LA FISICA NELL’ OTTOCENTO 6A: LA NASCITA E LA PRIMA AFFERMAZIONE DELLA TEORIA DI CAMPO: L’OPERA DI FARADAY E MAXWELL

Roberto Renzetti

PREMESSA

Questo lavoro è il seguito ideale di R. Renzetti, Concezioni particellari nel XVII e XVIII secolo, LFnS, XIII, 2 e 3, 1980. Diverse questioni, qui solo accennate, sono lì trattate diffusamente. In particolare: le concezioni ‘atomiche’ di Boscovich, le concezioni filosofiche alla base dell’esperienza di Oersted, l’interpretazione di Ampère di tale esperienza e l’inizio del dibattito continuità – discontinuità in una epoca in cui, a parte la teoria di Dalton (comunque estranea ai dibattiti nell’ambito della fisica), vi era ben poco che potesse essere portato a sostegno dell’una o dell’altra teoria.

L’ESPERIENZA DI OERSTED

        Nel 1820 una esperienza apparentemente innocua realizzata dal fisico danese Oersted (il quale vi lavorò per ben 9 anni, guidato dal pregiudizio del ‘conflitto di forze’ della Naturphilosophie tra i cui massimi rappresentanti vi erano Schelling e Goethe) aveva portato un grande scompiglio nella fisica. Per la prima volta, dopo più di 130 anni di rassicuranti azioni ‘rettilinee a distanza’, veniva evidenziata una azione totalmente differente: un filo conduttore, se disposto parallelamente ad un ago magnetico, vede l’ago ruotare di 90º e disporsi perpendicolarmente al filo, quando in esso viene fatta circolare corrente (si veda la fig.1). Questo tipo di azione si svolge su di un piano perpendicolare alla congiungente filo – ago e consiste in una rotazione dell’ago medesimo risultando, come dice Oersted, ‘circolare’. Oersted, nel condurre l’esperienza, muove l’ago nello spazio circostante il filo e si accorge che, se la rotazione avviene in un senso con l’ago disposto sotto il filo, essa avviene in senso opposto se si dispone l’ago sopra il filo. Per Oersted quindi, le forze magnetiche sono distribuite nello spazio che circonda il filo e, data la simmetria degli spostamenti dell’ago, conclude che le forze magnetiche sono costituite da cerchi “poiché è nella natura dei cerchi che movimenti da parti opposte debbano avere opposte direzioni” (oggi diremmo che le linee di forza del campo magnetico intorno ad un filo rettilineo percorso da corrente, sezionando il filo con un piano ad esso perpendicolare, hanno la forma di circonferenze concentriche al filo).

        Il quadro concettuale nel quale questa esperienza irrompeva era quello newtoniano che si era affermato a partire dalla scoperta della gravitazione universale (Newton, 1685). Al di là dell’aspetto matematico (proporzionalità tra masse che interagiscono e dipendenza dall’inverso del quadrato della distanza tra i loro centri), questa legge 

sottintende che:

1) l’azione tra le due masse è rettilinea, avviene cioè lungo la retta che unisce i centri delle stesse;

2) l’azione è a distanza, non ha cioè bisogno di intermediari per agire tra le due masse;

3) l’azione è istantanea, non richiede cioè tempo per propagarsi (essa si propaga quindi con velocità infinita).

        Tutto il Settecento visse sotto l’autorevole influsso di Newton e quindi alla ricerca di azioni del tipo di quelle descritte. Così John Michell nel 1750 provò a dare una stessa legge per le forze che si esercitano tra poli magnetici 

(proporzionalità tra ‘poli’ che interagiscono e dipendenza dall’inverso del quadrato della loro ‘distanza’), legge che non funziona e Coulomb ricavò (1785) la legge di forza tra cariche elettriche 

(proporzionalità tra cariche che interagiscono e dipendenza dall’inverso del quadrato della distanza tra i loro centri), legge che funziona solo a certe condizioni: cariche puntiformi, a grande distanza, …. Insomma tutti i fisici tentavano di trovare leggi alla Newton e nel far ciò avrebbero certamente disposto i loro strumenti di misura ‘tra’ i due oggetti che andavano ad interagire.

        Questo quadro interpretativo, per la verità poco fecondo, viene sconvolto dall’esperienza di Oersted che, come già detto, era un convinto sostenitore di Schelling che in particolare riteneva le forze sparpagliate dappertutto con i loro conflitti e trasmutazioni che creano il mondo.

IN FRANCIA: AMPÈRE

Subito partirono, soprattutto dalla Francia di Ampère, Biot, Savart, …, studi e ricerche che tentarono di ricondurre quella stessa azione circolare alla Oersted nell’ambito di quelle rettilinee alla Newton. Su questa strada, in tempi brevissimi si conseguirono risultati di notevole importanza. Arago osservò che un disco di rame in rotazione ha effetti su un ago magnetico; Biot e Savart dimostrarono sperimentalmente che in prossimità di un conduttore rettilineo la ‘forza’ varia in ragione inversa alla distanza; Arago scoprì che un conduttore avvolto ad elica (solenoide) agisce come un magnete; Arago (e Davy) osservarono la magnetizzazione di limatura di ferro mediante il passaggio di corrente attraverso un conduttore posto nelle vicinanze; Ampère scoprì l’azione elettrodinamica tra correnti, ricavandone una legge elementare dipendente dagli angoli che tali correnti formano tra loro (egli era cosciente del fatto che la legge da lui trovata era discutibile proprio per quella sua dipendenza da angoli e prima di morire lasciò uno scritto in cui sosteneva che il suo scopo di completa riduzione dell’esperienza di Oersted ad azioni di tipo newtoniano sarebbe stato raggiunto quando si fosse trovata una qualche legge elementare tra ‘molecole’ elettriche dipendente dalla loro velocità; la cosa fu successivamente realizzata da Weber in Germania – e la dipendenza era anche dalle accelerazioni delle molecole – ma tutto questo allontanava sempre di più da un quadro interpretativo newtoniano); sempre Ampère scoprì che una spira percorsa da corrente si comporta come un magnete elementare ed inoltre realizzò svariatissime esperienze con un apparato che ancora oggi porta il suo nome (banco di Ampère); ancora Ampère fornì una teoria del magnetismo riducendo il fenomeno a correnti elementari che costituirebbero le ‘molecole’ di materia; …

