NEWTON 2

Fiat Newton et lux fuit

Roberto Renzetti

PARTE   II

3.1 – LA DEFINIZIONE DI MASSA

        Galileo e la sua scuola avevano iniziato a sistematizzare la gran mole di conoscenze che via via, in lunghi e travagliatissimi anni, dominati dall’oscurantismo della Chiesa, si erano accumulate. Con loro nasceva una scienza nuova, quella del moto, in gran parte solo cinematico. Abbiamo visto in altro lavoro, che con la percossa si intendeva una sorta di impulso (una forza per un dato tempo) come oggi lo chiameremmo. Quindi nell’aria vi era l’idea di introdurre la causa del moto che non fosse solo la gravità. Con la gravità le cose erano state risolte a buon punto da Baliani e da Torricelli che aveva iniziato a porre chiaramente l’idea di causa del moto in generale. Per altri versi Huygens aveva creato una sorta di parallelismo tra peso e forza centrifuga. Si può dire che le elaborazioni che si andavano accumulando, corroborate da una grande varietà di dati sperimentali e da elaborazioni teoriche che si andavano formalizzando per via ancora del tutto geometrica, erano ormai ad un punto di maturazione nel quale si poteva pensare a dare una organicità all’intera materia. E fu Newton che fece il grande balzo dalla cinematica alla dinamica, dal moto alle sue cause, ricavandone le leggi ed introducendo il concetto di forza. Per far tutto questo, abbiamo visto, gli fu indispensabile definire, proprio come primissimo concetto, in apertura dei Principia, il concetto di massa.

        L’opera si apre con le Definizioni e gli Assiomi, che definiscono appunto i concetti base della meccanica.

        Le Definizioni si aprono così:

 DEFINIZIONE I

     La quantità di materia è la misura della medesima ricavata dal prodotto della sua densità per il volume. 

e, più oltre, Newton dice:

In seguito indicherò questa quantità indifferentemente con i nomi di corpo o massa. Tale quantità diviene nota attraverso il peso di ciascun corpo. Per mezzo di esperimenti molto accurati sui pendoli, trovai che è proporzionale al peso …

        Questa definizione, probabilmente scritta in ogni testo elementare di fisica ed apparentemente innocua, ha messo in moto una quantità incredibile di obiezioni che ancora non si sono definitivamente placate. Con ogni cautela, per quanto dirò più oltre, la questione si pone in questi termini. Per definire una qualunque cosa, oggetto, concetto, è indispensabile farlo con cose, oggetti e concetti noti. Se ciò non è ci rincorriamo in un circolo vizioso di definizione attraverso cose non definite (supponiamo di definire ‘caverna’ come ‘grotta’, se uno poi chiede cos’è una grotta non possiamo dire che la grotta è una caverna). La quantità di materia, che da ora chiamerò massa, è definita mediante il volume e la densità. Per il volume non vi sono problemi ma per la densità ve ne sono perché questa quantità è definita come il quoziente della massa di una sostanza ed il suo volume. Si capisce immediatamente che resta da definire o la massa o la densità. Sarà Mach nel 1883 (duecento anni dopo) a porre con forza tale problema e ad introdurre la definizione di massa come rapporto tra forza ed accelerazione. Pala, che ha curato la traduzione commentata italiana dei Principia, ricorda che E. A. Burtt (The Metaphysical Foundations of Modern Science, 1924) aveva osservato che dopo tutto Newton poteva valersi solo di parametri che allora erano familiari e questa cosa rappresentava già un grande progresso; come alternativa aveva il presentare la massa come concetto primitivo. Ma, a ben vedere, Newton non entrò nel circolo vizioso poiché, quando nel seguito parla di densità lo fa senza definire questa grandezza ma dandola come primitiva. Anche così però si resta insoddisfatti tanto che uno dei curatori di una delle edizioni dell’opera di Newton, H. Pemberton, quando scrisse un lavoro divulgativo (A view of sir Isaac Newton’s philosophy, 1728), definì la quantità di materia come  la misura dell’inerzia dei corpi (vis inertiae).

        Questa prima definizione permette a Newton di dare le successive nelle quali tale concetto di massa è ampiamente utilizzato. E si coglie immediatamente il fatto che la definizione di massa permette da subito l’avvio della dinamica. In particolare, dopo la definizione della quantità di moto, di inerzia della massa (forza insita), di forza impressa (quella capace di mutare lo stato di quiete o di moto di una data massa), … vengono gli Assiomi e, dopo la Legge I (principio d’inerzia)

Ciascun corpo persevera nel proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, eccetto che sia costretto a mutare quello stato da forze impresse.

 e prima della Legge III (principio di azione  e reazione)

Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria: ossia, le azioni di due corpi sono sempre uguali fra loro e dirette verso parti opposte,

viene la

LEGGE II 

        Il cambiamento di moto è proporzionale alla forza motrice impressa, ed avviene lungo la linea retta secondo la quale la forza è stata impressa

        Si tratta della seconda legge della dinamica, quella riassunta comunemente dalla formula

(1)                                           F = m.a

(per essere precisi si dovrebbe dire

(2)                                        F = k . m.a

dove il coefficiente di proporzionalità k viene posto uguale ad 1, dopo opportuna scelta delle unità di misura della forza). Anche qui sono sorti dei problemi, questa volta non dovuti a Newton. Infatti tale legge era formulata in latino da Newton nel modo seguente:

Variationem motus proportionalem esse vi motrici impressae et fieri secundum lineam rectam qua vis illa imprimitur

        Il problema lo pose Planck nel 1906 (Das Prinzip der Relativität und die Grundgleichungen der Mechanik), discutendo dell’appena pubblicato articolo di Einstein sulla relatività (Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento, 1905). Planck metteva in discussione l’uso che acriticamente Einstein aveva fatto di quella relazione F = m.a. Tutto discendeva da una traduzione mal fatta di quel termine varitionem motus che doveva essere inteso diversamente e non come avevano per due secoli sempre tradotto svariati storici. Con variazione di moto non si doveva intendere l’accelerazione ma la variazione della quantità di moto. Tale diversa traduzione avrebbe permesso di scrivere:

(3)                                             Δ(m.v) = F. Δt

[l’impulso F. Dt che riceve un dato corpo è uguale alla variazione di quantità di motoD(m.v) di quel corpoche è espressione utilizzabile in relatività, contrariamente alla F = m.a come Planck aveva correttamente osservato. Ma da qui discendono altre conseguenze che non è qui il caso di discutere. Comunque, sulla difficoltà sollevata da Planck, Gliozzi osserva, con una qualche ragione, che filologicamente, poiché Newton parla esplicitamente di forza impressa e non di impulso, la versione tradizionale sembra la più corretta mentre l’altra, suggerita da Planck, sembra piuttosto discendere dal senno di poi. Ed aggiunge una considerazione condivisibile:

La definizione newtoniana di quantità di materia è certamente difettosa, e tuttavia questa manchevolezza non impedì di essere posta a base del più grande, più organico, più coerente trattato di meccanica che sia stato mai scritto. Sicché non è vero che un ente non definito o malamente definito porti in sé qualcosa d’indeterminato e di vago, che si riverbera sui successivi concetti definiti mediante il primo. Spesso non si riesce a definire un ente, non perché esso sia poco chiaro, ma, al contrario, perché ci è troppo noto, tanto noto che non riusciamo a trovare concetti più semplici dai quali farlo dipendere.

        Osservo che se non si ha una chiara definizione di massa, anche il concetto di forza sfugge. La Seconda legge definisce infatti la forza mediante la massa e risiamo quindi in un circolo vizioso. La cosa è tanto discutibile che su questa vicenda si sono innestate moltissime polemiche ancora oggi non placate. Io ci tornerò ma debbo qui dire che vari filosofi della natura considerarono la forza di Newton come un’entità metafisica. La frase in uso è che tutti ne conoscono gli effetti ma le forze nessuno le ha mai viste.

        E vengo a quanto Newton aveva annunciato, il mostrare che la massa, cosa del tutto diversa dal peso, è proporzionale a quest’ultimo. Devo dire che, riguardo alla meccanica e per quanto risulta, questa è l’unica parte in cui Newton sperimentò. Si servì invece delle esperienze e dei risultati di tutti gli altri studiosi di tali problemi. Newton fu invece fecondissimo si esperienze in ottica ma anche in alchimia. Devo anche aggiungere che riportare le dimostrazioni matematiche di Newton è molto complicato perché è difficilissimo per noi seguirne il ragionamento e le dimostrazioni, tutte geometriche (i metodi del calcolo, già sviluppati da Newton, non compaiono, come già detto, nei Principia) e questo perché il linguaggio in cui si capivano i filosofi naturali dell’epoca era solo geometrico. Inoltre Newton era portatore di una gran mole di novità fisiche, complicare il tutto introducendolo anche con il nuovo linguaggio delle flussioni avrebbe fatto correre il rischio di un rifiuto generalizzato. Anche se altrimenti complesse, a noi contemporanei risultano più semplici le dimostrazioni newtoniane che utilizzano il calcolo e, quando si presenterà l’occasione, sarà con questo che tratterò i risultati di Newton.

        Le innumerevoli ed accuratissime esperienze (un insieme di raziocinio matematico-geometrico ed esperienza) di Newton con i pendoli sono descritte nel Libro II dei Principia, dove misura la resistenza dell’aria dal decremento progressivo delle oscillazioni del pendolo (ripete quindi le stesse esperienze in acqua e mercurio). Attraverso tali esperienze, Newton mostra la proporzionalità esistente tra forza e peso. Per arrivare a rendere conto di ciò e per non lasciare a sole enunciazioni questa parte, occorre ricostruire (non storicamente ma logicamente) i vari passi seguiti da Newton, con l’ausilio di Max Born.

3.2 – PESO, MASSA E PENDOLI

        Se facciamo agire una forza (quella della Seconda Legge di Newton) su dei corpi troviamo che i corpi pesanti presentano una resistenza maggiore di quelli leggeri. Per chiarire, consideriamo due sfere A e B (delle stesse dimensioni), delle quali B sia due volte più pesante di A. Se applichiamo ad A e B, poste su una superficie piana, due spinte (impulsi) uguali, osserviamo che A si muove con velocità doppia di B. Ciò vuol dire che B presenta una resistenza doppia di A alla variazione di velocità. E’ questo fatto, descritto in modo così grossolano, che porta ad affermare che le masse m sono proporzionali ai pesi P. Il rapporto tra massa e peso che è una quantità costante, lo possiamo indicare con g:

(4)                                        

        Per vedere ciò in modo meno grossolano (si sono qui trascurate varie cose che non è ora il caso di mettere in gioco) si può ricorrere alla caduta libera o, che è lo stesso, al rotolamento delle sfere A e B su di un piano inclinato (anche il rotolamento prevede comunque l’ammissione di importanti semplificazioni). Lasciate rotolare le sfere, partite allo stesso istante, si osserva che arrivano contemporaneamente in fondo al piano inclinato. (Questo risultato sembrerebbe in contraddizione con quanto visto prima. Si faccia però attenzione, mentre prima davamo una spinta – una forza per un tempo breve – e poi A e B si muovevano inerzialmente, ora su A e B agisce sempre la stessa forza fino all’istante in cui A e B arrivano in fondo al piano inclinato). La forza responsabile del moto è il peso; la massa determina invece la resistenza. Poiché tali grandezze sono fra loro proporzionali, un corpo pesante subirà una sollecitazione più forte di quella che si avrà per un corpo leggero, ma in compenso quest’ultimo offre una minor resistenza alla forza agente; le cose si sistemano in modo che il corpo leggero e quello pesante cadono o rotolano giù con la medesima velocità. Vediamo questo ragionamento con le formule introdotte precedentemente. Se nella (2) sostituiamo la forza F con il peso P (e ciò equivale a dire che il peso è una forza) e teniamo conto della (4), otteniamo subito che:

                                             ma = P = mg

da cui

(6)                                               a  =  g.

e ciò vuol dire che corpi soggetti all’azione della gravità hanno tutti la stessa accelerazione (diretta verso il basso lungo la verticale).

        Torno ora a Newton che sperimentò quanto qui sopra detto, con gli annunciati pendoli. Egli osservò che i periodi d’oscillazione di pendoli di uguale lunghezza sono sempre gli stessi, qualunque sia il materiale che costituisce la sferetta oscillante. Scomponiamo la forza di gravità P che agisce sulla sfera (e responsabile dell’oscillazione) in due componenti: quella del prolungamento del filo che sostiene la sferetta e quella del movimento (la tangente alla traiettoria della sferetta).

Le forze che agiscono sulla sferetta di un pendolo

        In figura è mostrato un pendolo la cui sferetta è stata spostata dalla sua posizione di equilibrio di un tratto x. Dalla similitudine dei due triangoli rettangoli che compaiono, si ricava la proporzione:

(7)                                                 

dove il segno – indica che la forza F è diretta verso la posizione di equilibrio (x = 0).

        Prima di procedere ricordo brevissimamente l’espressione dell’accelerazione in un moto circolare (il pendolo si muove lungo un arco di circonferenza e la forza di figura è una forza centripeta). L’espressione per l’accelerazione centripeta(21) che era stata trovata da Huygens è:

(8)                                                  

Sostituendo tale espressione nella Seconda Legge si trova l’espressione per la forza centripeta::

(9)                                                

E la che compare in questa relazione è la velocità lungo una circonferenza di raggio R e cioè:

(10)                                            

(dove 2pR è la lunghezza dell’intera circonferenza e T – periodo – è il tempo necessario a percorrerla tutta e ricordando che il periodo T è l’inverso della frequenza n). Sostituiamo questa espressione nella (9) ed otteniamo:

(11)                                              

Non resta ora che mettere x al posto di  e tener conto di quel segno meno che rende conto della forza F che tende a riportare ad x = 0 la sferetta, per avere:

(12)                                               

        Supponiamo ora di avere due pendoli (come quello considerato più su) che abbiano pesi rispettivi P1 e P2. Dalla relazione (12), per i due pesi, si ricava:

(13)                                                

da cui, confrontando le due relazioni (13), si trova:

(14)                                              

Si ricava così un risultato estremamente interessante: per i due pendoli il rapporto tra il peso e la massa (rapporto che nella relazione 4 abbiamo indicato con g) è lo stesso. Si può ripetere l’esperienza con tutti i pesi P diversi che si vuole, si ricaverà sempre che il rapporto tra peso e massa ha lo stesso valore g, e quindi è costante. Per quel che riguarda poi g, si trova facilmente che:

(15)                                               

relazione dalla quale si vede che g può essere determinata sperimentalmente misurando sia la lunghezza che la frequenza ν del pendolo.

        A questo punto riprendo la relazione numero (4) e la riscrivo così:

(16)                                                         

        Osserviamo subito di avere una massa uguagliata ad un peso diviso per una costante g. Visto che il secondo membro della precedente uguaglianza è una massa, per il principio elementare di omogeneità, anche il primo membro dovrà essere una massa. Si ha una uguaglianza tra due masse che vengono, da questo momento, indicate come massa gravitazionale mg (il primo membro) e massa inerziale mi (il secondo membro). Come conclusione delle sue misure Newton dice che la “differenza tra queste masse è minore di un millesimo“. Tali esperimenti furono ripetuti con strumenti molto più raffinati da F. W. Bessel nel 1832 e da Eötvös nel 1890, confermando in pieno le elaborazioni di Newton. E’ oltremodo utile affermare che da quanto sostenuto, in particolare con riferimento alla relazione (16), è lecito utilizzare la bilancia sia per il confronto di pesi che per quello di masse.

        In definitiva vi è una coincidenza tra massa inerziale e massa gravitazionale, come aveva intravisto Galileo, che non si sa bene se come fatto fortuito o implicante argomenti più complessi. Servirà arrivare al 1905 e più oltre, ad Einstein, per iniziare a capirlo. E ciò non accontentandosi del prendere atto di una “coincidenza” ma ponendo tale coincidenza a fondamento di una nuova fisica.

3.3 – LA GRAVITAZIONE

        Kepler aveva stabilito tre leggi, di grande importanza, relative al moto dei pianeti intorno al Sole. Va detto che Kepler era un mistico insopportabile. E’ impossibile oggi leggere una sua opera tentando di capirvi qualcosa. Era intollerabile anche a degli spiriti semplicemente razionali come Galileo. Tanto è vero che lo scienziato pisano non riusciva a leggere quanto scriveva Kepler per i suoi riferimenti ad armonie, a note musicali, a numerologie, a potenze divine, ad angeli, … a tutto ciò che Galileo tentava di cacciare dall’ambito della filosofia naturale. Ma, dentro l’opera di Kepler, ben nascoste per la verità, insieme ad altre cose di estremo interesse, vi erano le sue famose tre leggi sul moto dei pianeti (alcuni storici, mossi da sciovinismo più che da una disamina oggettiva dei fatti, imputano a Galileo il non conoscere le leggi di Kepler. Se solo si leggono alcune cose dello scienziato prussiano, si capisce bene il perché).

        Newton, che era altro personaggio da Galileo, legato in vari modi alla metafisica, alla magia ed all’alchimia, non provava fastidio a leggere Kepler. Conosceva quindi le sue leggi, anche perché, rispetto a Galileo, erano trascorsi moltissimi anni (78, per la precisione). Le leggi di Kepler giocarono un ruolo importante nel processo che portò Newton a ricavare la legge di gravitazione universale.

        Iniziamo con il ricordare le Leggi di Kepler:

1) i pianeti si muovono intorno al Sole in orbite ellittiche;

2) il raggio vettore che unisce il Sole e ciascun pianeta (o un pianeta ed i suoi satelliti) descrive aree uguali in tempi uguali;

3) i cubi delle distanze dal Sole di due o più pianeti stanno tra loro come i quadrati dei rispettivi periodi di rivoluzione [che si può anche dire: i quadrati dei tempi che i pianeti (o i satelliti) impiegano nella loro orbita variano col cubo delle loro distanze medie dal Sole (o dal rispettivo pianeta)]:

(17)                                   

e poiché l’ultima uguaglianza vale per tutti i pianeti, ciò vuol dire che tra cubi delle distanze e quadrati dei periodi vi è un rapporto costante:

(18)                                     

        Tralascio la Prima legge di Kepler perché Newton partì, per i suoi calcoli, dal supporre le orbite circolari (modificò in seguito tale assunto) e seguo la linea di pensiero di Newton, servendomi del libro di Holton e Brush.

