e dei responsabili della fine del sogno nucleare italiano
Roberto Renzetti
COME MOLTI ALTRI
Era l’autunno del 1963 quando sceglievo di studiare Fisica nell’Università di Roma. Provenivo da un liceo classico e neppure sapevo cosa fosse la fisica. In trasmissioni quasi notturne della TV avevo ascoltato alcune lezioni stupende di Giorgio Salvini. Avevo capito quasi tutto. E Salvini invitava i giovani ad iscriversi a fisica perché avrebbero avuto un futuro di ricerca e avrebbero segnato la crescita culturale, scientifica ed economica del nostro Paese. Mi convinse e con me ne convinse molti altri vista la grande crescita delle iscrizioni quell’anno. Qualche tempo dopo tutte le nostre speranze furono spezzate da una notizia che successivamente capii essere raggelante: Felice Ippolito era stato arrestato. Ma chi era Ippolito non lo sapevo ed allora iniziai a partecipare alle assemblee che si fecero per discutere quell’evento che non era piaciuto a nessuno in Istituto. Fu così che capii che una parte delle speranze che avevamo coltivato erano crollate.
I PRECEDENTI
Il dopoguerra vide l’Italia distrutta in ogni suo apparato, in ogni sua industria e peggio che mai nelle sue istituzioni culturali. Negli altri Paesi la guerra era stata occasione per fare ricerca scientifica di punta, anche se finalizzata alla guerra. Importanti ricerche militari avevano riguardato l’aeronautica, l’elettronica, la chimica e la fisica con particolare e drammatico riferimento alla fisica nucleare. In Italia, il noto Paese di navigatori, poeti, …. e scienziati, gli scienziati non erano mai stati presi in considerazione. In linea di massima era il neopositivismo la cultura dominante tra i giovani fisici che iniziavano a competere alla pari con l’Europa ed il mondo. Ed in linea di principio, se qualcuno avesse chiesto loro un aiuto sul terreno militare, non avrebbero detto no, a patto di avere soldi per laboratori e ricerche. Ma la scienza proprio non era presa in considerazione, a parte l’arruolamento di qualche praticone e le favole sui raggi della morte, nessuna mente del Regime pensò in grande come si faceva nel resto d’Europa e negli USA. A questo si aggiunsero le vergognose leggi razziali che disgregarono e dispersero la rinata scuola di fisica italiana dopo Galileo. In Italia restò solo Edoardo Amaldi che venne arruolato come sottufficiale nella guerra d’Africa. Un vero sfregio. E ad Amaldi dobbiamo il mantenimento di quella scuola di fisica in duri anni di ricostruzione. Ma poiché negli ambienti della fisica si sapeva molto di più di cosa accadeva nel mondo della ricerca, in tali ambienti si era drammaticamente saputo che, poco prima dell’inizio della guerra, due scienziati tedeschi, Hahn e Strassmann avevano realizzato la prima fissione nucleare. Ciò era spaventoso per cosa qualcuno intuiva sarebbe potuto accadere. E da ciò gli USA, con l’apporto fondamentale di gran parte degli scienziati del mondo, avviarono il Progetto Manhattan per la costruzione della bomba atomica che poi finì in uno dei massimi crimini contro l’umanità. In Italia, Amaldi ed il suo gruppo poiché avevano paura di essere in qualche modo coinvolti in ricerche militari-nucleari (perché una cosa del genere fosse pensata da qualche burocrate, politico o militare, sarebbe servito un minimo di cultura scientifica e di tradizione, cosa che in Italia non è mai stata), viste le vicende della guerra e quanto trapelava su presunti successi tedeschi sulla strada della fissione nucleare, negli anni che vanno dal 1941 alla fine della guerra decisero di sospendere gli studi nucleari. Gli studi passarono da problemi di fissione a questioni che di applicativo in senso bellico non avevano nulla: si studiarono fenomeni d’urto di neutroni veloci contro protoni e deutoni, studi che indirizzarono la nostra fisica verso le particelle elementari o fisica delle alte energie (acceleratori di particelle, raggi cosmici, struttura del nucleo, …).
L’INDUSTRIA DELL’ENERGIA
Nel 1946 l’industria elettrica italiana, basata quasi completamente su centrali idroelettriche di società private, era semidistrutta ma iniziava ad essere rimessa in piedi con gli aiuti del Piano Marshall (ERP): da una parte ricostruzione degli impianti idrici andati distrutti e dall’altra invio di alternatori. Una industria sempre protetta non prende iniziative tipiche dell’industria che innova anche rischiando secondo le logiche del libero mercato. In Italia il mercato dell’energia era suddiviso regionalmente tra varie società e lo Stato garantiva ogni protezione in una politica di scambio con il potere politico. Il regime fascista e l’autarchia avevano fatto perdere ogni idea di concorrenza (queste vicende sono state descritte magistralmente nei testi di Eugenio Scalfari citati in bibliografia). Lo Stato per parte sua non produceva energia ma avrebbe potuto avviare ricerche. La situazione economica era però non favorevole ad avanzare proposte in tal senso anche perché l’Italia aveva perso la guerra ed era ancora un nemico tra gli alleati e come nemico non sarebbe stato il caso di pensare a ricerche nucleari.
Il primo che avanzò all’industria, principalmente elettrica, una proposta in tal senso fu il fisico milanese Giuseppe Bolla, che lavorava insieme ai fisici Salvini (che passerà presto alla ricerca fondamentale) e Salvetti ed all’ingegner Silvestri con consulenze di Edoardo Amaldi (il più eminente fisico italiano). Fu così che nacque il Centro Informazioni Studi ed Esperienze (CISE) con miseri finanziamenti dei colossi elettrici Sade, Edisonvolta e Fiat (interessata ad autoprodursi l’elettricità) e qualche altra industria, sia pubblica che privata, come Falck, Cogne e Terni (acciai), Pirelli (pneumatici) sotto la direzione dell’ing. De Biasi, amministratore delegato della Edison. La speranza era quella di sempre: avere sostegni dal Governo il quale, guidato da De Gasperi (con Gonella, segretario DC ed anche Ministro della Pubblica Istruzione con competenze in ciò che vedremo), era totalmente insensibile ai temi della ricerca scientifica e diceva regolarmente no anche ai propri grandi elettori. De Gasperi ogni volta che qualcuno gli parlava della questione rispondeva “Ah, quella cosa lì … nucleare …“, allontanandosi in fretta. Il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), guidato da Francesco Giordani, avrebbe potuto collaborare ma non era in grado di farlo perché oberato da molte altre incombenze economiche mentre il piano progettato per l’energia nucleare avrebbe richiesto gran parte del finanziamento del Consiglio. Con quel poco che aveva il CISE portò avanti ricerche e, fatto importante, iniziò a preparare personale importante in una industria nucleare possibile. E’ l’unico ente che, fino al 1952, lavorò in ambito di ricerca applicata sull’energia nucleare (basse energie) mentre nell’altro settore di ricerca, quello accennato delle alte energie, lavoravano molti ricercatori nell’ambito e con i finanziamenti delle Università di Milano, Padova, Roma e Torino.
Giordani, che era anche stato presidente dell’IRI e quindi in sintonia con esigenze industriali, riuscì a trovare un interlocutore nel governo, Pietro Campilli Ministro dell’Industria del De Gasperi 7, che condivise l’idea di creare un ente diverso dal CNR che dovesse occuparsi esclusivamente di ricerche nucleari applicate. Campilli, che era stato Presidente dell’azienda elettrica di Stato, la Finelettrica, che faceva capo all’IRI, prese a cuore il problema e nel 1951 si recò a Milano per visitare i laboratori del CISE. Era accompagnato da un consulente esterno dello stesso CISE, Felice Ippolito docente di Geologia applicata a Napoli e dal padre di Felice, Girolamo, che era presidente delle Acciaierie Terni. Felice Ippolito era un ingegnere e geologo avvicinatosi alle questioni nucleari per via geologica. Di fronte a chi sosteneva che in Italia non vi era uranio, egli fece una ricerca molto approfondita in proposito per mostrare il contrario ed in ciò fu aiutato dai contatori geiger che gli aveva fornito Edoardo Amaldi il quale gli aveva anche indicato Bolla come persona che avrebbe potuto dargli una mano. E, come esperto di questioni geologiche italiane ed in particolare sui (pochi) giacimenti di uranio, Ippolito fu associato al CISE come collaboratore esterno.
La visita ai laboratori del CISE convinse il ministro della serietà delle ricerche e quindi della necessità di spingere per realizzare il proposito suo e di Giordani. Campilli era anche persona che conosceva bene le opposizioni che avrebbe avuto dal suo partito a realizzare un Ente che, per essere creato, necessitava di una legge. Se invece la strada fosse stata quella di creare un Comitato che si occupasse di ricerche nucleari, senza finanziamenti stabili, in puro stile italico, la cosa sarebbe passata senza particolari problemi.
IL CNRN
Fu così che il 26 giugno 1952, su decreto del Presidente del consiglio, di concerto con i Ministri di Industria e Pubblica Istruzione (Antonio Segni), fu costituito il primo Comitato (e non un ente con personalità giuridica e stabili finanziamenti) le cui finalità erano le ricerche in campo energetico ed in particolare in campo nucleare: il CNRN, il Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari (nel 1952 nacque il CERN, il Centro Europeo Ricerche Nucleari, per ricerche fondamentali nelle alte energie). Da notare che il CISE non aveva alcun ruolo in questo Comitato che si costituiva. Il decreto, firmato da Campilli e controfirmato da Segni, nel suo Articolo 2 così recitava:
Il Comitato ha lo scopo di:
1) effettuare studi, ricerche e sperimentazioni nel campo della fisica nucleare …;
2) promuovere ed incoraggiare lo sviluppo delle applicazioni industriali dell’energia nucleare;
3) mantenere i rapporti e di sviluppare la collaborazione con le organizzazioni internazionali e con gli enti stranieri che operano nel campo degli studi nucleari …
Alla presidenza del Comitato fu chiamato Francesco Giordani ed intorno a lui furono raccolti degli esperti qualificati in vari settori di ricerca: sen. M. Panetti (ingegnere aeronautico), vicepresidente; A. Silvestri Amari, F. Ippolito (designati dal ministero dell’industria e del commercio con Ippolito che aveva il compito delle ricerche di materie prime e particolarmente dell’uranio); B. Ferretti (fisico, designato dal ministero della pubblica istruzione); E. Amaldi, on. E. Medi (fisici, designati dal Consiglio nazionale delle ricerche, con il secondo per meriti curiali dato il suo ruolo di predicatore – insieme a Gedda, padre Lombardi ed i Comitati Civici – nel 1948 contro il Fronte Popolare e la sua vicinanza con Papa Pacelli); A. M. Angelini, V. De Biasi (ingegnere) esperti industriali (il primo vicepresidente di Finelettrica ed il secondo amministratore delegato della Edison e Presidente del CISE). Da notare che mancava il nome di Bolla, colui che aveva dato il via al CISE.
Questo Comitato nasceva, ed era già un grosso passo avanti, ma soffriva di una grossa limitazione: come accennato, non essendo nato in base ad una legge, non aveva personalità giuridica e quindi non poteva assumere impegni o contratti, né amministrare del denaro. Inoltre vi era confusione, nel decreto istitutivo, tra ricerca fondamentale ed applicata. La prima sarebbe dovuta essere di pertinenza del CNR, la seconda (energia nucleare) dell’ente appena creato. L’articolo 1 del decreto affermava che sarebbe stato il CNR ad indirizzare l’attività scientifica del CNRN. L’articolo 5 poneva invece diversi ostacoli alla ricerca nucleare facendola dipendere da troppi controllori: Presidenza del Consiglio, Ministero dell’Industria e Ministero della Pubblica Istruzione. Vi era inoltre una sorda lotta tra chi pensava di utilizzare il CNRN come mero dispensatore di fondi ai vari enti di ricerca nucleare (CISE e INFN, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, fondato nel 1951 per occuparsi di ricerca fondamentale) e chi voleva che il Comitato crescesse ed assumesse iniziative proprie. Dietro questi problemi ve ne erano degli altri che riguardavano la questione che all’epoca più si dibatteva: la possibile nazionalizzazione dell’energia elettrica. Secondo i rappresentanti dell’industria privata e della destra del Paese la ricerca nucleare applicata sarebbe potuta diventare un cavallo di Troia per lo Stato per entrare nella produzione elettrica in modo massiccio. La cosa doveva essere evitata. La politica dei finanziamenti ridicoli al CISE da parte delle grandi aziende elettriche non era stata lungimirante. L’industria elettrica cominciò a capire che occorreva sbrigarsi perché lo Stato avrebbe potuto iniziare a produrre in proprio energia elettrica ottenuta per via nucleare. Alla fine del 1955 il presidente della Edison, ingegner Valerio, si recò negli Usa per trattare l’acquisto di una centrale nucleare (l’industria elettrica iniziava a capire che non era più protetta come durante il Ventennio e che occorreva investire). Il contratto, dopo un preliminare del 1956 attraverso la Società elettronucleare italiana (SELNI), fu firmato nel 1957 con la Westinghouse (il finanziamento fu garantito dalla Export-Import Bank americana). Il reattore, la cui costruzione partirà in forte ritardo per motivi tecnico finanziari (ritardi dello Stato ad assumere la garanzia di rischio e mancanza di un accordo bilaterale tra Italia ed USA, accordo che arriverà solo nel 1958), era del tipo ad acqua in pressione (Pwr) della potenza di 242 Mw ed entrò in funzione nell’ottobre del 1964 a Trino Vercellese. Il finanziamento dell’opera, ammontante a 34 milioni di dollari, per cui la Edison aveva richiesto la concessione della garanzia dal rischio di cambio allo Stato (un vero imbroglio per lo Stato di cui dirò più oltre) sarebbe stato erogato solo nel 1960. Ad un reattore nucleare arrivò prima l’industria di Stato o a partecipazione statale come vedremo.