IN GRAN BRETAGNA: FARADAY

        Ben diversa fu l’accoglienza che l’esperienza di Oersted ebbe in Gran Bretagna. Nel 1821 Richard Phillips, direttore degli Annals of Philosophy, chiese al giovane assistente di Davy e suo amico, Michael Faraday, di fare, per la rivista, una rassegna storica di tutti gli esperimenti e teorie dell’elettromagnetismo che erano apparsi dopo Oersted (è opportuno a questo punto ricordare che in accordo con il riduzionismo di Ampère – magnetismo prodotto da elettricità, anche a livello di struttura ‘molecolare’ della materia – nel continente entra in uso il termine ‘elettrodinamica’; anche per sottolineare un approccio diverso al problema, in Gran Bretagna, gli stessi fenomeni sono designati con il termine ‘elettromagnetismo’).

        Ma Faraday, nel realizzare il suo lavoro, ebbe modo di ripetere molte delle esperienze che trovava descritte nella letteratura e la cui redazione non lo soddisfaceva; ebbe modo di valutare i pregi e le idee oscure di ogni singola teoria proposta; in particolare non lo convinceva la spiegazione teorica che Ampère dava dell’esperienza di Oersted. Egli, in nessun modo, riusciva a convincersi che le azioni tra filo conduttore e magnete potessero essere rettilinee, istantanee ed a distanza. L’aspetto che più lo colpiva nell’esperienza di Oersted erano gli effetti di simmetria che balzavano immediatamente agli occhi: se l’ago era disposto sotto il filo la rotazione dell’ago avveniva in un senso; sopra il filo la rotazione si realizzava in verso opposto. Su ciò concentrò il suo lavoro fino a realizzare una esperienza in cui, se possibile, le azioni circolari erano portate ad una evidenza ancora maggiore. Con l’apparato sperimentale di fig. 2, riuscì a realizzare il moto circolare di un magnete intorno ad una corrente e, simultaneamente, di un filo percorso da corrente intorno ad un magnete. L’apparato è costituito da due coppe di vetro ; all’interno delle coppe vi è del mercurio che permette la chiusura del circuito mediante un contatto strisciante (il conduttore rigido si muove mantenendo il contatto elettrico con il mercurio); i conduttori che escono da sotto le coppe sono collegati ad una batteria; quando passa corrente il magnete della coppa di sinistra ed il conduttore della coppa di destra cominciano a ruotare vorticosamente intorno, rispettivamente, al conduttore fisso ed al magnete fisso. Sarebbe stato a questo punto più difficile mettere in discussione le azioni circolari.

        Questo successo però quasi obbligò Faraday ad una pausa di riflessione. La sua preparazione in fisica, in fondo, non era pari a quella in chimica ed alla sua fantasia. Questa pausa durò 10 anni nei quali egli si occupò essenzialmente di questioni di chimica. Ma non smise mai di pensare ad un problema che continuava a girargli per la testa: se una corrente produce un effetto magnetico, anche un magnete deve produrre una corrente. Tentò svariati esperimenti, tutti con esito negativo. Finalmente, nel 1831, scoprì l’induzione elettromagnetica: un magnete mosso in prossimità di un circuito non alimentato provoca in esso il passaggio di corrente. Non si trattava di un fenomeno semplice da evidenziare: chissà quante volte Faraday aveva mosso un magnete vicino ad un circuito! Il fatto è che il fenomeno è evidente solo durante il moto relativo di magnete e circuito elettrico. Solo quando c’è una variazione di una qualche grandezza nella fase transitoria. E di questo Faraday si rese ben conto fino a progettare l’esperienza di fig. 3: all’apertura o chiusura del circuito B, mediante il tasto T, il galvanometro G segna passaggio di corrente (se in un dato verso all’apertura, in verso opposto alla chiusura). E’ la prima evidenza chiara di un nesso tra corrente elettrica, magnetismo e movimento (o variazione di una data situazione).

        Questo successo è consistente con il programma di Faraday. Egli lo sa ma sa anche che deve aggiungere altre ‘prove’, dimostrazioni, evidenze sperimentali. E’ molto difficile dalla sua posizione di chimico convincere i fisici; tanto più che ogni corporazione è felice di annoverare Faraday nel suo seno ogni volta che questi scopre qualcosa di importante ma è immediatamente imbarazzata quando ‘l’incolto’ Faraday prova a ‘teorizzare’, a trarre delle conclusioni. I fisici gli rinfacciano di essere un chimico. I chimici di essere un fisico. Ambedue sono comunque d’accordo che non è da prendere sul serio chi, come Faraday. non conosce la matematica.

        Nel 1832 il nostro intraprende una nuova serie di ricerche sperimentali con le quali si propone di dimostrare l’identità di tutti i tipi di elettricità. Qui si deve scontrare con l’elettrolisi, sulla quale lavora molto. Questo fenomeno era stato spiegato brillantemente con la teoria dell’azione a distanza, essendo i poli della cella voltaica i centri delle forze attrattive e repulsive che agiscono su ‘pezzi’ di molecole.