        Intanto, se si ammette la Prima Legge di Newton (che abbiamo visto), occorre ammettere che, in assenza di forze, un corpo seguirebbe indefinitamente muovendosi in linea retta (o restando immobile: qui si aprirebbe un altro vespaio di problemi relativo al sistema di riferimento ma della cosa ho trattato ampiamente altrove). Il fatto che un corpo sia costretto in un’orbita circolare mostra che esso è soggetto ad una forza che chiameremo centrale perché diretta, istante per istante, verso il centro della traiettoria del moto. Questa fu la conclusione a cui arrivò Newton a partire dalla Seconda legge di Kepler (vedi Principia, Libro I, Proposizioni  I e II). Per seguire il suo ragionamento serviamoci della figura seguente:

        Un corpo si muove in linea retta a velocità costante. Ad intervalli uguali di tempo Dt, percorrerà spazi uguali PQ = QR = RS = …. . Rispetto ad un punto fisso O (dovunque sia messo O), la linea che unisce O con il corpo mobile, spazzerà aree uguali in tempi uguali visto che i triangoli PQO, QRO, RSO, … sono tutti uguali per avere uguali basi ed uguali altezze. Supponiamo ora che tale corpo subisca un impulso (per un tempoDt)  in Q a seguito dell’applicazione di una forza diretta lungo QO. La direzione del moto cambia in una direzione che si ottiene combinando vettorialmente la velocità iniziale che porterebbe l’oggetto in R con quella che, istantaneamente e se agisse da sola, sposterebbe il corpo da Q a Q’ (figura b). In definitiva il mobile va a finire in R’. Ciò che interessa ora è che l’area spazzata nel tempo suddetto Dt, non viene modificata poiché all’area del triangolo QRR’ che viene sottratta a ciò che si sarebbe avuto senza l’impulso, si aggiunge ora l’area del triangolo ORR’ che è uguale a quella sottratta (hanno la stessa base e la stessa altezza, poiché QQ’ risulta parallelo a RR’). Per la proprietà transitiva l’area OQR’ risulta poi uguale a OPQ. La cosa prosegue: l’oggetto in R’ riceve un altro impulso lungo R’O e tutto si ripete con il solo cambiamento dei triangoli. Possiamo allora concludere che forze centrali applicate in intervalli di tempo uguali non modificano le aree spazzate per unità di tempo. Ora non resta che rendere gli intervalli di tempo Dt piccoli a piacere (processo al limite per Dt tendente a zero) per ottenere una forza diretta verso il centro come una forza centripeta continua e per trasformare la linea spezzata in una curva continua.

        Siamo alla conclusione di Newton: dato che i pianeti, in accordo con la Seconda legge di Kepler, spazzano aree uguali in tempi uguali, la forza che agisce su di essi deve essere una forza centrale che agisce con continuità (riferendosi ad una ellisse e non ad una circonferenza in luogo del centro si dovrà considerare uno dei fuochi).

        Fin qui, dalla Seconda Legge di Kepler, Newton ha trovato che i pianeti sono soggetti a forze dirette verso il centro del moto. Vediamo come, a partire dalla Terza legge di Kepler, Newton ricava la nota legge dell’inverso del quadrato che regola tale forza (è una delle possibili ricostruzioni poiché non si conoscono documenti che testimonino cosa in realtà egli abbia fatto).

        Abbiamo visto nella (8) che un oggetto che si muove di moto circolare ha una accelerazione data da:

(8)                                                 

e nella (10) abbiamo visto che:

(10)                                              

Sostituendo la (10) nella (8) otteniamo:

(19)                                                

        Possiamo ora scriverci l’espressione esplicita della forza centripeta che agisce sul pianeta a partire dalla Seconda legge di Newton:

(20)                                             

In questa espressione compare il termine T2 , al posto del quale possiamo porre il suo valore R3/K dato dalla Terza legge di Kepler (18). Otteniamo così:

(21)                                              

ed abbiamo trovato un risultato di grande importanza: la forza che il Sole esercita su ogni pianeta è inversamente proporzionale al quadrato della distanza del pianeta dal Sole.

        A questo punto Newton aveva trovato un risultato che valeva per tutti i pianeti rispetto al Sole ed evidentemente ciò che distingueva una forza da un’altra doveva essere la costante K, la massa m e la distanza R. Egli estese il risultato alla Terra con la Luna, ad ogni pianeta con i suoi satelliti e, cosa di notevole coraggio e spessore a due qualsiasi masse. Dice Newton:

Tutti i corpi dell’Universo si attraggono mutuamente con una forza gravitazionale, come quella esistente tra una pietra che cade e la Terra; di conseguenza, le forze centrali che agiscono sui pianeti non sono altra cosa che un’attrazione gravitazionale da parte del Sole.

        Restava da capire quale proprietà di un data massa determina la sua attrazione gravitazionale da parte di altre masse; quale proprietà della Terra determina il valore di 4p2Kt per la Terra; quale proprietà del Sole determina il valore  4p2Ks per il Sole. E Newton avanza l’idea che il prodotto 4p2K dipenda da qualche proprietà dei corpi e, se l’attrazione gravitazionale è una proprietà comune a tutti i corpi, quel prodotto può dipendere dalla quantità di materia del corpo, cioè dalla sua massa. La cosa più semplice è  partire dalla proporzionalità con la massa, cioè per la Terra dovrà valere (costante di proporzionalità tra 2K ed m):

(22)                                          

per il Sole:

(23)                                          

e così via per ogni altro pianeta.

        Da qui si ricava che la forza gravitazionale di attrazione che un corpo di massa m1 esercita su un corpo di massa m2 ad una distanza R è:

(24)                                  

e, per quanto detto, ogni massa attira un’altra massa e quindi si avrà anche una forza di attrazione che la massa m2 eserciterà sulla massa m1, data da:

(25)                                                

e queste due forze sono di verso opposto ma uguali in grandezza. Basta confrontare allora la (24) e la (25) per affermare che le due masse si attraggono con una forza data da:

(26)                                            

e questa è la famosissima legge di attrazione universale. Si tratta solo di determinare G, la costante gravitazionale, e la cosa fu realizzata per la prima volta da Henry Cavendish nel 1797 (cento anni dopo!) con la sua bilancia di torsione (la difficoltà nasceva dal fatto che è estremamente difficile riportare la gravitazione in un laboratorio per effettuare delle misure e Cavendish riuscì in questa impresa).

        Tutto questo a me serviva solo per dire che il peso di una data massa è la forza con cui tale massa è attratta dalla Terra (avrei potuto semplicemente dirlo ma la cosa sarebbe risultata una specie di dogma di provenienza metafisica). Risulta evidente che mentre la massa si conserva, il peso varia da pianeta a pianeta e da luogo in luogo (basta avere a mente le immagini degli astronauti in condizioni di assenza di peso: il peso se ne va e la massa resta!). Cerchiamo di capire brevemente le due cose.

        Dalla (26) si vede che una data massa m1 sarà attratta da un dato pianeta che avrà una sua massa m2 e questo originerà il peso di m1. E’ evidente che, al cambiare pianeta, cambia m2 e quindi cambia la forza di attrazione, cioè il peso.

        Sempre dalla (26) si vede che la forza di attrazione che sente una data massa (il suo peso) dipende molto dalla distanza a cui tale massa si trova rispetto, ad esempio, alla Terra. Spostandoci sulla Terra, questa attrazione (il peso) sarebbe sempre la stessa solo se la distanza di ogni punto della Terra dal suo centro fosse sempre la stessa. Ma la Terra non è una sfera perfetta. Quindi il peso di un dato oggetto risulterà maggiore quanto più vicini ci troviamo al centro della Terra (più R è piccola, di gran lunga più grande è la forza attrattiva e quindi il peso). La cosa era stata empiricamente scoperta da Giovanni Richer nel 1671. Recatosi alla Cayenna per una spedizione scientifica, si accorse che il suo orologio a pendolo ritardava di due minuti e mezzo al giorno rispetto all’ora solare media. Di tale fenomeno, con la legge di gravitazione se ne comprendeva ora il motivo. Dall’esperienza di Richer, Huygens aveva stabilito che la Terra doveva essere schiacciata ai poli e rigonfia all’equatore (la cosa la verificò sperimentalmente mettendo a ruotare velocemente su se stesso un blocco d’argilla molle infilato su un asse rigido. Tale esperienza ebbe una grande influenza nello sviluppo delle teorie cosmologiche di Kant e Laplace). A questo proposito c’è la famosa querelle sull’oro. Se si comprasse l’oro a peso converrebbe comprarlo al Polo Nord e venderlo all’Equatore. Ma nessuno compra o vende l’oro a peso. Si comprano le masse d’oro. Parlo d’oro perché anche piccoli variazioni nel suo peso comporterebbero grandi variazioni di prezzo. Con le patate, per ora, non c’è alcun problema.

          Da questo momento la distinzione tra peso e massa diventa indiscutibile. Essa era tutta all’interno dei Principia ma per evidenziarla come meritava fu necessaria l’opera di Giovanni Bernouilli che nella sua Meditatio de natura centri oscillationis (1714) dice esplicitamente che il peso di un corpo si ottiene moltiplicando la sua massa per l’accelerazione di gravità (la g che abbiamo incontrato nella relazione 15 e che, misurata come lì indicato, vale all’incirca 9,81 m/sec2).

         E’ appena il caso di accennare al fatto che tramite la (26) è possibile calcolarsi la massa dei differenti pianeti, della stessa Terra e del Sole. E’ possibile anche calcolare le masse dei satelliti dei pianeti ma in tal caso i calcoli sono piuttosto complessi (come è complesso il calcolo di pianeti senza satelliti). Tramite la (26), a partire dalla perturbazione di alcune orbite planetarie, si sono potuti scoprire altri pianeti.

        Concludo questo paragrafo osservando che la legge di gravitazione universale è stata provata sperimentalmente da secoli in tutte le possibili situazioni ed ha sempre funzionato perfettamente, una piccola discrepanza fu trovata nel calcolo dell’orbita di Mercurio. Una cosa piccolissima … che Einstein riuscì a capire all’interno della sua relatività generale che parte proprio dal principio di equivalenza tra massa inerziale e massa gravitazionale (sperimentalmente tale equivalenza è accertata entro una precisione di circa una parte su 1010). A questo proposito Jay Orear dice:

Secondo il principio di equivalenza, un laboratorio accelerato è equivalente a un laboratorio fermo sotto l’azione di una forza gravitazionale equivalente. Una conseguenza del principio di equivalenza è che è impossibile dire quale sia la forza gravitazionale risultante agente sul sistema solare. Per quel che ne sappiamo potrebbe esistere una enorme massa a grandissima distanza (così lontana da non poter essere vista) che esercita una attrazione gravitazionale sulla nostra parte di universo. Per il principio di equivalenza, tutti gli oggetti che ci circondano «cadrebbero» in condizione di assenza di peso verso la grande massa lontana con la stessa accelerazione e noi non osserveremmo alcun effetto locale. Non potremmo «sentire» se stiamo o no cadendo e non potremmo osservare alcuna accelerazione relativa agli oggetti vicini; penseremmo che il nostro sistema di riferimento fosse un sistema di riferimento inerziale mentre, dal punto di vista della massa lontana, saremmo sottoposti a una accelerazione. In questo senso la vecchia definizione di peso come la risultante delle forze gravitazionali agenti su un oggetto sarebbe priva di senso. Ciò perché per conoscere effettivamente la risultante delle forze gravitazionali agenti su di un oggetto, dobbiamo prendere in considerazione tutta la materia esistente nell’universo, anche quella non visibile. … Sembra che non si possa pienamente comprendere F=Ma o la gravitazione senza considerare l’influenza della materia distante nell’universo.

        Su questa storia della massa nascosta tornerò, quando parlerò di Hertz. Ma qui ora sarebbe d’interesse approfondire il ruolo delle teorie e la loro validità. Basti dire che la relatività è teoria più perfezionata che spiega più cose. Non è per questo che si deve buttare la teoria di Newton che tutti, quotidianamente e felicemente, utilizziamo.

4.1 – LE FLUSSIONI

        Galileo, Cavalieri, Torricelli e Mengoli (1625 – 1686) furono gli ispiratori dell’opera di Isaac Barrow (1630 – 1677). Egli li citerà più volte nella sua opera Lectiones opticae ed geometricae del 1670 (mentre non citerà Fermat perché molto probabilmente non conosceva la sua opera). Barrow ritrovò  molte cose che furono di Torricelli e di Fermat che egli non poteva conoscere (al massimo le conosceva indirettamente attraverso le discussioni che le varie corrispondenze avevano creato). In particolare egli espone un suo

metodo per trovare le tangenti ad una curva, metodo che si trova nell’Appendice alla lezione decima della sua opera e che non avrebbe pubblicato se non fosse stato per le insistenze di un suo allievo ed amico, Newton. Il metodo, che prende le mosse da concezioni cinematiche alla Torricelli, si basa sul solito triangolo differenziale (o triangolo caratteristico)riportato in figura.

        Al solito, P e Q sono due punti molto vicini della curva ed R è il punto di incontro delle parallele condotte alle coordinate. Anche qui si tratta di trovare la sottotangente HT a cui tende la sottocorda HC quando il punto Q si avvicina infinitamente a P (quest’ultima parte è di grande interesse perché si tratta di trovare la tangente come processo al limite di una secante). A questo punto Barrow dice:

Io ometto tutti i termini contenenti una potenza di a o di e, o un loro prodotto, giacché tali termini non hanno valore

(si tratta di quelli che oggi chiamiamo infinitesimi di ordine superiore) e cioè egli considera due quantità infinitesime invece di una sola come aveva fatto Fermat (sarebbero i dx ed i dy che poi introdurrà Leibniz e che saranno estremamente utili per la loro applicazioni anche a funzioni implicite del tipo f (x,y) = 0 ). Nonostante questo passo, unito a quello della riscoperta del teorema di inversione fatta da Torricelli, l’opera di Barrow è ancora molto ancorata alla geometria dei classici e  perciò molto pesante e difficile da capire e spiegare. Egli seppe comunque, con i suoi procedimenti geometrici faticosi, dare le regole che oggi chiameremmo della derivata di una somma, di un prodotto, di un quoziente, di una potenza, … Il fatto che Barrow segua i procedimenti geometrici e non quello che aveva illustrato nell’Appendice suddetta, su consiglio di Newton, fa pensare (ad esempio, G.  Castelnuovo) che  possedesse metodi più agili ma non si sentì di pubblicarli. Sta di fatto che Leibniz sostenne di non aver capito nulla e tratto alcunché dall’opera di Barrow, mentre affermerà di essersi ispirato a Cavalieri, al matematico fiammingo G. de Saint Vincent (1554 – 1667) dell’ Opus Geometricorum (1647) ed ai matematici francesi. Sarà Newton che ne trarrà fuori tutte le potenzialità. Ma prima di passare a Newton occorre almeno accennare a John Wallis (1616-1703) che, nel 1655, pubblicò una Arithmetica infinitorum nella quale, pur senza rigore,

calcolò varie quadrature anche di irrazionali [quadrò la curva (x – x2)1/2 ] e con interessanti applicazioni geometriche. Egli è il primo matematico di rilievo della scuola britannica che aprì agli studi di suoi connazionali. E’ da notare che il simbolo di infinito  ∞ da noi oggi usato fu introdotto proprio da Wallis.

Tutti i precursori fin qui discussi in  breve avevano trattato e risolto numerosissimi problemi relativi ai tre rami che successivamente costituiranno il calcolo: il calcolo differenziale, il calcolo integrale e gli algoritmi infiniti (serie, prodotti infiniti, frazioni continue infinite, …). In generale mancò a tutti la consapevolezza profonda e generalizzata degli indissolubili legami tra i tre rami suddetti. Mancò una unificazione del concetto di limite, un carattere rigoroso che rendesse necessarie dimostrazioni continue per quanto via via si affermava. Vi era una gran mole di casi particolari risolti con metodi non del tutto generali o generalizzabili o con una generalità non dimostrata. I metodi geometrici erano sempre presenti e mescolati a quelli algebrici. Una parte rilevante di questo empirismo matematico, sarà eliminata dai lavori di Newton e Leibniz. Si possono a questo punto usare le parole di Paul Tannery (Mémoires scientifiques, Toulouse-Paris 1912 – 1943) per descrivere la situazione:

Nel momento in cui Newton e Leibniz cominciarono ad occuparsi di matematica, si può dire che un metodo infinitesimale era già stato costituito, nel senso che i principali geometri si erano abituati a maneggiare gli infinitamente piccoli (almeno quelli del primo ordine), sia come elementi di somma, sia come elementi di rapporti. Per il primo caso (quadratura), essi possedevano, nel processo di riduzione all’assurdo imitato dagli antichi, un metodo di dimostrazione rigoroso fondato implicitamente sulla nozione di limite. Per il secondo caso (problema delle tangenti), la teoria non era stata così approfondita; ma i procedimenti di calcolo avevano ricevuto, nell’un caso come nell’altro, ampi sviluppi e bastavano in realtà per la risoluzione dei problemi allora sollevati. 

        La cosa che creava enormi problemi era, come accennato all’inizio del lavoro, il fatto che a fronte di concetti più o meno uniformati, non vi fosse un linguaggio, un simbolismo comune. Ogni geometra aveva le sue notazioni particolari e le sue abbreviazioni, che il più delle volte riservava per sé. La risoluzione di questo problema sarà di Newton e soprattutto di Leibniz.

        E’ a questo punto che s’inserisce il sostanziale contributo di Newton. Anch’egli affrontò il problema del calcolo partendo da questioni di fisica. La soluzione al problema dell'”incremento relativo della quantità di movimento”, che fornisce un metodo matematico pratico per studiare la velocità di una particella che si sposta con continuità (anche se irregolarmente), gli fornì la chiave di volta di tutto il mistero degli incrementi relativi e della loro misura. Si tratta proprio della problematica al centro di quello che conosciamo oggi come calcolo differenziale. Il calcolo integrale gli discese da un  problema simile: come si deve calcolare la distanza totale percorsa in un tempo dato da un corpuscolo la cui velocità varia continuamente, istante per istante ? Infine, considerando nel loro insieme i due problemi ai quali ho accennato, Newton fece una scoperta di capitale importanza: trovò che il calcolo differenziale e quello integrale sono mutuamente ed intimamente collegati da ciò che è oggi noto come il teorema fondamentale di questo calcolo (o teorema di Torricelli-Barrow). Questi lavori furono probabilmente elaborati intorno al 1666 ma furono pubblicati in parte solo nel 1687 nei Principia (ed in parte successivamente, nel 1711 e nel 1736). Riporto in ordine cronologico i lavori matematici di Newton (alcuni postumi) che sono utili come riferimento:

Principia (1687); Optiks, con una appendice su cubic curves,  quadrature and rectification of curves by the use of infinite series,  method of fluxions (1704); Universal Arithmetic (1707); Analysis per Series, Fluxiones, … e Methodus Differentialis (1711); Lectiones Opticae (1729); Method of Fluxions and infinite series, noto come Newton’s manuscript on fluxions (1736); Geometrica Analytica (1779).

Oltre a queste opere pubblicate vi sono molte lettere in cui Newton parla del nuovo calcolo e tra queste vanno ricordate quelle che Newton indirizzò ad Oldenburg perché le passasse a Leibniz.

        Seguiamo con qualche dettaglio l’evoluzione dei lavori matematici di Newton.

