ideo Sacra Congregatio Illustrissimorum S. R. E. Cardinalium ad Indicem deputatorum, ne ex eorum lectione graviora in dies damna in tota Republica Christiana oriantur, eos omnino damnandos atque prohibendos esse voluit; siculi praesenti Decreto poenitus damnat et prohibet, ubicumque et quovis idiomate impressos aut imprimendos: mandans ut nullus deinceps, cuiuscumque gradus et conditionis, sub poenìs in Sacro Concilio Tridentino et in Indice libro-rum prohibitorum contentis, eos audeat imprimere aut imprimi curare, vel quomodocumque apud se detinere aut legere; et sub iisdem poenis, quicumque nunc illos habent vel habuerint in futurum, locorum Ordinariis seu Inquisitoribus, statim a praesentis Decreti notitia, exhibere teneantur. Libri autem sunt infrascripti, videlicet:
Theologiae Calvinistarum libri tres, auctore Conrado Schlusserburgio.
Scotanus Redivivus, sive Comentarius Erotematicus in tres priores libros codicis, etc.
Gravissimae quaestionis Christianarum Ecclesiarum in Occidente praesertim partibus, ab Apostolicis temporibus ad nostram usque aetatem continua successione et statu, historica explicatio, auctore lacobo Usse-rio, Sacrae Theologiae in Dubliniensi Academia apud Hybernos professore.
Friderici Achillis, Ducis Vuertemberg, Consultatio de principatu inter Provincias Europae, habita Tubingiae in Illustri Collegio, Anno Christi 1613.
Donelli Enucleati, sive commentariorum Hugonis Donelli de lure Civili, in compendiimi ita redactorum etc.
Et quia etiam ad notitiam praefatae Sacrae Con-gregationis pervenit, jalsam illam doctrinam Pithagorìcam, divinaeque Scnpturae omnino adversantem, de mobilitate terrae et immobilitate solis, quam Nicolaus Copernicus De revolutionibus orbium coelestium, et Didacus Astunica in Job, etiam docent, iam divulgari et a multis recìpi; siculi videre est ex quadam Epistola impressa cuiusdam Patris Carmelitae, cui titulus: «Lettera del R. Padre Maestro Paolo Antonio Foscarini Carmelitano, sopra l’opinione de’ Pittagorici e del Copernico della mobilità della terra e stabilità del sole, et il nuovo Pittagorico sistema del mondo. In Napoli, per Lazzaro Scoriggio, 1615 », in qua dictus Poter estendere conatur, praefatam doctrinam de immobilitate solis in centro mundi et mobilitate terrae consonam esse ventati et non adversari Sacrae Scnpturae; ideo, ne ulterius huiusmodi opinio in perniciem Catholicae veritatis serpai, censuit, dictos Nicolaum Copernicum De revolutionibus orbium, et Didacum Astunica in Job, suspendendos esse, donec corrigantur; librum vero Patris Pauli Antonii Foscarini Carmelitae omnino prohìbendum atque damnandum; aliosque omnes li-bros, pariter idem docentes, prohibendos: prout praesenti Decreto omnes respective prohibet, damnat atque suspendit.

(27) Die Jovis 25 Februarii 1616.

Ill.mus D. Cardinalis Millinus notificavi RR. PP. DD. Assessori et Commissario S.cti Officii, quod relata censura PP. Theologorum ad propositiones Gallilei Mathematici, quod sol sit centrum mundi et immobilis motii locali, et terra moveatur etiam motu diurno, S.mus ordinavit Ill.mo D. Cardinali Bellarmino, ut vocet_coram se dictum Galileum, eumque moneat ad deserendam dictam opinionem ; et si recusaverit parere, P. Commissarius, coram notario et testibus, faciat illi praeceptum ut omnino abstineat huiusmodi doctrinam et opinionem docere aut defendere, seu de ea tractare; si vero non acquieverit, carceretur.

Die Veneris 26 eiusdem.

In palatio solitae habitationis dicti Ill.mi D. Card.lis Bellarminii et in mansionibus Dominationis Suae Ill.mae, idem Ill.mus D. Card.lis, vocato supradicto Galileo, ipsoque coram D. sua Ill.ma existente, in praesentia admodum R. P. Fratris Michaelis Ange!i Seghitii de Lauda, ordinis Praedicatorum, Commissarii generalis S.ti Officii, praedictum Galileum monuit de errore supradictae opinionis et ut illam deserat; et successive ac incontinenti, in mei etc. et testium etc., praesente etiam adhuc eodem Ill.mo D.Card.li supradictus P. Commissarius praedicto Galileo adhuc ibidem praesenti et constituto praecepit et ordinavit [proprio nomine] S.mi D. N. Papae et totius Congregationis S.ti Officii, ut supradictam opinionem, quod sol sit centrum mundi et immobilis et terra moveatur, omnino relinquat, nec eam de caetero, quovis modo, teneat, doceat aut defendat, verbo aut scriptis; alias, cantra ipsum procedetur in S.to Officio. Cui praecepto idem Galileus acquievit et parere promisit. Super quibus etc.
Actum Romae ubi supra, praesentibus ibidem R.do Badino Nores de Nicosia in regno Cypri, et Augustino Mongardo de loco Abbatiae Rosae, dioc. Politianensis, familiaribus dicti Ill.mi D. Cardinalis, testibus etc.

