LA SOCIETÀ 20-80

http://www.manitese.it/mensile/1197/globaliz.htm

La globalizzazione sta modellando una nuova civiltà, dove solo un quinto della popolazione planetaria avrà accesso alla ricchezza. Un processo che si nutre di una dottrina in cui l’esclusione viene presentata come fenomeno inevitabile. Dallo smantellamento dello “stato sociale” alla marginalità del Sud del mondo.



di Hans Peter Martin e Harald Schumann


I sogni di importanza mondiale alloggiano al Fairmont Hotel di San Francisco. E’ un’istituzione e un’icona, un albergo di lusso e un mito della voglia di vivere. Chi lo conosce lo chiama rispettosamente “The Fairmont”, e chi vi abita ce l’ha fatta. Come una cattedrale del benessere, l’hotel troneggia sul Nob Hill, sopra la celebrata “City”, un suntuoso edificio dai molti superlativi che unisce, in un sol colpo e con aria svagata, “fin de siècle” e “boom” del dopoguerra. I visitatori vengono colti dalla smania di guardare quando l’ascensore di vetro li solleva lungo il muro esterno della torre dell’albergo per portarli al “Crown’s Room Restaurant”. Allora si apre davanti ai loro occhi il panorama di quello splendido mondo nuovo, il sogno di miliardi di esseri umani: dal ponte del Golden Gate fino alle colline di Berkeley rifulge una ricchezza del ceto medio che non sembra avere confini. Tra gli eucalipti scintillano le piscine di ville grandi e accoglienti, avvolte dalla tenera luce del sole, davanti agli ingressi sono parcheggiate quasi sempre diverse automobili. Come una pietra di confine, il Fairmont segna il passaggio dall’età moderna al futuro, dall’America all’area del Pacifico.

MAGNATI GLOBALI

In questo ambiente pregno di storia, Mikhail Gorbaciov, uno dei pochi che ha personalmente contribuito a scrivere la storia, accolse, nel settembre 1995, l’élite del mondo (…): ha riunito in questo luogo cinquecento politici, dirigenti dell’economia e scienziati di spicco di tutti i continenti. Il nuovo “braintrust globale” -per usare la definizione data dall’ultimo presidente dell’Unione Sovietica e Premio Nobel per definire questo circolo esclusivo- dovrebbe indicare la via che ci porterà nel XXI secolo, la via “che porta ad una nuova civiltà”. Vecchi ed esperti timonieri del mondo come George Bush, George Schultz, e Margaret Thatcher incontrano i nuovi signori del pianeta, quali Ted Turner, il capo della CNN, che fonde le sue imprese con la Time Warner creando nell’ambito dei mezzi di comunicazione il più grande gruppo di tutto il mondo, o un magnate commerciale del sudest asiatico come Washington Sycip. Per tre giorni riflettono con la massima concentrazione, formando piccoli gruppi di lavoro con i “global players” del mondo informatico e finanziario, con i sommi sacerdoti dell’economia, con gli economisti delle università di Stanford, Harvard e Oxford. Anche gli inviati del libero commercio di Singapore e Pechino vogliono far sentire la loro voce quando è in gioco il futuro dell’umanità (…).

PERSONE INUTILI

Uno degli uomini interpellati è David Packard, uno dei fondatori del gigante high-tech “Hewlett&Packard”. L’anziano self-made miliardario rimane impassibile. Con la massima lucidità pone piuttosto la domanda centrale: “Quanti impiegati servono davvero nelle nostre aziende?”. “Sei, forse otto”, è la risposta asciutta di John Gage, top manager della Sun Microsystems. “Senza quelli saremmo spacciati. Va detto però che è del tutto indifferente in quale paese della Terra abitano”. A questo punto interviene il moderatore, il professor Rustum Roy della “Pennsylvania State University”: “E quante persone lavorano attualmente per la Sun System?”. Gage risponde: “Sedicimila. A parte un’esigua minoranza, sono la nostra riserva di razionalizzazione”. La risposta non suscita nessun mormorio tra i presenti; per loro, la prospettiva di eserciti finora inimmaginabili di disoccupati è un dato scontato. Nessuno tra i remuneratissimi manager di carriera ai vertici delle aziende e dei paesi del futuro crede ancora che i mercati della crescita economica dei paesi finora benestanti possano offrire un numero sufficiente di posti di lavoro nuovi e pagati in maniera decente: secondo loro questi posti non ci saranno in nessun ambito della vita economica.