        Intanto occorre sottolineare che Newton fa grande uso degli sviluppi in serie di funzioni che egli fa estendendo il suo sviluppo del binomio (a + b)n, che da lui prende il nome (occorre dire che Newton non offre la dimostrazione dello sviluppo, dimostrazione che si avrà solo nel 1826 ad opera di Abel), a funzioni. Lo sviluppo del binomio di Newton è (nel caso semplice di b = 1), lo ricordo: 

che si scrive, nel caso più generale ed avendo introdotto i coefficienti binomiali (simbolismo introdotto da Eulero nel 1765 con la sola differenza di parentesi quadre anziché tonde) e la sommatoria S (simbolo introdotto da Eulero nel 1755):

Con lo sviluppo del binomio ora ricordato, Newton sviluppa in serie varie funzioni anche nel caso in cui l’esponente n è frazionario o negativo (nel qual caso la serie diventa infinita). Lo sviluppo in serie permette l’integrazione di molte funzioni anche se non direttamente. Le serie di potenze, riguardate come estensioni di polinomi, davano il modo di rappresentare e calcolare nuove funzioni all’epoca non considerate nell’analisi, come ad esempio la funzione logaritmo che lo scozzese John Napier (1550 – 1617) aveva in pratica definito (1614), con linguaggio odierno:

A partire dalla formula già nota che forniva:

Nicolò Mercatore, integrando termine a termine (uso il linguaggio di oggi), aveva

 ottenuto (Logarithmotechnia, 1668):

con la sua serie binomiale Newton potenzia la possibilità di integrazione delle più svariate funzioni come ad esempio l’arcoseno, l’arcotangente, … e realizzando l’inversione di alcune serie ottiene lo sviluppo delle funzioni inverse (ad esempio passando da   y = arcsen x ad x = sen y), come la serie esponenziale (così chiamata da Eulero), quella che ci fornisce il seno, il coseno, … Tra l’altro, Newton ritrovò la formula fornita da Mercatore a partire dallo studio dell’iperbole traslata:

(1 + x).y = 1

Supponiamo, ad esempio, di avere la funzione   (1+x2-1/2 e di non saperla integrare. Sviluppandola in serie, mediante il binomio di Newton, otteniamo:

diventa così agevole integrarla termine a termine. Con una difficoltà per Newton che non possedeva un criterio di convergenza per le serie. Egli deve indagare caso per caso se il resto della serie convergeva più o meno rapidamente per poter fornire il risultato definito della quadratura. La cosa stimolò approfonditi studi sulle serie che iniziarono con i quasi contemporanei di Newton, Brook Taylor (1685 – 1731) e Colin Maclaurin (1698 – 1746).

        Nello stesso periodo (1665) Newton iniziò a concentrare la sua attenzione sulle flussioni, cioè sulla velocità con cui variano alcune grandezze che possono variare con continuità (fluenti) come aree, volumi, distanze, … e, fatto di grande interesse, collegò in un metodo proprio sviluppi in serie e flussioni.

        Nel suo De Analysi per Aequationes Numero Terminorum Infinitorum (del 1699 ma pubblicato nel 1711) mostra che se l’area sottesa da una curva è data dall’espressione a.xm , con m intero o frazionario, allora la velocità di variazione dell’area al variare di x è data da  m.a.xm-1 e che questo è il valore dell’ordinata della curva in corrispondenza dell’ascissa x. Seguiamo il calcolo riferendoci alla figura seguente

ed usando le notazioni  dello stesso Newton. Sia dato sulla curva,  y = a.xm, un punto C ≡ (x,y). Diamo ora ad  un incremento piccolissimo denotato con  “o“. Passando l’ascissa da x ad  x + o, si ha che l’area ABCD (che vale z) subisce un incremento di circa  oy. 

Mentre la quantità x fluendo diventa x + o la quantità xm diventa (x + o)m; si ha allora l’uguaglianza:

z + oy = a.(x + o)m

e questa approssimazione è tanto migliore quanto più piccolo risulti “o“. Utilizzando il metodo delle serie infinite (cioè secondo lo sviluppo del binomio di Newton) si ha:

da cui, dividendo per l’infinitesimo o, si ha:

ponendo infine o = 0 (Newton usa l’espressione facendo svanire o) si ha il risultato cercato:

ed è evidente che qui Newton era effettivamente molto vicino al concetto di limite; la principale obiezione riguardava l’uso del termine “svanire”. 

        All’inverso, se quadriamo (integriamo)  m.a.xm-1 (e se questa espressione è la derivata di a.xm ) otteniamo a.xm , avendo dimostrato che, almeno in questo caso, derivare ed integrare sono operazioni inverse. Da notare che l’integrazione è, contrariamente a quelle che si erano succedute fino qui, indefinita (anche se Newton non si preoccupa, almeno per ora, delle costanti additive; sembra che la cosa risulti sottintesa in lavori successivi). Il De analysi fu fatto circolare fra gli amici, tra cui John Collins (1624 – 1683), che era stato anche il destinatario di una importante lettera sull’argomento del 1672 in cui annunciava la scoperta del calcolo, e Isaac Barrow, e lo sviluppo della serie infinita binomiale fu comunicato per lettera a Henry Oldenburg (1615 – 1677), segretario della Royal Society, ed a Leibniz; ma Newton non fece nulla per pubblicare i suoi risultati, anche se sapeva che James Gregory  (1638 – 1675) e Nicolò Mercatore (1620 – 1687) nel 1668 avevano divulgato le loro ricerche sugli sviluppi in serie. E quello visto, come afferma Boyer, è il primo esempio nella storia della matematica di un’area trovata mediante l’inverso di quella che chiamiamo differenziazione (tale possibilità era però nota). 

        Ma la prima esposizione del calcolo (non ancora il Metodo delle flussioni) dovuta a Newton fu pubblicata  nei Principia (nel seguito mi riferirò all’edizione italiana: Newton – Principi matematici di filosofia naturale – UTET, Torino 1965). Il calcolo compare nella sezione I del Libro I intitolata: “Metodo delle prime e delle ultime ragioni, col cui aiuto si dimostrano le cose che seguono“. Questa espressione ormai obsoleta, oggi suonerebbe così: “Metodo del limiti, col cui aiuto …“. E proprio il Lemma I dà il via alle applicazioni del calcolo:

LEMMA I.

Le quantità, come anche i rapporti fra quantità, che costantemente tendono all’eguaglianza in un qualsiasi tempo finito, e prima detta fine di quel tempo si accostano l’una all’altra più di una qualsiasi differenza data, divengono infine uguali.
Se si nega questo, da ultimo saranno disuguali, e D sarà la loro differenza ultima. Di conseguenza non potranno accostarsi all’uguaglianza più della differenza data D. Ciò che è contro l’ipotesi.

Seguono subito vari lemmi in cui si approssimano curve con scaloidi inscritti e circoscritti fino al VI in cui si inizia a porre il problema della tangente

LEMMA VI.

Se un arco qualsiasi ACB di posizione data è sotteso dalla corda AB e in un qualunque punto A, al mezzo di una curvatura continua, viene toccato dalla retta AD, prolungata da entrambe le parti, e se i punti A e B si accostano fra loro fino a congiungersi, dico che l’angolo BAD, contenuto fra la corda e la tangente, verrà diminuito all’infinito e da ultimo diventerà evanescente.

ed al VII in cui si dice

LEMMA VII.

Ferme restando le medesime cose, dico che l’ultima ragione fra l’arco, la corda e la tangente è, scambievolmente, una ragione dì uguaglianza.

E così procede Newton con un intero capitolo che è una sorta di premessa di carattere matematico ad un’opera che si occupa di Fisica. E la cosa viene motivata nello Scolio che conclude la prima sezione:

    Le cose che sono state dimostrate circa le linee curve e le superfici, in esse comprese, si applicano facilmente anche alle superfici curve e ai volumi dei solidi. In verità ho premesso questi lemmi per sfuggire alla noia di dedurre, secondo l’usanza dei vecchi geometri, lunghe dimostrazioni per assurdo. Col metodo degli indivisibili le dimostrazioni sono rese più brevi. Ma poiché l’ipotesi degli indivisibili è ardua, e poiché quel metodo è stimato meno geometrico, ho preferito ridurre le dimostrazioni delle cose seguenti alle prime e ultime somme e ragioni di quantità evanescenti e nascenti, ossia ai limiti delle somme e ragioni, e premettere, perciò, il più brevemente possibile, le dimostrazioni di quei limiti. Questo stesso, infatti, viene fatto anche col metodo degli indivisibili; ed essendo stati dimostrati i princìpi, li possiamo già usare in modo più sicuro. Perciò, se nel séguito mi capiterà di considerare le quantità come costituite da particelle determinate, o mi capiterà di prendere segmenti curvilinei come retti, vorrò significare non particelle indivisibili ma divisibili evanescenti, non somme e ragioni di parti determinate, ma sempre limiti di somme e ragioni; e la forza di tali dimostrazioni si richiamerà sempre al metodo dei lemmi precedenti.
    Si obietta che non esiste l’ultimo rapporto di quantità evanescenti, in quanto esso, prima che le quantità siano svanite non è l’ultimo, e allorché sono svanite non c’è affatto. Ma con lo stesso ragionamento si può giustamente sostenere che non esiste la velocità ultima di un corpo che giunga in un certo luogo, dove il moto finisce. La velocità, infatti, prima che un corpo giunga nel luogo non è l’ultima, e quando vi giunge non c’è. La risposta è facile: per velocità ultima si intende quella con la quale il corpo si muove, non prima di giungere al luogo ultimo nel quale il moto cessa, né dopo, ma proprio nel momento in cui vi giunge: ossia, quella stessa velocità con la quale il corpo giunge al luogo ultimo e con la quale il moto cessa. Similmente, per ultime ragioni delle quantità evanescenti si deve intendere il rapporto delle quantità non prima di diventare nulle e non dopo, ma quello col quale si annullano. Parimenti, anche la prima ragione delle quantità nascenti è il rapporto col quale nascono. E la prima e ultima somma è quella con cui iniziano e cessano di essere (ossia di essere aumentate o di essere diminuite). Esiste un limite che la velocità alla fine del moto può raggiungere ma non superare. Questa è l’ultima velocità. E un identico limite è il rapporto di tutte le quantità e proporzioni incipienti ed evanescenti. E poiché questo limite è certo e definito, il problema di determinarlo è veramente geometrico. In quanto, tutto ciò che è geometrico può essere assunto legittimamente per determinare e dimostrare gli altri problemi geometrici.
    Si può anche obiettare che se vengono date le ultime ragioni delle quantità evanescenti, saranno date anche le ultime grandezze, e in tal modo ogni quantità sarà costituita da indivisibili, contro quanto Euclide dimostrò circa gli incommensurabili nel decimo libro degli Elementi. Questa obiezione, però, si basa su una falsa ipotesi. Le ultime ragioni con cui quelle quantità si annullano non sono in realtà le ragioni delle ultime quantità, ma i limiti ai quali le ragioni delle quantità decrescenti si avvicinano sempre, illimitatamente, e ai quali si possono avvicinare per più di qualunque differenza data, e che, però, non possono mai superare, né toccare prima che le quantità siano diminuite all’infinito.. La cosa si capisce più chiaramente nell’infinitamente grande. Se due quantità, delle quali è data la differenza, vengono aumentate all’infinito, sarà data la loro ultima ragione, soprattutto la ragione di eguaglianza, e, tuttavia, non saranno date le quantità ultime o massime delle quali questa è la ragione. Nel séguito, dunque, allorché per essere capito facilmente, menzionerò le quantità minime o evanescenti o ultime, non bisognerà supporre che si tratti di quantità di determinata grandezza, ma bisognerà pensare sempre a quantità che diminuiscono illimitatamente.

        La citazione è lunghissima e l’ho riportata perché descrive benissimo i problemi che si ponevano in relazione aglio infinitesimi e fornisce le motivazioni cinematiche che spingono Newton a servirsi del calcolo. Sembrerebbe comunque che tutto debba andare avanti con il calcolo. Non è così e già nella Sezione II si utilizzano dimostrazioni di puro carattere geometrico: il poligono (a) vede i suoi lati 

(a)

(b)

che sempre più si accorciano, fino a passare da una spezzata ad una curva continua (in questo caso si discute di forze centripete: un corpo riceve in A, B, C, D, E, ed F degli impulsi centripeti che gli fanno cambiare direzione. Facendo aumentare il numero di impulsi il poligono acquista più lati fino a diventare una curva continua. Il rapporto tra la forza centripeta costante e la quantità di moto, ad esempio in B, è il rapporto ultimo BV/AB per il poligono che tende a diventare una curva continua. E si ritorna qui al metodo degli indivisibili. Riferendoci alla figura (b) il rapporto DB/AD (oppure dB/dA), quando D si avvicina ad A ed il raggio GB va a coincidere con il raggio JA, fa vedere che stiamo trattando un concetto simile ad una derivata.

        Newton passa di nuovo a fornire dettagli del suo metodo di calcolo nel Libro II, Lemma II, in un modo oscuro che richiede una vera e propria traduzione. Dice Newton:

LEMMA II.

Il momento di una quantità generata è uguale ai momenti [leggi: somma dei momenti, ndr] dei singoli lati che la generano moltiplicati ogni volta per gli esponenti delle potenze dei medesimi lati e per i coefficienti.

le cui parole, in traduzione, vogliono dire:

– quantità generata = termine,

– momento di una quantità generata = incremento infinitamente piccolo.

        Ed in definitiva Newton sta enunciando le regole della differenziazione di un prodotto, di una potenza, di un reciproco, …

        Ciò che abbiamo ora visto è un esempio clamoroso di quanto fosse oscuro il modo con cui Newton presentava il suo calcolo infinitesimale. Pochissimi matematici lo capivano e quindi pochissimi erano in grado di prendere le mosse dal suo metodo per fare dei progressi nell’ambito del calcolo medesimo. Dice Newton nel De analysi per aequationes numero terminorum infinitas che fu scritta intorno al 1671 quindi quasi in contemporanea con i Principia:

Qualsiasi cosa l’analisi comune esegua per mezzo di equazioni con un numero finito di termini (purché lo si possa fare) questo metodo può sempre esguire la stessa cosa per mezzo di equazioni infinite. Così non ho esitato di dare ad esso lo stesso nome di analisi. Infatti i ragionamenti usati in questa analisi non sono meno certi di quelli usati nell’altra (l’algebra, ndr), e le sue equazioni non sono meno esatte; sebbene noi mortali, con le nostre capacità di ragionamento molto limitate, non possiamo né esprimere né concepire tutti i termini di queste equazioni in modo da sapere esattamente in base ad essi le quantità che desideriamo …

        Il metodo delle flussioni è quindi un metodo generale per trovare il tasso di variazione istantaneo di una variabile rispetto ad un’altra e l’area sottesa da una curva, invertendo questo stesso procedimento e si serve dello sviluppo in serie infinite.

        In questo metodo, le fluenti rappresentano le grandezze generate e le flussioni le velocità con cui esse vengono formate. Newton osservò che, considerando intervalli di tempo uguali, ma piccoli quanto si vuole, le flussioni diventano proporzionali agli accrescimenti corrispondenti delle fluenti. Basandosi sulla considerazione del limite del rapporto di due quantità evanescenti, insegnò a determinare le flussioni, conosciute che siano le fluenti e questa parte del suo metodo corrisponde al nostro calcolo differenziale. Anche dalla terminologia scelta è chiaro come Newton si fosse avvicinato a tali questioni dalla parte che più lo interessava, ossia il moto, la velocità istantanea, le traiettorie, le variazioni di velocità e accelerazione, che poi sono i fondamentali problemi di cinematica.

        Nel De Analysi, ancora non era stato definito un simbolismo. La cosa sarà fatta negli altri scritti di Newton.  Egli tornò sul metodo delle flussioni nella seconda parte dell’Appendice all’Optics ma l’enunciazione completa del metodo non si avrà fino alla pubblicazione del Newton’s manuscript on fluxions  nel 1736.  Le quantità fluenti saranno indicate con x ed y mentre p e q rappresenteranno le flussioni o velocità di variazione. In seguito sostituì p e q con:

e le fluenti con

‘x, ‘y

Il simbolismo si prestava ad essere iterativo, infatti, per rappresentare una flussione di una flussione si aveva:

ed una fluente di una fluente:

”x, ”y.

Come già visto, l’incremento infinitesimo della fluente x nell’intervallo di tempo piccolissimo misurato da “o” era chiamato il momento del fluente (prodotto dell’incremento di tempo per la relativa flussione) ed indicato con

(tale grandezza fu indicata da Leibniz, in uno scritto del 1684, con dx ed a Leibniz è anche dovuto il termine funzione).

        A ciò Newton aggiunse molte altre regole come, ad esempio: che è possibile trascurare ogni potenza intera e positiva di “o” ed ogni termine che fosse moltiplicato per una tale potenza; che è sempre possibile trovare una equazione che leghi tra loro coordinate del punto su una curva e le loro flussioni. E questo è uno dei punti fondamentali del calcolo. Esso dice in pratica che l’ effetto prodotto da varie cause su un sistema, se possiamo studiare separatamente l’effetto prodotto da ogni singola causa (agente in un tempo piccolissimo), è la somma degli effetti considerati separatamente (nello stesso tempo). Egli assumerà inoltre che tutte le grandezze geometriche debbono essere concepite come generate da un movimento continuo; così una linea può essere intesa come generata da un punto in movimento, una superficie dal moto di una linea, un solido da quello di una superficie, una angolo piano dalla rotazione di una linea e così via. Le grandezze così originate sono i fluenti (che rappresentano una delle prime definizioni di funzione continua). Nascono allora due tipi di problemi: dati i fluenti, trovare la relazione che fornisce la loro flussione (cioè: trovare la flussione di una data grandezza), e questo problema va oggi sotto il nome di differenziazione; data invece la flussione (o alcune sue relazioni) determinare il fluente, e questo problema di quadratura va oggi sotto il nome di integrazione. Tali risultati sono applicati da Newton ad applicazioni geometriche del metodo delle flussioni, alla ricerca dei massimi e dei minimi, alla ricerca dei flessi, al tracciare le tangenti ad una curva, alla determinazione del centro di curvatura di una curva, per trovare il raggio di curvatura, … per quadrare superfici, rettificare curve e, addirittura, per integrare equazioni differenziali anche del secondo ordine, come fa nei Principia (anche se in questa sua opera fondamentale egli non userà mai il metodo delle flussioni). Per cercare i massimi e minimi egli studia il cambiamento di segno della differenza di due valori consecutivi della funzione: una funzione che ha un massimo non può avere ulteriori incrementi, quando ha un minimo non può avere ulteriori decrementi, così che la flussione in corrispondenza di un massimo o minimo deve essere nulla.