Parallelamente andavano avanti le vicende del CNRN che, proprio per la non chiarezza dei suoi fini in quanto assente di personalità giuridica, furono legate, almeno ai suoi inizi, al CNR, al CISE e all’INFN. Vediamo alcuni problemi che si posero, almeno nei primi tempi, nel racconto di Ippolito e del suo addetto stampa, Simen:
Per il Consiglio delle ricerche … il CNRN non era che un figlio illegittimo, mostruoso e indisciplinato; per il ministero dell’Industria uno dei tanti comitati … da ascoltare in alcuni casi, ma lasciando ovviamente il potere decisionale nelle mani della burocrazia ministeriale; per gli industriali del CISE, il CNRN avrebbe dovuto essere solo lo strumento per pompare qualche miliardo alle casse dello stato. Tutto ciò derivava dall’equivoco iniziale e segnatamente dalla assoluta carenza di volontà politica: è questo ultimo fattore, che ha sempre contrassegnato l’attività nucleare italiana, come vedremo anche in seguito, creando tra l’altro dei paurosi “vuoti di potere” che sono stati colmati nel miglior modo possibile da quelli che erano comunque decisi a fare. Né d’altro lato possiamo o dobbiamo dare oggi una colpa a coloro che crearono nel modo accennato il CNRN: all’on. Campilli o al prof. Giordani. Il primo anzi fu allora l’unico uomo di governo che comprese le esigenze del settore e agì come poté, con i vincoli politici e giuridici che conosciamo, senza veruno appoggio o comprensione, né da parte del presidente del Consiglio e probabilmente con qualche resistenza anche in più alto loco; per Giordani, come egli stesso dichiarò, si trattò di un atto di fede basato sulla convinzione che qualcosa il governo dovesse fare e che era necessario intanto cominciare. […]
Nel settore della ricerca applicata, i problemi si presentavano ancora più ardui [di quanto non lo fossero per l’INFN che stava lavorando per costruire una macchina acceleratrice]. L’unico nucleo, a quell’epoca, di personale ricercatore nel campo della fisica nucleare applicata era sorto come si è detto ad opera del direttore tecnico prof. Bolla, presso il CISE, né gli istituti universitari avevano già pronto personale della medesima qualificazione, in quanto, come si è accennato, la tradizione dei nostri studi di fisica era in assoluta prevalenza per la ricerca fondamentale. Occorreva perciò lentamente formare ex novo propri ricercatori e tecnici e per il momento potenziare le ricerche del CISE. Ma come partire per un vasta programma di ricerche e di preparazione di nuovo personale qualificato, senza una legge, che desse al CNRN la personalità giuridica e senza un minimo di finanziamento stabile pluriennale? Ecco le prime grossissime difficoltà che il CNRN allora e poi sormontò come poté con audacia e mediante vari accorgimenti che gli permisero di sfuggire alle carenze di legge. Frattanto, premuta da queste gravi difficoltà, spinto anche dal governo ad agire, Giordani escogitò un compromesso: egli si rendeva perfettamente conto che il CNRN non poteva essere solo l’organo finanziatore del CISE, che avrebbe conservato tutto il personale e tutte le conoscenze acquisite a solo vantaggio dei gruppi privati che ne detenevano la maggioranza azionaria e lo ospitavano (il CISE era ospite in locali della Edisan), ma d’altro canto aveva in mano uno strumento inefficiente sul piano giuridico e amministrativo, perché tale creato dal governo. Ed allora, fondandosi prevalentemente sulla esperienza da lui acquisita quando era stato presidente dell’IRI nel periodo bellico, egli promosse la soluzione di immettere, in maniera più massiccia, industrie governative nel CISE, fino a rendere quest’ultimo una società paritetica tra industrie di stato e industrie private. A questo CISE così trasformato, il CNRN avrebbe passato commesse e, se l’accordo non fosse stato durevole, la parte statale avrebbe potuto chiedere se necessario la scioglimento della società.
Questa progetto, che Giordani impose con il prestigio della sua esperienza e della sua autorità, non diede risultati felici [perché non trovò collaborazione né a livello delle industrie di Stato che avrebbero dovuto entrare nel CISE né a livello governativo]. […]
Ma fin dall’inizio la collaborazione col CISE fu difficile e, si potrebbe dire, estremamente vischiosa, mentre d’altro canto le industrie governative non risposero in realtà con l’entusiasmo necessario all’appello di Giordani. Sarebbe lungo ricercare le cause di ciò e forse oggi sarebbe inutile, benché talune difficoltà si possano facilmente intuire; il fatto comunque fu che la trasformazione del CISE in società paritetica, che avrebbe dovuto farsi rapidamente nello scorcio del ’52, fu per vari motivi (difficoltà dall’una e dall’altra parte, discussioni bizantine) rimandato di circa due anni, quando – si può dire – già la situazione era mutata o andava rapidamente mutando e mentre i rapporti tra CNRN e CISE si erano già notevolmente deteriorati.
A questo punto della nostra storia, a seguito dell’iniziativa di apertura al nucleare degli Stati Uniti, Atomi per la Pace del 1953, arriviamo alla Prima Conferenza Mondiale sull’utilizzazione pacifica dell’energia nucleare (Ginevra, agosto 1955). La conferenza dette la misura dell’arretratezza italiana in campo nucleare. Vi erano molti giovani scienziati e furono presentate circa 1100 relazioni nelle quali, per la prima volta, vennero rese note una quantità di cose che fino allora erano state mantenute segrete. L’Italia presentò 6 relazioni (quattro delle quali del CISE). Fatto d’interesse fu la presenza della delegazione del Vaticano guidata da Enrico Medi che ebbe ad augurarsi, non senza ispirazione divina, che “l’energia nucleare sia usata anzitutto per soccorrere i popoli ed i paesi più poveri del mondo“. A margine della conferenza vi fu la politica degli annunci di grandi progetti, tra i quali spiccò per ignoranza quella del Valletta della Fiat. Egli disse che la Fiat stava acquistando un reattore nucleare dall’americana Westinghouse Electric Corporation e che, per evitare che gli studiosi dovessero fare lunghi spostamenti, sarebbe stato localizzato a Viale Massimo D’Azeglio al Valentino. Naturalmente la cialtroneria la faceva da padrona e chi aveva lesinato soldi, fino a livelli miserabili, al CISE poteva ora fare il gradasso senza curarsi del “raggio di esclusione” e delle formule di sicurezza consigliate dall’Atomic Energy Commission. Ippolito raccontava in un suo articolo del 1956 che in questa circostanza si sentì anche qualcuno degli industrialotti dell’energia dire che si potevano ormai chiudere i laboratori di ricerca, infatti ora si poteva comprare tutto bello e fatto da USA e Gran Bretagna. Anche i giornalisti mostrarono di essere ignoranti opinanti, tradizione per la verità molto radicata in Italia. Tra tutti è da ricordare la performance di Paolo Monelli che considerava assurda l’energia nucleare perché egli non capiva un tubo delle formule che erano alla base di essa.
Intanto, a luglio del medesimo anno, scadeva il primo Comitato nucleare che, fondato nel 1952, aveva durata triennale. Ma il governo non provvedeva a rinnovarlo, indebolendolo ancora di più. Evidentemente le pressione dei potenti gruppi elettrici ed anche petroliferi (che già avevano eliminato Mattei) miravano a sbarazzarsi di un potenziale competitore. Si andò comunque avanti fino al 12 luglio del 1956 quando Giordani si dimise dal CNRN proprio per denunciare le gravi difficoltà del Comitato già scaduto da un anno. A parte ogni altra questione che cercherò di cogliere, fu da questo momento che la responsabilità del CNRN passò a Felice Ippolito, anche grazie all’appoggio incondizionato di Amaldi.
A settembre 1955, ancora sotto presidenza Giordani e vincendo le resistenze del CISE, il CNRN avviò le pratiche per l’acquisto di un reattore di ricerca dagli USA, il CP-5, pratiche che arrivarono a compimento ad aprile del 1958. Anche se tutta la politica del CNRN fino all’estate del 1956 era stata di Giordani, egli lasciò il compimento dell’opera al suo successore alla Presidenza del CNRN, al totalmente ignorante di questioni nucleari, Basilio Focaccia.
Sotto la presidenza Focaccia fu quindi acquistato il reattore nucleare dagli USA, reattore che lungo la strada era passato da 1.000 a 5.000 KW. Il costo, enorme, fu di oltre tre milioni di dollari ed in cambio si riuscì ad ottenere che un ingegnere (un solo ingegnere !) potesse assistere alla sua costruzione. Arrivato in Italia il reattore divenne Ispra 1 e fu inaugurato dal Presidente della Repubblica Gronchi il 13 aprile 1959. C’è da osservare che il CISE aveva qui accettato l’acquisto di un reattore all’estero rinunciando alla realizzazione di un reattore italiano. La sua costruzione doveva essere seguita dal CISE ma, lungo la strada, il CNRN prese il sopravvento, con una rottura sempre più profonda con il CISE al quale aveva anche sottratto molti tecnici. Come accade spesso in Italia, il reattore mostrò subito gravi difetti nella progettazione del nocciolo (carica insufficiente per poterlo mandare a piena potenza). Si ordinò allora un secondo nocciolo che non si sa bene chi lo abbia pagato. Per soli due mesi il reattore fu italiano. Fu subito offerto all’Ente internazionale Euratom per renderlo un luogo dove si potessero svolgere ricerche nucleari dal carattere internazionale. Naturalmente alcuni piccoli personaggi, come Ferretti, non colsero l’importanza politica di tale cessione ed ebbero a dire che il reattore era stato regalato agli stranieri.
IPPOLITO SEGRETARIO GENERALE DEL CNRN
A partire dalla prima riunione del CNRN, Ippolito fu designato dal ministro dell’Industria (diventato Emilio Colombo) tramite il presidente Giordani a fare il segretario (poiché era il più giovane) e per circa tre anni mantenne questa carica. «Nel 1956 Giordani si dimise e, nella delibera che accettava le sue dimissioni, si scrisse: “Il Comitato si dimette e lascia la normale amministrazione nelle mani del professor Ippolito, segretario generale”» [Ippolito, 1978]. Nacque cosi, almeno a detta di Ippolito, la figura del segretario generale che all’inizio non era stata assolutamente prevista. Questa carica si consolidò diventando sempre più importante nel periodo di interregno, tra il presidente dimissionario e la nomina del nuovo presidente, di circa sei mesi (al di là delle date ufficiali si deve tener conto dei tempi burocratici), nel quale non ci fu presidente alla testa del CNRN. Tra l’altro, dopo le dimissioni di Giordani, il governo Segni non rinnovò il Comitato nominando invece, in modo ufficiale tramite il rappresentante nel Comitato del Ministero dell’Industria Silvestri-Amari, Ippolito a segretario generale ma più per liquidare ogni attività del CNRN che per portarne avanti il lavoro. Ippolito approfittò di questo momento e anziché liquidare il CNRN lo potenziò assumendo persone e iniziando campagne giornalistiche per far pressione sul governo affinché si impegnasse di più nella politica nucleare (con leggi istitutive, con provvidenze, con finanziamenti adeguati). Il 20 luglio vi fu anche un incontro tra il Presidente del Consiglio Segni ed una delegazione di fautori del potenziamento del CNRN: Amaldi, Angelini, Ferretti, Ippolito. In tale incontro si ribadì la necessità di una ricerca nucleare italiana al fine di produrre energia elettrica da fonte nucleare e dei relativi fondi che non sarebbero dovuti essere meno del 20% di quanto si investiva in Francia (quindi all’incirca una ventina di miliardi). Inoltre si chiese una guida al CNRN che avesse caratteristiche politiche. A fine agosto del 1956 fu eletto il nuovo presidente del CNRN nella persona, come accennato, del senatore democristiano Basilio Focaccia, ordinario di elettrotecnica all’Università di Roma e senatore DC che già aveva ricoperto incarichi di governo e quindi con carattere politico. Il fatto che egli fosse assolutamente digiuno di questioni nucleari aiutò Ippolito a portare avanti con decisione la sua politica di potenziamento del CNRN. Nel nuovo Comitato, oltre al Presidente Focaccia, vi erano: due vicepresidenti, Edoardo Amaldi ed Arnaldo M. Angelini come rappresentante dell’industria elettrica di Stato; Vincenzo Caglioti (esperto chimico, Università di Roma); Antonio Carrelli (esperto fisico, Università di Napoli); Franco Castelli (esperto ingegnere, Edison); e quindi Bruno Ferretti, Enrico Medi, Aldo Silvestri-Amari (sostituito nel 1957 da Guido Giorgi), Felice Ippolito (esperto geologo).