        Egli si sbarazzò dapprima dei poli facendo avvenire la dissociazione elettrolitica senza l’uso dei due poli che si ritenevano indispensabili. Provocò questa dissociazione con vari apparati sperimentali che si servivano di un solo polo, mostrando nel contempo l’identità dei vari tipi dei corrente, quella voltaica, quella elettrostatica, …. Nella fig. 4 (a) è rappresentato un generatore elettrostatico ad un solo polo che si scarica su strisce di carta imbevute di una soluzione salina (si provoca la decomposizione della soluzione e simultaneamente si ha flusso di corrente); nella fig. 4 (b) viene suggerito l’uso di un solo polo di una batteria voltaica per far avvenire la decomposizione in a di una soluzione salina di cui è imbevuta la striscia di carta (indicata con b) il circuito non è infatti chiuso sul polo positivo ma è interrotto nel punto e per cui Faraday fa circolare corrente riscaldando l’aria nel tratto in cui il circuito è interrotto. In ambedue questi casi non vi sono due terminali, o poli, che provocano la dissociazione della soluzione: viene così meno l’indispensabilità dei poli medesimi. Ed eliminati i poli sono eliminati i supposti centri di forza. Rimaneva il problema dei radicali liberi nelle soluzioni elettrolitiche ma Faraday riuscì a sbarazzarsene con una serie di complicate esperienze (che si possono vedere in bibl. 3 nelle pagine dall’81 all’84 ed in bibl. 2 dal paragrafo 523 al 563 e dal 661 all’874).

        Alla fine di questi lunghi e complicati lavori Faraday arrivò a sostenere che la forza elettrica si trasmette da molecola a molecola (azione a contatto) attraverso (non ancora ben precisate) linee di tensione del mezzo, che, si badi bene, interessano tutto il mezzo, il quale partecipa attivamente al fenomeno. Si tratta quindi di una azione a contatto da una molecola di Boscovich (che è stata discussa nel precedente lavoro a cui mi sono riferito all’inizio di questo) ad un’altra (1) .

LA TEORIA DI CAMPO DI FARADAY

        Negli anni seguenti, fino al 1837, studia essenzialmente fenomeni elettrolitici. E proprio nel ’37 inizia una serie di ricerche finalizzate ad evidenziare l’azione a contatto anche in elettrostatica (‘l’induzione di particelle contigue‘ come dice Faraday). L’idea che lo guidava e sulla quale voleva indagare era la seguente: se la trasmissione della forza elettrostatica dovesse dipendere dalle particelle del mezzo attraverso cui passa la forza, allora queste particelle dovrebbero esse stesse avere un qualche effetto sulla forza medesima (ad esempio: sulla capacità, sulla constante della legge di Coulomb, …) Così, con l’apparato di fig. 5 (bibl. 2, tavola IX e paragrafi dal 1194), si mise ad indagare quali effetti provocava l’introduzione di dielettrici differenti (dapprima gas, quindi liquidi e solidi) nella parte compresa tra le due sfere di figura. La prima importante scoperta che ne conseguì fu che quando nello spazio tra le due sfere (i due elettrodi) si disponeva un dielettrico e la differenza di potenziale si manteneva constante, della carica elettrica affluiva sul dielettrico originandone la polarizzazione. Nel far questo Faraday definì la constante dielettrica relativa e fornì, quindi, un metodo per distinguere isolanti da conduttori in base alla proprietà delle relative molecole di rimanere polarizzate o meno. Egli può quindi concludere che, come nel caso elettrochimico, l’energia coinvolta nel processo la si ritrova nel mezzo esistente tra le cariche elettrostatiche “ed è un’azione di particelle contigue del dielettrico, messe in uno stato di polarità e tensione ed in mutua relazione mediante le loro forze in tutte le direzioni” inoltre, prosegue, “l’intera azione … non si esercita meramente lungo linee qualunque che possono essere concepite attraverso il dielettrico tra la superficie inducente e quella indotta” (bibl. 2, paragrafi 1223 e 1231). Anche qui, quindi, Faraday si sbarazza dei supposti poli ed a questo punto introduce il concetto di linee di forza (“un temporaneo modo convenzionale di esprimere la direzione lungo cui agisce la forza nei casi di induzione“), dando una immagine mediante esse di quanto trovato, afferma che queste ultime si fanno più fitte nel dielettrico quando lo sottoponiamo all’azione di una forza elettrica. Ed aggiunge che le stesse forze elettriche sono originate da uno stato di tensione delle linee di forza (‘lo stato elettrotonico’) (2) ribadendo quindi con maggior forza che i fenomeni elettrostatici risiedono nel mezzo interposto piuttosto che nei supposti poli.

        Altre prove che in quell’anno e nel successivo Faraday portò a sostegno dell’azione a contatto furono:

1) nei fenomeni elettrolitici gli elettrodi si ricoprono interamente delle sostanze decomposte; questo fatto non può essere in alcun modo spiegato con l’azione a distanza; in quest’ultimo caso, infatti si dovrebbero ricoprire solo quelle parti degli elettrodi che risultano affacciate tra loro;

2) la stessa cosa vale per i fenomeni elettrostatici: quando infatti avviciniamo un bacchetta ad una sfera per caricarla mediante induzione, se poniamo un elettrometro nella zona d’ombra della sfera (cioè: dietro la sfera, dalla parte opposta della bacchetta), questo segna la presenza di carica indotta anche in quella parte di spazio che, secondo la teoria dell’azione a distanza, non sarebbe in alcun modo raggiungibile.

        Le conclusioni che Faraday ne trasse sono che le azioni si propagano per linee curve originate dallo stato elettrotonico dello spazio in tensione che sottopone a sforzo le molecole interposte. E’ quindi un effetto di volume sulle molecole che ne provoca la disposizione su linee curve lungo, appunto, le linee di forza.