        Resta solo da osservare che queste elaborazioni di Newton anticiparono di circa 10 anni quelle di Leibniz che avvennero in modo assolutamente indipendente. I due si scrissero (in latino)  per un certo periodo (1676 – 1677) attraverso il segretario della Royal Society, Oldenburg. E ciascuno comunicava all’altro a che punto era. Occorre osservare che, mentre Newton parlava in modo criptico (addirittura usava dei complicatissimi anagrammi dove i numeri indicano quante volte compaiono nella frase le lettere scritte di seguito, come fece nella seconda lettera a Leibniz attraverso Oldenburg: il fondamento del proprio metodo era 6a cc d ae 13e ff 7i 3l 9n 4o 4q rr 4s 8t 12v x, che vuol dire, in traduzione italiana: da una equazione contenente fluenti per trovare flussioni, e viceversa con queste aggiunte 5accd ae 10eflh 11i  4l 3m 9n 60qqr  8s 11t 9v 3x: 11ab 3cdd 10e ae g 10i 11 4m 7n 6y 3p 3q 6r 5s 11t 8vx, 3ac ae 4egh 5i 4lf 4m 5n 8oq 4r 3s 6t 4v, aad ae 5eiiimmnnooprrr 5sttvv, che, in traduzione italiana, vuol dire: un metodo  consiste nell’estrarre una quantità fluente da una equazione nella quale appare simultaneamente la sua flussione; un altro assumendo una serie per qualunque quantità, dalla quale il resto potrebbe essere convenientemente derivato, e considerando i termini omogenei dell’equazione risultante per chiarire i termini della supposta serie. Si deve tenere inoltre conto che questa lettera arrivò a Leibniz con oltre 6 mesi di ritardo e per di più con alcune lettere del secondo anagramma spostate nella trascrizione della lettera recapitatagli), Leibniz tentava di decifrarlo parlando chiaro. Nella lettera che chiudeva la corrispondenza tra i due, Leibniz affermava: “Penso che ciò che Newton ha voluto nascondere del suo metodo per tracciare le tangenti non discordi da quanto ho detto sopra“. Castelnuovo osserva che come matematico Newton primeggiava su Leibniz ma che Leibniz aveva una enorme comunicativa e voglia di spiegare che mancavano completamente a Newton. E’ noto che la priorità di pubblicazione dei metodi del calcolo è di Leibniz (che la fece nella rivista Acta Eruditorum nel 1684), ma il sistema della corrispondenza che, all’epoca, era il vero veicolo motore delle informazioni scientifiche tra scienziati (le Accademie Scientifiche stavano nascendo ma erano agli inizi, le riviste scientifiche avevano periodicità lunghe, …) funzionava a pieno ritmo e le cose che Newton faceva erano molto note negli ambienti scientifici anche se non erano state formalizzate in una pubblicazione. A questo si deve aggiungere che le fonti dei due matematici erano le stesse ed i tempi erano maturi per una elaborazione simultanea. Questa vicenda vide una furibonda polemica tra i seguaci di Newton ed i seguaci di Leibniz sulla priorità nella creazione del calcolo (si possono leggere tutti i documenti in proposito in La disputa Leibniz-Newton sull’analisi, Boringhieri, Torino 1958). A seguito di ciò, mentre nella prima edizione dei Principia Newton ammetteva che Leibniz possedeva un metodo simile, nella terza edizione del 1726, in seguito all’aspra polemica in corso, Newton eliminò il riferimento al calcolo di Leibniz. Sembra paradossale ma la Gran Bretagna pagò duramente la controversia con un ritardo importante nello sviluppo della matematica (le scuole di matematica continentali, che ebeero rappresentanti come de l’Hôpital, Bernouilli, Eulero, Gauss, Lagrange, Cauchy, … scelsero le notazioni di Leibniz, molto più agili e su quelle si costruirono i passi successivi). Tale controversia terminò ufficialmente nel 1813, con la nascita a Londra della Analytical Society.

5 – L’OTTICA

        Newton opera e scrive in gran parte nell’ultimo quarto del Seicento. E’ un periodo particolarmente intenso e fecondo per tutti i problemi di ottica e quindi legati alla luce. Vi saranno moltissimi lavori che si susseguiranno ed in parte accavalleranno. Evidentemente i tempi erano maturi per arrivare ad una più organica comprensione dei fenomeni luminosi. Tra l’altro, con Newton, assistiamo al passaggio della ricerca scientifica in Inghilterra. Ora è a tutti noto che Newton sia stato uno dei più grandi fisici della storia, tanto grande che oscurò almeno i successivi 100 anni (si aveva paura di fare ricerca: sembrava che tutto lo avesse fatto Newton e comunque sembrava impossibile aggiungere delle novità o peggio criticare i suoi lavori).

        Newton si occupò di ottica lungo tutto l’arco della sua vita. I suoi primi scritti in proposito sono nel primo volume delle trascrizioni delle lezioni che egli tenne a Cambridge dal 1669 al 1672(22). Le lezioni in oggetto hanno carattere eminentemente tecnico. In esse si studiano le lenti ed i loro difetti, soprattutto aberrazioni cromatica (sulla sferica non seppe o non volle risolvere il problema in quanto non era di natura geometrica ma strettamente tecnica, legato alla molatura dei cristalli). Studiò obiettivi e modi per perfezionare gli strumenti ottici e fece il passaggio alla tecnica catottrica per la costruzione di telescopi (telescopio a riflessione e non più a visione diretta) perché con esso era possibile appunto eliminare l’aberrazione cromatica. Risulta chiaro che per 

In questo telescopio, che migliora di gran lunga le prestazioni di un telescopio ordinario, la radiazione proveniente, ad esempio,  da un pianeta entra da S e, dopo essersi riflessa sullo specchio concavo M,  si focalizza sullo specchio R disposto a 45°, per poi essere definitivamente inviata all’occhio dell’osservatore O.

Disegno del telescopio catottrico di Newton fatto da Oldenburg, segretario della Royal Society con cui Newton era in corrispondenza (da Mamiani).

capire ed eliminare l’aberrazione cromatica occorreva sapere bene il ruolo svolto dai colori ed il loro comportamento nei punti di curvatura della lente nel telescopio a visione diretta (soprattutto ai suoi bordi), dove tende ad assomigliare ad un  prisma. In particolare occorre aver capito il rapporto esistente tra la diversa rifrangibilità dei raggi ed i colori. E Newton aveva studiato l’aberrazione cromatica in una memoria del 1671-72 (New Theory about Light and Colors) in cui descrive gli esperimenti fatti con luce, prisma e dispersione dei colori (già nota da molto tempo) attraverso di esso. Vediamo il contenuto di tale memoria:

Egregio Signore,

Per mantenere la mia recente promessa, le dirò senza tante cerimonie, che all’inizio’ del 1666, quando mi occupavo di molare lenti ottiche in forme non sferiche, mi procurai un prisma di vetro triangolare, per esperimentare il famoso fenomeno dei colori. Perciò dopo aver fatto il buio nella mia camera, praticai un foro nella persiana per lasciar passare una quantità sufficiente di luce solare. Posi allora il prisma davanti a quell’apertura, di modo che la luce potesse rifrangersi sulla parete opposta. Dapprima osservai con piacere i vivi ed intensi colori così prodotti: ma subito dopo esaminandoli con maggior attenzione, fui stupito nel rilevare la loro forma oblunga, mentre secondo le leggi della rifrazione comunemente ammesse, mi aspettavo di trovare loro una forma circolare. I colori erano limitati da ogni parte da linee rette, ma verso le estremità, l’intensità della luce diminuiva gradualmente, a tal punto che era difficile determinare chiaramente i contorni: sembravano tuttavia semicircolari; Confrontando la lunghezza e la larghezza di questo spettro colorato, trovai che questa era cinque volte più grande; si trattava di una differenza talmente straordinaria che provocò in me una viva curiosità di scoprirne la causa. Sebbene dubitassi fortemente che lo spessore variabile della lente, o la limitazione provocata dall’ombra o dall’oscurità, influissero in qualche modo sulla luce producendo tale effetto, ritenni opportuno esaminare prima di tutto queste circostanze, e volli vedere che cosa sarebbe accaduto se la luce fosse passata attraverso spessori differenti della lente, o per fori di diversa grandezza, praticati nella persiana, e attraverso il prisma posto all’esterno, in modo tale che la luce potesse attraversarlo ed essere rifratta prima di passare per il foro: ma nessuna di queste prove risultò soddisfacente. Il contorno dei colori restava sempre lo stesso.

E la cosa viene illustrata così da Newton(23):

L’illustrazione proviene dall’Optiks di Newton.

Il fatto che l’immagine del forellino da cui entrava la luce fosse obliqua e costituita da differenti colori, contrariamente a quanto ammetteva Descartes (con la sua idiosincrasia per l’esperienza) che affermava dovesse essere circolare, spinse Newton ad approfondire lo studio del fenomeno. E trovò che il prisma deflette la luce, nelle più diverse disposizioni sperimentali, e l’immagine che si ottiene della luce bianca del Sole è una scomposizione della medesima luce, a seconda dei differenti colori della stessa, con il colore blu rifratto di più del colore rosso. Se lo schermo dove si raccoglieva l’immagine del Sole era vicino al prisma, si vedeva soprattutto una luce bianca deviata con i bordi vagamente colorati. Ma se si allontanava lo schermo sempre più si evidenziava lo spettro colorato della luce bianca. Newton prosegue:

Pensai allora che questi colori si distendessero per qualche ineguaglianza, o per qualche altra casuale irregolarità della lente. Per provarlo presi allora un secondo prisma simile al primo, e lo collocai in modo che la luce, attraversandoli entrambi, fosse rifratta in senso inverso, e ricondotta dal secondo nella via da cui il primo l’aveva deviata. Pensavo infatti che in questo modo gli effetti irregolari del primo prisma sarebbero stati distrutti dal secondo, ma che per la molteplicità delle rifrazioni sarebbero aumentati gli effetti irregolari. Il risultato fu che la luce diffusa in forma oblunga dal primo prisma acquistava col secondo una forma ad orbita assai regolare, come se non fosse passata attraverso i due prismi. Dunque, qualunque fosse la causa della lunghezza dello spettro, non era certo dovuta ad una irregolarità casuale.

Mi misi allora ad esaminare con maggiore attenzione l’effetto della diversa incidenza dei raggi che provenivano dalle diverse parti del Sole, e a questo scopo misurai i lati e gli angoli dell’immagine … Fatte queste osservazioni e basandomi su di esse, calcolai dapprima il potere rifrattivo del vetro e, misurandolo secondo il rapporto dei seni, lo trovai di 20 a 31. Basandomi su questo rapporto calcolai le rifrazioni dei due raggi che provenivano da parti opposte del disco solare, con una differenza di 31′ nell’angolo di incidenza, e trovai che i raggi uscenti avrebbero dovuto formare un angolo di 31′ come prima dell’incidenza. Ma poiché questo calcolo si basava sull’ipotesi della proporzionalità dei seni e di rifrazione, ipotesi che data la mia esperienza personale non potevo considerare talmente erronea da trasformare un angolo di 2°49′, come era in realtà, a solo 31′, fui spinto dalla curiosità a riesaminare il mio prisma. Postolo davanti alla finestra, come avevo fatto prima, e facendolo ruotare leggermente attorno al suo asse, muovendolo alternativamente avanti e indietro in modo da variare la sua obliquità rispetto alla luce incidente in un angolo maggiore di quattro o cinque gradi, notai che ciò malgrado la posizione dei colori sulla parete non subiva nessun mutamento sensibile, e che questo cambiamento d’incidenza non portava neppure un mutamento sensibile alla rifrazione. Da questo esperimento, come dal calcolo precedente, risultava evidente che la diversa incidenza di raggi provenienti da parti diverse del sole, non permetteva che, dopo essersi incrociati, divergessero con un angolo sensibilmente maggiore di quello con il quale prima convergevano; ed essendo quello per lo più di circa 31 o 32 minuti primi bisognava trovare quale fosse la causa che lo faceva diventare di 2°49′. Cominciai allora a domandarmi se i raggi, dopo essere passati attraverso il prisma, non si spostassero secondo linee curve, tendendo verso il muro secondo il diverso grado di curvatura. Il ricordo di una palla da tennis che colpita da una racchetta descrive spesso la medesima curva, confermò la mia ipotesi.

Dato infatti che il colpo imprimeva alla palla un moto circolare e rettilineo ad un tempo, la parte laterale, in cui il movimento era impresso, doveva premere e colpire l’aria contigua più violentemente che in altri punti, provocando così una reazione ed una resistenza dell’aria proporzionalmente maggiori.

E per la stessa ragione, se è possibile che i raggi luminosi siano costituiti da corpi sferici e che passando da un mezzo all’altro acquistino un movimento rotatorio, essi dovrebbero trovare maggiore resistenza nell’etere circostante, là dove è impresso il movimento, per proseguire poi il loro percorso nell’altro mezzo, secondo una curva. Ma malgrado la fondatezza di queste ipotesi che decisi di esaminare non potei osservare tali curvature. Inoltre, e ciò era sufficiente al mio scopo, notai che la differenza tra la lunghezza dell’immagine e il diametro del foro, attraverso il quale passava la luce, era proporzionale alla loro distanza.

L’eliminazione progressiva di tutte queste ipotesi mi condusse infine all’experimentum crucis, che fu il seguente: presi due assicelle e ne posi una proprio davanti al prisma che si trovava vicino alla finestra, in modo che la luce penetrasse attraverso un forellino, praticato a questo scopo, e che raggiungesse l’altra assicella posta ad una distanza di circa 12 piedi, nella quale avevo pure praticato un foro attraverso il quale passava un poco della luce incidente. Poi posi un altro prisma dietro la seconda assicella, di modo che la luce, passando attraverso le due assi, passasse anche attraverso questo prisma per essere nuovamente rifratta prima di raggiungere il muro. Ciò fatto presi il, primo prisma facendolo ruotare leggermente e lentamente, muovendolo alternativamente avanti e indietro attorno al suo asse, il tempo necessario per fare passare le diverse parti dell’immagine, proiettate sulla seconda assicella, attraverso il foro in questa praticato, e per permettermi di osservare i punti in cui il secondo prisma le rifrangeva. E attraverso lo spostamento di questi punti, potei osservare che la luce arrivata ad una estremità dell’immagine, secondo la quale avveniva la rifrazione del primo prisma, subiva nel secondo prisma una rifrazione molto maggiore della luce che arrivava alla estremità opposta. Si dimostrava così che la vera causa della lunghezza dello spettro, è dovuta al fatto che la luce è composta da raggi di inuguale rifrangibilità, trasmessi nelle diverse parti del muro senza alcun rapporto con la differenza d’incidenza.

        Il fatto che l’immagine del forellino da cui entrava la luce fosse obliqua e costituita da differenti colori, contrariamente a quanto ammetteva Descartes (con la sua idiosincrasia per l’esperienza) che affermava dovesse essere circolare, spinse Newton ad approfondire lo studio del fenomeno. E trovò che il prisma deflette la luce, nelle più diverse disposizioni sperimentali, e l’immagine che si ottiene della luce bianca del Sole è una scomposizione della medesima luce, a seconda dei differenti colori della stessa, con il colore blu rifratto di più del colore rosso. Se lo schermo dove si raccoglieva l’immagine del Sole era vicino al prisma, si vedeva soprattutto una luce bianca deviata con i bordi vagamente colorati. Ma se si allontanava lo schermo sempre più si evidenziava lo spettro colorato della luce bianca. A questo punto si pone con forza il problema di capire come sono legati i colori con la luce bianca. E’ il prisma che colora la luce (come sosteneva Descartes) oppure esso serve solo a separare ciò che nella luce già c’è ? E’ qui che nasce l’annunciato experimentum crucische illustrerò riferendomi alla figura che Newton ci fornisce (ma solo successivamente, nell’Optiks, e non nella New Theory). La luce solare S entra nel foro F dentro un ambiente buio dove incontra il prisma ABC che la scompone sullo tavoletta DE (funzionante da diaframma),

L’illustrazione proviene dall’Optiks di Newton.

nella quale è praticato il foro G. La strumentazione era sistemata in modo che, muovendo opportunamente il prisma, fosse possibile indirizzare su G il gruppo ristretto di colori che si voleva (prodotto dalla dispersione della luce bianca). Quindi attraverso G passava un pezzetto di spettro colorato che era inviato su una seconda tavoletta de sulla quale era fatto il forellino g. In questo modo g diventava una nuova sorgente di luce, sorgente quasi monocromatica che inviava la luce su un secondo prisma che li rifrangeva definitivamente sulla parete (in M se era rossa ed in N se era blu) questa volta in modo non più allungato ma circolare. Qui non vi era più dispersione della luce ma solo rifrazione nel prisma. Quindi si dimostrava che non era il prisma a colorare la luce (nonostante avesse sperimentato in più modi questa possibilità), che il prisma è un semplice analizzatore dei colori, un filtro e che la deviazione dipendeva dal colore della componente della luce. In definitiva Newton può concludere che la luce consiste di raggi differentemente rifratti e la rifrangibilità è la misura del coloreNewton prosegue:

Dopo aver compreso questo, abbandonai gli esperimenti sulle lenti: mi resi conto infatti che la perfezione dei cannocchiali era limitata non tanto per la mancanza di lenti ben lavorate, secondo la prescrizione degli ottici, come fino ad allora si pensava, quanto per il fatto che la luce stessa è un miscuglio eterogeneo di raggi diversamente rifrangibili. Di modo che immaginando pure che esista una lente, lavorata con tale precisione da concentrare ogni specie di raggi in un sol punto, essa non potrà mai concentrare in quello stesso punto quei raggi, che pur avendo un ugual angolo d’incidenza, sono disposti a subire una diversa rifrazione. E anzi vedendo la grandissima differenza di rifrangibilità da me riscontrata, mi stupii che i cannocchiali avessero potuto raggiungere la loro perfezione attuale …

        A questo punto egli realizza varie altre esperienze combinando colori dalla sovrapposizione di altri e definendo il bianco un non colore, un qualcosa cioè che è somma di tutti gli altri colori (i colori primari, quelli che ci fornisce il prisma, sovrapposti in qualunque combinazione ci danno i colori secondari e l’occhio ci inganna perché non è in grado di capire se un colore è primario o secondario: se si vuole oggettivare l’ottica occorre mettere da parte gli occhi ed affidarsi a strumenti(24)). Questa cosa viene dimostrata da Newton per sovrapposizione dei vari colori, ad esempio, mediante una lente come nella figura seguente (che corrisponde, semplificata, alla figura 6 riportata nella tavola che segue). Un raggio di luce bianca proviene da S, passa nel forellino F e quindi nel prisma ABC. Il prisma scompone la luce e lo spettro va a finire nella lente MN. La lente fa convergere i colori dello spettro verso q dove si ricompongono in luce bianca. L’esperienza di figura 6 permetteva a Newton non solo di ricomporre la luce bianca ma anche di comporre i colori a suo piacimento mediante lo schermo sagomato XY che gli permetteva di intercettare colori non contigui. Inoltre, muovendo in alto ed in basso tale schermo in q si aveva una successione di colori composti ma se tale movimento era rapido, in q si aveva ancora luce bianca (persistenza delle immagini sopra la retina).

La stessa cosa si può  ottenere mediante due prismi sistemati in modo opportuno, come mostrato nella figura 7 della tavola seguente (la luce entra dalla destra, va sul prisma ABC che la scompone; da qui lo spettro va sui due prismi HIK ed LMN che ricompongono lo spettro in modo da riavere, in G, luce bianca. 

Alcuni degli esperimenti di Newton per ricomporre la luce precedentemente separata nei suoi diversi colori.  L’illustrazione proviene dall’Optiks.