La linea che emerse in questo nuovo Comitato era quella di potenziare il CNRN contro tutte le manovre della destra economica sostenuta dalla gran maggioranza della DC. E si riuscì ad ottenere il finanziamento di un miliardo per il 1955-1956 e di tre miliardi per il 1956-1957 (non ci si stupisca delle date, in Italia occorre rincorrere la burocrazia per avere finanziamenti postumi e, in attesa di una legge si tamponava la crisi). Vi fu anche la presentazione di un ddl governativo a firma del Ministro dell’Industria Guido Cortese. Ve ne fu un altro del PCI e vi furono discussioni importanti iniziate dagli Amici del Mondo, varie personalità di prestigio riunite intorno al periodico di Mario Pannunzio. Furono questi ultimi che organizzarono (inverno 1957) un Convegno, Atomo ed Elettricità, che rappresentò “lo sforzo intellettuale più importante che sia stato compiuto da una equipe politica nel nostro Paese da parecchi anni” a quel momento. Alla presidenza sedevano Leone Cattani, Ugo La Malfa, Giorgio Levi Della Vida, Riccardo Lombardi, Ferruccio Parri, Leopoldo Piccardi, Roberto Tremelloni, Bruno Villabruna e Bruno Visentini [essenzialmente: repubblicani, socialisti, socialisti democratici, azionisti, radicali, ndr]. Spiccavano, fra il pubblico presente, Giordani ed Amaldi, parlamentari, direttori generali dei ministeri, dirigenti di industrie pubbliche e private. (Su questo convegno, naturalmente, si appuntarono critiche feroci dell’industria privata, come riecheggia bene Mario Silvestri, soprattutto perché si iniziò ad adombrare pubblicamente e con grande risalto la nazionalizzazione dell’energia elettrica).
E’ comunque fuor di dubbio che il biennio 56-57 aprì la questione nucleare al pubblico dibattito inoltre in questi due anni si gettarono le basi di quell’Euratom che fu ipotizzato a Messina nel 1955, insieme all’idea di un Mercato Comune Europeo (MEC), e poi realizzato nei Trattati di Roma del marzo 1957 (con la destra economica che pose ogni ostacolo ritardando la legislazione nucleare di oltre tre anni). Si era comunque in un momento di grande euforia: da una parte si era avuta la Prima Conferenza di Ginevra sull’uso pacifico dell’energia nucleare; dall’altra la nascita dell’Euratom medesima (alla vicepresidenza del quale fu nominato Enrico Medi che, con le parole di Mario Silvestri «era cattedratico di fisica terrestre presso l’università di Roma, nonché membro del CNRN e predicatore di larga fama. La sua nomina provocò all’Italia il massimo danno compatibile con le sue capacità») e con la simultanea nascita dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA). Inoltre, sempre nel 1957, rispettivamente il 3 luglio e il 28 dicembre, l’Italia aveva firmato accordi di cooperazione bilaterale con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Insomma, ciò comportò un immediato interesse per disporre di centrali di potenza, produttrici di energia elettrica da fonte nucleare. E qui iniziarono serrati dibattiti su cosa scegliere di quanto disponibile sul mercato: o reattori ad uranio arricchito moderati ad acqua pesante e raffreddati ad acqua (tipo USA) o reattori ad uranio naturale moderati a grafite e raffreddati a gas (tipo britannico). E dietro questi dibattiti vi erano suppostamente e non correttamente politiche implicanti lo schierarsi verso la nazionalizzazione dell’energia elettrica o no. In particolare, come osservano Ippolito e Simen:
Per quanto concerne la mancanza dell’accordo bilaterale [con gli USA] si deve sottolineare che una delle maggiori remore da parte statunitense alla stipulazione dell’accordo era proprio la carenza di una legislazione nucleare in Italia, che, d’altro canto gli industriali stessi ostacolavano, onde ci si dibatteva in questa contraddizione: da un canto i gruppi politici più sensibili e gli ambienti vicini al CNRN premevano per una legge che non avrebbe potuto prendere, per la composizione stessa del nostro parlamento, carattere troppo liberistico ed erano pertanto ostacolati dalla destra economica, che preferiva l’anarchia di nessuna legge ad una legislazione che avrebbe fatalmente limitato la sua libertà d’azione e rappresentato un primo passo verso un maggiore ed efficiente controllo del sistema energetico; dall’altro gli stessi gruppi premevano per la negoziazione di un accordo con gli USA, tale da permettere l’importazione delle centrali e la fornitura dell’uranio arricchito, mentre tale negoziato trovava gravi ostacoli, non solo giuridici, ma psicologici, sia da parte italiana che da parte americana, in carenza di una legislazione ad hoc.
A questo punto si inserisce un episodio significativo ed importante per la comprensione di quanto accadrà in seguito. Così lo raccontano Ippolito e Simen:
Nell’inverno del 1956-57, tramite un importante istituto finanziario italiano, la Edison chiese al governo italiano la “garanzia di cambio” … per il prestito che intendeva concludere con l’americana Eximbank per la costruzione di una prima centrale nucleare in Italia. Come è noto, con l’espediente della garanzia di cambio, fornita dal governo, viene addossata al contribuente qualunque slittamento della moneta italiana, rispetto al dollaro, che avvenga nel periodo tra la stipulazione del prestito e la sua estinzione: si addossa cioè alla collettività nazionale l’onere derivante da una svalutazione della lira rispetto al dollaro, in quanto la differenza tra il valore del dollaro nel momento in cui vengono pagate – nel corso di 15 o 20 anni – le rate di restituzione ed il valore del dollaro all’atto di stipulazione del prestito sono a carico del governo, mentre il beneficiato paga sempre e soltanto il valore iniziale. E con questo sistema, ad esempio, che sono stati rimborsati i grossi prestiti trattati dal ministro fascista Volpi (diretto interessato alla stipulazione dei prestiti stessi) nel corso di un venticinquennio, durante il quale il valore del dollaro aumentò astronomicamente.
Ma ritorniamo all’episodio. Per l’intervento di Ippolito sul Ministro dell’Industria del tempo, il liberale Cortese – al quale va senza riserve l’indiscusso merito di aver resistito alle pressioni della Confindustria, di Malagodi e della propria burocrazia – la garanzia di cambio fu negata: la conseguenza fu che la centrale nucleare della Edison non fu la prima a essere realizzata in Italia, ma la precederono nel tempo, come vedremo, le due iniziative a carattere governativo: quella del gruppo IRI Finelettrica (del Garigliano) e quella del gruppo ENI (di Latina).
La stampa di sinistra dell’epoca documentò ampiamente questo episodio, ma fu allora certamente anche segnato il destino di Ippolito, che divenne per gli industriali elettrici privati il nemico pubblico n° 1.
Nell’ottobre 1957 intervenne uno studio dell’ENSI (Energia Nucleare Sud Italia), ente del governo italiano (rappresentato dal CNRN) e della Banca Mondiale (BIRS – Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo), che sbloccò le trattative con gli USA e, pur non facendo felici gli industriali, permetterà loro di trattare con gli USA su acquisto di centrali ed uranio arricchito. Tale studio, sostenuto da Ippolito, manifestò una preferenza per i reattori di tipo americano. Da osservare che i requisiti che la Banca Mondiale richiedeva per finanziare i progetti di investimento in impianti nucleari piuttosto che in impianti convenzionali erano la mancanza di risorse energetiche e la necessità di importarle ad alti costi con evidenti ricadute sulla bilancia dei pagamenti ed in tal senso furono individuati due Paesi nel mondo, il Giappone e l’Italia (per l’Italia si deve tener conto della crisi di Suez del 1956 con le conseguenti difficoltà di approvvigionamento). L’ENSI invitò ditte costruttrici a presentare offerte per la costruzione di una centrale nucleare nel Sud d’Italia con una potenza compresa tra 130 e 150 MW (si tratta di quella che sarà la Centrale BWR del Garigliano o Sessa Aurunca da 150 MWe, inaugurata nel 1964, il cui solo progetto ebbe un costo complessivo di 226 milioni di lire dell’epoca cioè 361.649 dollari contro i preventivati 100.000 dollari e finanziata dalla Cassa per il Mezzogiorno che ebbe un prestito di 40 milioni di dollari dalla BIRS). Lo svolgersi del progetto fu seguito per conto della Banca da esperti americani, inglesi francesi e dal nostro Giordani. Tali esperti si pronunciarono anche sul tipo di reattore che successivamente sarebbe stato costruito, con i fondi della Cassa per il Mezzogiorno, dalla Società Elettronucleare Nazionale (SEN, società dell’IRI-Finelettrica, creata nel 1957) e nel loro parere doveva avere un ruolo importante il costo dell’impianto. Diceva Ippolito, che descriveva tale situazione ne “Il Progetto ENSI” (Il Globo, 15 novembre 1957), che gli studi presentati dagli esperti sarebbero stati una base importante nel successivo sviluppo dell’energia nucleare ed un primo riferimento per comparare, fino alle ultime conseguenze, le offerte dei costruttori. Si trattava quindi di qualcosa di importante, una messa sul tavolo di vari tipi di reattori e dei loro costi a parità di potenza (anche tenendo conto di prezzi e valori puramente convenzionali di materiali prodotti come il Plutonio). Ippolito concludeva che l’ENSI era un fondamentale punto di partenza ma non sarebbe stato esaustivo per le troppe incognite ancora in gioco e per il fatto che altri tipi di reattore avrebbero potuto nel frattempo essere progettati. Ippolito si riferiva ad altre parti dello studio dell’ENSI da cui si ricavava che l’energia elettrica di origine nucleare sarebbe risultata più cara di quanto si poteva ottenere da combustibili fossili (1958) anche se era prevedibile un calo dei costi per il nucleare, che i due tipi di reattore tra cui scegliere presentavano ambedue vantaggi e svantaggi e che, al momento, era preferibile il reattore ad uranio arricchito (BWR) di tipo USA e che era arrivata l’ora della sana competizione industriale. Ma di tale “sana” competizione non sembrava vi fosse traccia se gli elettroproduttori ebbero da criticare ogni conclusione che discendeva dal progetto ENSI e se, in particolare, non condividevano le stime dei costi del kwh di origine nucleare confrontato con quello di provenienza convenzionale. Ma la cosa più stravagante era il sostanziale accordo nelle conclusioni tra la Finelettrica (azienda di Stato) e l’industria elettrica privata. Occorre registrare che anche l’ENI si muoveva nel settore nucleare non regolato da leggi ed aperto ad ogni scorribanda. Nel mese di novembre del 1957 l’ENI di Mattei, che nel 1956 aveva costituito una sua sezione di costruzioni nucleari (l’Agip nucleare), ordinò alla britannica Nuclear Power Plant Company un reattore del tipo Magnox della potenza di 200 Mw. E Mattei fu l’unico a muoversi in una direzione diversa da quella dominante, si rivolse infatti alla Gran Bretagna e non agli USA.
DAL CNRN AL CNEN
La vicenda Ispra-1, come accennato, provocò la denuncia degli accordi tra CISE e CNRN (su proposta di Amaldi ed Ippolito). Il CNRN si assunse il ruolo di ente funzionante negli interessi nazionali e molti tecnici del CISE passarono, in quel momento, al CNRN. Nonostante le apparenze si trattava di un successo importante per il CNRN che in sei anni era riuscito a mettere in funzione un reattore nucleare sul fronte della ricerca applicata e il sincrotrone a Frascati (sotto la direzione scientifica di Giorgio Salvini, 1958) sul fronte della ricerca fondamentale.