(28) E.N. Vol 12, pag. 443.

(29) Disputatio astronomica de tribus cometis anni MDCXVIII, tenuta al Collegio Romano da Padre Grassi. E.N. Vol 6, pagg. 23-35.

(30) Discorso delle comete. E.N. Vol 6, pagg. 39-108.

(31) Ibidem, pag. 82.

(32) Racconta Stillman Drake un gustoso episodio a proposito dello pseudonimo di Grassi. Il nome del Grassi in latino era Horatii Grassi Savonensis, essendo Grassi originario di Savona. Il nome che compariva su la Libra sarebbe dovuto essere l’anagramma del precedente: Lotharii Sarsii Sigensani. Ma l’anagramma è difettoso e gli allievi di Galileo scherzavano dicendo che forse Grassi era in realtà di Salona (in tal caso l’anagramma sarebbe risultato corretto), città famosa per il suo bestiame.

(33) E.N. Vol. 6, pag. 213.

(34) Galileo, in uno degli incontri con il Papa, gli illustrò la sua teoria delle maree come prova del moto della Terra. Il Papa gli rispose più o meno così: nessuna teoria può provare il moto della Terra perché è della onnipotenza di Dio creare gli stessi fenomeni in una molteplicità di modi diversi (la cosa fu raccontata in seguito da un cardinale che aveva assistito ai colloqui).

(35) Zoellern, prima di tornare in Baviera, ebbe un colloquio con il Papa nel quale gli disse di avere attenzione per la proibizione del copernicanesimo in quanto, in Germania, tutti i protestanti erano copernicani. E questo fatto avveniva perché si riconosceva il prestigio di Kepler (invece in Italia …) e nonostante il tuonare violento di Lutero contro Copernico: “La gente ha prestato orecchio ad un astrologo da quattro soldi (il riferimento è a Copernico, ndr) il quale ha cercato di dimostrare che la Terra gira, e non i cieli e il firmamento, il Sole e la Luna (…). Questo insensato intende sconvolgere l’intera scienza astronomica, ma la S. Scrittura ci dice che Giosuè ordinò al Sole, e non alla Terra, di fermarsi” e Calvino non è da meno. Ricordo che uno dei cardini della dottrina luterana è la sola scriptura  che impone come unica fonte di verità la Bibbia stessa, da non sottoporsi ad alcun genere di rielaborazione interpretativa per quanto autorevole. Riprendere in mano il decreto del 1616 equivaleva a smentire la Bibbia, per aprire così un ennesimo fronte di conflitto con i Luterani e, di conseguenza, perdere ancora dei fedeli.

(36) E.N. Vol. 6, pagg. 501-561.

(37) Questo era il titolo originale. L’altro, più lungo, fu dato nel 1744, quando si ebbe il permesso di ristampare il Dialogo, sequestrato e bruciato dopo il processo. Invece il titolo che originariamente voleva dare Galileo era: Dialogo sul flusso e reflusso del mare. Nel libro infatti si parla poco di astronomia e molto di fisica, il sistema tolemaico non viene neppure descritto ed è da notare che, da subito, Galileo neppure prende in considerazione il sistema thyconico che era tanto caro al Collegio Romano. Ciò rende ragione di una apparente disorganicità del libro stesso che annuncia un qualcosa nel titolo che poi non appare trattata. Questa cosa viene discussa in modo approfondito da Stillman Drake nel capitolo 12.

(37 bis) A giugno 1632 alcune copie del Dialogo erano a Roma. Padre Scheiner, che aveva appena pubblicato un libro anticopernicano, la Rosa Ursina, vide il Dialogo in una libreria e si indignò anche perché un padre olivetano, Vincenzo Renieri, ne parlò come del più grande libro che fosse mai stato scritto. Così l’episodio è raccontato da Benedetto Castelli a Galileo il 19 giugno 1632:

« II padre Scheiner, ritrovandosi in una libraria dove un tal Padre Olivetano venuto di Siena a’ giorni passati, si ritrovava, e sentendo che il Padre Olivetano dava le meritate lodi a i Dialogi, celebrandoli per il maggior libro che fusse mai uscito in luce, si commosse tutto con mutazione di colore in viso e con un tremore grandissimo nella vita e nelle mani, in modo che il librario, quale mi ha raccontata l’istoria, restò meravigliato; e mi disse di più che il detto Padre Scheiner aveva detto, che avrebbe pagato un di questi libri dieci scudi d’oro per poter rispondere subbito subbito » 

(38) Processo di Galileo. 1611-1822. E.N. Vol. 19, pagg. 326-327.