        Oltre a ciò, Newton inizia a capire in cosa consiste il colore degli oggetti illuminandoli con luce monocromatica: in queste condizioni gli oggetti perdono il loro colore e diventano oscuri. Solo quando sono illuminati dal particolare colore che non assorbono, allora manifestano il loro colore. Cerchiamo di capire: un oggetto è giallo perché assorbe tutti i colori meno il giallo che viene riflesso verso i nostri occhi. Se in una stanza buia illuminiamo questo oggetto con il blu, lo assorbe e noi vediamo l’oggetto scuro perché non abbiamo luce che dall’oggetto ci viene riflessa verso gli occhi. Solo quando inviamo del giallo sull’oggetto che normalmente vediamo giallo, poiché tale oggetto non assorbe questo colore ma lo riflette, noi lo vediamo e lo vediamo giallo.

        L’intera teoria dei colori di Newton viene così riassunta dallo stesso Newton, nella New Theory about Light and Colors, in 13 punti.

Vi parlerò ora di un’altra notevole particolarità di questi raggi, che spiega l’origine dei colori. Esporrò prima la teoria e poi, per poterla provare, sceglierò alcuni esempi degli esperimenti fatti. La teoria sarà esposta e spiegata nelle seguenti proposizioni:

1. I raggi di luce differiscono tra di loro sia per gradi di rifrangibilità sia per la loro disposizione a mostrare questo o quel colore. I colori non sono né qualità dei corpi né modificazioni della luce, prodotte dalla rifrazione o riflessione, ma proprietà originarie e innate, diverse per ogni raggio diverso.
2. Allo stesso grado di rifrangibilità appartiene sempre lo stesso colore, e viceversa. Ad esempio, i raggi meno rifrangibili appaiono rossi, e i raggi che appaiono rossi sono tutti meno rifrangibili. La stessa cosa si dica per i più rifrangibili, che appaiono violetti, e per tutti gli altri gradi intermedi.
3. La specie del colore e il grado di rifrangibilità propri di un particolare genere di raggi non mutano né per rifrazione, né per riflessione.
4. Tuttavia mutazioni apparenti di colore si possono produrre quando esista una mescolanza qualsiasi di raggi di diverso genere. Infatti in queste mescolanze non appaiono i colori componenti, ma un colore intermedio. Perciò se per rifrazione o qualche altra causa i raggi difformi, latenti in tale mescolanza, fossero separati, emergerebbero colori differenti dal colore del composto. Questi colori non sono generati, ma resi manifesti dalla separazione, poiché se fossero di nuovo mescolati, comporrebbero quel colore che esibivano prima della separazione. Perciò i colori così composti non sono reali. Allo stesso modo, le polveri azzurre e gialle, finemente mescolate, appaiono a occhio nudo verdi, e tuttavia i colori dei corpuscoli componenti non sono realmente trasmutati, ma solo combinati. Infatti, osservati con un buon microscopio, appaiono ancora azzurri e gialli.
5. Esistono due generi di colori: gli uni, originati e semplici, gli altri composti di questi. I colori originar! o primari sono: il rosso, il giallo, il verde, l’azzurro e il violetto-porpora, insieme con l’arancione, l’indaco e un’indefinita varietà di gradazioni intermedie.
6. Per composizione si possono produrre anche colori con la stessa apparenza di quelli primari: infatti una mescolanza del giallo e dell’azzurro da il verde; del rosso e del giallo, l’arancione; dell’arancione e del giallo-verde, il giallo.
7. La composizione più sorprendente e meravigliosa è il bianco. Non c’è alcun genere di raggi che da solo lo possa mostrare. Esso è sempre composto, e per la sua composizione sono richiesti tutti i colori primari, mescolati in una proporzione data.
8. Il bianco è il colore consueto della luce, che è un confuso aggregato di raggi di ogni genere di colore. Se gli ingredienti si trovano nella proporzione corretta, è generato il bianco; ma se uno di essi predomina, la luce tende verso quel colore, come accade nella fiamma azzurra dello zolfo, in quella gialla della candela e nei vari colori delle stelle fisse.
9. Considerate queste cose, risulta evidente il modo in cui i colori sono prodotti dal prisma. Poiché i raggi della luce incidente differiscono nel colore in proporzione al loro grado di rifrangibilità, essi, sottoposti a rifrazioni differenti, sono separati e dispersi secondo una successione ordinata dallo scarlatto, il meno rifratto, al violetto, il più rifratto.
10. Risulta anche evidente perché appaiano i colori dell’arcobaleno nelle gocce cadenti di pioggia.
11. Non sono più enigmi gli strani fenomeni di certi corpi trasparenti che appaiono in una posizione di un colore diverso che in un’altra. Infatti queste sostanze sono atte a riflettere un genere di luce e a trasmetterne un altro.
12. Risulta anche manifesta la ragione di un altro esperimento sorprendente, riferito da Hooke. Due vaschette trasparenti, riempite l’una di un liquido azzurro e l’altra di uno rosso, poste una di fronte all’altra, diventano opache. Infatti se la prima trasmette solo il rosso, e l’altra solo l’azzurro, nessun raggio può attraversare entrambe.
13. […] I colori di tutti i corpi naturali non hanno altra origine che la loro differente capacità di riflettere un genere di raggi in maggiore quantità di un altro.

        Dopo questo lavoro che, come ho detto, si sovrapponeva alle Lectiones Opticae, Newton scrisse (1676) un’altra breve memoria sulla luce, divisa in due parti, An Hypothesis Explaining the Properties of Light Discoursed of in my Severall Papers (Un’ipotesi che spiega le proprietà della luce discusse in altri miei scritti). Questo lavoro nasceva per fermare un poco le violente critiche alla teoria emissionista che gli erano piovute da ogni ambiente scientifico (particolarmente da Hooke che riconosceva l’accuratezza ed eleganza degli esperimenti di Newton ma non condivideva il fatto che le conclusioni sulla luce dovessero essere tratte da tali esperimenti poiché la luce, per Hooke, restava un fenomeno ondulatorio). Egli tenta qui una via di compromesso tra emissione corpuscolare e vibrazione di un dato mezzo. La seconda parte della memoria, in cui discute argomenti che saranno inseriti nell’Optiks, non verrà pubblicata. Nella prima parte tratta invece di quel tormento che aveva introdotto Cartesio, l’etere. L’etere, a cui Newton ricorre malvolentieri, doveva avere essere della medesima costituzione dell’aria ma più rarefatto, sottile, elastico e con caratteristiche di non  uniformità. Egli immagina dei corpuscoli in moto in un mare d’etere. Questi corpuscoli, come i sassi nell’acqua, devono provocare delle vibrazioni nell’etere quando si ha a che fare con i fenomeni di riflessione o rifrazione. Non vi è altro modo, secondo Newton, per spiegare quel fenomeno scoperto da Hooke e noto con il nome di anelli di Newton (facendo riflettere della luce bianca su di una lastra di vetro posta a

La lente AQ è poggiata sul vetro AR. Premendo la lente contro il vetro e guardando perpendicolarmente dall’alto si osservano degli anelli colorati alternati ad anelli scuri.

contatto con una lente convessa di grande raggio di curvatura si originano degli anelli colorati, dovuti alla formazione di – come sappiamo oggi – frange di interferenza sulla lamina d’aria compresa fra lente e lastra di vetro). Sugli anelli Newton ritornerà nell’Optiks con la volontà di spiegare il fenomeno solo mediante riflessioni e rifrazioni. Nell’Optiks presenterà una figura come la seguente dalla

quale sembra  chiara la spiegazione che dà del fenomeno: tutti i raggi di luce AB attraversano la lastra di vetro NN’, alcuni di essi (e ciò dipende dalla distanza esistente tra vetro e lente MM’) riescono a passare indisturbati, con il normale processo di rifrazione, attraverso la lente, altri vengono invece riflessi dalla lente stessa e fuoriescono di nuovo dalla lastra di vetro. In definitiva, guardando dall’alto, si osserveranno sulla lastra di vetro gli anelli chiari (con vari colori) e scuri alternati.

        Ma da dove era venuta a Newton l’idea di luce costituita da corpuscoli ? Proprio dal fatto che essa è scomponibile, cioè divisibile con un processo assimilabile alla materia che si divide e ci porta fino ai suoi ultimi costituenti, gli atomi (ed anche all’evoluzione del calcolo sublime, che iniziava proprio con Newton e Leibniz, basato sugli infinitesimi). Cosicché la luce è (almeno fino a questo momento) corporea e composta da particelle. Era un atteggiamento molto diffuso questo. Sullo sfondo vi era sempre l’aristotelismo con le sue qualità occulte e sembrava quasi che mettersi sulla strada dei componenti materiali salvaguardasse dal cadere in possibili confusioni. Inoltre le particelle permettevano di passare ad uno studio riduzionista dei fenomeni: si studiavano corpuscoli, i loro movimenti, si applicavano ad essi leggi meccaniche (la differenza di colore viene assegnata alla differenza di massa o dimensione tra i corpuscoli) e, da tutto questo, si risaliva alle proprietà di entità come la luce ma anche degli stessi corpi di cui sono intesi come costituenti. Si cercava, soprattutto da parte di Newton, di costringere la luce al calcolo e sembrava molto poca cosa l’applicazione della sola geometria ai raggi rettilinei. Newton doveva sentire molto questo problema se esplicitamente nelle Lectiones Opticae dice:

«Affinché non sembri che abbia oltrepassato i limiti del dovuto mentre mi accingo a trattare la natura dei colori, i quali si possono ritenere non attinenti per nulla alla matematica, non sarà inutile se ricorderò di nuovo la ragione di questo intento. Senza dubbio l’affinità tra le proprietà delle rifrazioni e quelle dei colori è così grande, che non si possono spiegare isolatamente. Chi voglia conoscere nel debito modo le ‘une, è necessario che conosca le altre. E se non trattassi d’ora in poi delle rifrazioni, e la ricerca su di esse non fosse motivo per intraprendere insieme una spiegazione dei colori, tuttavia la generazione dei colori contiene tanta geometria, e la loro conoscenza è confermata con tanta evidenza, che proprio grazie ad essi potrei accingermi ad ampliare un poco i confini della matematica. Infatti allo stesso modo che l’Astronomia, la Geografia, la Navigazione, l’Ottica e la Meccanica sono ritenute scienze matematiche quantunque in esse si tratti di cose fisiche – ciclo, terra, navi, luce e moto locale – così anche se i colori appartengono alla fisica, tuttavia la loro scienza deve essere ritenuta matematica in quanto ricevono una spiegazione matematica. Anzi, poiché la scienza accurata di questi sembra essere tra le più difficili che un filosofo possa desiderare spero, quasi ad esempio, di mostrare quanto la matematica valga in filosofia naturale; e quindi di esortare i geometri ad accingersi ad un più stretto esame della natura, e gli amanti della scienza naturale ad appropriarsi prima della geometria: affinché i primi non sprechino totalmente il loro tempo in speculazioni in alcun modo utili alla vita umana, e i secondi, a lungo impegnati con un metodo inadeguato, non perdano ogni loro speranza per sempre: ma affinché filosofando i geometri ed esercitando la geometria i filosofi, otteniamo, al posto di congetture e cose probabili, che si smerciano ovunque, una scienza della natura finalmente confermata con la più alta evidenza».

        E questo argomentare, ripreso anche alla fine dell’ultima memoria citata, è comprensibile se si pensa che dall’epoca di Galileo era stato fatto ben poco per ricondurre i diversi fenomeni fisici al calcolo e la luce, particolarmente, sembrava sfuggirvi. 

        Debbo qui fare un inciso che credo di notevole importanza per gli sviluppi futuri. Newton afferma qui che il fisico-matematico ha pieno diritto di fare il filosofo. Questa posizione non è banale perché tenta di recuperare un’unità che sembrava si andasse perdendo. Fu accettata in silenzio o almeno mai negata fino a Kant che, nella Critica della ragion pura (1781), sostenne la netta separazione tra matematica e filosofia. E’ l’inizio di una filosofia che va per conto suo non essendo più in grado di entrare in argomenti formalizzati. E’ anche possibile sostenere quanto sostiene Kant ma non si deve perdere la possibilità di leggere il lavoro del fisico-matematico, pena la perdita completa di contatto che sarà sempre più difficile colmare. Ed è ciò che viviamo oggi con le sufficienze che i filosofi mostrano quando parlano di scienza o con i sensi di privazione che provano. In ogni caso la posizione di Kant resta nell’ambito della pienezza della legittimità e della dignità filosofica. Un “grande filosofo” che invece interviene contro Newton è Hegel che non capisce nulla di ciò che Newton argomenta ma mette insieme una montagna di sciocchezze per criticarlo. Egli pretenderà di determinare le leggi della natura a priori, ricavandole semplicemente su basi metafisiche. E’ un’esperienza penosa leggere alcuni suoi brani §§ 245-336 nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche del 1827(Laterza 1967), esperienza che mostra come dalle cose che dice Kant si possa poi passare alle sciocchezze di Hegel (ne cito una: § 320 – Una delle inesattezze [di Newton] che più colpiscono, e una delle più semplici, è la falsa asserzione che una parte monocroma dello spettro ottenutasi attraverso un prisma, appaia di nuovo soltanto monocroma).

        Ritornando a quanto discutevo, Newton non sembra considerasse i corpuscoli come vere entità materiali ma solo delle ipotesi su cui esercitare la matematica. Egli è considerato corpuscolarista in quanto passò dalle entità geometriche raggi ad entità fisiche che si muovono lungo traiettorie ben definite, che possono essere chiamate corpuscoli (egli prima spezza il raggio di luce in tanti raggi paralleli e poi spezza ogni raggio così ottenuto in tanti segmentini). Già nel 1672 sosteneva:

«Ritengo che la luce sia una qualche entità o potere di un’entità (sia essa sostanza, o una qualche forza, azione, o qualità di essa) che procede direttamente da un corpo luminoso e che è capace di eccitare la vista: e ritengo che i raggi del sole ne siano la parte più piccola, o almeno le indefinitamente piccole parti di essa, che sono reciprocamente indipendenti, come sono tutti i raggi che i corpi luminosi emettono lungo linee rette, successivamente o contemporaneamente».

e sembra qui che le linee rette dei raggi siano in realtà le traiettorie lungo cui camminano i corpuscoli (nell’Optiks modificherà questa impostazione) anche perché le rette non camminano e Röemer ha mostrato che la luce invece lo fa. E’ l’impatto di questi corpuscoli su delle superfici che provoca delle onde sia negli oggetti materiali che nell’etere (in analogia con il sasso nello stagno)

        Newton torna a parlare di fenomeni luminosi in alcune pagine dei Principi matematici di filosofia naturale (1687). Nello Scolio che segue la sezione XIV del Libro Primo, in cui ha trattato de Il moto dei corpi piccolissimi che sono mossi con forze centripete che tendono verso le diverse parti di un qualche corpo grande, ha trattato cioè di corpuscoli in moto che subiscono fenomeni di riflessione e rifrazione con i suoi metodi geometrici, egli riporta i discorsi meccanici che ha fatto, al problema della luce. Dice:

«Queste attrazioni non sono molto dissimili dalle riflessioni e rifrazioni della luce, effettuate secondo una data ragione delle secanti, come trovò Snell, e per conseguenza secondo una data ragione dei seni, come venne esposto da Cartesio. Infatti, che la luce sia propagata in tempi successivi e che per venire dal sole alla terra impieghi quasi sette od otto minuti primi, risulta ora dai fenomeni dei satelliti di Giove, ed è confermato dalle osservazioni di diversi astronomi Ma i raggi che sono nell’aria (come non da molto scoprì Grimaldi, fatta passare la luce attraverso un foro entro una camera scura, il che io stesso ho sperimentato) nel proprio passaggio accanto agli angoli di corpi od opachi o trasparenti (come sono gli orli rettangolari e circolari delle monete d’oro, d’argento e di ottone, e il filo dei coltelli, delle pietre o di vetri infranti) sono incurvati intorno ai corpi, come se ne fossero attratti; e quei raggi, che durante quel passaggio si accostano di più ai corpi vengono maggiormente incurvati, quasi fossero attratti di più, come io stesso ho accuratamente osservato. E quelli che passano a distanze maggiori sono meno incurvati e a distanze ancora maggiori sono alquanto incurvati verso parti opposte, e formano tre fasce di colori».

        Seguono qui due brevissime dimostrazioni e l’argomento luce ritorna solo nello Scolio della Sezione VIII del Libro II. Si parla in questa parte dei Principi di Propagazione del moto attraverso i fluidi e Newton offre subito la figura seguente: 

è un disegno relativo allo studio che Newton sta facendo di propagazione delle onde in relazione al loro periodo, alla loro lunghezza d’onda, alla loro velocità, all’elasticità e densità del mezzo in cui si propagano (tra l’altro, quando Newton scrive i Principi, già conosceva la trattazione ondulatoria della luce fatta da Huygens). Il fine della figura è mostrare l’impossibilità di ombre in una propagazione di tipo ondulatorio (ciò vuol dire che l’onda proveniente da A, dopo essere passata attraverso l’apertura BC fatta sull’ostacolo NK, va ad illuminare anche le zone che sono dietro l’ostacolo!). Ebbene dopo vari teoremi e conti in proposito, relativi a fenomeni macroscopici e meccanici, come nell’altro caso, nello Scolio finale Newton dice: 

«Queste ultimissime proposizioni riguardano il moto della luce e dei suoni. Infatti, poiché la luce è propagata secondo linee rette, non può consistere di sola azione»

per il fatto che

«una pressione non si propaga in un fluido secondo linee rette, se non dove le particelle del fluido sono allineate» 

e per il fatto che

«ogni movimento propagato in un fluido, diverge dalla traiettoria rettilinea verso le regioni immobili».

        Insomma, sembra che Newton abbia in mano la teoria ondulatoria … Ma vi è una cosa che va sottolineata negli scritti che ho riportato. Newton conosce la diffrazione di Grimaldi anche se non la chiama con il nome che lo stesso Grimaldi gli aveva dato (ed avrà sempre difficoltà a farlo, come dirò più oltre). Riconosce quindi la curvatura che i raggi subiscono nel passare vicino a degli ostacoli ma tale curvatura la assegnerà successivamente all’attrazione gravitazionale tra i corpuscoli di luce e la materia che costituisce l’ostacolo: la luce che passa nella parte centrale di un foro subisce uguale attrazione dai due bordi del foro e quindi mantiene immutato il suo cammino, quella che passa più vicina ad un bordo viene da esso deviata. E l’attrazione gioca in Newton un altro ruolo che lo porterà ad un altro errore: la luce viaggia più velocemente nei mezzi materiali perché occorre sommare alla sua velocità nel vuoto quella dovuta all’attrazione della massa materiale.

        E veniamo ora all’opera in cui Newton raccoglie tutte le sue ricerche di ottica, l’Optiks del 1704. L’opera è d’interesse perché essa viene redatta quando già si conoscevano tutti i principali lavori di ottica che abbiamo citato e quello di Huygens che vedremo. E’ quindi un’opera che afferma delle posizioni in alternativa a delle altre, anche se, in gran parte, raccoglie tutti i suoi scritti di ottica. Prima di iniziare a discutere di questo lavoro, accenno al fatto che Newton si serve qui di queries (questioni)che vanno distinte dalle ipotesi. Una query rappresentava un problema posto che sarebbe stato sottoposto a verifica sperimentale mentre un’ipotesi rappresentava la caratteristica di quel modo di fare filosofia che si accontentava di spiegazioni possibili. E l’opera va avanti proprio per questioni che poi si risolvono in esperimenti ed in elaborazioni matematiche o questioni che restano aperte per successive sperimentazioni.