Subito dopo le dimissioni di Giordani dal CNRN del 1956, il ricostituito Comitato cercò di impostare un piano di lavoro relativo a ricerche nucleari con scadenze quinquennali. L’elaborazione di tale piano fu di varie commissioni di studio, a presiedere le quali vi erano vari componenti del Comitato e nelle quali erano state chiamate varie personalità di “chiara fama” in vari campi (scienziati e tecnici dell’università, esperti ministeriali, esperti dell’industria nucleare). Dopo un anno di lavoro venne pubblicato (1958) un “libro bianco” che conteneva le risultanze dei lavori delle commissioni venne presentato alla Seconda Conferenza di Ginevra che si tenne nell’estate del 1958 ed in esso vi era delineata la politica nucleare che sarebbe dovuta essere dell’Italia almeno per i successivi 5 anni: sviluppo delle ricerche in campo nucleare, fisica e tecnologia dei reattori nucleari, ricerche minerarie di combustibili nucleari, protezione sanitaria delle popolazioni e dei lavoratori negli impianti, criteri di sicurezza per la localizzazione degli impianti. La spesa prevista in 5 anni per la realizzazione di quanto previsto era compresa tra 100 e 120 miliardi di lire. Il fine chiaro del piano era quello di spingere il governo a varare una legge nucleare che continuava solo ad essere promessa. Alla Seconda Conferenza di Ginevra, il CNRN annunciava l’acquisto di un reattore di ricerca da installare nel Centro della Casaccia (vicino Roma) che stava per essere costruito. Tale centro si sarebbe dovuto occupare di tutte le ricerche collegate all’energia nucleare di natura: tecnologica, fisica, chimica, metallurgica, radiologica e applicativa in agricoltura. Sarebbe stato un importante investimento in connessione con la creazione dell’Euratom con la speranza che l’Europa assegnasse all’Italia la sede di esse. Inoltre il governo avrebbe probabilmente avuto questo motivo come incentivo per varare, infine, una legge nucleare con il connesso finanziamento del piano previsto dal libro bianco del CNRN. A questo proposito, Ippolito e Simen, scrivevano: È questo un argomento sempre lasciato in ombra e ovviamente non gradito agli ambienti governativi, lenti a muoversi ed a decidere, ma sempre preoccupati di apparire autonomi di fronte ad iniziative internazionali e gelosi custodi del “buon nome” del paese: ed in effetti questo argomento non fu mai invocato nella lunga discussione, che seguì all’accordo del luglio ’59. Fu soltanto Ippolito, al congresso della Società italiana di fisica (SIF) nell’autunno del ’59 a Pavia, attaccato da taluni gruppi di scienziati per la “cessione,” come si disse, del centro di Ispra all’Euratom, ad invocare, tra gli altri, questo elemento a difesa della politica seguita e di cui egli era stato zelante assertore. E che egli fosse, almeno parzialmente, nel vero è dimostrato da due fatti: primo, che nel preambolo dell’Accordo per Ispra veniva dichiarata la volontà del governo italiano “di non rallentare i suoi sforzi nel piano nazionale nel settore nucleare” e confermato che è “sua intenzione (del governo) intensificare il proprio programma di ricerche“; ma risulta che tale capoverso fu sostitutivo di altro ben più esplicito, giudicato inopportuno dai negoziatori italiani, in cui il governo italiano si impegnava per un programma quinquennale di 100 miliardi e per la legge. Secondo, che in effetti dal disegno di legge, presentato dal ministro Colombo, fu stralciata la istituzione del nuovo ente che si sarebbe dovuto chiamare Comitato Nazionale Energia Nucleare (CNEN) ed il finanziamento del piano quinquennale (ridotto a 80 miliardi), lasciando non risolti i problemi di fondo della utilizzazione industriale dell’energia nucleare (ove maggiori erano i contrasti) e tale “stralcio” fu con insolita celerità fatto approvare nell’agosto 1960, unitamente alla legge di ratifica dell’ Accordo di Ispra.
Tale accordo, negoziato da una delegazione italiana capeggiata dall’on. Campilli, fu firmato il 29 luglio 1959 a Roma e fu ratificato a larga maggioranza dal Parlamento, divenendo Legge dello Stato il 1° agosto 1960. Ed al CNRN, che si avviava ad avere personalità giuridica come CNEN, con apposita legge, venivano caricati gli oneri di parte italiana dell’accordo. D’interesse è il fatto che, per la prima volta, la destra si divise nel giudicare l’accordo. Fiat e Montecatini, già attrezzate per produrre componenti nucleari nel loro centro di ricerche realizzato a Saluggia presso Novara, furono favorevoli; gli industriali elettrici furono decisamente contrari per ciò che intravedevano nell’istituendo CNEN: un ente di prestigio potenziale realizzatore di centrali nucleari per la produzione di energia elettrica in concorrenza con loro. Ma molto più importante fu il fatto che tale accordo con l’Euratom apriva alla discussione della legge nucleare. Poiché la discussione si allungava per gli industriali che ritenevano il progetto in discussione troppo statalista e la sinistra troppo liberista, dal governo fu approvato uno stralcio, successivamente emendato dal Parlamento, che istituiva il CNEN e ne stabiliva compiti ed attribuzioni (oltre a finanziarne il piano quinquennale con 80 miliardi). Tale legge, la 933, fu promulgata l’11 agosto 1960. Secondo Silvestri tale legge, oltre ad essere la peggiore del mondo, si portava dietro l’irrazionale fardello di dover provvedere ai finanziamenti per la ricerca fondamentale in fisica nucleare.
IL CNEN
Come ricordavano Ippolito e Simen:
«In definitiva la legge 11 agosto 1960 n° 933, pur presentando varie incongruenze(fondamentale quella della presidenza dell’ente affidata al ministro pro tempore dell’industria, che assumeva la figura di controllore-controllato) rappresentò un sostanziale passo avanti […]. Venivano al nuovo ente, non solo le attribuzioni che erano già state del CNRN, ma altresì nuove responsabilità come quella di procedere al controllo e alla vigilanza tecnica su tutti gli impianti nucleari, sia in fase di costruzione che di gestione, di eseguire i collaudi».
Ippolito fu nominato segretario generale ed iniziò così a portare un attacco al CISE togliendogli, con proposte e contratti allettanti, gran parte dei ricercatori. Il CISE di fatto non riuscì più a lavorare ed il CNEN diventò l’unico ente che in Italia si occupava di ricerche applicative in campo nucleare, acquistò natura giuridica di ente pubblico con proprio patrimonio e propria autonomia. Ma, anche ora una limitazione, non era un ente pubblico a carattere economico che potesse quindi svolgere attività imprenditoriale nel settore industriale. Nel portare avanti le sue spregiudicate operazioni l’intraprendente Ippolito si mosse anche politicamente stringendo amicizie e operando a fianco delle forze che stavano per dar vita al primo centrosinistra (tra questi il potentissimo presidente della Fiat, Vittorio Valletta). Va comunque osservato che la legge istitutiva del CNEN era una legge stralcio e lasciava scoperti molti aspetti della questione “energia nucleare”. Nel gennaio 1961 fu il governo a presentare al Senato un disegno di legge più organico, concernente l’uso pacifico dell’energia nucleare nel quale si trattava anche di istituzione, funzioni e finanziamenti del CNEN medesimo. Il disegno di legge era suddiviso in quattro capitoli: materiali ed impianti nucleari; responsabilità civile dipendente dall’impiego pacifico dell’energia nucleare; disposizioni penali per i contravventori; disposizioni finali e transitorie. Restava non ben chiarito il rapporto con l’industria privata che emergeva in quanto l’energia nucleare era vista solo come una sorta di innovazione tecnologica per produrre elettricità. Sembrava quindi indispensabile capire come ci si mettesse in relazione con l’industria elettrica, tanto più che l’energia nucleare era riconosciuta come monopolio di Stato. Sembrava però che questo monopolio potesse essere scavalcato mediante il sistema delle concessioni o delle autorizzazioni sotto il vincolo fondamentale che il concessionario o l’autorizzato doveva mostrare di avere capacità tecnica ed economica adeguata (e ciò avveniva essendo tutti consapevoli che una centrale elettronucleare privata – Edison – era già in via di costruzione senza nessuna concessione o autorizzazione). Altri aspetti, apparentemente d’altra natura, si legavano a questo. In quegli anni si era giunti alla unificazione delle tariffe elettriche sul territorio nazionale (precedentemente vi era stata una vergognosa speculazione che aiutò ad azzoppare il Sud: il kwh in Calabria costava il doppio di quanto non costasse al Nord). Ciò poneva il problema dell’interconnessione elettrica tra le varie società elettriche esistenti in Italia. Ma si poneva anche il non facile problema della riserva (ci si assume l’onere di centrali che dovrebbero entrare in funzione solo in caso di picchi di richiesta di potenza ?), di servire l’intero Paese con l’elettricità (l’industria privata non aveva alcun interesse ad elettrificare molti paesini isolati impedendo con ciò anche l’elettrificazione dell’agricoltura) e, finalmente, di quello della costruzione di una dorsale appenninica che legasse insieme tutti gli elettrodotti esistenti per poter, successivamente, connettere più agevolmente l’Italia alla grande rete europea. Si può capire come anche questi problemi di politica europea dovessero interessare il governo ma anche su questo vi erano interventi contrari dell’industria elettrica che parlava di politica dirigista del governo. Tutto l’insieme dei problemi faceva sempre più pendere la bilancia verso la nazionalizzazione sulla strada già intrapresa da Francia e Gran Bretagna. Ciò anche perché l’Italia era il Paese più esposto in Europa sul fronte degli investimenti nucleari e non poteva realisticamente dare in graziosa concessione ai privati le centrali nucleari in costruzione e pagate dallo Stato.
In questa prima fase di attività il CNEN assunse il ruolo di finanziatore delle sezioni nucleari che erano state messe su dalle varie industrie private, questo almeno fino al 21 dicembre del 1962, quando dal primo governo di centrosinistra venne approvata la legge nucleare presentata a gennaio 1961 in Senato. «L’importanza della legge era notevole, dato che eliminava una situazione di carenza giuridica, che aveva creato gravi difficoltà in passato e che sempre maggiori ne avrebbe suscitato col sempre maggiore sviluppo della nuova fonte di energia» [Ippolito e Simen]. Una delle cose che la legge prevedeva era che «la produzione di energia nucleare è riservata allo Stato o a società a prevalente partecipazione statale»; d’altra parte era appena nato l’Enel (fine 1962) e quindi questa disposizione era logica conseguenza di quanto previsto nella legge che istituiva l’Enel stesso. Quando fu approvata la legge nucleare il primo piano quinquennale (1959-1964) del CNEN era già in esecuzione. Il piano prevedeva lo studio di quattro tipi diversi di reattori da progettare e sperimentare per trovare quello che più si adattava alle esigenze italiane: reattore ad acqua bollente, reattore moderato con sostanze organiche deuterate, reattore refrigerato con metallo liquido e reattore refrigerato a gas ad altissima temperatura. La precedenza era stata data a due programmi di grande entità, il PRO ed il PCUT, programmi che, ambedue, tentavano di favorire la nascita di una autonoma industria nucleare italiana in grado di costruire reattori e di fabbricare combustibili (si deve notare che questa grande apertura verso l’industria fu quella che ruppe il fronte padronale, isolando l’industria elettrica).
Il Programma Reattore Organico (PRO), formulato in gran parte da Bruno Ferretti, prevedeva la progettazione e la costruzione di un reattore nucleare ad uranio arricchito refrigerato e moderato con liquido organico. Si trattava, nelle parole di Ippolito e Simen:
di progettare e costruire, a spese dei CNEN, un prototipo di un impianto, munito di un reattore inizialmente previsto per una potenza di 30 MW termici, dotato di estrema flessibilità ed attrezzato con impianti ausiliari per la ricerca, atto quindi a fornire dati sulle prestazioni tecniche e sui costi di esercizio futuri. Ma l’aspetto più interessante del programma fu che il CNEN chiamò a collaborare, al puro costo, tre industrie potenzialmente costruttrici di impianti: l’Agip nucleare del gruppo ENI, la Fiat e la Montecatini. L’accordo parafato a Milano nei primi mesi del ’60 (mentre ancora la Legge del CNEN era in discussione al Parlamento) tra l’ing. Mattei (per l’ENI), il prof. Valletta (per la Fiat), l’ing. Giustiniani (per la Montecatini) e i proff. Ferretti e Ippolito (per il CNRN) rappresentò indubbiamente un successo di prestigio e di fiducia per l’organismo nucleare e sottolineò implicitamente quell’aspetto di rottura del fronte, di cui si è accennato sopra. Il programma era strettamente connesso con un analogo programma americano, tanto che un’apposita intesa prevedeva scambio di notizie ed informazioni, e pertanto non poté non subire i contraccolpi del successivo mutato orientamento statunitense verso questo tipo di reattore. Quindi, come molti programmi di ricerca, in un settore cosi avanzato, ha subito rimaneggiamenti anche sostanziali lungo la via: peraltro il rapporto Medici, sulla energia nucleare in Italia, presentato al Parlamento nella primavera del 1964, quando Ippolito aveva lasciato il CNEN, ne rivendica gli aspetti positivi e ne indica il successivo sviluppo.