        A questo punto Faraday dovette sospendere le sue ricerche per ben 7 anni. Gli sforzi continui ai quali si era sottoposto gli procurarono un collasso. Gli anni di riposo gli permisero di meditare ed egli, nel 1844, riprese l’attività con il lavoro A Speculation Touching Electric Conduction and the Nature of Matter (bibl. 2, pagg. 850/855), nel quale espose con una certa completezza ed una buona dose di coraggio la sua teoria di campo. Dopo aver criticato, con argomentazioni di carattere sperimentale, la teoria atomica di Dalton (che andava per la maggiore), egli passò ad esporre il suo punto di vista, a partire dalla sua adesione ai punti atomi di Boscovich. Questi atomi vengono pensati da Faraday come punti inestesi circondati da una atmosfera di forza (sull’evolvere delle concezioni di atomo, molecola, corpuscolo, …  in Faraday, si può vedere bibl. 16). Egli giustificò ciò affermando che “noi conosciamo e studiamo le forze in ogni fenomeno del creato, mentre l’astratta materia in nessuno; per quale ragione dunque dovremmo assumere l’esistenza di ciò che non conosciamo, che non possiamo concepire e di cui non vi è nessuna necessità filosofica?“. Passò quindi a descrivere la differenza tra la concezione atomistica classica e la sua: con atomi classici “una massa di materia è costituita da atomi e da spazio interposto“, con atomi di Boscovich “la materia è presente ovunque e non vi è nessuno spazio interposto non occupato da essa“. E così continuò a fornire la sua concezione di materia e spazio: “Senza dubbio i centri di forza variano nella loro distanza reciproca, ma quella che è la vera e propria materia di un atomo tocca la materia dei suoi vicini. Quindi la materia sarà continua ovunque, e quando consideriamo una massa di essa non dobbiamo pensare alcuna distinzione tra i suoi atomi e gli spazi interposti. Le forze intorno ai centri danno loro le proprietà di atomi di materia; e sempre queste forze, quando molti centri sono raggruppati in una massa dalle loro forze attrattive, danno ad ogni parte di quella massa la proprietà di materia“.

        Quindi niente più materia ma forze che, dove hanno una ‘densità’ maggiore forniscono la sensazione di materia. Di conseguenza niente più atomi e vuoto, ma continuità ovunque. Sarà poi la disposizione peculiare dell’atmosfera di forza intorno ai centri che permetterà al punto atomo di avere particolari comportamenti fisico – chimici (lo renderà cioè o polare, o magnetico, o come si vuole). L’articolo così prosegue: “Gli atomi possono essere concepiti, anziché completamente duri ed inalterabili, come estremamente elastici … Ed in questo modo … la materia e gli atomi di materia saranno mutuamente compenetrabili“, e, in accordo con quanto qui sostenuto, Faraday rese conto del legame chimico pensando ad una mutua compenetrazione delle atmosfere di forza di due o più punti atomi. La conclusione dell’articolo è ancora più interessante perché contiene tutti gli elementi per gli ulteriori sviluppi modellistici della teoria di campo: “Questa concezione della costituzione della materia sembrerebbe condurre necessariamente alla conclusione che la materia riempie tutto lo spazio o, almeno, tutto lo spazio a cui si estende la gravitazione (includendo il Sole ed il sistema solare); poiché la gravitazione è una proprietà della materia dipendente da una certa forza, ed è questa forza che costituisce la materia.In questa concezione la materia non è solo mutuamente compenetrabile, ma ciascun atomo si estende, per così dire, attraverso l’intero sistema solare, pur conservando il proprio centro di forza”.

        Si può ben intendere come tutto ciò non abbia nulla a che vedere con tutti gli sviluppi della fisica newtoniana nelle scuole continentali. E’ veramente una rivoluzione di pensiero di enorme portata. Ma non ancora completa. Proprio le ultime parole dell’articolo in discussione riportano le questioni che ancora rimanevano in sospeso: “quali relazioni questa ipotesi avrebbe con la teoria della luce e del supposto etere“. Anche se Faraday diceva che non aveva alcuna intenzione di investigare ciò, certamente la cosa gli premeva ma, come suo costume, gli occorreva una base sperimentale per poter avanzare una qualunque ipotesi o modello esplicativo. Di questi argomenti fino ad allora non si era occupato mai. Ma proprio nel 1845 egli dette il via ad un’altra grande serie di ricerche sperimentali dal titolo significativo, anche se molto oscuro On the Magnetization of Light and the Illumination of Magnetic Lines of Force (bibl. 2, pagg. 595/632). Per la verità uno stimolo importante gli era venuto dal giovane fisico William Thomson, futuro Lord Kelvin (1824 – 1907). Quest’ultimo aveva intravisto la possibilità di formalizzare sia le linee di forza che lo ‘stato elettrotonico’, pertanto invitava Faraday, con una lettera, ad evidenziare questo stato con ulteriori esperimenti. Per paradossale che possa apparire, come osserva Percy Williams, Thomson era portato a pensare che proprio dal punto di vista sperimentale le idee di Faraday fossero un poco carenti. Così Faraday intraprese questo nuovo sforzo che ben presto lo portò a nuovi, clamorosi risultati. Il primo tra questi è quello che va sotto il nome di polarizzazione rotatoria magnetica (o Effetto Faraday) e consiste nella rotazione del piano di polarizzazione della luce quando quest’ultima attraversa certe sostanze (nell’esperienza originale: vetro al borato di piombo) immerse in un campo magnetico. Ecco dunque un fenomeno che connette magnetismo con fenomeni luminosi!

        Questo grosso risultato rese più ferme le convinzioni di Faraday sulla costituzione di spazio e materia in base a linee di forza, non come modello, ma con una precisa realtà fisica. E nel 1846 pubblicò un altro lavoro (Thoughts on Ray-vibrations – bibl. 11) di carattere speculativo nel quale completò. perfezionò e rafforzò il precedente del 1844. In esso si ribadiva quanto sostenuto nel primo ma si aggiungevano importanti considerazioni sulle linee di forza come sede delle azioni che si propagano nello spazio con la velocità della luce: fatto, quest’ultimo, che farebbe cadere definitivamente la necessità di supporre l’esistenza dell’etere. Scriveva Faraday:

” Il considerare la materia [come fatto nel precedente articolo] mi indusse gradualmente a guardare le linee di forza come probabile sede delle vibrazioni dei fenomeni radianti. Un’altra considerazione, che porta ugualmente all’ipotetica idea di coesistenza di materia e radiazione, nasce dal confronto delle velocità con cui l’azione radiante e certe forze della materia vengono trasmesse … Si è mostrato mediante gli esperimenti di Wheatstone, che la velocità dell’elettricità è grande come quella della luce, se non più grande”.