        La struttura dell’opera è simile a quella dei Principia. E’ divisa in tre Libri: il primo si occupa della teoria della rifrazione e dei colori; il secondo alle osservazioni sulle riflessioni, le rifrazioni ed i colori dei corpi trasparenti sottili; il terzo alla diffrazione scoperta da Grimaldi (che Newton non chiama così ma “inflessione dei raggi” perché non vuole ampliare il numero dei modi possibili di trasmissione della luce oltre ai tre noti: direttamente, per riflessione, per rifrazione). Si inizia con delle definizioni alle quali seguono gli assiomi che rappresentano solo un riassunto di quanto si conosce sull’argomento e già acquisito. Vengono infine le proposizioni che vorrebbero essere delle affermazioni con carattere di osservazioni sperimentali alle quali, infatti, seguono vari esperimenti che Newton ha realizzato. Infine, dai risultati di tali esperienze vengono ricavate delle conclusioni di carattere generale che abbisognano a loro volta di verifica sperimentale. Per i quesiti in sospeso vi sono le questioni alle quali ho accennato.

        La prima definizione è la seguente:

«Per raggi di luce intendo le sue parti minime, così quelle successive nelle medesime linee, come quelle contemporanee in linee diverse. Infatti la luce può esser composta di parti sia successive, sia contemporanee; in quanto che si può intercettare in un medesimo luogo quel tanto di luce che in un momento vi arriva, e lasciar passare quello che arriva nel momento successivo; analogamente in uno stesso istante si può intercettare della luce in un luogo qualunque e lasciarla passare in un altro luogo qualunque. Infatti quella parte di luce che viene intercettata non può essere quella stessa che puoi lasciar passare. La minima luce o la minima parte di luce, che da sola, senza la luce restante o può essere intercettata o da sola può propagarsi; o che può esercitare o subire qualche azione, che il resto della luce nello stesso tempo non esercita o non subisce; questa è quella che chiamo raggio di luce».

Newton dice qui che il raggio di luce non è la traiettoria della luce ma la minima parte di luce, una specie di quanto come diremmo oggi. 

        La seconda definizione recita:

«La rifrangibilità dei raggi di luce è quella disposizione, per la quale sono atti, nel passare da un corpo trasparente, o mezzo, in un altro, a essere rifratti, ossia a essere deviati. E la maggior o minor rifrangibilità dei raggi è quella disposizione per cui sono atti a parità di incidenza sopra uno stesso mezzo, ad essere deviati più o meno. I matematici in generale si rappresentano essere i raggi di luce delle linee condotte dal corpo luminoso al corpo illuminato, e la rifrazione di questi raggi essere una flessione o una rottura di queste rette, nel passaggio da un mezzo ad un altro. Anche a proposito dei raggi e delle rifrazioni (come intese sopra) ciò si potrebbe dire, se la luce si propagasse in un istante. Però siccome dalle equazioni dei tempi delle eclissi dei satelliti di Giove sembra doversi concludere che la luce si propaga in un certo intervallo di tempo, cosicché impiega circa sette minuti a venire dal Sole alla Terra; preferii definire così vagamente i raggi e le rifrazioni, affinché qualunque cosa si concludesse a proposito della propagazione della luce, tuttavia queste definizioni fossero vere e sicure da una parte o dall’altra».

Qui dice Newton che è proprio il fatto che la luce si propaga con un tempo definito a non farla più pensare con la continuità delle rette. Una cosa che viaggia deve avere un inizio ed una fine e non deve essere continuamente presente.

        La terza definizione è:

«La riflessibilità dei raggi è quella disposizione per cui sono atti, quando incidono sopra un mezzo qualunque, a essere rimandati dalla superficie del medesimo nuovamente nello stesso mezzo da cui provenivano. E sono raggi più o meno riflessibili quelli che sono riflessi più facilmente o più difficilmente. …».

e qui ci si chiede il perché Newton assegni la proprietà della riflessione alla luce e non agli oggetti che la provocano. Comunque, a queste prime tre definizioni, ne seguono altre 5 piuttosto banali su angoli d’incidenza, di riflessione, di rifrazione, i loro seni, e il significato di alcune espressioni come “luce omogenea”, “colori primari”, “omogenei”, “semplici”. Seguono poi gli assiomi che, come accennato, elencano le conoscenze di ottica all’epoca. Su queste basi Newton inizia la sua trattazione di ottica che, in gran parte, è quella che abbiamo già discussa (solo che qui le esperienze e le misure sono molto più raffinate ed accurate). Si può riassumere il primo libro dell’Optiks con le parole di Ronchi: 

«Progresso sperimentale definito e magnifico. I colori definitivamente strappati alla filosofia del vecchio stampo, oggettivati, definiti, ordinati, analizzati, sintetizzati; teoretizzati col modello della luce corpuscolare, gravitazionale, attribuendo massa diversa ai diversi colori.

Il progresso sarebbe stato meraviglioso se non avesse lasciato alle spalle due posizioni pericolosissime; la maggior velocità della luce nei mezzi più densi [che Newton già aveva ammesso nelle sue dimostrazioni ottiche nei Principi, ndr]; la proporzionalità tra rifrangenza e dispersione».

        Il libro secondo dell’Optiks mostra gravi difficoltà di Newton nello spiegare dei fenomeni mantenendo la sua concezione corpuscolare. Egli nel discutere gli anelli e quindi di problemi di diffrazione e di doppia rifrazione non è esauriente nel rispondere ai quesiti che via via sorgono e fa delle affermazioni che non vengono verificate sperimentalmente dando la netta sensazione di essere ipotesi ad hoc. Ad un certo punto afferma che i corpi riflettono e rifrangono in un certo modo eccetto i corpi grassi e  solforosi: cosa sono e perché si comportano diversamente ? In altro punto afferma che i corpi più rifrangenti, esposti al Sole, si riscaldano di più di quelli meno rifrangenti. Dove lo ha provato ed a quali corpi si riferisce ? Newton, in altro luogo, esclude che la particella di luce abbia un’azione diretta nell’urto sulla materia, azione che invece è assegnata al corpo nella sua totalità, ed allora come mai la particella subisce a volta riflessioni ed a volta rifrazioni ? Sembrerebbe che sia la particella a scegliere (ogni raggio di luce acquista una certa costituzione o disposizione transitoria, Libro II, Parte III, Proposizione XII) … ma se così fosse l’intero meccanismo costruito da Newton dove va a finire ? Insomma, da questo punto pare che l’intera teoria che Newton ha costruito gli stia sfuggendo di mano e Newton deve inventare ipotesi su ipotesi per andare avanti nelle spiegazioni dei fenomeni. Dice Ronchi:

In tutte queste pagine si sente il ripiego, l’insufficienza, l’insoddisfazione dello stesso Autore. Se egli fosse stato schietto, avrebbe dovuto limitarsi a dire: Gli anelli impongono una periodicità; esiste la riflessione parziale della luce sulle superfìcie trasparenti; questo dice l’esperienza, ma la teoria corpuscolare non può spiegare tutto ciò con azioni ragionevoli tra la materia e i corpuscoli luminosi. Invece egli volle tentare un primo passo verso la teoria: quello del battesimo del fenomeno e di alcuni suoi elementi; così definì le «vices» e l’«intervallum vicium».

ed aggiunge che Newton fu anche sfortunato. Così come Grimaldi si era imbattuto nella diffrazione mentre cercava la luce materiale, ora Newton si trova a studiare l’interferenza mentre sta sistemando i suoi corpuscoli nella cornice riduzionista della gravitazione universale. E questo secondo libro chiude con una specie di compromesso che Newton fa tra la sua teoria corpuscolare ed una qualche teoria ondulatoria, particelle precedute da onde che predeterminano il futuro comportamento delle particelle stesse 

«I raggi di luce incidendo su una superficie riflettente o rifrangente, eccitano vibrazioni nel mezzo riflettente o rifrangente … le vibrazioni così eccitate si propagano nel mezzo riflettente o rifrangente, in modo analogo alle vibrazioni del suono nell’aria …  ;  quando ciascun raggio è in quella parte della vibrazione che è favorevole al suo moto,  si fa strada attraverso una superficie rifrangente, ma quando si trova nella parte contraria della vibrazione che impedisce il moto, è facilmente riflesso …» 

ed anche, quando parla degli anelli che già ho discusso: 

«…i raggi di luce sono, per una ragione o per l’altra, disposti alternativamente ad essere riflessi o rifratti per molte volte di seguito periodicamente …».

        E veniamo al libro terzo nel quale con alcuni esperimenti si tenta di spiegare la diffrazione di Grimaldi. Nella trattazione hanno ampio spazio le questioni alle quali ho accennato: appunti, domande ed osservazioni all’apparenza senza organicità in gran parte senza sperimentazioni, con risposte aperte, con molte contraddizioni, con incompiutezze ed affermazioni volutamente provvisorie. Sembra un catalogo o un promemoria per cose da fare, da studiare, da sperimentare. Viene fuori anche un Newton che, se con argomentazioni corrette aveva respinto la teoria ondulatoria di Hooke ed Huygens (in mancanza del concetto di interferenza la teoria ondulatoria era profondamente incompleta), allo stesso modo avanza una sorta di teoria delle ondulazioni (è difficile sapere se la luce è un’emissione di corpuscoli o se è solo un movimento astratto, una certa forza che si propaga da sé). E non si tratta di contraddizione ma di evoluzione di un pensiero che si scontra su fatti sperimentali che non rientrano più nel precedente quadro esplicativo. E Newton non abbandona una teoria esplicativa per un’altra ma semplicemente, di fronte all’indeterminatezza formale e logica delle teorie disponibili, accetta ciò che gli occorre da una  teoria o da un’altra, a seconda di cosa gli serve ed ha davanti. Da qui discendono le presunte oscillazioni esplicative del nostro che mostrano, semmai, la sua apertura e spregiudicatezza. E proprio quest’ultima osservazione ci fa stupire del fatto che Newton, nella trattazione della diffrazione di Grimaldi (citato e quindi conosciuto) tenta la spiegazione con riflessioni e rifrazioni dimenticando quante esperienze proprio Grimaldi aveva dedicato al mostrare che non si poteva trattare di nessuno dei due fenomeni citati. E Newton ammette il suo fallimento quando dice:

«Facendo le osservazioni premesse, mi ero prefisso di ripeterne la maggior parte con maggior cura e di aggiungerne alcune altre in più; per esplorare infine in qual modo e con quale legge i raggi di luce si inflettono nel passare vicino agli orli di tutti i corpi, per formare quelle frange con delle linee nere intramezzate. Ma da questi studi allora per caso venni distratto; e ora non mi posso convincere a riprendere questi studi interrotti. Per cui, non avendo assolto questa parte del mio programma, concluderò soltanto proponendo alcuni Quesiti, coi quali altri, in seguito, possano venire indirizzati nel continuare questi studi»

dovranno essere cioè altri a cercare soluzioni e le questioni sono proprio una specie di testamento sul cosa studiare, sul cosa cercare, a quali questioni rispondere.   

       E’ solo nella parte finale dell’ Optiks, nelle Questioni 28, 29 e 30, che Newton avanza in forma completa, come  ipotesi da investigare, la teoria corpuscolare della luce. E’ superfluo notare che ogni ipotesi di Newton è legata ad una possibile, ma non definitiva e neanche tanto importante, spiegazione dei fatti sperimentali noti e via via osservati. Così, mentre l’ipotesi  onda-particella, vista qualche riga più su, serviva a Newton per rendere conto e della colorazione delle lamine sottili e del fenomeno degli anelli, la teoria corpuscolare discendeva da una spiegazione che Newton tentava di dare della diffrazione. L’inflessione che un  raggio di luce subisce quando passa, ad esempio, al di là di un forellino è interpretata (come già accennato) come risultato di forze attrattive o repulsive tra la materia costituente il corpo diffrangente ed il raggio luminoso (che per questo è pensato costituito da corpuscoli che, in quanto dotati di massa, subiscono l’azione delle forze attrattive o repulsive).

          Quindi, il tentativo di spiegazione dei fenomeni di diffrazione unito al fatto che, secondo Newton, è impensabile una teoria che voglia la luce fatta di onde (“di pressioni“) perché le onde (“le pressioni“) ” non possono propagarsi in un fluido in linea retta” poiché hanno la tendenza a sparpagliarsi dappertutto, porta il nostro alla formulazione (dubitativa) della teoria corpuscolare che si trova nella Questione 29 dell’Ottica, introdotta con queste parole;

  «Non sono i raggi di luce corpuscoli molto piccoli emessi dagli oggetti luminosi ? Infatti questi corpuscoli passeranno attraverso i mezzi omogenei in linea retta senza essere piegati nelle zone d’ombra, com’è nella natura dei raggi di luce».

         Newton passava quindi ad illustrare alcune proprietà degli ipotetici corpuscoli materiali affermando che essi agirebbero a distanza allo stesso modo dell’attrazione reciproca tra i corpi. I colori della luce ed i diversi gradi di rifrangibilità sono poi spiegati con l’ammissione che la luce bianca sia formata da corpuscoli  di  diversa  grandezza  (i  più  piccoli  producono  il  viola  … e gli altri facendosi sempre più grandi, producono via via gli altri colori fino al rosso).  Infine,  con questa teoria,  è  possibile  spiegare  il fenomeno della doppia rifrazione che, come vedremo, Huygens non era riuscito a spiegare con la teoria  ondulatoria (la spiegazione definitiva verrà con la scoperta di Fresnel della polarizzazione). In definitiva, in questo modo, la teoria della luce veniva ricondotta alla più vasta spiegazione che la gravitazione universale doveva fornire.

        Una sola considerazione, prima di chiudere con Newton. E la traggo insieme a D’Agostino con le parole di Ronchi: 

A rigor di termini non si sa veramente dove e per merito di chi sia sorta quella teoria corpuscolare che per tutto il secolo decimottavo fu reputata soddisfacente ed anzi gloriosa.
Forse perché la semplicità con cui il modello di Newton rendeva conto dei fenomeni elementari della luce (riflessione e rifrazione) che sono i più comuni e i più noti, nonché della genesi dei colori, deve aver conquistato la enorme maggioranza delle menti facendo restare nell’ombra le pericolose complicazioni della diffrazione e della doppia rifrazione, e confidando con serena aspettativa in un contributo successivo degli studiosi per trovare l’inquadratura anche di questi fenomeni nella teoria così gradita e accessibile.

Insomma la storia di Newton corpuscolarista è una leggenda alimentata dai newtoniani che come tutti i seguaci di grandi ingegni, li hanno sempre capiti molto poco.

6 – NEWTON MAGO E TEOLOGO

        Recentemente (2007) sono venuti alla luce nuovi documenti relativi all’attività non propriamente matematica e fisica di Newton. Si tratta di inserirli in un quadro interpretativo della complessa personalità dello scienziato e di trarre alcune conclusioni sui rapporti tra scienza, magia ed alchimia, fede tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento in tutta Europa.

        Newton è uno dei personaggi più noti che, pur immersi a vari livelli in una cultura misticheggiante, riuscirono poco a poco ad affrancare l’osservazione scientifica dai piombi metafisici, per portarla alla laicità che acquistò a partire dal secolo XVIII.

        È straordinario che si debba parlare di Newton. Tanto straordinario che l’uscita in Italia di uno studio di M. White (“Newton: l’ultimo mago“, Rizzoli 2001), ha fatto solo menzionare il lavoro nelle recensioni di “Le Scienze“, come se si trattasse di una qualche denigrazione. Nessuno in nessuna delle cose che dirò vuole togliere meriti ormai universalmente riconosciuti di un pilastro della fisica. Il tentativo è proprio quello di far intendere le difficoltà che si sono dovute superare per affermare la razionalità scientifica. E ciò attraverso cammini tortuosi, mai lineari e sempre infarciti della cultura del tempo. In questo senso, davvero, l’opera di Galileo risulta particolarmente straordinaria.

        Ma torniamo al Newton meno noto, al mago, secondo la definizione di White.

        Egli, all’inizio della sua produzione scientifica, si mostrò influenzato dal meccanicismo di Descartes e del suo connazionale Hooke. Nel 1666 mostrava che la luce è scomponibile nei vari colori ed in tal modo distruggeva quell’immagine che ad essa era associata, di manifestazione divina. Ma il clima intellettuale dell’Inghilterra stava mutando proprio in quegli anni. Il meccanicismo inglese, l’opera di Hobbes, avevano provocato profonde crisi di rigetto e, particolarmente, il bisogno di riconquistare un qualche rapporto con la divinità. Newton fu partecipe di tale cambiamento di clima come mostra, appunto, il complesso della sua opera nota e meno nota.

        Due storici britannici, Rattansi e Mc Guire (1966), hanno ritrovato una bozza dello scolio alla Proposizione VIII dei Principia in cui Newton sosteneva quelle che erano le sue credenze religiose. Egli in pratica affermava di aderire alla filosofia pitagorica, alle proporzioni perfette ed alle armonie. Queste proporzioni dovevano anche riguardare i cieli, i ‘pesi’ dei pianeti e le distanze reciproche. Descrivendo un esperimento, attribuito a Pitagora, secondo cui dei ‘pesi’ legati a delle viscere penzolanti da animali le allungavano in maniera inversamente proporzionale alla loro distanza dal ‘centro’ dell’animale, attribuiva a Pitagora la scoperta della legge dell’inverso del quadrato che egli stesso aveva fornito. Nel successivo scolio, quello alla Proposizione IX, Newton sosterrà esplicitamente:

A qualcuna di queste leggi sembra abbiano fatto cenno i filosofi antichi quando chiamarono Dio ‘Armonia’ e rappresentavano il suo potere dinamico con l’immagine musicale del Dio Pan suonando il flauto e attribuivano musica alle sfere rendendo armoniche le distanze ed i movimenti dei corpi celesti e rappresentando i pianeti con le sette corde dell’arpa di Apollo“.

        Inoltre, nel suo “Sistema del Mondo“, Newton fa risalire la teoria copernicana agli antichi maestri, ma non a quelli noti come Aristarco, ma a Platone ed all’antica sapienza degli egiziani “che rappresentavano con riti sacri e geroglifici, dei misteri che andavano al di là della comprensione popolare“.

        Si è anche osservato che la matematica di Newton indulge troppo alla geometria quando ormai i tempi erano maturi per gli infinitesimi di cui Leibniz sarà portatore.