Il Programma Ciclo Uranio Torio (PCUT), ancora secondo Ippolito e Simen:
anche esso avviato tra il 1959 e il ’60, riguardava invece il settore dei combustibili, ed in particolare lo studio del ciclo uranio-torio (e da ciò la sua sigla PCUT); esso aveva per obbiettivo di valutare le possibilità tecniche ed economiche di adottare questo ciclo in reattori ad acqua (come quelli installati in Italia per le due centrali del Garigliano e di Trino Vercellese). Tale programma, attuato in stretta connessione con un programma della Commissione atomica americana – con la quale fu firmato alla fine del ’62 uno specifico accordo – prevedeva la messa a punto di un processo per il trattamento chimico del combustibile irradiato e la progettazione, costruzione ed esercizio di un impianto pilotato a ciclo integrale, nel quale cioè fosse possibile il trattamento chimico degli elementi esauriti e la rifabbricazione di elementi combustibili nuovi. Per questi studi, per le direttive di sopra indicate, il CNEN si avvalse della collaborazione della Bombrini-Parodi-Delfino, che già aveva iniziato delle ricerche in tal senso, secondo un contratto firmato nel corso del 1961 dal Presidente del CNEN, on. Colombo, e dal Presidente della BPD.
I due impianti furono ubicati lontano da centri abitati e con attenzione alla dislocazione in tutto il territorio. Il primo presso il lago Brasimone (Appennino emiliano), il secondo a Trisaia (vicino il Mar Ionio). Da notare che la collaborazione con l’industria nel settore nucleare fu estesa ad altri progetti, come la propulsione nucleare e la fabbricazione di elementi di combustibile tramite una società mista, la Italatom (quest’ultima iniziativa sarebbe servita ad avere finanziamenti da parte dell’Euratom e per inserirci in eventuale concorrenza europea senza più essere dipendenti da esosi fornitori stranieri). Questi progetti davano al CNEN e quindi al governo un notevole prestigio. L’Italia poteva realizzare agilmente senza necessità di altre presenze. E da questo momento Ippolito divenne un’altro nemico dell’industria privata, dopo Enrico Mattei. L’industria elettrica non lo perdonò per tutto questo e particolarmente la Edison confezionò un dossier che consegnò a quattro servili parlamentari DC perché creassero scandalo in Parlamento, scandalo dal quale partì il Processo Ippolito.
Ma tornando al progetto, esso era decisamente ambizioso, qualcuno dice avveniristico e qualcun altro folle. Rimane il fatto che questo fu il primo (e l’unico) serio tentativo di mettere l’Italia in corsa a livello mondiale per la produzione e la vendita di reattori nucleari. Stavo dicendo che, all’approvazione della legge nucleare, il primo piano quinquennale era già molto avanti. Tra l’altro era già stato presentato (ottobre 1962) il secondo piano quinquennale (1965-1969). «Esso prevedeva la progettazione e l’installazione di mille-millecinquecento Mw elettronucleari entro il 1970 con due-quattro centrali» [Ippolito, 1978] di seconda generazione capaci di elevare il contributo dell’aliquota di energia elettrica da nucleare rispetto al totale della produzione elettrica a quella data.
Intanto si era avuta la nazionalizzazione dell’industria elettrica, votata il 18 giugno del 1962 e con ratifica parlamentare del novembre 1962, con faraonici indennizzi alle aziende elettriche (1500 miliardi che si ritroveranno anche nei vari tentativi di destabilizzazione avutisi successivamente in Italia) non già agli azionisti ma alle società al fine di poterle invogliare in altri settori industriali. Ed anche gli indirizzi politici del governo stavano cambiando. Un governo organico di centro sinistra, anche con il PSI, guidato da Moro, fu votato il 4 dicembre 1963 e con 3 successivi incarichi allo stesso Moro restò in sella fino al 24 giugno 1968. Un governo che nasceva sotto la minaccia del rumore di sciabole del SIFAR e del generale De Lorenzo.
Agli inizi del 1963 Ippolito fu nominato consigliere dell’ENEL sotto la presidenza dell’avvocato democristiano, barese e moroteo, Antonino Di Cagno, nominato il 9 febbraio 1963 dallo stesso Moro, anche se era stato contrario alla nazionalizzazione. Si deve tener conto, qualunque sia l’operato specifico in discussione, che, a quel momento, vi era da capire come suddividere le responsabilità nel settore nucleare tra CNEN e ENEL, ed occorreva disporre delle competenze di qualcuno che fosse tra i promotori della nascita ENEL e della nascita CNEN. Francamente l’unico che avesse queste competenze, in seno al consiglio direttivo ENEL era Ippolito. Il direttore generale Angelini, ad esempio, era uomo dell’Industria privata e dal punto di vista di chi si era speso per fermare l’invadenza degli elettrici, non affidabile. «Tutti i designati [al consiglio di amministrazione, ndr] si resero dimissionari, come voleva la legge, dalle cariche che occupavano, compreso Ippolito, per quanto riguardava la cattedra di geologia applicata, che occupava da molti anni presso l’università di Napoli. Ma non si fece parola della sua posizione presso il CNEN, benché il fatto fosse arcinoto alle autorità politiche che ebbero la responsabilità della scelta. Fu Ippolito a prendere l’iniziativa di dare le dimissioni da segretario generale del CNEN, facendosi però subito riassumere quale consulente con lo stesso compito e la stessa retribuzione, eliminando solo formalmente il rapporto d’impiego» [Silvestri]. Quest’ultima cosa l’ho riportata perché su di essa faranno «cadere» Ippolito più tardi.
IL CASO IPPOLITO
Delle vicende che hanno portato Ippolito al vertice del CNEN ho già parlato. Restano da raccontare le vicende che portarono Ippolito in prigione e quindi fecero morire ogni velleità dell’Italia di rendersi autonoma da un punto di vista energetico ed in possesso di tecnologie da poter esportare.
Una premessa a quanto accadrà nell’agosto 1963 la si ebbe in giugno quando Bruno Ferretti, mai prima critico oltre la normale dialettica con la gestione dell’ente nucleare, cambiò di opinione facendo pubbliche dichiarazioni negative sulla gestione CNEN. A luglio il direttivo del gruppo DC al Senato incaricò il senatore Spagnolli, del quale più oltre seguiremo le gesta, di raccogliere elementi intorno all’attività del CNEN (si voleva fermare l’ascesa di Colombo, Presidente del CNEN, che, pur essendo della destra DC era in accordo con Ippolito sulla gestione dell’ente ?). Spagnolli già da tempo si occupava del CNEN (e del CNRN prima) egli era a contatto proprio con Bruno Ferretti che, a sua volta, era in contatto con Giampiero Puppi che condivideva la posizione critica uscita da qualche mese da un cilindro. Ippolito, sentendosi criticato, fornì alcuni giudizi sull’inaffidabilità di alcuni consiglieri ENEL, particolarmente Angelini, a Scalfari che ne fece un articolo per l’Espresso del 4 agosto.
Il Caso Ippolito vero e proprio iniziò subito dopo, il 10 agosto 1963, con una nota di Saragat, di ritorno da un viaggio in USA, dettata all’Agenzia democratica di proprietà del suo partito, il PSDI. Il discutibile e discusso personaggio, sempre dalla parte degli interessi della destra economica e degli USA, entrò nel merito di qualcosa che non conosceva, la politica nucleare ed addirittura la gestione tecnica di esso. Una cosa del genere sarebbe passata via senza provocare alcun interesse. Invece fu ripresa con grande clamore dalla stampa padronale. Solo l’Avanti!, la Voce repubblicana e l’Unità ebbero da ridire, anche pesantemente (il primo quotidiano in termini politici, il secondo in termini più tecnici, il terzo in termini politici e tecnici).
L’11 agosto 1963, mentre Ippolito era in vacanza ed il CNEN nel letargo estivo, uscì sul «Corriere della sera» un articolo che diede inizio alla «guerra nucleare». L’articolo, su due colonne, aveva il titolo Elettricità ed energia nucleare e più in basso in grossi caratteri Dilapidazioni denunciate da Saragat. Ma che c’entra questo personaggio con il nucleare ? In ogni cosa americana c’è sempre il suo zampino e siccome questa è una cosa americana ecco Saragat.
Nella nota si sosteneva che l’Enel rappresentava quanto di meglio ci si potesse attendere sul piano produttivo ed organizzativo mentre il CNEN amministrava in modo a dir poco disinvolto i soldi che lo Stato gli passava. Saragat così proseguiva:
«La verità è che negli enti che predispongono spese per la parte atomica occorrerebbe gente responsabile che conoscesse la materia, vale a dire studiosi seri, affiancati da amministratori oculati. Nel campo dell’energia nucleare sono avvenute, in Italia, dilapidazioni che meriterebbero un’analisi più approfondita e che, in ogni caso, non possono essere più tollerate. Il pubblico denaro deve essere amministrato con oculatezza e con senso di responsabilità».
Prendendo poi in considerazione le centrali nucleari italiane, Saragat sosteneva che esse, dal punto di vista economico, erano un vero disastro. Secondo Saragat la costruzione di centrali nucleari per la produzione di energia elettrica era assimilabile alla costruzione di una segheria con l’intento di produrre segatura. Fin qui il capo del PSDI. Naturalmente resta da capire da chi gli era venuta l’imbeccata visto che Saragat di queste cose era assolutamente digiuno e non se ne era mai occupato. Questo forse resterà un mistero a meno che non si voglia indagare a fondo sui viaggi negli Usa fatti da questo personaggio e sui flussi di denaro nelle casse dell’ex PSDI. Lo stesso Ippolito ebbe a dire che
«fra tutte le azioni convergenti contro di me è stata certamente preminente l’azione svolta dalle multinazionali petrolifere» [Ippolito, 1978]. «I petrolieri desiderosi di smistare barili e costruire nuovi impianti di raffinazione, avevano tutto l’interesse che l’Italia non sviluppasse una politica nucleare alternativa al petrolio. E il mio tentativo di creare un’industria nucleare italiana urtava appunto gli interessi delle “sette sorelle”, i grandi gruppi — integrati — che, coprendo tutto il ciclo del petrolio, dalla ricerca alla vendita del prodotto finito, dominavano il mercato mondiale. Né era gradito alle grandi compagnie americane costruttrici di reattori e agli ambienti conservatori (per non dire reazionari) italiani, che non vedevano di buon occhio l’affermarsi di un ente dinamico e moderno, qual era il CNEN» [Barrese].
Le accuse di Saragat ebbero l’effetto di mettere in moto immediatamente tutta una serie di reazioni (intanto Ippolito, trovandosi in crociera e non essendo al corrente dell’attacco a lui rivolto, non ebbe modo, subito, di difendersi), reazioni che, grosso modo, andarono dal plauso più sfrenato da parte della destra economica e politica, all’indifferenza apparente da parte di alcune forze centriste, e ancora alle critiche moderate ma al sostanziale appoggio da parte della sinistra e dei repubblicani. Saragat non aveva comunque finito di sferrare il suo attacco. Si fece ancora intervistare, scrisse senza sosta articoli, dettò note. Quello che Saragat sosteneva era che il far funzionare ancora le tre centrali nucleari italiane era assolutamente antieconomico viste le perdite nella produzione del Kwh nucleare rispetto a quello prodotto dalle centrali tradizionali; inoltre il segretario generale del CNEN, professor Ippolito, amministrava tanti miliardi senza di fatto alcun controllo poiché il ministro (Colombo, che presiedeva il CNEN) non si occupava di questi problemi. Tra l’altro, in riferimento alla scelta nucleare in sé, Saragat, allora, sosteneva (in una intervista al «Corriere della sera»):
«Gli ambienti che difendevano il Comitato Nazionale ed il professor Ippolito sembravano persuasi che, per addestrare i tecnici italiani, fosse indispensabile comperare all’estero ed installare sul nostro territorio varie centrali nucleari per la produzione di energia elettrica, sebbene i prezzi di quest’ultima non fossero competitivi. Solo così l’Italia, essi dicevano, terrebbe il passo con i paesi più progrediti. Questo ragionamento era assurdo. La strada da seguire era ben diversa ed era quella della ricerca applicata. Pensare che per formare i tecnici destinati all’impianto delle future centrali nucleari, che avrebbero prodotto energia elettrica a prezzi competitivi, fosse necessario spendere 200 miliardi per i tre complessi del Garigliano, di Latina e di Trino Vercellese o addirittura mettere in cantiere una seconda generazione di centrali nucleari per uno o due milioni di chilowatt, spendendo altri tre o quattrocento miliardi prima che la competitività fosse raggiunta, era manifestare un’opinione molto modesta sui tecnici italiani. Bastava vedere quel che avevano fatto Germania, Svizzera, Belgio e Austria. Se il maggior onere per la produzione di energia elettrica conseguente alla costruzione delle tre centrali atomiche italiane fosse stato destinato alla ricerca applicata, i risultati sarebbero stati molto maggiori».