        E qui egli riesce ad intravedere che un modo per mettere in evidenza l’eventuale identità tra luce e fenomeni elettromagnetici è il confrontarne le relative velocità. Ma come si propagherebbe la radiazione? ” La mia concezione … considera la radiazione come una importante specie di vibrazione nelle linee di forza che uniscono tra loro particelle ed anche masse di materia. La mia concezione fa a meno dell’etere ma non delle vibrazioni” che da vari risultati sperimentali devono essere vibrazioni laterali e cioè trasversali.

        Poste queste premesse Faraday passa subito ad attaccare l’azione istantanea a distanza: “ La propagazione della luce e quindi probabilmente di tutte le azioni radianti, occupa tempo; e, affinché una vibrazione della linea di forza possa spiegare i fenomeni radianti, è necessario anche che una tale vibrazione occupi tempo“.(3) Ed in questo modo di considerare i fenomeni radianti, per Faraday, svaniva ogni necessità di far ricorso all’etere; in luogo di esso ci sono ora “ le forze dei centri atomici che permeano e costituiscono tutti i corpi, oltre a penetrare tutto lo spazio” ed in definitiva solo linee di forza permeanti tutto lo spazio.

        Certo che il problema dell’etere non era così semplice da essere trattato e soprattutto risultava strabiliante un suo accantonamento apparentemente così banale quando generazioni di fisico – matematici si erano accanite ad interpretarlo e matematizzarlo. Egli era comunque cosciente che occorreva indagare ancora soprattutto per fornire prove più decisive sulla realtà fisica delle linee di forza. Nei lavori che seguirono egli scoprì e teorizzò le sostanze ferromagnetiche, paramagnetiche e diamagnetiche; su questa strada ebbe modo di chiarirsi meglio le idee sulle linee di forza magnetica fino ad arrivare alla convinzione che: ” le linee di forza magnetica possono rassomigliare ai raggi di luce, al calore, ecc., e possono trovare difficoltà nel passare attraverso i corpi ed essere influenzate da essi allo stesso modo della luce”.

        Questa indagine sulle linee magnetiche di forza proseguì con una serie di lavori sperimentali del 1851 e 1852. Intanto, mediante un semplice circuito esploratore (un filo conduttore connesso con un galvanometro mosso vicino ad un magnete), era riuscito a rilevarne l’esistenza: si tratta di linee curve, continue e chiuse, senza poli né centri di azione; esse esistono sia nello spazio circostante il magnete che nel magnete stesso. E così Faraday scriveva: ” dentro il magnete vi sono linee di forza esattamente uguali in forza e quantità a quelle fuori di esso, ma con direzione opposta …Ed in effetti ciascuna linea di forza è una curva chiusa, che in qualche parte del proprio percorso passa attraverso il magnete cui essa appartiene ” ed aggiungeva ” io propendo a considerare il mezzo esterno al magnete come altrettanto essenziale per il magnete: è esso infatti che collega l’una all’altra le polarità esterne per mezzo di linee di forza curve e fa si che esse non possano essere altro che curve“. Per rendere conto di ciò Faraday paragona un magnete ad una cella voltaica immersa in un qualunque elettrolita. Tolto l’elettrolita la cella voltaica diventa un contenitore inerte. Solo quando il mezzo esterno permette il passaggio dell’elettricità, la cella diventa un centro di forze elettriche. Così è per il magnete in cui lo spazio esterno mette in relazione l’un l’altra le polarità esterne con linee di forza curve. In definitiva, ancora una volta Faraday ribadisce la sua convinzione di forza che non può esistere senza un mezzo e proprio in questo deve essere ricercata (e non nel corpo da cui suppostamente è originata). Questo mezzo è costituito da linee di forza ed ha solo la capacità di trasmetterle: quindi niente etere, che in questa visione diventa puramente accessorio, ma spazio identificato con materia.

        Uno degli ultimi lavori di Faraday (On Some Points of Magnetic Philosophy, bibl. 2, pagg. 830/847), nel quale, ancora con un accanimento ed una passione di tutto rispetto, tentò di convincere i suoi contemporanei dell’erroneità della teoria dell’azione a distanza, è del 1855. Questo lavoro affronta il tema del campo in termini di conservazione dell’energia (che in quegli anni si era affermata con diversi e vari contributi e particolarmente con il lavoro di Helmholtz del 1847, Über die Erhaltung der Kraft , Sulla conservazione della forza) ed in esso si sostiene la necessità del campo perché altrimenti si arriverebbe all’assurdo di creazione o annichilamento di energia. Secondo la teoria di Newton, egli argomentava, due corpi che si attraggono (Sole e Terra, ad esempio) devono essere considerati separatamente come inerti, cioè a ciascun corpo non deve essere associata alcuna forza. Se ora facciamo interagire i due corpi essi si attraggono a seguito del fatto che si sarebbe creata nello spazio tra i due quella forza che li tiene uniti (si ricordi che l’azione alla Newton è istantanea e a distanza). Se invece tolgo uno dei due corpi che stanno interagendo annichilo una forza che precedentemente li teneva uniti. Questi fatti paiono assurdi e l’unico modo per spiegarli è ammettere l’ipotesi che ciascuno dei due corpi abbia una preesistente forza (oggi diremmo energia) che lo circonda e questa forza si diparte da questo corpo pervadendo l’intero spazio. Due corpi che si attraggono sono allora due corpi che fanno interagire le loro preesistenti linee di forza (i loro campi). Su questi argomenti ed in particolare sulla gravitazione, tema per lui di sommo interesse ma sul quale non era in grado di sperimentare, Faraday tornò ancora nel 1857 sostenendo che “se la forza agisce nel tempo ed attraverso lo spazio, essa deve allora agire mediante linee fisiche di forza” e che la gravità “non risiede semplicemente nelle particelle della materia … ma in tutto lo spazio… essendo solo la parte residua delle altre forze della natura“. L’ultimo lavoro sperimentale di Faraday è del 1862, appena 5 anni prima della sua morte. Egli tentò, senza riuscirvi, di scoprire l’effetto di un campo magnetico sulle proprietà della luce. La strumentazione di cui disponeva non era all’altezza dello scopo che Faraday si prefiggeva; 35 anni più tardi, con strumenti molto più sofisticati, il fenomeno ricercato da Faraday sarà trovato da Zeeman (1865 – 1943) ed oggi va sotto il nome di ‘effetto Zeeman’.