(39) E.N. Vol. 7, pag. 488-489. 

SALVIATI – … E come a voi [Sagredo] mi ha obbligato la vostra gentilezza, così m’è piaciuta l’ ingenuità del Sig. Simplicio ; anzi la sua costanza nel sostener con tanta forza e tanto intrepidamente la dottrina del suo maestro, me gli ha reso affezionatissimo : e come a V. S., Sig. Sagredo, rendo grazie del cortesissimo affetto, così al Sig. Simplicio chieggio perdono se tal volta co ‘1 mio troppo ardito e resoluto parlare 1’ ho alterato ; e sia certo che ciò non ho io fatto mosso da sinistro affetto, ma solo per dargli maggior occasione di portar in mezo pensieri alti, onde io potessi rendermi più scienziato.

SIMPLICIO –  [E la seguente sarebbe la Chiusa, ndr] Non occorre che voi arrechiate queste scuse, che son superflue, e massime a me, che, sendo consueto a ritrovarmi tra circoli e pubbliche dispute, ho cento volte sentito i disputanti non solamente riscaldarsi e tra di loro alterarsi, ma prorompere ancora in parole  ingiuriose, e talora trascorrere assai vicini al venire a i fatti. Quanto poi a i discorsi avuti, ed in particolare in quest’ultimo intorno alla ragione del flusso e reflusso del mare, io veramente non ne resto interamente capace ; ma per quella qual si sia assai tenue idea che me ne son formata, confesso, il vostro pensiero parermi bene più ingegnoso di quanti altri io me n’ abbia sentiti, ma non però lo stimo verace e concludente : anzi, ritenendo sempre avanti a gli occhi della mente una saldissima dottrina, che già da persona dottissima ed eminentissima appresi [chiaro riferimento al Papa, ndr]  ed alla quale è forza quietarsi, so che amendue voi, interrogati se Iddio con la Sua infinita potenza e sapienza poteva conferire all’ elemento dell’ acqua il reciproco movimento, che in esso scorgiamo, in altro modo che co ‘1 far muovere il vaso contenente, so, dico, che risponderete, avere egli potuto e saputo ciò fare in molti modi, ed anco dall’ intelletto nostro inescogitabili [riferimento all’argomento che stava molto a cuore al Papa, ndr]. Onde io immediatamente vi concludo, che, stante questo, soverchia arditezza sarebbe se altri volesse limitare e coartare la divina potenza e sapienza ad una sua fantasia particolare.                                            

SALVIATI –  Mirabile e veramente angelica dottrina: alla quale molto concordemente risponde quell’ altra, pur divina, la quale, mentre ci concede il disputare interno alla costituzione del mondo, ci soggiugne (forse acciò che l’esercizio delle menti umane non si tronchi o anneghittisca) che non siamo per ritrovare l’ opera fabbricata dalle Sue mani. Vaglia dunque 1′ esercizio permessoci ed ordinateci da Dio per riconoscere e tanto maggiormente ammirare la grandeza Sua, quanto meno ci troviamo idonei a penetrare i profondi abissi della Sua infinita sapienza.

SAGREDO – E questa potrà esser l’ ultima chiusa de i nostri ragionamenti quatriduani : dopo i quali se piacerà al Sig. Salviati prendersi qualche intervallo di riposo, conviene che dalla nostra curiosità gli sia conceduto, con condizione però che, quando gli sia meno incomodo, torni a sodisfare al desiderio, in particolare mio, circa i problemi lasciati indietro, e da me registrati per proporgli in una o due altre sessioni, conforme al convenuto ; e sopra tutto starò con estrema avidità aspettando di sentire gli elementi della nuova scienza del nostro Accademico intorno a i moti locali, naturale e violento. Ed in tanto potremo, secondo il solito, andare a gustare per un’ ora de’ nostri freschi nella gondola che ci aspetta.


BIBLIOGRAFIA

(l’unico ordine è relativo all’ordine con il quale ho consultato le varie opere)

Una avvertenza è necessaria: è impossibile riportare tutto ciò che su Galileo è stato pubblicato. Riporterò solo alcuni testi, quelli da me consultati per questo lavoro tra i quali alcuni che vale la pena leggere.

            Innanzitutto Galileo va letto nelle sue opere che sono fruibili da ogni persona che sia semplicemente curiosa ed interessata. Le cose da sapere prima sono in gran parte riportate dai “Frammenti di storia ….“. Non vi è matematica da conoscere preliminarmente. Vi sono varie edizioni di opere originali di Galileo e tutte vanno bene. Personalmente consiglio i 20 volumi dell’Edizione Nazionale che riportano tutto ciò che Galileo ha fatto in ordine cronologico, includendo una mole impressionante di lettere. Questa Edizione Nazionale nasceva tra il 1890 ed il 1909. Io ho una delle varie ristampe, quella del 1968 fatta fa G. Barbera. Una tale edizione cartacea è oggi introvabile ma gli interessati la troveranno pubblicata per intero nel sito.

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