        Ed ecco che il Dio Architetto e Ingegnere di Galileo diventa altra cosa, allo stesso modo del Dio Meccanico di Descartes: Dio entra ora nel mondo per regolarlo da dentro, la stessa natura è Dio. È una sorta di mediazione quella che fa Newton, tra il Dio Artista ed il Dio Ingegnere. Questo Dio, come Newton afferma nello Scolio generale dei Principia, interviene anche a rifornire di “energia” qualche pianeta che ne avesse persa un poco nel suo moto (occorre però ricordare che lo Scolio generale fu introdotto da Newton nella seconda edizione dell’opera, poiché la prima edizione, senza la presenza costante di Dio, aveva sollevato moltissime critiche, anche di ateismo). Vediamo allora qualche passo significativo di questo Scolio generale:

L’ipotesi dei vortici è soggetta a molte difficoltà [e qui Newton spiega il perché e parla del suo sistema del mondo soggetto alla gravitazione universale ndr] … Tutti i corpi in questi spazi devono potersi muovere liberissimamente; perciò i pianeti e le comete devono poter ruotare in perpetuo, in orbite date per specie e per posizione … È vero che per la legge di gravità si manterranno nelle proprie orbite, ma mediante queste leggi non poterono affatto aver acquistato fin dall’inizio la posizione regolare delle orbite. … Tutti questi moti regolari non hanno origine da cause meccaniche; le comete infatti sono trasportate liberamente secondo orbite fortemente eccentriche e in tutte le parti del cielo…. Questa elegantissima compagine del Sole, dei pianeti e delle comete non poté nascere senza il disegno e la potenza di un ente intelligente e potente. E se le stelle fisse sono centri di analoghi sistemi, tutti questi, essendo costruiti con un identico disegno, saranno soggetti alla potenza dell’Uno: soprattutto in quanto la luce delle stelle fisse è della stessa natura della luce del Sole, e tutti i sistemi inviano la luce verso tutti gli altri.

Egli regge tutte le cose non come anima del mondo, ma come signore dell’universo. E a causa del suo dominio suole ‘essere’ chiamato Signore-Dio, 
pantokratwr. Dio infatti è una parola relativa e si riferisce ai servi: e la divinità è la signoria di Dio, non sul proprio corpo, come vien ritenuto da coloro per i quali Dio è l’anima del mondo, ma sui servi. Dio è il sommo ente eterno, infinito, assolutamente perfetto: ma un ente senza dominio, benché perfetto, non è il Signore Dio. Infatti diciamo Dio mio, Dio vostro, Dio di Israele, Dio degli dèi, Signore dei potenti; ma non diciamo eterno mio, eterno vostro, eterno di Israele, eterno degli dèi; non diciamo infinito mio o perfetto mio. Questi appellativi non hanno rapporto con i servi. La voce Dio significa sempre signore: ma non ogni signore è Dio. La dominazione di un ente spirituale costituisce Dio, la vera dominazione il vero, la somma il sommo, la falsa il falso. E dalla vera dominazione segue che il vero Dio è vivo, intelligente e potente; e dalle restanti perfezioni segue che è sommo o sommamente perfetto. È eterno e infinito, onnipotente e onnisciente, ossia, dura dall’eternità in eterno e dall’infinito è presente nell’infinito: regge ogni cosa e conosce ogni cosa che è o può essere. Non è l’eternità o l’infinità, ma è eterno e infinito; non è la durata ‘e lo spazio, ma dura ed è presente. Dura sempre ed è presente ovunque, ed esistendo sempre ed ovunque, fonda la durata e lo spazio. Poiché ogni particella dello spazio è sempre, e ogni momento indivisibile della durata è ovunque, certamente l’Artefice e il Signore di tutte le cose sarà sempre e ovunque. Ogni anima senziente nei diversi tempi, nei diversi sensi e organi di movimento è la medesima persona indivisibile. Le parti sono successive nella durata, coesistenti nello spazio, ma nessuna delle due è data nella persona dell’uomo o nel suo principio razionale, e molto meno nella sostanza pensante di Dio. Ogni uomo, in quanto sostanza senziente, è un unico e identico uomo durante tutta la sua vita in tutti e nei singoli organi di senso. Dio è un unico e identico Dio sempre e ovunque. È onnipresente non per sola virtù, ma anche sostanzialmente: infatti la virtù senza la sostanza non può sussistere. In esso 3 gli universi sono contenuti e mossi, ma senza nessun mutuo perturbamento. Dio non patisce nulla a causa dei moti dei corpi: questi non trovano alcuna resistenza a causa dell’onnipresenza di Dio. È manifesto che il sommo Dio deve esistere necessariamente, e per la stessa necessità è sempre e ovunque. Di conseguenza egli è anche interamente simile a se stesso, tutto occhio, tutto orecchio, tutto cervello, tutto braccio, tutta forza sensoriale, intellettiva e attiva, ma in modo niente affatto umano, niente affatto corporeo; in modo a noi assolutamente sconosciuto. Come il cieco non ha idea dei colori, così noi non abbiamo idea dei modi con i quali Dio sapientissimo sente e capisce tutte le cose. È completamente privo di ogni corpo e di ogni figura corporea, e perciò non può essere visto, né essere udito, né essere toccato, né deve essere venerato sotto la specie di alcunché di corporeo. Abbiamo idea dei suoi attributi, ma non conosciamo affatto che cosa sia la sostanza di una cosa. Dei corpi vediamo soltanto le figure e i colori, sentiamo soltanto i suoni, tocchiamo soltanto le superfici esterne, odoriamo soltanto gli odori e gustiamo i sapori; ma non conosciamo le sostanze intime con nessun senso, con nessun atto di riflessione; e, molto meno, abbiamo un’idea della sostanza di Dio. Lo conosciamo solo attraverso le sue proprietà ed i suoi attributi, per la sapientissima e ottima struttura delle cose e per le cause finali, e l’ammiriamo a causa della perfezione; ma lo veneriamo, invero, e lo adoriamo a causa del dominio. Adoriamo infatti come servi, e Dio senza dominio, provvidenza e cause finali non è altro che fato e natura. Da una cieca necessità metafisica, che è assolutamente identica sempre e ovunque, non nasce alcuna varietà di cose. L’intera varietà delle cose create, per luoghi e per tempi, poté essere fatta nascere soltanto dalle idee e dalla volontà di un ente necessariamente esistente. Allegoricamente, infatti, si dice che Dio veda, oda, parli, rida, ami, odi, desideri, dia, prenda, goda, si adiri, combatta, fabbrichi, fondi, costruisca. Infatti, ogni idea intorno a Dio deriva interamente, per similitudine, dalle cose umane, non certo perfetta ma tuttavia somigliante. Queste cose intorno a Dio: sul quale spetta alla filosofia naturale di parlare muovendo dai fenomeni.

Fin qui ho spiegato i fenomeni del cielo e del nostro mare mediante la forza di gravità, ma non ho mai fissato la causa della gravità. Questa forza nasce interamente da qualche causa, che penetra fino al centro del Sole e dei pianeti, senza diminuzione della capacità, e opera non in relazione alla quantità delle superfici delle particelle sulle quali agisce (come sogliono le cause meccaniche) ma in relazione alla quantità di materia solida. La sua azione si estende per ogni dove ad immense distanze, sempre decrescendo in proporzione inversa al quadrato delle distanze. La gravità verso il Sole è composta della gravità verso le singole particelle del Sole, e allontanandosi dal Sole decresce costantemente in ragione inversa del quadrato delle distanze fino all’orbita di Saturno, come è manifesto dalla quiete degli afelii dei pianeti, e fino agli ultimi afelii delle comete, posto che quegli afelii siano in quiete. In verità non sono ancora riuscito a dedurre dai fenomeni la ragione di queste proprietà della gravità c non invento ipotesi. Qualunque cosa, infatti, non deducibile dai fenomeni va chiamata ipotesi; e nella filosofia sperimentale non trovano posto le ipotesi sia metafisiche, sia fisiche, sia delle qualità occulte, sia meccaniche. In questa filosofia le proposizioni vengono dedotte dai fenomeni, e sono rese generali per induzione. In tal modo divennero note l’impenetrabilità, la mobilità e l’impulso dei corpi, le leggi del moto e la gravità. Ed è sufficiente che la gravità esista di fatto, agisca secondo le leggi da noi esposte, e spieghi tutti i movimenti dei corpi celesti e del nostro mare.

Ora sarebbe lecito aggiungere qualcosa circa quello spirito sottilissimo che pervade i grossi corpi e che in essi si nasconde; mediante la forza e le azioni del quale le particelle dei corpi a distanze minime si attraggono mutuamente e divenute contigue aderiscono intimamente; i corpi elettrici agiscono a distanze maggiori, tanto respingendo quanto attraendo i corpuscoli vicini; la luce viene emessa, riflessa, rifratta, inflessa, e riscalda i corpi; tutta la sensazione è eccitata e le membra degli animali si muovono a volontà, ossia, mediante le vibrazioni di questo spirito, si propaga, attraverso i filamenti solidi dei nervi, dagli organi esterni dei sensi al cervello e dal cervello ai muscoli. Ma queste cose non possono essere esposte in poche parole; né vi è sufficiente abbondanza di esperimenti, mediante i quali le leggi delle azioni di questo spirito possano essere accuratamente determinate e mostrate.

        Come si può apprezzare, Newton parte con un attacco ai meccanicisti smontando la teoria dei vortici a cui loro erano legati ed affermando la sua teoria. Ma se si fosse fermato qui il Dio sarebbe sparito. E’ a questo punto che egli innalza tutte le lodi possibili a Dio facendo mostra della sua eccellenti conoscenze teologiche dicendo che senza di esso questo mondo non esisterebbe e non potrebbe funzionare. Occorre qui fare un inciso. Newton era sempre stato legato a temi esoterici e metafisici, come abbiamo visto discutendo della sua vita. Egli era una persona educata in ambiente religioso e la religione lo attrasse sempre, ritenendo che questa fosse la più nobile occupazione dello spirito. Uno spunto per approfondire ulteriormente i suoi studi gli venne subito dopo la prima stesura dei Principia, nel 1689. Quando Newton fu eletto come rappresentante di Cambridge al Parlamento, ebbe modo di conoscere e di frequentare assiduamente J. Locke con il quale portò avanti discussioni molto approfondite di teologia, con particolare riferimento alla Trinità. Da qui nacquero molte opere teologiche di Newton (Locke sosteneva che fosse il più grande teologo mai esistito). Tornato a Cambridge Newton dedicò la gran parte del suo tempo proprio alla teologia tentando di decifrare le profezie di Daniele e il libro dell’Apocalisse di Giovanni, sul quale scrisse una ponderosa opera della quale dirò qualcosa più oltre.

        Tornando allo Scolio Generale, dopo tutto ciò che egli ha detto sull’opera di Dio, ripassa alla fisica per dire che il suo sistema, che è l’unico possibile visto che i vortici non funzionano, si serve della forza di gravità che egli non sa cosa sia nella sua essenza ma che funziona così e basta. Egli dice di non addentrarsi in ipotesi su cosa sia la gravità. Ne studia i soli effetti. Infine accenna alla presenza di una qualche sostanza nell’universo che lo possa riempire tutto. Ed è questo il significato che occorre assegnare alle proprietà che Newton fornisce allo spazio ed al tempo; particolarmente lo spazio è il “sensorium Dei“. Ed a questo proposito è utile entrare su una controversia che si ebbe con Leibniz relativamente alle “forze” attrattive che Newton pone alla base della sua gravitazione universale. Certamente Newton prese le mosse dalla tre leggi di Kepler e dalla caduta dei gravi studiata da Galileo. Tutto ciò parrebbe una sorta di deduzione teorica da fatti sperimentalmente accertati. In realtà resta (ancora oggi) il problema delle forze. Di cosa si tratta ? Lo stesso Newton ne fornisce una definizione circolare poiché nella stessa formulazione dal secondo principio introduce simultaneamente due grandezze non definite la forza e la massa (egli lo sa e tenta di rifugiarsi dietro una finta definizione di massa attraverso la densità). Cosa sono le forze ? Come illustri fisici ed epistemologi hanno iniziato a sostenere da fine Ottocento (Kirchhoff, Hertz, Mach, Perrin,…), noi conosciamo solo gli effetti delle forze: le stesse pretese forze non le conosciamo. Esse, così come sono proposte da Newton, dovendo agire “a distanza”, senza intermediari (e quindi occulte), sono rifiutate sia dagli aristotelici che dai cartesiani. Trenta anni dopo, Leibniz parlerà dei Principia come di un ritorno ai “racconti di fate”. Afferma Kearney che “i cartesiani rifiutarono Newton per la stessa ragione che Galileo e Descartes rifiutarono Kepler”. Uno dei critici più duri di Newton fu proprio Huygens, l’unico vero seguace di Galileo, che sostenne essere il principio newtoniano dell’attrazione “impossibile da spiegare in nessun modo meccanico“. E tra Leibniz e Huygens intercorse una corrispondenza dopo la pubblicazione dei Principia. Newton era considerato alla stregua di un aristotelico che credeva a simpatie ed antipatie assimilando queste ad attrazioni e repulsioni. Fu solo con le “Lettere Inglesi” di Voltaire (prima metà del XVIII secolo), che Newton assurse a simbolo del meccanicismo anche se, tale definizione, vide sempre fermi oppositori tra i meccanicisti medesimi.

        E fin qui ogni commento è relativo al Newton noto, il fondatore della Meccanica. Il fatto è che vi è anche un Newton meno noto ma ugualmente attivo oltre che in Teologia, anche in Alchimia (nella sua biblioteca il 10% dei libri erano di alchimia e circa il 30% di teologia, a fronte di un 20% di libri vari di scienza). Qui il discorso sarebbe lungo e voglio fornire solo alcuni dati oltre ad una vasta bibliografia. Il fatto è che Newton, come accennato, scrisse un “Trattato sull’Apocalisse” in cui emergono molti dei temi mistici che abbiamo incontrato nella cultura rinascimentale: occorre conoscere le profezie per salvarsi; vi sono regole per interpretare e metodizzare parole e linguaggio delle Scritture; esiste una corrispondenza tra il mondo e le Scritture. Serve un nuovo ritorno di Cristo poiché la Bestia con dieci corna (il mondo pagano) ha vinto sulla Chiesa; la Bestia con due corna (la grande apostasia) si è impossessata della Chiesa; la Bestia si presenta a noi come grande Meretrice o come falso Profeta ma queste due immagini non sono altro che facce diverse del Dragone (Satana); il mistero che si trova scritto sulla fronte della Meretrice è quello della Trinità (Newton rifiutava questa ‘complicazione’); Cristo non era venuto per fondare una nuova religione ma per riportarla all’antica purezza (qui è echeggiato espressamente un tema ermetico ripreso anche da Giordano Bruno – ma addirittura da Ario -, anche nello stesso linguaggio della Bestia che in Bruno, con l’aggettivo di Trionfante è la Chiesa, mentre il Papa è la “sua santa asinità”).

        Vi sono anche da dire due parole sul Newton alchimista. Egli scrisse migliaia di pagine in proposito. Tra l’altro scrisse anche relativamente alla tomba del famoso alchimista Flamel (della quale ho parlato in Cos’è l’alchimia, seconda parte). Non ne pubblicò nessuna ed in questo era concorde con quanti ritenessero questa una pratica per iniziati e quindi segreta. Non è esagerato dire che egli passò metà del suo tempo in studi alchemici (aveva anche un laboratorio di alchimia) e religiosi sintetizzando in sé appunto l'”ultimo mago” di White o l’ “anfibio” di Kearney. Di seguito riporto un disegno alchemico di Newton, la Pietra filosofale, che si trova all’interno di un suo, tra i tanti, manoscritto alchemico.

 “Lapis Philosphicus” ovvero “pietra filosofale”, dal manoscritto 416 di Sir Isaac Newton

        Più oltre riporto invece una delle tavole degli elementi alchemici che Newton si era costruito:

        In tali manoscritti Newton studia tutto ciò che di non scientifico oggi era all’epoca al centro dell’interesse di quasi tutti gli studiosi (25).

        Anche l’ossessione religiosa ha ampio spazio in tali scritti. Newton era un mistico, un ascetico che studiava con grande passione questioni di teologia e già nel 1672, all’età di 29 anni, aveva fatto domanda di ordinazione alla Chiesa Anglicana e voti di celibato. Nello stesso 1672, Newton scrisse del figlio di Dio e del Dio padre. Negò la Trinità, schierandosi, in questo, con l’eresia di Ario. Egli basava le sue convinzioni da studi approfonditi della Bibbia dove aveva, tra l’altro, trovato alcune affermazioni sia in Timoteo [2-5]:

“C’è un Dio ed un mediatore tra Dio ed Uomo: l’uomo Cristo Gesù”  

che in Luca [1-32]:

“Egli sarà grande e sarà chiamato figlio del più alto”

        Uno degli studi di teologia che più appassionò Newton fu la Cronologia della Bibbia ed in particolare il Libro della Rivelazione che Newton considerava il più importante della Bibbia. E’ qui che Newton inizia a tentare di capire se vi sia una qualche cronologia per il futuro. E’ anche sua, come di tanti altri, l’età del mondo, calcolata in circa 4000 anni. E la fine di tutto sarebbe avvenuta in concomitanza con la seconda venuta di Cristo (altro topico fondamentalista).

        I suoi studi erano sempre molto approfonditi e corredati spesso di disegni. Quello che segue è il disegno che Newton fece del Tempio di Gerusalemme, così come lo aveva intuito dalla lettura medesima della Bibbia. In proposito egli scrive sulla destra del disegno:

La pianta del Tempio di Gerusalemme disegnata da Newton

La pianta del Tempio di Gerusalemme senza le scritte di Newton

“Lo stesso Dio fornisce a Mosè la dimensione del Tabernacolo e del Tempio with its (?) to David and Ezekiel and others…”.

        E veniamo ora all’ultimo documento scoperto. Si tratta di una lettera risalente al 1704 e pubblicata solo ora in occasione di una mostra dal 18 giugno al 17 luglio 2007 all’Università ebraica di Gerusalemme e intitolata «I segreti di Newton», mostra che raccoglie migliaia di pagine manoscritte dallo stesso Newton(26). Anche il grande scienziato inglese non riesce a sfuggire alla numerologia ed al fascino di segreti reconditi e da interpretare nell’Antico Testamento. Da suoi calcoli e studi di matematica applicata alla Bibbia, egli profetizzò che il mondo doveva avere fine nel 2060, cioè 1.260 anni dopo l’800 d. C., data in cui venne

Il documento in cui compare la data della fine del mondo, il 2060

 restaurato il Sacro Romano Impero di Carlo Magno. Pare che lo scienziato sia arrivato a indicare questa data in seguito alla rilettura del libro del profeta Daniele, uno dei libri più difficili in cui sono contenuti numerosi simbolismi e visioni fantastiche. E proprio dal linguaggio oscuro e sibillino del testo, Newton fu incoraggiato ad abbandonarsi alla fosca profezia che non deve mai mancare in esoterici studiosi della Bibbia. Leggiamo Daniele:

Udii l’uomo vestito di lino, che era sulle acque del fiume, il quale, alzate la destra e la sinistra al cielo, giurò che chi vive in eterno che tutte queste cose si sarebbero compiute fra un tempo, tempi e la metà del tempo, quando sarebbe finito colui che dissipa le forze del popolo santo. [Daniele 12-7]

        La scienza moderna è nata a partire dal Rinascimento. Essa è nata per lo sforzo ed il duro lavoro di molti studiosi (vedi il mio: RELIGIONE, MAGIA E SCIENZA NEL RINASCIMENTO ITALIANO). Queste erano persone del loro tempo ed il loro lavoro, letto con gli occhi di oggi, non può essere che esaltato per l’enorme sforzo che ciascuno nel suo ambito e nel suo contesto ha portato avanti per affrancarsi da quel groviglio di conoscenze che oggi, senza dubbio, possiamo bollare come irrazionali. Ma quel groviglio era la base culturale di quell’epoca. Volerne ricostruire la storia, attraverso l’opera dei contributi “razionali” dei singoli scienziati è un vero falso. Lo è stato per molti anni: sotto influenze illuministe e positiviste, gli storici hanno scavato nel passato con gli occhi del presente ed hanno ricercato ciò che loro faceva più comodo per ricostruire un mondo in cui il “progresso” avviene per cumulo successivo di conoscenze. Non sono ammesse deviazioni.