        Come già accennato comunque, le nuove idee che Faraday avanzava erano spesso giudicate con scetticismo, se non con aperta ostilità, da parte di molti suoi contemporanei. Ma egli le portò avanti fin dove il contesto teorico e gli apparati sperimentali glielo permisero. Indubbiamente si erano trovati numerosissimi fenomeni che era impossibile ricondurre allo schema interpretativo del meccanicismo e, al di là degli sforzi che comunque si facevano per farlo, emergeva evidente una insufficienza della fisica newtoniana. La resistenza al superamento delle vecchie concezioni si rafforzava anche perché i nuovi fatti sperimentali e l’interpretazione teorica complessiva che Faraday ne aveva dato, non avevano trovato una rappresentazione modellistica chiara ed una formalizzazione corrispondente che fornisse loro quella ‘dignità scientifica’ che le stesse vecchie concezioni avevano. Faraday non era in grado di fare ciò.

JAMES CLERK MAXWELL

        Nel 1855 il giovane fisico scozzese James Clerk Maxwell (1831 – 1879) iniziò ad occuparsi di elettromagnetismo. Egli disponeva dell’elaborazione matematica del metodo delle ‘analogie’ sviluppato da W. Thomson (2); conosceva bene i contributi di Weber all’elettrodinamica; conosceva la matematica di Green e Stokes; aveva studiato Helmholtz e la sua cinematica dei fluidi ed aveva, naturalmente, ben presente l’opera di Faraday. L’iter lungo cui si sviluppa il complesso della teoria del campo elettromagnetico di Maxwell è segnato da 3 memorie fondamentali e dal famoso Treatise on Electricity and Magnetism (bibl. 15) del 1873.

        La prima delle memorie di Maxwell, On Faraday’s Lines of Force (bibl.12), è un riconoscimento di difficoltà che un ricercatore incontra nel voler formalizzare la scienza elettrica. Questo ricercatore ha a disposizione, da una parte, la gran mole di risultati sperimentali che vengono continuamente sfornati e, dall’altra, la necessità di familiarizzarsi con una gran quantità di matematica molto complessa “ la cui sola memorizzazione già di per sé interferisce materialmente con altre ricerche“. È quindi necessario, secondo Maxwell, trovare nuovi metodi di lavoro. Uno di questi è proprio quello delle analogie che Thomson aveva introdotto (questo metodo permette di ottenere idee fisiche senza adottare teorie fisiche). Il fatto che colpiva Maxwell era, da una parte, la completa diversità di due fenomeni come il moto uniforme del calore in un mezzo omogeneo (dove sembra esservi un’azione a contatto da particella a particella) e l’azione a distanza e, dall’altra, l’identità formale delle leggi matematiche che descrivevano i due fenomeni: basta solo sostituire sorgente di calore con centro di attrazione, temperatura con potenziale, … Con questo apparato concettuale egli mostrò che alle concezioni di Faraday era possibile applicare gli stessi metodi matematici con i quali erano state trattate la teoria dell’elasticità e l’idrodinamica. (le equazioni differenziali alle derivate parziali). Ma ciò che fa un poco pensare è il fatto che una matematica nata per la descrizione di fenomeni punto per punto riesca a descrivere una azione a distanza (sembra che anche la matematica dia una mano al superamento delle differenze tra azioni a distanza ed a contatto).

        La seconda memoria di Maxwell, On Physical Lines of Force (bibl. 13), presenta un insieme di analogie e modelli meccanici a sostegno delle idee di Faraday che, quasi certamente, lo stesso Faraday avrebbe respinto. Le linee di forza non sono più una mera rappresentazione di come le forze del campo sono distribuite; esse assumono ora un carattere fisico. Si tratta di linee immerse in un fluido elastico, l’etere) sottoposto ad uno stress, ad uno stato di sforzo proprio per il fatto di trovarsi situato tra due polarità. La linea di forza viene allora pensata come una corda tesa, cioè in tensione, su cui si esercitano delle pressioni laterali, perpendicolari e di uguale intensità. In accordo con Thomson, è come il moto vorticoso di un fluido che nel suo realizzarsi espande il fluido nella zona equatoriale, mentre lo contrae ai poli (si pensi alla forma fusiforme di una tromba d’aria) per effetto delle forze centrifughe. In definitiva (fig. 6) si tratta di vortici che si avvitano intorno alle linee di forza, che nascono con un

piccolo diametro da un determinato polo e, dopo essersi dilatati lungo il cammino, muoiono sull’altro polo con lo stesso piccolo diametro di partenza. Questo modo di vedere le cose permette intanto di dare una spiegazione del carattere dipolare delle linee di forza: il verso di rotazione di un vortice è opposto se osservato dalle due estremità del suo asse. Ciò comportava però la rotazione nello stesso verso per vortici relativi ad una determinata espansione polare (fig. 7, in cui sono rappresentati in sezione più vortici consecutivi; i punti centrali sono le sezioni relative delle linee di forza). Era una difficoltà. Infatti parti di vortici contigui devono annullare il loro moto nei punti di contatto perché in questi punti il moto si realizza in direzioni opposte.