NUOVI ORDINI SOCIALI

I pragmatici riunti al Fairmont riassumono il futuro in una coppia di numeri e in un termine tecnico: “20-80” e “Tittytainment”. Secondo la loro previsione, nel prossimo secolo il 20 per cento della popolazione abile al lavoro sarà sufficiente per far funzionare l’economia mondiale. “Non serve altra forza lavoro”, dicono. Basterà un quinto di coloro che cercano lavoro per produrre tutte le merci e per fornire tutti i servizi di alta qualità che la società mondiale si potrà permettere. Questo 20 per cento parteciperebbe quindi attivamente alla vita, al guadagnare e al consumare, e non importa in quali paesi vivano i lavoratori. E gli altri? L’80 per cento dei disoccupati in ricerca attiva di lavoro? “Certo -risponde lo statunitense Jeremy Rifkind, autore del libro “La fine del lavoro”- l’80 per cento che resta fuori avrà problemi enormi”. E Gage della Sun System rincara la dose e cita il suo capo Scott McNealey: in futuro si tratterà “to have lunch or be lunch”, di mangiare o di essere mangiati. Fatte queste premesse, il quotatissimo gruppo di discussione impegnato sul futuro del lavoro si limita a parlare di coloro che non avranno più nessun lavoro. Tra essi vi saranno dozzine di milioni di persone che finora si possono sentire più vicine all’agiata quotidianità del San Francisco Bay Area che non alla lotta per la sopravvivenza di chi non ha nessun lavoro sicuro. Al Fairmont viene abbozzato un nuovo ordine sociale: paesi ricchi senza un ceto medio degno di nota, e nessuno solleva obiezioni.

STORDIMENTO

Intanto comincia la carriera del termine “Tittytainment”. A introdurlo nella discussione è il vecchio lupo Zbigniew Brzezinski. Nato in Polonia, Bzrezinski è stato per quattro anni consigliere per la sicurezza di Jimmy Carter, da allora si occupa di questioni geostrategiche. “Tittytainment”, spiega, è un incrocio tra “entertainment” -intrattenimento- e “tits” -il seno-. Per Brzezinski la parola “tits” allude non tanto al seno femminile quanto al latte che una madre può offrire. La combinazione tra un intrattenimento atto a intontire e un alimentazione sufficiente -ecco la sua spiegazione- dovrebbe senz’altro bastare per tenere su di morale la popolazione frustrata del mondo, senza che questa crei problemi. Tra i manager comincia una sobria discussione sui possibili dosaggi e sulla questione di come il quinto benestante possa “intrattenere” il resto superfluo della popolazione mondiale. I partecipanti alla discussione ritengono che l’integrazione delle persone e un senso per la loro vita debbano provenire dal vasto ambito dei servizi di volontariato, dell’aiuto reciproco tra vicini di casa, delle associazioni sportive e così via. “Queste attività potrebbero essere valorizzate con una modesta retribuzione, per promuovere così l’autostima di milioni di cittadini”, sostiene il professor Roy.

NUOVA CIVILTÀ

I dirigenti di quelle imprese sono in ogni caso convinti che nei paesi industrializzati torneranno ad esserci ben presto persone disponibili ad occuparsi, in cambio di una paga minima, della pulizia delle strade o ad accettare un misero rifugio come collaboratori domestici. In fin dei conti, l’età industriale con il benessere delle masse non è che “un battito di palpebre nella storia dell’economia”, come dice il futurologo John Naisbitt. Gli organizzatori delle tre memorabili giornate al Fairmont si vedono già sulla strada che conduce ad una nuova civiltà, ma la strada indicata da tutta quell’intellighenzia giunta dai piani mobili delle imprese e dagli istituti accademici, ci riporterebbe dritto dritto all’epoca pre-moderna. La distribuzione del benessere e delle posizioni sociali prospettata per il nostro avvenire non sembra essere più quella della società dei “due terzi”, temuta dagli europei degli Anni Ottanta. Il modello mondiale del futuro rispetta la formula “20-80”. Assistiamo insomma al sorgere della società di un quinto, nella quale bisogna ricorrere al “tittytainment” per far stare tranquilli gli esclusi. Un’esagerazione fuori di misura?