E neanche a pensare che Saragat fosse come lo descriveva Scalfari sull’«Espresso» del 25 agosto quando, controbattendo alle sciocchezze di Saragat che sosteneva essere il neonato ENEL ente ben amministrato rispetto al CNEN, affermava che Saragat era: «Mente bislacca, nevrotico in preda a turbe alternate di euforia e di depressione». Saragat perseguiva un fine ben preciso ed era sicuramente guidato da qualcuno. Tra l’altro egli non si muoveva da solo ma almeno in tandem con Preti, altro socialdemocratico, e sostenuto da una campagna di stampa de «Il sole-24 ore» (giornale allora della Edison) e del Corriere della Sera iniziata già da molto tempo. Preti, parlando a Cattolica il 18 agosto, aveva iniziato l’attacco più subdolo praticamente sostenendo che Ippolito, segretario generale del CNEN, non poteva essere contemporaneamente consigliere d’amministrazione dell’Enel: la legge lo impediva perché si creava conflitto d’interessi. Sarebbe quindi stato necessario rimuovere Ippolito dalla segreteria generale del Comitato. Ed ecco come si sposta tutto il discorso: dalla polemica sui costi di gestione del nucleare (che poteva avere un senso), agli attacchi personali per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica su aspetti scandalistici che sulla questione in oggetto non c’entravano nulla.
A Luigi Lerro che, in Intervista sulla ricerca scientifica (1978), chiedeva perché un tale attacco frontale, Ippolito rispondeva:
«L’attacco dei socialdemocratici, cioè di Saragat, era mosso da obiettivi meschini: scacciarmi dal posto di segretario del Cnen, cui aspirava da tempo un ingegnere socialdemocratico, oggi defunto, molto vicino a Mario Tanassi; far fuori dal consiglio dell’Enel un testimone scomodo e intransigente, nel momento in cui si doveva provvedere allo scorporo delle attività elettriche da quelle non elettriche delle società espropriate: affari di miliardi di allora!».
E qui Ippolito si tiene stretto perché non riesce a dire o non ha compreso quali interessi si muovevano negli USA. La cosa è tanto vera che, nelle dure polemiche che si innestarono intorno alla metà degli anni Settanta sul ritorno al nucleare auspicato da governo ed ENEL, Ippolito fece l’errore di individuare chi non era per il nucleare allora come persona pagata dai petrolieri. Non aveva capito che gli interessi dei petrolieri erano coincidenti con quelli dell’industria nucleare americana e che separare le buone multinazionali dalle cattive non era neppure nel suo interesse.
Quanto dico non è tesi stravagante e neppure dietrologia. Sulle motivazioni di fondo dell’attacco ad Ippolito anche Barrese scriveva:
Si è detto delle motivazioni politiche del caso Ippolito: impedire la realizzazione del centro sinistra o quanto meno sterilizzare la portata della svolta, impedendo che si arrivi alla politica di piano.
Ma questo disegno non è perseguito soltanto da certi settori politici. Sono sulla scena anche l’Edison, gli ex elettrici e i petrolieri. La partita è grossa. Con la nazionalizzazione dell’ energia elettrica i gruppi ex elettrici vantano un credito verso lo Stato di 1500 miliardi di indennizzo, cifre da capogiro nel 1963. Se l’impiego di tale somma dovesse essere condizionato dalla programmazione questi gruppi, dopo la nazionalizzazione, subirebbero un’ulteriore sconfitta.
Tra la destra economica, i socialdemocratici e la destra politica compresa quella Dc – vi sono dunque interessi convergenti. Che, per quanto riguarda in particolare il Cnen, coincidono non soltanto con gli interessi delle «sette sorelle», comprensibilmente avverse allo sviluppo dell’energia nucleare, ma anche con quelli dell’industria nucleare americana. Se il Cnen e l’industria italiana riescono, come vuole Ippolito, a portare avanti una tecnologia nucleare autonoma e a costruire reattori, gli Stati Uniti perderanno oltre al mercato italiano, l’influenza nell’area europea dato che il Cnen ha una posizione di prestigio nell’Euratom.
E poiché in Italia il «partito americano» raccoglie autorevoli anche se non sempre disinteressate adesioni data la generosità con cui il Dipartimento di Stato e la Cia pagano i loro «amici», gli avversari del centro sinistra hanno un motivo in più per scendere in campo contro il Cnen. O forse due. Perché dalle commesse alle industrie d’oltreoceano possono derivarne ulteriori utili, quelli delle tangenti. […]
Contro il Cnen [quindi] vi sono anche interessi americani. Comunque il ruolo primario lo svolge l’Edison che, come si è visto, ha pure varie ragioni per mettere fuori gioco Felice Ippolito. A Giorgio Valerio, amministratore delegato dell’Edison, e al suo vice Vittorio De Biasi non mancano le possibilità per azionare un rullo compressore contro il segretario generale del Cnen: hanno finanziato e finanziano uomini politici di varie tendenze, hanno a disposizione o influenzano numerosi organi d’informazione.
Sarà lo stesso Ippolito che, in Intervista sulla ricerca scientifica, racconterà che Vittorio De Biasi dichiarò in un gruppo di amici che l’arresto di Ippolito gli aveva dato dieci anni di vita e che valeva la pena di aver speso decine di milioni per la stampa contro di lui.
Ma torniamo al 1963 ed al fatto che alla presidenza dell’Enel era andato un uomo di Moro, l’avv. Vitantonio Di Cagno, che era stato sindaco di Bari, vice presidente della Cassa per il Mezzogiorno e fiero avversario della nazionalizzazione: un pezzo di lottizzazione selvaggia (Lombardi e La Malfa erano per una presidenza Ippolito, Moro per Di Cagno; Fanfani mediò con un’edizione anticipata del manuale Cencelli: un presidente alla Dc, un vice al Psi, Grassini, proposto da Lombardi, e un consigliere per ognuno degli altri partiti della coalizione).
La crociata contro Ippolito, dopo l’innesco dei socialdemocratici, vide la destra democristiana ed i fanfaniani all’attacco (con il Presidente del Consiglio Leone, con il ministro dell’Industria Togni ed il Presidente della Repubblica Antonio Segni che, date le loro posizioni di oppositori della nazionalizzazione dell’energia elettrica, discretamente parteggiavano per gli attacchi ad Ippolito. Ed anche con il fanfaniano Bosco, già Ministro della Giustizia). Inoltre, il 29 agosto sferrò un duro attacco ad Ippolito il settimanale democristiano Vita, diretto da Luigi D’Amato. Questo settimanale della destra curiale, era già intervenuto la settimana precedente per riportare un discorso che Ferretti, dimessosi qualche tempo prima dal CNEN, aveva fatto in occasione dell’inaugurazione dei suoi laboratori a Montecuccolino. Il pentito Ferretti, che avrà il ruolo di accusatore di Ippolito insieme all’astioso Silvestri, affermava che gli edifici dei suoi laboratori erano costati 50 mila lire a metro quadro mentre gli edifici di Ispra erano costati 200 mila lire a metro quadro. L’articolo del 29 agosto, Il dossier nucleare sul tavolo di Leone, tornava a parlare dei costi degli edifici ed anticipava un dossier preparato da 4 senatori democristiani: Daniele Turani, Antonio Bussi, Giovanni Spagnolli e Girolamo Messeri. Scriveva Ippolito:
«Nel processo comparve ad un certo punto uno strano memoriale contro di me, firmato da quattro senatori democristiani. Interrogati dal mio avvocato, dichiararono poi in udienza di aver firmato il rapporto senza neanche averlo letto; la sua provenienza era l’ufficio studi della Edison» [Ippolito, 1977].
Durante il processo si saprà che il dossier era noto solo a Spagnolli e che gli altri lo avevano solo firmato. Vale la pena sapere chi sono questi figuri.
Bussi era commercialista ed avvocato a Novara, proveniva dall’azione cattolica ed aveva presieduto l’ordine dei commercialisti.
Turani era industriale commerciante di Bergamo, presidente dell’unione dei commercianti di pelli grezze, presidente della società Atalanta Calcio e del Centro sportivo di Bergamo, membro supplente dell’Oece e membro supplente dell’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa.
Spagnolli, il capo dell’operazione anti Ippolito, era uomo di sottogoverno. Era di Rovereto e molto legato alla Curia di Milano tanto che, dopo la laurea in economia divenne vicesegretario amministrativo dell’Università cattolica del Sacro Cuore. Fece poi il funzionario della BCI; funzionario, segretario, amministratore, sindaco e procuratore di varie società; vice direttore dell’Amministrazione per le attività assistenziali, ente presieduto da Ludovico Montini, fratello del futuro Papa; direttore dell’Unrra Casas ente presieduto da Umberto Merlin, futuro ministro. Diventò senatore nel 1953; nel 1958 diventò segretario di Stato per il commercio estero. Fatto straordinario è che Moro, il 4 dicembre 1963 (in pieno caso Ippolito) lo nominò ministro della marina mercantile Fu a lui che Silvestri passò le informazioni per preparare i dossier contro Ippolito.
Messeri, proveniva dalla provincia di Trapani ed era diplomatico in pensione, entrato in politica nel 1958 al seguito di Fanfani. Fu eletto nel 1958 nel collegio assegnatogli da Fanfani, collegio controllato da Frank Coppola. Nel 1963 veniamo a conoscere Messeri per due fatti: il suo attacco ad Ippolito (agosto), i suoi legami con la mafia (novembre) che non interferiranno alla sua nomina a sottosegretario per il commercio estero nel suddetto governo Moro (si dimetterà un anno dopo per la decisione del governo di allacciare rapporti commerciali con la Cina). Ma lo ritroviamo nel 1967 in un’informativa dei servizi segreti al governo, secondo la quale il Messeri, privo di qualunque incarico, tentò di mettere in moto traffici di armi tra governo USA ed esercito italiano, millantando la sua prossima nomina a ministro della difesa. Ciò troncò la sua carriera politica nel 1968 quando Messeri tornò a fare il diplomatico facendo idiozie in giro per il mondo. Ad esempio, nel 1974, diplomatico in Portogallo, in occasione della Rivoluzione dei Garofani contro il regime fascista di Salazar, invierà al governo italiano un rapporto del seguente tenore:
Il Portogallo è in preda a folle scalmanate agitate da sindacalisti improvvisati e protervi; c’è una regia straniera perché operano 750 commissari politici del partito comunista allenati a Mosca e i giovani capitani hanno dimenticato oltretutto che i conti delle faide tra soldati si regolano sulla linea di tiro dei plotoni d’esecuzione [Citato da Barrese].
In tale occasione fu trasferito in Turchia che era sotto embargo USA (crisi di Cipro) per il commercio di armi. Ma Messeri organizzò triangolazioni per la vendita di 40 F 104 che Aeritalia costruiva su licenza Lockeed. In tale occasione Aeritalia pagò una tangente di 30 mila dollari a personalità turche.
Questi 4 personaggi prepararono il dossier contro Ippolito del quale Vita anticipava i contenuti. Ed in questo dossier vi erano adombrate due irregolarità amministrative. La prima riguardava la copertura con i finanziamenti del secondo piano quinquennale di vicende del primo piano quinquennale anche se il secondo piano non era stato approvato. La seconda, più grave ma posta in modo interrogativo, riguardava il finanziamento di una società esterna al CNEN, Archimedes, per la costruzione dell’impianto Eurex; la Archimedes era una società fondata nel 1960 da varie persone tra cui lo stesso Ippolito e suo padre ma con Ippolito dimessosi nel 1962. Si chiedeva quali rapporti vi fossero tra il CNEN ed Archimedes, se erano stati assegnati dei lavori a tale società, se erano state svolte gare, se non si ravvisava conflitto d’interessi. Vale la pena notare quanto sia indegno il comportamento di Spagnolli, capo dell’operazione denigrazione. Egli sapeva che al CNEN vi era un Presidente che era Colombo ed un vice Presidente che era Focaccia. Ambedue queste persone erano autorevoli parlamentari del suo partito, la DC. Ma Spagnolli non rivolse loro neppure una domanda, andava diritto contro Ippolito. Quando al processo ad Ippolito gli si chiederà il perché di tale comportamento, egli risponderà in modo vergognoso che non si era rivolto ai suoi compagni di partito per ovvie ragioni di opportunità e riservatezza (sic!). Parlava colui che aveva consegnato il dossier al settimanale Vita !
Non si può comunque sottacere che a lato di Saragat, Preti, Togni ed i 4 senatori suddetti si aggregarono presto i fascisti del MSI attraverso la loro stampa. Il Borghese uscì con una gigantesca bufala: il CNEN aveva finanziato con 25 milioni al mese il movimento di giovani antifascisti Nuova Resistenza. Seguì un’indagine della polizia che stabilì un solo finanziamento di 250 mila lire. Lo Specchio sosterrà essere Ippolito proprietario di una dimora sontuosa. Ancora indagini che stabiliranno trattarsi di un altro falso.
Il 30 agosto Ippolito rilasciò una prima dichiarazione in risposta a Vita:
In relazione ai rilievi mossi alla gestione del Cnen sia dalle note interviste dell’ onorevole Saragat, sia, più di recente, da parte di alcuni ambienti privi di competenza specifica, solo oggi posso uscire dal riserbo che mi ero imposto e dichiaro di avere disposto di procedere, per la tutela della mia onorabilità personale, nella sede competente; chiedo nel contempo a chi di ragione che venga svolta dalle istanze competenti, su tutta l’attività del Cnen, dalla fondazione ad oggi, la più ampia inchiesta nella sede più idonea per accertare la responsabilità degli organi direttivi del Comitato stesso ed in particolare quella mia personale.