        Ma se questa è da una parte una difficoltà, dall’altra, sembra costruita ad arte perché il suo superamento permette a Maxwell, con una ulteriore elaborazione del modello meccanico, di rispondere alle domande che egli stesso si poneva: “Cos’è una corrente elettrica?” o, che è lo stesso, ” Come può una concezione a vortici implicare una corrente?“. È così che egli introduce le ‘ruote inattive’, uno strato di ‘particelle’ mobili in modo tale da trasferire il moto da vortice a vortice senza interferire con il moto stesso (fig. 8).

        In condizioni normali queste particelle sono effettivamente inattive, rotolando senza attrito con i vortici, quando invece vi è uno sforzo prodotto sul campo esse si trasferiscono da una parte all’altra, cominciando ad esercitare attrito con i vortici con la conseguente nascita dei fenomeni della resistenza elettrica e della produzione di calore. E tutto ciò in accordo con la conservazione dell’energia. In definitiva le ruote inattive esercitano un triplice ruolo: da una parte trasmettono il moto da vortice a vortice3; dall’altra il loro moto di traslazione costituisce la corrente elettrica; da ultimo le pressioni tangenziali così messe in gioco rappresentano la forza elettromotrice. E così tutti i fenomeni elettromagnetici noti trovano una spiegazione mediante questo modello meccanico (riportato, come da Maxwell stesso disegnato, in fig. 9 a. Si noti che un tale modello aveva caratteristiche meccaniche talmente spinte che O. Lodge, su suggerimento di Maxwell, lo esemplificò in un suo lavoro come in fig. 9 b).

        Nella fig. 9 (a) i vortici di etere sono schematizzati come esagoni (il segno + all’interno di un dato vortice indica la sua rotazione antioraria mentre il segno – la sua rotazione oraria; si noti che nel disegno il verso di qualche freccia è errato). La corrente era costituita da quello strato di particelle esistente tra vortice e vortice e, nel disegno, essa fluiva da A a B. Nella fig. 9 (b) è rappresentato un modello in cui i vortici di etere sono sostituiti da ruote dentate che, a seconda del loro verso di rotazione, determinano il verso di spostamento dell’asta dentata (la corrente!).

        Di modelli meccanici di questo tipo ne vennero ideati molti ad opera di Maxwell, Boltzmann e W. Thomson (già Lord Kelvin). Ad esempio, le correnti indotte scoperte da Faraday sono così spiegate nel modello di Maxwell: l’effetto che la corrente ha sul mezzo che la circonda è far sì che i vortici in contatto con le correnti ruotino in modo che le parti vicine ad essa si spostino nella sua stessa direzione mentre le parti più lontane ad essa lo facciano in senso contrario. Se il mezzo è conduttore, con la conseguenza di ‘particelle’ che si possano muovere in qualunque direzione, quelle che sono in contatto con la periferia di questi vortici si muoveranno in senso contrario alla corrente, di modo che esisterà una corrente indotta in senso opposto alla prima. Inoltre, quando una corrente elettrica o un magnete si muove in presenza di un conduttore si altera la velocità di rotazione dei vortici di modo che essi cambiano di posizione e di forma originando una forza; questa forza costituisce la forza elettromotrice del conduttore in moto relativo. In questo modo di vedere, c’è la scoperta di Faraday che le correnti sono originate da variazioni del campo magnetico. Questo modello rendeva poi conto di come potesse avvenire il fenomeno inverso: se le ruote inattive (la corrente) cominciavano a spostarsi attraverso il sistema, si modificavano le forme dei vortici e ciò vuol dire che ad una corrente elettrica si accompagna una variazione dei vortici e quindi del campo magnetico. Qui incontriamo una delle principali scoperte di Maxwell che verrà in seguito convenientemente elaborata: variazioni nel campo elettrico devono originare un campo magnetico e viceversa. Unendo questo risultato con le evidenti considerazioni che Maxwell fa sull’esistenza di un qualche mezzo materiale nel quale la meccanica dei vortici possa aver luogo si comincia a delineare l’ulteriore passo che Maxwell fa nell’elaborazione della teoria elettromagnetica, l’esistenza di onde elettromagnetiche. Ma andiamo con ordine. Il campo, esistente ad esempio intorno ad un magnete, deve prevedere intorno a sé vortici e ruote inattive. Dove si costruiscono vortici se c’è il vuoto? Un qualche mezzo, sia esso di materia ordinaria o di un qualche etere con particolari proprietà dovrà riempire lo spazio in cui si sviluppa il campo. Le caratteristiche di questo supposto etere dovranno essere tali da rendere conto dei fatti sperimentali: da una parte esso dovrà essere estremamente sottile (non lo percepiamo immediatamente) e dall’altra, per spiegare la velocità con cui si propagano le perturbazioni del campo elettromagnetico, denso come l’acciaio (è di interesse notare che queste azioni, nel modello di Maxwell non possono che essere a distanza). Ebbene, se si crea una perturbazione in un dato punto dello spazio muovendo, ad esempio, un magnete vicino ad una corrente, questa perturbazione nei vortici e nelle ruote inattive non c’è motivo che resti localizzata tra magnete e corrente, essa dovrà via via propagarsi attraverso l’etere in tutto lo spazio (teoricamente all’infinito) circondante il sistema magnete – corrente.

        Che si tratti di una teoria azzardata è evidente, tanto più se si pensa che nessuna teoria dell’elettricità e del magnetismo fino ad allora sviluppate prevedeva una tal cosa, l’esistenza di perturbazioni (onde) propagantesi nello spazio.