UN URAGANO

La Germania del 1996: oltre sei milioni di persone in cerca di lavoro non trovano nessun’occupazione fissa. Sin dalla fondazione della Repubblica Federale Tedesca il numero dei disoccupati non ha mai raggiunto tali livelli. Lo stipendio netto dei tedeschi occidentali va calando da cinque anni, e secondo le previsioni del governo, della scienza e dell’imprenditoria siamo solo agli inizi. Se consideriamo solo l’industria, nel prossimo decennio verrà cancellato almeno un milione e mezzo di posti di lavoro: ecco la prognosi di Roland Berger, uno dei consulenti aziendali più importanti, che precisa inoltre che “verrà eliminato un posto su due nel management medio” (…). Le dichiarazioni sul declino diffuse dagli economisti e dai politici culminano sempre nella stessa parola: globalizzazione. La tecnologia avanzata dei mezzi di comunicazione, i bassi costi di trasporto, il commercio libero senza confini fondono tutto il mondo in un unico mercato: ecco la tesi che va per la maggiore. Tutto ciò crea una dura concorrenza mondiale, anche sul mercato del lavoro. Solo all’estero, dove tutto costa meno, le imprese tedesche continuerebbero a creare posti di lavoro. Dai presidenti dei gruppi di imprese fino al ministro del lavoro, tutti danno la stessa risposta: l’adattamento verso il basso.

MA I SACRIFICI…

I cittadini sono esposti ad una continua cacofonia di richieste di rinuncia. I tedeschi “non lavorano abbastanza”, “guadagnano troppo”, “hanno troppi giorni di ferie”, “troppo spesso si danno malati”, afferma un coro di funzionari di categoria, economisti, esperti e ministri, e non è marginale in tutto questo il ruolo della televisione e dei media. “La società pretenziosa dell’Occidente si scontra con l’ambiziosa società della rinuncia presente in Asia”, scrive la “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, lo stato sociale sarebbe “diventato una minaccia per il futuro”, sarebbe “impossibile evitare una maggiore disuguaglianza sociale”. La diffusissima “Neue Kronenzeitung” che domina il mercato austriaco, parte con un titolone: “Il continente ha vissuto al di sopra dei propri mezzi: l’Europa scocciata dalla nuova ondata di risparmi”. In Germania persino il Presidente della Repubblica, Roman Herzog, presta aiuto introducendo il popolo ad una nuova mentalità: “Inevitabile. Tutti dovranno fare sacrifici”.

…SONO CONDIVISI?

Purtroppo ha frainteso un particolare. Non si tratta affatto di sacrifici di tutti in tempi di crisi. I tagli sullo stipendio in caso di malattia, l’eliminazione della protezione contro il licenziamento ingiustificato, la riduzione radicale di tutte le prestazioni nel sociale e l’abbassamento dei salari nonostante l’aumento della produttività non fanno più parte della gestione di una crisi. I riformatori all’insegna della globalizzazione disdicono piuttosto il tacito contratto sociale della repubblica -in Germania e altrove- che portava ad una redistribuzione dei beni dall’altro verso il basso, limitando così la disuguaglianza sociale. Il modello europeo dello stato sociale ha finito i suoi giorni, dice la loro propaganda, e confrontato con gli altri paesi del mondo sarebbe troppo caro. Le categorie colpite hanno capito bene. I sindacati e le associazioni senza fini di lucro lanciano un grido di protesta che attraversa tutta la repubblica (…). Con un solo movimento delle sue “tenaglie globali”, la globalizzazione scardina interi stati ed il loro ordinamento sociale. un po’ qua e un po’ là minaccia la fuga di capitali e impone così una drastica riduzione delle tasse e ottiene sovvenzioni di miliardi di dollari oppure infrastrutture a costo zero. Quando non basta, ricorre ad una pianificazione fiscale in grande stile: i guadagni vengono dichiarati solo nei paesi con aliquote fiscali basse. In tutto il mondo calano i contributi per il finanziamento dei compiti statali da parte dei proprietari di capitali e di beni patrimoniali. Coloro che controllano in tutto il mondo i flussi di capitali, portano allo stesso tempo a livelli sempre più bassi i salari dei loro dipendenti, che pagano anche le tasse. La quota degli stipendi, ovvero la percentuale della ricchezza di una società che va in mano a coloro che ricevono uno stipendio, va calando su scala mondiale. Da sola, nessuna nazione ha la forza di opporsi a questa pressione. Nella concorrenza transnazionale, commenta l’economista statunitense Rudiger Dornbush, il modello della Germania ed il modello europeo vengono ora “lessati ben bene” (…).