Per quanto concerne il problema sollevato da certi ambienti in merito alla non compatibilità tra le cariche di segretario generale del Cnen e di consigliere di amministrazione dell’Enel, dichiaro che qualora la questione mi venisse posta dagli organi di governo, eserciterò la mia facoltà di opzione, fatti salvi i miei diritti, e comunque soltanto allorché l’inchiesta da me sollecitata abbia chiarito la situazione del Cnen e le responsabilità connesse.
Qualora mi sia chiesto di prendere una decisione prima del compimento dell’inchiesta, ritengo mio dovere restare segretario generale del Cnen, non solo per rendere ragione del mio operato, ma per rimanere accanto a quei collaboratori e quei colleghi con i quali abbiamo creato in Italia negli ultimi dieci anni l’ente pubblico per l’energia nucleare [Citato da Barrese].
In un incontro con il ministro dell’industria Togni, Ippolito venne sottoposto a ricatto: dimettersi dall’Enel (dove gli era stato chiesto di andare da Emilio Colombo, il suo capo nel CNEN!) e dopo inchiesta al CNEN. Caspita, Togni chiedeva ad Ippolito di andarsene dall’Enel, dove non risultavano irregolarità vere o presunte, e di restare al CNEN dove vi erano accuse contro la sua persona ? Ippolito dirà in seguito:
Persi il lume degli occhi e a Togni risposi tra i denti che il Cnen non era Fiumicino. Per il ministro fu come uno schiaffo. Immediatamente venni messo alla porta [Citato da Barrese].
Ippolito aveva sputato in faccia a Togni il gigantesco scandalo di Fiumicino del 1961 (lavori durati 15 anni, costi moltiplicati per 10, terreni acquitrinosi acquistati dalla duchessa della nobiltà vaticana e cioè nera Anna Maria Torlonia a 45 lire al metro quadro quando il prezzo di mercato era tra 3 e 7, realizzato da ditte vicine a DC e Vaticano, pista principale che sprofonda poco prima dell’inaugurazione). In tale scandalo erano stati implicati Andreotti, Pacciardi e lo stesso Togni.
Sabato 31 agosto il ministro democristiano Togni (che in occasione del suo protagonismo nello scandalo di Fiumicino fu difeso da Andreotti che lo definì uomo dal carattere propulsore a turbina elettrica e che, si ricorda, il 25 maggio 1958, in un giro elettorale, riuscì in 5 ore a porre ben 16 prime pietre senza dimenticare di fare un intermezzo per il pranzo), non lasciando ad Ippolito tempi per la difesa o per eventuali opzioni tra una carica e l’altra, fingendosi scandalizzato per una cosa che già sapeva e che sapevano tutti anche se tutti aveva scandalizzato, emise un comunicato con il quale Ippolito era dichiarato sospeso dal suo incarico al CNEN. Il 14 ottobre il consiglio di amministrazione dell’Enel sostituì il nome di Ippolito con altro nominativo.
Ma quali erano gli elementi di diritto sui quali si era basato Togni per prendere queste decisioni di estrema gravità ? Vi erano solo voci ed illazioni che accompagnavano campagne di stampa. Nessun dato certo, niente che desse adito a questioni sostanziali. Togni si mosse abusando della sua autorità !
«Nel frattempo un miscuglio di rivelazioni della stampa, di inchieste più o meno sommarie, di voci e indiscrezioni aveva sollevato dubbi sulla correttezza amministrativa della gestione del Cnen, della quale Ippolito era l’unico o il principale imputato. Una commissione d’indagine, nominata il 2 settembre a tamburo battente dal ministro Togni, rimetteva il 15 ottobre le sue conclusioni. Esse apparvero tanto gravi da risvegliare l’interesse della magistratura per l’apertura di un processo penale. Con queste battute finiva, più o meno, lo scandalo nucleare e cominciava lo scandalo “Ippolito”, pericoloso per l’interessato, assai meno per gli altri. Delle iniziali accuse Saragat: dilapidazione e sperpero di pubblico denaro da parte del Comitato Nucleare non si sarebbe più parlato. Sarebbero venuti a galla il “peculato”, “l’abuso in atti d’ufficio”, le “distrazioni” e “l’interesse privato”» [Silvestri].
Tra le 55 ipotesi di reato (per 47 delle quali verrà condannato) Ippolito venne anche accusato di aver usato una camionetta del CNEN per i suoi spostamenti personali quando era in vacanza a Cortina e di aver fatto stanziare dei fondi a favore dello storico Vittorio De Caprariis perché scrivesse una storia d’Italia attraverso la storia delle varie tappe del pensiero e delle realizzazioni tecnico-scientifiche (storia ancora mancante!). E’ anche utile riportare qualche esempio di distrazione di fondi: 5.195.000 lire per sussidi al personale; 2.230.000 lire per premi al personale; 85.000 per un regalo a un dipendente; 397.800 per abbonamenti vari. Un vero criminale.
A seguito della sospensione di Ippolito dal CNEN decretata da Togni il 31 agosto del 1963, con un tempismo degno di personaggi assurti alla cronaca politica, mondana e giudiziaria dal 1994 e del suo avere la propulsione di una turbina elettrica, il Procuratore Generale della Repubblica di Roma, il porto delle nebbie che non aveva portato nessuno alla sbarra dei potenti dei vari scandali DC e che rimarrà tale ancora per molti anni, Luigi Giannantonio, il 6 settembre successivo inviò a Togni, e per conoscenza al Presidente del Consiglio, la seguente lettera:
Giusto quanto pubblica la Gazzetta ufficiale n. 224 del 4 settembre 1963, l’Eccellenza vostra con decreto del 31 agosto 1963 ha sospeso il prof. ing. Felice Ippolito dalle funzioni di segretario generale del Cnen e con altro decreto, di pari data, ha nominato una commissione di indagine sulla gestione amministrativa del detto segretario generale, commissione che dovrà riferire con relazione scritta entro il termine massimo del 15 ottobre p. v. Ora per l’adempimento dei doveri di questo ufficio, in ordine anche a recenti e ben note pubblicazioni giornalistiche, prego l’Eccellenza vostra di volermi inviare. non appena sarà presentata, copia della relazione della commissione di indagine e di volermi intanto rimettere copia dei rilievi del collegio dei revisori dei conti di cui si parla nel decreto di sospensione, nonché copia del rapporto redatto da un comitato di senatori di cui parlano alcuni giornali [Citato da Barrese].
37 giorni dopo, note le conclusioni della commissione ministeriale d’indagine, Ippolito si recò al palazzo di Giustizia per fare dichiarazioni spontanee in propria difesa, dichiarazioni che occuperanno 4 giorni. Intanto era stato destituito (14 ottobre) da consigliere ENEL.
Il 4 marzo 1964, con queste accuse, Ippolito venne arrestato e condotto a Regina Coeli da dove attenderà, in stato di detenzione, la sentenza che sarà letta il 29 ottobre 1964.
Il processo ad Ippolito iniziò l’11 giugno 1964 (il Tribunale era composto dal Presidente Giuseppe Semeraro e dai giudici Carlo Testi e Luigi Bilardo) con un Pubblico Ministero, Romolo Pietroni, che fece l’impossibile, anche cose scorrette, per arrivare alla condanna. Il Pietroni sarà indagato nel 1971 dalla Commissione parlamentare antimafia per aver avuto rapporti con la vicenda dell’infiltrazione mafiosa nella Regione Lazio quando il DC Girolamo Mechelli chiamò a lavorare in Regione Natale Rimi, figlio del numero 2 della mafia trapanese, in seguito all’intervento del pregiudicato commercialista Italo Jalongo, consulente fiscale nientemeno che di Frank Coppola (noto mafioso che abbiamo già incontrato con il senatore DC Messeri, uno degli accusatori di Ippolito). Pietroni era consulente dell’antimafia e frequentava amichevolmente Jalongo; e non solo: aveva anche rapporti per raccomandazioni con Mechelli al quale chiedeva notizie sui trasferimenti di Rimi da Alcamo. Pietroni venne cacciato dall’antimafia ma rimase come braccio destro del magistrato Carmelo Spagnuolo, anch’egli criticato dall’antimafia. Finalmente, nel 1976, vedrà la galera, per merito del giudice istruttore di Spoleto Fiasconaro. Gli vennero addebitati rapporti stretti con la mafia (consulenze a noti mafiosi e soffiate sui lavori dell’antimafia e della Corte d’Appello di Roma), violazione dei doveri della sua funzione, corruzione (bustarelle Standa). Ma Pietroni venne infine assolto …
Tale Pietroni chiese per Ippolito una condanna a 20 anni di reclusione (sic!). ma non citò Colombo e neppure il senatore DC Focaccia (“all’allora Presidente del CNEN non si può attribuire alcuna responsabilità di aver autorizzato con dolo qualche violazione di legge. Anzi, semmai, si può dire che l’onorevole Colombo non è il complice di Felice Ippolito, ma la vittima più importante“). Quel Colombo che aveva autorizzato Ippolito, con un suo specifico decreto, a firmare impegni e contratti fino ad un importo di 100 milioni. E Colombo e Moro non furono per nulla turbati da un pm che non riteneva legittimo il decreto di Colombo e che procedeva con questa indegna richiesta di condanna. E non si turbarono neppure della condanna ad 11 anni e 4 mesi di reclusione che Ippolito ebbe in primo grado di giudizio. Contro questo comportamento della magistratura si ebbero duri giudizi di Galante Garrone (“Un diniego dei diritti dell’imputato e della difesa“) e Arturo Carlo Jemolo ed addirittura il Corriere della Sera si espresse con giudizio negativo sulla sentenza.
Il fatto comunque straordinario è quello che riferisce bene Barrese:
Al processo, Ippolito deve rispondere di ben quaranta capi d’accusa che vanno dal falso continuato in atti pubblici, al peculato continuato, all’ interesse privato continuato, all’ abuso continuato in atti d’ufficio. Tutto continuato. A leggere la lunga sfilza di imputazioni, alcune delle quali particolarmente infamanti, c’è da pensare a un incallito furfante e come tale Ippolito viene presentato all’ opinione pubblica. Ma poiché si tratta di reati continuati, come mai il segretario generale del Cnen li ha potuti compiere, senza che nessuno se ne accorgesse? Dove erano i «controlli» e i revisori dei conti, dov’era il comitato di ministri che aveva il compito di vigilare sull’ attività del Comitato nucleare?
Ecco allora che la tesi dell’imbecillità o dell’esautoramento di Colombo e dei membri della commissione direttiva del Cnen, benché non spieghi le carenze di altre persone e di altri organi, diventa, più che funzionale, necessaria all’accusa. Che altrimenti non può reggersi.
Su gran parte degli addebiti ritenuti reati dal tribunale, vi sarà però una ben diversa valutazione in secondo grado. I giudici d’appello, infatti, non soltanto assolveranno Ippolito da molte imputazioni, ma addirittura lo elogeranno per alcuni episodi sui quali il tribunale aveva espresso un duro verdetto di colpevolezza.
Gli ambienti della ricerca scientifica italiana solidarizzarono subito con Ippolito. Vi furono prese di posizione dell’Associazione sindacale dei ricercatori di fisica (Asrf), da parte di quasi tutti i professori cattedratici di fisica italiani e da parte di molte altre personalità del mondo della politica e del giornalismo. Prima della condanna, praticamente tutti gli scienziati italiani (65 su poco più di 70 cattedratici di fisica su tutto il territorio nazionale) avevano indirizzato una lettera al Tribunale in cui si diceva:
I fisici italiani titolari di cattedra universitaria che aderiscono alla presente dichiarazione hanno partecipato a vario livello di responsabilità alla vita scientifica italiana di questo ultimo decennio e alle discussioni che hanno portato alla formulazione e alla esecuzione di quei nuovi, grandi strumenti oggi disponibili alla ricerca, quali l’Istituto nazionale di fisica nucleare, i laboratori nazionali di Frascati ed il Centro europeo per le ricerche nucleari (Cern).
Nelle scelte e nelle decisioni è anche avvenuto che i fisici si trovassero in posizioni fortemente contrastanti fra loro, posizioni che avevano comunque in comune il vivo desiderio di elevare la ricerca scientifica del Paese. Argomento di questi dibattiti sono state fra l’altro le funzioni, le decisioni e le scelte del Comitato nazionale per le ricerche nucleari (Cnrn) e successivamente del Comitato nazionale per l’energia nucleare (Cnen). Né poteva essere altrimenti, dato che la maggior pane delle realizzazioni si è fatta attraverso questi organi.