        Se si legge con attenzione quanto ho scritto e, soprattutto, si studia un poco della bibliografia che riporto, ci si accorge che le cose non stanno così.

        Voglio concludere queste brevi note con una sola osservazione che credo di aver abbondantemente documentato in tutti i miei lavori su Galileo(27). Si cercherà dovunque una sua posizione simile, un suo concedere spazio a miti, leggende e superstizioni. A indulgere a questioni di fede se non quando interferivano brutalmente con il suo lavoro. La laicità della scienza nacque con Galileo. Coloro che seguirono, a parte Huygens, infilarono di nuovo dalla finestra ciò che Galileo aveva cacciato dalla porta.


NOTE

(21) Calcoliamoci l’espressione dell’accelerazione centripeta in un moto circolare, riferendoci alla figura seguente (è un altro modo rispetto a quello che abbiamo visto nel lavoro su Huygens):

Abbiamo a che fare con un oggetto che si muove uniformemente lungo una traiettoria circolare; la figura (a) mostra due successive posizioni di tale oggetto lungo la sua traiettoria; supponiamo che il tratto Δs tra le due successive posizioni sia percorso nel tempo Δt, tempo nel quale la velocità è passata dal valore v1 al valore v2. Per calcolare l’accelerazione [questo è un moto a velocità costante ma quando si dice questo ci si riferisce alla velocità angolare – l’angolo percorso nell’unità di tempo – vi è invece la velocità periferica che cambia istante per istante – si tratta solo di cambiamenti di direzione e verso ] che sarà diretta verso il centro (accelerazione centripeta)  occorre calcolarsi la variazione della velocità vettoriale Δv, nel tempo Δt, cioè: Δv/Δt. La quantità Δv è data da Δv = v–  v1. Per ricavare questa quantità ci si deve riferire alla figura (b):

 Δv = v+ (- v1) =  v–  v1

Si osservi ora che il triangolo di figura (b) con lati Δv, v1, v2 è simile al triangolo di figura (a) con lati corrispondenti  Δs, R1, R2. I triangoli risultano simili perché sono ambedue isosceli ed hanno i lati v1 e v2, rispettivamente perpendicolari a R1 ed R2; dunque gli angoli q compresi sono uguali. Ricordando che lati corrispondenti di triangoli simili sono tra di loro in proporzione, risulta:

Dividendo ambo i membri per Δt si ottiene:

avendo tenuto conto che Δs/Δt = v. Non resta ora che trarre le conclusioni, osservando che Δv/Δt = a:

che è l’espressione della accelerazione centripeta in un moto circolare. Occorre dire che questa accelerazione è responsabile, istante per istante, di cambiamenti di direzione e verso e non del modulo della velocità.

Una osservazione sulla figura va fatta. Le due posizioni dell’oggetto in rotazione sono prese distanti per rendere la cosa visibile nella figura stessa. Per vedere bene che la direzione dell’accelerazione è verso il centro, sarebbe stato necessario prendere due posizioni vicinissime tra loro. In tal caso si sarebbe visto che tale direzione, coincidente con quella di  Ddi figura (b), si sarebbe sovrapposta a quella del raggio R(si tenga conto che R1 ed R2 sono chiamati così per dar conto delle due posizioni di cui si parla; in realtà è la stessa lunghezza e vale R)

(22) Newton tenne lezioni a Cambridge dal 1669 al 1687. Le lezioni furono raccolte dall’Università in 4 volumi e pubblicate postume nel 1729. Il primo di questi volumi raccoglie le lezioni dal 1669 al 1672 che sono di ottica, il secondo raccoglie le lezioni tra il 1673 ed il 1683 di aritmetica ed algebra, il terzo le lezioni del 1984 e 1985 sul movimento dei corpi, il quarto le lezioni del 1687 sul sistema del mondo.

(23) Nella figura seguente vi è il modo con cui Voltaire, nel suo La filosofia di 

Newton (Laterza 1968), raffigura la situazione. E nella successiva uno schizzo autografo di Newton:

        Voltaire parlerà diffusamente di Newton anche nelle sue Lettere Inglesi (editori Riuniti 1971).

        E’ da notare che in Italia un primo divulgatore di Newton fu Giovanni Bernardo Pisenti (Venezia 1733) che tradusse il libro che Pemberton accompagnò alla terza edizione dei Principia pubblicandolo con il titolo: Saggio di filosofia newtoniana. Vi fu poi il tentativo più noto di divulgazione dovuto a Francesco Algarotti (Napoli 1737) con il suo Il newtonianesimo per le dame, ovvero dialoghi sopra la luce e i colori. Qui il successo fu enorme, addirittura con traduzioni in lingua straniera (francese, inglese, tedesco, olandese, svedese, portoghese – si noti che manca la Spagna che si trovava sotto il tallone oscurantista della Chiesa).

(24) Questa posizione sarà considerata materialista. Anche contro questa visione vi sarà la reazione romantica alla scienza e lo studio ottocentesco dell’ottica riprenderà con le posizioni di Goethe e con l’ottica fisiologica di Helmholtz.

(25) E’ utile riportare i passi di Guicciardini relativi a questo argomento:

A Cambridge sono attivi pensatori, come Henry More, Isaac Barrow e Ralph Cudworth, preoccupati delle conseguenze teologiche della nuova scienza, in particolare della scienza cartesiana. La nuova filosofia meccanicista ha infatti indotto alcuni (anche alcuni studenti di Cambridge) ad abbracciare tesi pericolose. In alcuni casi si arriva a negare l’esistenza di Dio, dato che il funzionamento della Macchina del Mondo seguirebbe le leggi matematicamente necessarie del moto. Oppure, Dio sarebbe il creatore di un Universo che, dopo la creazione, non necessita più dell’intervento divino. Newton aborrisce queste tesi: egli è convinto che la Provvidenza divina si manifesti in ogni istante nel Creato e che sia una grave eresia negare o marginalizzare il ruolo dell’intervento di Dio, tanto nella Natura quanto nella Storia. Come vedremo, le motivazioni che spingono Newton a rivedere la sua iniziale adesione alla filosofia dei «Moderni» sono prevalentemente di carattere teologico. Si ricordi che Newton vive in un periodo della storia europea e inglese segnato da guerre di religione, un periodo quindi in cui i problemi di carattere teologico sono vissuti con particolare intensità.

I primi interessi per l’alchimia risalgono all’incirca al 1668. Da allora, ininterrottamente per trent’anni, Newton leggerà e commenterà con segreta passione i testi della tradizione alchemica. Testi, come il Theatrum chemicum di Elias Ashrnole o di L. Zetzner, che oggi solo pochi specialisti conoscono, vengono trascritti, annotati, decifrati febbrilmente in quella stanza del Trinity College… . Newton si costruirà, sotto le sue finestre, anche un laboratorio dove eseguirà esperienze sulla trasmutazione dei metalli che descriverà in pagine e pagine scritte in un linguaggio arcano. Per mesi e mesi il fuoco della fornace del laboratorio newtoniano arde incessantemente: il Professore Lucasiano di Matematica e il suo assistente si danno i turni di notte per riattizzare la fiamma. Che cosa si cercava nel laboratorio del Trinity College?

Newton è convinto che il mondo non possa essere spiegato solo in termini di collisioni e arrangiamenti fra corpuscoli. Quella che egli chiamerà nello scolio generale dei Principia la «cieca necessità metafisica» non può spiegare i processi di «vegetazione» e «fermentazione», di «corruzione» e «coesione». Quali processi sono coinvolti nella generazione di una pianta dal seme? Quali nella putrefazione e perdita di ordine di un organismo prima animato? Quali nel passaggio dalla volontà di muovere un braccio all’effettivo movimento del braccio? Che cosa induce un ordine e una finalità negli organismi viventi? Ma, per Newton, non solo il mondo della vita manifesta caratteristiche non riducibili al meccanicismo. Anche il mondo degli elementi chimici presenta fenomeni sorprendenti di trasformazione che rivelano la presenza di un agente vitale, che egli chiamerà uno «spirito vegetativo», uno «spirito mercuriale», una «virtù fermentativa», diffuso in tutto l’Universo. È questo l’agente che permette a Dio di intervenire costantemente nel Mondo, organizzando e disorganizzando la materia secondo un piano provvidenziale. Nel suo laboratorio, nell’analisi e interpretazione dei testi ermetici e della magia naturale, Newton cerca di identificare le modalità di azione di Dio nella Natura.

Newton, come tutti i suoi contemporanei, distingue chiaramente le sue ricerche alchemiche da quella che chiama «chimica volgare». L’alchimia è per lui una «disciplina più nobile» i cui risultati devono essere tenuti lontani dai non iniziati per non provocare un «immenso danno al mondo». In effetti Newton spera di poter «restaurare» parte delle conoscenze che gli Antichi avevano di un’entità spirituale attiva nel mondo. Senza questa entità spirituale, questo «spirito vegetativo» diffuso in tutto l’Universo, non rimarrebbe altro che «terra morta e inattiva». Egli distingue nettamente fra quelle azioni che in Natura sono «puramente meccaniche» e quelle che sono «vegetative». La «filosofia meccanica», potenzialmente pericolosa sotto il profilo teologico (come in Inghilterra era risultato chiaro dalla filosofia di Thomas Hobbes), coglie solo una piccola parte dei fenomeni naturali. Assumerla come spiegazione ultima non è quindi solo errato dal punto di vista del credente, ma anche dal punto di vista del filosofo della natura. Newton concentra la sua attenzione soprattutto sui metalli. Nella tradizione alchemica i metalli condividono con la materia vivente la capacità di trasformarsi in modi inspiegabili in termini meccanicisti. Le trasformazioni che i metalli subiscono nella fornace dell’alchimista sarebbero dovute a un processo simile alla fermentazione del lievito nel pane. Essi si accostano al mondo vegetale.

L’attività del Newton alchimista non è solo sperimentale. Vi è anche una importante componente di interpretazione e decifrazione dei testi. Newton si dedica a un lavoro di comparazione ed esegesi della letteratura alchimistica. Legge e studia estesamente le opere, oggi quasi del tutto sconosciute, di Michael Maier, Michael Sendivogius, «Eirenaeus Philaalethes». È alla ricerca di un denominatore comune, di convergenze, di verità teologiche nascoste dietro la simbologia delle opere di magia e di alchimia. Quest’opera di decifrazione è condotta in gran segreto. Egli dà una grande importanza all’antichità delle fonti: più si risale nel passato, alla tradizione dei saggi egizi, caldei ed ebrei, più si hanno probabilità di risalire a quell’antica saggezza che si è andata corrompendo dal IV secolo dopo Cristo.

Negli anni ’70 Newton comincia ad occuparsi di due altri soggetti: la cronologia e l’interpretazione della Bibbia (in particolare del Libro di Daniele e dell’Apocalisse). Come la Natura offre allo sguardo indagatore dell’alchimista la traccia dell’intervento finalizzante e ordinatore di Dio, così la Storia rivela il Suo intervento provvidenziale. Diviene così importante trovare una corrispondenza fra gli eventi storici e le profezie bibliche. La Bibbia appare a Newton un testo scritto in un codice che va decifrato, come i testi della tradizione ermetica. Nella sua mente si fa sempre più chiara l’idea che l’Anticristo sia la Chiesa Cattolica e che un momento importante nel processo di corruzione della religione vera e originale, rivelata da Dio a Noè, sia il Concilio di Nicea del IV secolo d. C. [ricordo che queste erano esattamente le posizioni di Giordano Bruno nel suo Spaccio della bestia trionfantebestia che sarebbe la Chiesa accompagnata dalla sua santa asinità, ndr]. Il dogma trinitario ivi affermato, contro Ario che riteneva la figura del Cristo inferiore all’unico Dio, è una grave forma di idolatria. Newton diventa, e resta per tutta la vita, un convinto ariano (o, come si dice nell’Inghilterra del Settecento, un unitariano), ovvero un sostenitore della unicità di Dio [anche questa era la posizione di Giordano Bruno, ndr]. Anche in questo Newton non fa eccezione. Sono molti gli ariani in questo periodo in Inghilterra e saranno molti gli ariani fra i seguaci di Newton ai primi del Settecento. Sono inoltre numerosi i pensatori che si interrogano sul ritorno di Cristo sulla Terra: le guerre di religione che hanno diviso la Cristianità non preludono forse a una fase di riscoperta della pura religione primitiva? Lo sforzo di Newton e di molti suoi contemporanei è di riscoprire questa religione, evidentemente perduta da chi ha versato sangue in nome di Dio. Il filosofo della Natura deve contribuire a questo rinnovamento andando alla ricerca della presenza di Dio nella Natura e nella Storia. L’approccio di Newton alla interpretazione delle profezie bibliche è vicino a quello adottato da Henry More e Joseph Mede, entrambi all’Università di Cambridge. Newton però guarda alla Bibbia con l’occhio del matematico. L’Antico e il Nuovo Testamento abbondano di simbologia numerologica. Per esempio, Newton cercherà di determinare il significato delle combinazioni numeriche associate alle dimensioni del Tempio di Salomone. Oppure cercherà di determinare una cronologia delle dinastie degli antichi regni sfruttando le sue conoscenze di astronomia (cercherà di determinare la data esatta del viaggio degli Argonauti – un fatto ritenuto come storicamente avvenuto! – in base al fenomeno della precessione degli equinozi).

L’adesione all’arianesimo, sia pur tenuta segreta, creerà a Newton non pochi problemi di coscienza. Dopo la sua elezione a Fellow del Trinity College, avvenuta nel 1667 al suo ritorno dal periodo di isolamento a Wolsthorpe, Newton si trova nella condizione di dover accettare entro sette anni l’ordinazione come membro della Chiesa anglicana: È questo un atto dovuto. Qualora Newton si rifiuti, perderebbe non solo la fellowship, ma anche la Cattedra Lucasiana di matematica ottenuta nel 1669. Dover aderire ufficialmente a una fede ritenuta sacrilega sarebbe inaccettabile per Newton. Ma a quanto pare, grazie a un suo potente protettore londinese, il Professore Lucasiano ottiene una dispensa reale dal prendere gli ordini [di questo ho parlato nel testo, ndr]. Ciò consente a Newton di rimanere a Cambridge. Più tardi però, divenuto un fedele servitore della Corona, Newton dovrà probabilmente venire a qualche compromesso con la Chiesa Anglicana.

Ma quale idea della storia dell’umanità si è fatto Newton nel corso dei suoi approfonditi studi biblici? Egli è convinto che Dio abbia rivelato ai patriarchi e ai profeti, come Mosè, Noè e Daniele, un insieme di verità che riguardano non solo Dio e le sue relazioni col Creato, ma il Creato stesso. Gli antichi ebrei avrebbero posseduto conoscenze astronomiche e fisiche che Newton cerca di recuperare nella sua attività di filosofo della natura. In uno scritto degli anni ’80, intitolato Le origini filosofiche della filosofia dei gentili, egli associa esplicitamente l’idolatria, la Chiesa cattolica e l’adorazione di falsi re con una filosofia naturale geocentrica. A Noè e ai suoi figli era già stata rivelata da Dio la cosmologia eliocentrica che Copernico riscoprirà molte generazioni dopo. Ma questa saggezza si era persa a causa di falsi interpreti.

In questo contesto diventa importante per Newton riscrivere la cronologia della storia antica. Il suo obiettivo è ristabilire la priorità cronologica della tradizione ebraica e confutare quelle che egli ritiene delle false cronologie. False cronologie degli antichi regni che vorrebbero la civiltà ebraica posteriore a quelle egizie e mesopotamiche. La priorità cronologica spetta invece alla tradizione mosaica: è a Noè e Mosè che Dio ha rivelato la vera struttura del mondo. Newton sposa inoltre il mito secondo il quale Pitagora riceve gli elementi di questa sapienza da Mosco il Fenicio. Secondo questa tradizione, sostenuta anche da Ralph Cudworth, «Mosco» non sarebbe che un altro nome per «Mosè». Nella tradizione pitagorica vivrebbero quindi ancora alcuni elementi dell’antica sapienza: l’eliocentrismo e la cosmologia del vuoto e degli atomi. Negli anni ’90, dopo la composizione dei Principia, Newton arriverà ad attribuire agli antichi saggi, istruiti dagli Ebrei, la conoscenza delle leggi di ottica e di meccanica celeste che egli avrebbe semplicemente riscoperto. In altri manoscritti che Newton non pubblicherà, ma che verranno inclusi nella prefazione agli Elementi di astronomia fisica e geometrica (1702) di David Gregory, si afferma che gli antichi erano a conoscenza del fatto che la gravitazione varia con l’inverso del quadrato della distanza.

La credenza in una saggezza originaria, in una prisca sapientia, è presente in molti contemporanei di Newton. Molti suoi allievi sposeranno questa tesi. D’altronde altri filosofi della natura dimostreranno un grande scetticismo nei confronti del mito della prisca. Si sa, per esempio, che Christiaan Huygens, fra i più grandi filosofi della natura della generazione successiva a quella di Galileo e precedente a quella di Newton, interrogato da Fatio de Duillier, un giovane allievo di Newton, sulla questione, risponde con garbata incredulità [del tutto in linea con quanto ho sostenuto e cioè che Huygens fu l’unico vero galileiano, ndr]. Egli non pensa che quanto Newton ha scoperto fosse a conoscenza degli antichi geometri e astronomi!

(26) La collezione dei manoscritti di Newton di carattere non scientifico fu messa all’asta (Sotheby’s) dagli eredi di Newton nel 1936. Metà di essi fu acquistata dall’economista inglese John M. Keynes che li lasciò al King’s College di Cambridge. L’altra metà dei manoscritti fu acquistata da un altro allievo del King’s College, l’orientalista ebreo Abraham Salomon Ezekiel Yahuda che li lasciò in eredità, nel 1951, allo Stato d’Israele. Nel 1969 tali manoscritti andarono alla Biblioteca Nazionale di Gerusalemme. Nel 2003 si è iniziato a conoscere il contenuto di alcuni di tali documenti che per la prima volta sono ora in mostra.

(27) http://www.fisicamente.net/index-45.htm ; http://www.fisicamente.net/index-47.htm ; http://www.fisicamente.net/index-46.htm ; http://www.fisicamente.net/index-1042.htm ; http://www.fisicamente.net/index-1043.htm ; http://www.fisicamente.net/index-1044.htm ; http://www.fisicamente.net/index-1046.htm ; http://www.fisicamente.net/index-1050.htm ;


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