BATTAGLIA EPOCALE

L’integrazione globale va di pari passo con l’ascesa di una “dottrina della salvezza” politico-economica, annunciata senza sosta da una schiera di consulenti economici preoccupati per la vita politica. Assistiamo cioè all’ascesa della dottrina del neoliberalismo. La tesi di fondo suona grosso modo così: il mercato è buono e gli interventi dello stato sono cattivi. Partendo dalle idee del maggior esponente di questa scuole, l’economista statunitense e Premio Nobel Milton Friedmann, i governi occidentali perlopiù liberisti degli Anni Ottanta finirono per elevare questo dogma a principio fondamentale della loro politica. Deregolamentazione: anziché controllo statale, liberalizzazione del commercio e della circolazione dei capitali e privatizzazione delle imprese pubbliche. Ecco le armi strategiche nell’arsenale dei governi devoti al mercato e alle organizzazioni economiche mondiali guidate da questi governi, della Banca Mondiale, del Fondo Monetario, dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Con queste armi iniziarono e continuano a combattere una lotta d’indipendenza per il capitale. L’aeronautica e le telecomunicazioni, le banche e le assicurazioni, l’industria edile e lo sviluppo del software: tutto questo deve sottostare alla legge della domanda e dell’offerta.

NUOVE DITTATURE

Il crollo delle dittature dei Paesi dell’Est contribuí a livello globale a dare credito ed efficacia a questa fede. Non più minacciati dalla “dittatura del proletariato”, ci si dedica con maggior impegno alla costruzione della “dittatura del mercato mondiale”. Ad un tratto la partecipazione di massa dei lavoratori alla produzione generale di beni e valori economici appare solo come una concessione che nel periodo della Guerra Fredda doveva sottrarre il fondamento dell’agitazione comunista. Il “turbocapitalismo”, la cui vittoria su scala mondiale appare ormai inarrestabile, distrugge però le basi della sua esistenza: lo stato funzionante e la stabilità democratica. La velocità dei cambiamenti e la ridistribuzione del potere e del benessere erodono le vecchie unità sociali senza lasciare il tempo necessario perché si possa sviluppare un nuovo assetto. Prima ancora delle risorse ecologiche, i paesi sinora ricchi consumano la sostanza sociale che li rendeva uniti.

MODELLI

Economisti e politici neoliberisti predicano a tutto il mondo “il modello americano”, uno slogan che assomiglia in modo spaventoso alla propaganda del governo tedesco-orientale che fino alla fine voleva apprendere dall’Unione Sovietica l’arte di vincere. Ma in nessun paese il degrado sociale è più evidente di quanto non lo sia nel paese in cui nacque la controrivoluzione capitalistica, vale a dire negli Stati Uniti: proprio lì la criminalità ha assunto le dimensioni di un’epidemia. Nello stato della California -che, preso da solo, rappresenta la settima potenza economica mondiale- le spese per le prigioni superano la somma destinata alla pubblica istruzione. Sono ormai ventotto milioni, più del dieci per cento, gli americani che si sono trincerati in palazzi e in centri residenziali sorvegliati. I cittadini statunitensi spendono per i loro guardiani armati il doppio della somma destinata dal loro stato alla polizia. Anche l’Europa e il Giappone si scindono in una minoranza di vincitori e una maggioranza di perdenti. Per molte centinaia di milioni di persone il processo globalizzato non è affatto un progresso. Costoro non possono che sentirsi beffati da quella formula che i capi dei governi dei primi sette paesi industrializzati elevarono a “leitmotiv” durante il Vertice dei G7 del giugno 1996: “Impegnarsi perché la globalizzazione sia un successo per tutti”.