Profondamente colpiti per la grave richiesta del pubblico ministero nei confronti del segretario generale del Cnen prof. Felice lppolito, i dichiaranti ritengono che possa giovare al corso della giustizia la testimonianza di coloro che si sono trovati nelle migliori condizioni per valutare i risultati del lavoro svolto. Essi pertanto dichiarano quanto segue:
1. Il Cnrn ed il Cnen sono intervenuti in questi anni nella ricerca universitaria salvando il prestigio scientifico del nostro Paese, prestigio che non avrebbe potuto essere adeguatamente difeso, per carenza di mezzi, da parte del ministero della pubblica istruzione e del Consiglio nazionale delle ricerche. Certamente la maggior parte della ricerca tisica italiana si è svolta su dispositivi ed iniziative del Cnen. Le decisioni sui finanziamenti non sono stare sempre unanimi e non è mancato il dibattito; ma è possibile affermare che nel nostro Paese le somme impegnate per la ricerca hanno avuto un rendimento scientifico certamente maggiore di quello ottenuto in ogni altro Paese. Poiché il Cnen è il maggior responsabile di quanto si è fatto, ad esso va attribuito il merito dei risultati conseguiti.
2. Il prof. Felice Ippolito quale Segretario generale del Cnen ha grande responsabilità di quanto si è realizzato. Ognuno dei dichiararnti ha potuto valutare la sua opera e molti di essi hanno avuto con lui scambi occasionali o continui. Il terreno della discussione, del dibattito, dell’accordo, anche dei contrasti, è stato sempre quello della ricerca, della scienza, della tecnica. In ogni contatto il prof. Ippolito è risultato essere persona volta al progresso del Cnen. La sua esuberanza, la sua ansietà di accelerare i tempi dello sviluppo scientifico dei nostro Paese, possono avere degenerato in eccessivo ottimismo, ingenuità o leggerezza; ma mai egli è apparso persona meschina o incline a mediocri compromessi personali.
È pertanto profonda convinzione dei dichiaranti che la figura dell’ex Segretario generale del Cnen vada chiaramente inquadrata in queste prospettive [Citato da Barrese].
Il 14 novembre 1964 fu organizzata a Roma, al Ridotto del teatro Eliseo, una manifestazione in sostegno di Ippolito alla quale aderirono pressocché tutti i fisici italiani e una quantità incredibile di persone della cultura e della società civile. Durante questa manifestazione il professor Amaldi (tra i più grandi fisici nucleari del mondo e padre della fisica italiana postbellica), il più eminente fisico italiano, attaccò duramente Saragat (e le manovre politiche che si potevano intravedere dietro il suo operato) e difese puntualmente la politica seguita da Ippolito nel Cnen. In particolare Amaldi ebbe a dire che le affermazioni di Saragat (secondo cui la costruzione di centrali nucleari per la produzione di energia elettrica era assimilabile alla costruzione di una segheria con l’intento di produrre segatura) avevano meritato a questo eminente personaggio un solido posto, in Europa, nel mondo della barzelletta.
A nulla servi tutto ciò. Ippolito fu condannato a undici anni e 4 mesi di prigione senza la concessione di alcuna attenuante: un vero criminale incallito al cui confronto un qualche Presidente del Consiglio è un gran signore. E gli industriali ex-elettrici non fecero mistero di aver pagato la campagna diffamatoria di stampa contro Ippolito.
Resta da dare un cenno ai fisici e ingegneri che accusarono Ippolito, quattro secondo il dossier democristiano. Si sarebbe trattato di Silvestri, Ferretti, Puppi e Gilberto Bernardini. Silvestri smentirà Spagnolli in molti punti e circostanze del suo attacco ad Ippolito che avrebbe avuto lui come fonte e lo farà in una lettera pubblicata dall’Unità il 31 agosto 1964 che concludeva così: non mi si può quindi assegnare la colpa o il merito di aver contribuito in qualche modo alla disavventura di Ippolito. La messa in gioco del prestigioso Gilberto Bernardini non regge neppure un istante: vi sono sue pubblicazioni precedenti al processo e successive che elogiavano il comportamento di Ippolito. Le cose che disse Puppi il Tribunale le giudicò generiche e non motivate. Restava Ferretti con il suo confronto dei costi di edificazione a metro quadro tra il suo laboratorio e quelli di Ispra. Su questa vicenda deporrà in tribunale il primo luglio 1964 Carlo Salvetti (che dal CISE era passato al CNRN nel 1957, assumendo l’incarico di realizzare il Centro Nucleare di Ispra di cui fu il primo Direttore Generale) che affermerà: «Sono state dette molte esagerazioni. A me non risulta che il costo dei laboratori convenzionali [di Ispra] superasse le 50-60 mila lire a metro quadro» e cioè la stessa cifra che Ferretti forniva per i suoi laboratori di Montecuccolini. Interrogato Ferretti dirà che non condivideva le spese di rappresentanza del CNRN e poi CNEN. Egli stesso si era recato una volta a Londra in missione ed era stato fatto alloggiare in un hotel superlusso dai costi incredibili, il Normandie. Anche qui il Ferretti dice sciocchezze: una guida turistica di Londra presentata al tribunale qualificava il Normandie come un hotel di seconda categoria (ma dove ha vissuto fino allora il Ferretti se scambia una seconda categoria per superlusso ?). Resta solo da capire da dove proveniva la posizione di tale personaggio e la cosa forse risulta chiara da quest’altro episodio venuto alla luce nell’udienza del processo ad Ippolito del 30 giugno 1964.
Nel 1963, non si sa bene come e da chi, Ferretti verrebbe a conoscenza di un piano di Angelini, direttore generale ENEL, per lo smembramento del CNEN (la parte di ricerca fondamentale sarebbe passata al CNR mentre quella sui reattori nucleari e, in genere, quella della ricerca applicata all’ENEL). Ferretti si spaventò perché riteneva il CNEN un riferimento importante per la ricerca in genere. Incontrò allora Angelini per parlargli della cosa e del colloquio scrisse a Puppi una lettera. In tale lettera si scopriva che Angelini disse a Ferretti che era Ippolito, non lui, che stava macchinando l’operazione. E Ferretti, che non so come qualificare, credette a queste sciocchezze che suppostamente gli aveva raccontato Angelini. Mi pare infatti di vedere Ippolito segare il ramo su cui era seduto … A questo punto anche Ferretti risultò completamente squalificato.
In ogni caso, Ippolito venne fatto fuori e, con la sua eliminazione si distrusse un grosso patrimonio di esperienze, l’Italia rinunciò ad una via nucleare nazionale e rimase così da allora in completa balia degli Stati Uniti per tutto ciò che riguarda il nucleare e in senso più lato per tutto ciò che riguarda l’energia. Anche qui, come con Mattei, Marotta, Olivetti, potenti forze lavorarono per l’eliminazione di Ippolito. La destra economica e le sette sorelle del petrolio: l’Italia doveva continuare a consumare petrolio ed in particolare doveva acquistare gli ultimi rimasugli della raffinazione del petrolio per utilizzarli nelle centrali termoelettriche dell’Enel con inquinamento doppio rispetto al normale combustibile. Ippolito, inoltre, «fu stroncato da un attacco governativo ispirato dagli americani, i quali erano disposti a consentire ed anzi ad utilizzare le ricerche fondamentali svolte in Europa, ma non ad ammettere concorrenze nella costruzione dei reattori energetici, sui quali hanno infatti impiantato un solido monopolio» [G. Berlinguer]. Anche qui la mafia, sempre al servizio di chi paga meglio e di chi concede migliori favori (in questo caso le multinazionali), non fu estranea alla condanna di Ippolito. «Dopo il “processo Ippolito” il pubblico ministero Romolo Pietroni — che era stato l’artefice primo della condanna — fece rapidamente carriera, fino a diventare, come detto, consulente giuridico della Commissione antimafia della Camera dei deputati, incarico dal quale è stato rimosso nel ’72, quando sono stati rivelati i suoi legami con elementi mafiosi. In seguito a queste scoperte, fatte in occasione del processo a Natale Rimi, Pietroni è stato arrestato nel ’73» [Ippolito, 1978].
Le vicende processuali di Ippolito seguirono in un processo d’appello che ebbe altri esiti anche se non si poteva passare ad una assoluzione (la magistratura ne sarebbe uscita con le ossa rotte). Intanto vi fu ancora una pesante d’interferenza del capo del porto delle nebbie, il Procuratore Generale di Roma Giannantonio. Quando fu indicato Donato Di Migliardo a sostenere l’accusa e quando Giannantonio seppe che Di Migliardo non aveva tesi precostituite di colpevolezza, lo esonerò. La cosa andò bene solo perché, prima di designare un nuovo accusatore, Giannantonio se ne andò dalla Procura di Roma. Su 27 tra i capi d’accusa che lo avevano visto condannato in primo grado, nell’appello verrà assolto. L’accusa più grave che gli verrà contestata sarà quella di distrazione di fondi pubblici per aver acquistato molte copie del libro di scritti e discorsi di Colombo per farne omaggio in giro. Il Tribunale elogerà spesso Ippolito per aver fatto bene il suo lavoro ed aver sostenuto gli interessi dell’Italia. Il 4 febbraio 1966 lo condannerà solo a 5 anni e tre mesi ed uno di questi anni sarà condonato. La libertà provvisoria per aver scontato oltre metà della pena (2 anni e venti giorni) arriverà il 23 maggio. Il 15 novembre 1967 la Cassazione respinse i ricorsi dell’accusa. Ed arriviamo alla farsa: nel marzo 1968 il Presidente della Repubblica ubriacone, Saragat, concesse la grazia d Ippolito. Fatto importante è che, con la grazia, Ippolito riacquistò i diritti civili e quindi poté tornare ad insegnare e ad occupare posti di prestigio. Nel 1996 l’Accademia Nazionale delle Scienze detta dei Quaranta gli consegnò una medaglia d’oro per meriti scientifici e, nello stesso anno, il Presidente Scalfaro gli concesse la massima onorificenza italiana, la Croce al merito della Repubblica. Appena un anno prima della scomparsa di Ippolito, avvenuta a Roma il 24 aprile 1997.
Per concludere altri due fatti significativi e qualche considerazione.
Non è un caso che, appena esploso il caso Ippolito, nel settembre 1963, in un convegno della DC dal titolo Partiti e Democrazia, Paolo Emilio Taviani fece un intervento in cui chiese il finanziamento pubblico dei partiti per evitare le concessioni sempre maggiori alle richieste dei grossi gruppi industriali.
Amaldi in una intervista a D. Sacchettoni (Il Messaggero del 13 aprile del 1977) affermava:
«Forse ci furono errori da parte nostra e forse, anche in buona fede magari, dall’altra parte. Saragat bloccò tutto e poco dopo fu eletto presidente della repubblica. Ciò fu casuale? È probabile, ma resta qualche sospetto… Se fossimo andati avanti forse i problemi di oggi [il duro dibattito sul nucleare iniziato a partire dalla seconda metà degli anni ’70, n.d.r.] non si porrebbero».
Certo per ottenere la Presidenza della repubblica si farebbe qualunque cosa, si va negli Stati Uniti, si rompe l’unità dei lavoratori con la scissione del 1947, si diventa credenti e cattolici, si lavora per le sette sorelle … anche se quest’ultima affermazione non deve far credere che vi fosse il solo petrolio dietro l’attacco ad Ippolito anche se il petrolio era fondante per tutta la destra e per tutte le correnti della Dc, se anche Don Sturzo era legato agli interessi della Gulf Oil. Più verosimilmente la destra economica italiana fu all’origine dei disastri che attraverso Ippolito si realizzarono nella politica della ricerca, pregiudicando anche un’industria che allora sarebbe potuta nascere proficuamente. A tale proposito ebbe a dire Carlo Bernardini:
«Fu un duro colpo, perché per noi fisici Ippolito significava la guerra alla burocrazia. Una guerra che, come è noto, fu persa. Tutti noi ancora ne parliamo con l’amarezza di quelli che hanno visto vanificarsi una vera e propria età dell’oro […] Si discuteva di costruire un anello di accumulazione e l’idea era approvata in ventiquattr’ore, in una settimana si piazzavano gli ordini per i componenti della macchina e dopo un anno questa già funzionava […] Oggi le cose sono ben diverse». [Paoloni, 2005]
Con la caduta di Ippolito il Cnen attraversò dei momenti difficili. Alla sua testa andarono i personaggi più svariati ma rappresentativi di molti interessi in gioco nel settore nucleare. A far parte della commissione direttiva del dopo Ippolito andò anche A. M. Angelini. Questa commissione anziché funzionare come promotrice di studi ed iniziative, anche rivolte a correggere il tiro di Ippolito, lavorò esclusivamente per bloccare ogni iniziativa. Dopo il 1969 la catastrofe completa: scadeva il mandato alla commissione direttiva che non venne rinnovata. Non si fecero altri piani quinquennali ma con i pochi soldi che erano a disposizione a malapena si riuscirono a pagare gli stipendi. A questo punto subentrò pesantemente l’Enel che proibì al CNEN qualunque iniziativa nel settore nucleare. Infatti nel 1970 fu l’Enel ad ordinare la quarta centrale italiana, quella di Caorso da 840 Mw (la sua entrata in funzione era prevista nel 1975 ma si ebbe soltanto verso la metà del 1978).
E come molti altri non riuscii ad avere un posto nella ricerca fisica al quale avrei ambito.
Roberto Renzetti
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