QUALE DEMOCRAZIA

Perciò la protesta dei perdenti colpisce i governi e i politici il cui potere reale va scemando. Che sia in gioco la giustizia sociale o la protezione dell’ambiente, che si tratti di limitare l’influenza dei media o di combattere la criminalità internazionale, da solo nessuno stato nazionale è all’altezza di affrontare questi problemi e tutti i tentativi di giungere a un coordinamento internazionale falliscono. Se però in ogni questione vitale del nostro futuro i governi non fanno altro che richiamarsi all’onnipotente natura delle cose che in un’economia transnazionale obbliga ad agire in un certo modo, allora la politica diventa uno spettacolo dell’impotenza e lo stato perde la sua legittimità democratica. La globalizzazione diventa così una trappola per la democrazia. Solo teorici ingenui e politici miopi possono credere che sia possibile privare ogni anno milioni di persone del posto di lavoro e della sicurezza sociale, cosa che si sta facendo attualmente in Europa, senza dover pagare prima o poi il prezzo politico di tutto ciò. In questa maniera le cose andranno senz’altro storte. Ciò che vale secondo la logica dell’economia aziendale adottata dagli strateghi dei gruppi di imprese non vale per le società costituite: per queste società non esiste il “surplus people”, non esiste nessun esubero di cittadini. I perdenti hanno una voce e ne faranno uso. Non c’è motivo di acquietarsi: il terremoto sociale sarà seguito da quello politico. I socialdemocratici e i cristiani impegnati nel sociale dovranno aspettare un bel po’ per celebrare qualche altro trionfo. In compenso vedremo che un numero crescente di elettori prenderà sul serio le formule stereotipate dei globalizzatori. “Non siamo stati noi, è colpa della concorrenza estera”: ecco cosa il cittadino apprende ogni due telegiornali da coloro che dovrebbero rappresentare i suoi interessi. Una volta accettato questo argomento (falso dal punto di vista economico), si passa in un baleno all’avversione manifesta per ogni elemento estraneo. Da tempo milioni di cittadini del ceto medio, disorientati, cercano la loro salvezza nell’odio per gli stranieri, nel separatismo, nella chiusura nei confronti del mercato mondiale. Gli emarginati rispondono a loro volta con l’emarginazione (…).

CORTO CIRCUITO

La società di un quinto, del “20-80”, corrisponde senz’altro alla logica tecnica ed economica seguita dai presidenti dei gruppi di interesse e dai governi che portano avanti l’integrazione globale. Tuttavia, il mondo che si mette in gara per portare al massimo l’efficienza e i salari al minimo, apre le porte all’irrazionalità. A ribellarsi non sono coloro che vivono davvero nella miseria, E’ piuttosto la paura di essere declassati a far nascere una forza politica irrompente e incalcolabile, una paura che si sta diffondendo nel ceto medio. Non è la povertà a mettere in pericolo la democrazia, ma la paura della povertà. Già una volta l’annullamento economico di tutta la politica ha scatenato una catastrofe mondiale. Nel 1930, un anno dopo il grande crollo in borsa a Wall Street, la rivista britannica “The Economist”, scrisse quanto segue: “Il più grande problema della nostra generazione sta nel fatto che i nostri successi economici sono talmente superiori ai successi politici che economia e politica non possono camminare insieme. Sul piano economico, il mondo è diventato un unico terreno d’azione. A livello politico, invece, tutto rimane spezzettato. Le tensioni tra i due processi opposti hanno provocato una serie di scossoni e crolli nella vita sociale dell’umanità”. La storia non si ripete. Non è detto che la globalizzazione sfoci in conflitti armati, ma è un’ipotesi da non scartare de non si trovano i mezzi sociali adatti per frenare le forze liberate dall’economia transnazionale. Ci sono strumenti e metodi per restituire il controllo della situazione a governi eletti democraticamente e alle loro istituzioni senza fomentare la rabbia tra le nazioni. Alla soglia del XXI secolo, il compito più nobile della politica è quello di risanare lo stato e di ristabilire il primato della politica sull’economia. Se non viene realizzato questo obiettivo, la fusione drammaticamente rapida dell’umanità ad opera della tecnica e del commercio farà esplodere ben presto le contraddizioni di tale fusione e ci sarà un corto circuito globale. Allora i nostri figli e nipoti potrebbero conservare soltanto la memoria dei magnifici Anni Novanta, quando il mondo sembrava a posto ed era possibile cambiare rotta.



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