        Nell’ultima parte di questa sua memoria Maxwell torna all’analogia di Thomson tra mezzo in cui si costruiscono vortici (e ruote inattive) e sostanze elastiche. Il mezzo nel quale si propagano le perturbazioni deve essere dotato di elasticità allo stesso modo che lo è un ordinario corpo solido solo che di valore differente. L’elasticità del mezzo è poi di estrema utilità per la spiegazione dei fenomeni elettrostatici. Questa supposta elasticità del mezzo faceva introdurre a Maxwell un concetto che avrà enorme importanza negli sviluppi successivi, quello di spostamento elettrico. Qui Maxwell si riallacciava direttamente a Faraday ed in particolare alle sue ricerche sui dielettrici ed alla scoperta della loro polarizzazione. Dice Maxwell:

“Possiamo pensare che l’elettricità che risiede in ogni molecola sia spostata in modo tale che una estremità di essa divenga positiva e l’altra negativa. L’effetto di questa azione sull’intera massa del dielettrico è quello di produrre uno spostamento generale dell’elettricità in una data direzione. Questo spostamento non giunge al livello di una corrente perché quando ha raggiunto un certo valore rimane constante, tuttavia è l’inizio di una corrente e le sue variazioni costituiscono correnti di direzione positiva o negativa, a seconda che lo spostamento aumenti o diminuisca”.

        Questa elasticità del mezzo, che forniva a Maxwell l’analogia per i suoi sviluppi matematici, è anche estesa al mezzo esterno, allo spazio, all’etere elettromagnetico. Ed in definitiva le azioni elettromagnetiche hanno sede in un mezzo elastico ma, con che velocità si propagano? La risposta a questa domanda da parte di Maxwell rappresenta la prima formulazione della teoria elettromagnetica della luce. Facendo i conti sulla velocità di propagazione di una perturbazione (oggi diremmo: onda) elettromagnetica nel mezzo elastico etere, considerando la relazione esistente tra la corrente di spostamento e la forza che la produce e deducendo da questa la relazione esistente tra misure statiche e dinamiche dell’elettricità, egli trovò che:

“la velocità delle ondulazioni trasversali nel nostro mezzo ipotetico, calcolata a partire dagli esperimenti elettromagnetici di Kohlrausch e Weber (4) , si accorda in modo tanto esatto con la velocità della luce calcolata a partire dagli esperimenti di Fizeau, che noi non possiamo quasi fare a meno di concludere che la luce consiste nelle ondulazioni trasversali del medesimo mezzo che è causa dei fenomeni elettrici e magnetici”.

        Ecco quindi che con poche parole si avanza una ipotesi rivoluzionaria: l’ottica sparisce per diventare un capitolo dell’elettromagnetismo. E tutto ciò a partire da una successione di azzardate ipotesi concatenate nel modo visto. Se si confronta il continuo impegno di Faraday nel cercare di eliminare dalla fisica enti inutili, con le innumerevoli ipotesi ‘ad hoc‘ di Maxwell e con il suo dotare l’etere, già rifiutato da Faraday, di innumerevoli proprietà meccaniche e di meccanismi tanto utili al calcolo quanto artificiosi, ci si rende conto della profonda differenza esistente, non tanto tra i due, quanto tra due diverse generazioni di ricercatori, tra due epoche diverse per sollecitazioni esterne, tra l’essere filosofo naturale e scienziato di professione.

LE EQUAZIONI DI MAXWELL

        Come già trattato nel precedente articolo (6), arriviamo così alla terza memoria di Maxwell della fine del 1864. Si tratta della ponderosa A Dynamical Theory of the Electromagnetic Field (bibl. 14). Mentre nella precedente memoria Maxwell aveva elaborato il modello meccanico che abbiamo descritto e che gli era servito per chiarirsi le idee e per mettere a punto il calcolo con l’ausilio delle analogie cui abbiamo accennato, ora egli abbandona il modello meccanico, si serve solo dell’etere e si occupa esclusivamente dei fenomeni elettromagnetici in quanto tali per sottoporli al calcolo. Questo lavoro contiene tutti i principali risultati che egli aveva precedentemente ottenuto e può essere considerato come la prima formulazione completa, dal punto di vista analitico, della teoria del campo elettromagnetico e della teoria elettromagnetica della luce. Le proprietà di questo campo sono descritte da 20 equazioni generali. Lo stesso Maxwell, all’inizio della memoria, annunciava che la sua era una teoria dinamica nel senso che si serve di materia in moto nello spazio per rendere conto dei fenomeni elettrici e magnetici. Essa riguarda essenzialmente lo spazio circostante i corpi elettrizzati o magnetizzati che3 dovrà essere riempito di un mezzo (permeante anche i corpi) in grado di essere posto in moto e di trasmettere quel moto da una parte all’altra con grande ma non infinita velocità. Questo etere ha una natura elettromagnetica ma poiché ha le stesse proprietà (elasticità, densità, …) di un etere ottico, può essere identificato con esso (è interessante notare che le proprietà dell’etere elettromagnetico Maxwell le assegnava a priori in modo che esso avesse poi avuto le caratteristiche che si richiedevano, ad esempio, per trasportare vibrazioni trasversali ad una data velocità). Vi sono infine le questioni energetiche. Per Maxwell l’energia è localizzata in tutto lo spazio ed è tutta di natura meccanica: egli considera un etere costituito da una enorme quantità di piccolissime cellule che, all’interno di un campo magnetico, ruotano tutte nello stesso verso attorno ad assi paralleli alle linee di forza. Così Maxwell può affermare che “l’energia cinetica di questo movimento vorticoso non differisce dall’energia magnetica …[e], in ogni punto del dielettrico sottoposto ad un campo, si accumula una energia che, nel modello, è elastica, ma che in realtà non è altro che energia cinetica” (bibl. 10, pag. 219). Egli considera quindi l’energia elettrica come energia potenziale meccanica e l’energia magnetica come energia cinetica di natura meccanica (bibl. 6, pag. 184). E, come già detto, questa energia meccanica – elettromagnetica risiede in tutto lo spazio e, in particolari condizioni, si può propagare sotto forma di onde elettromagnetiche. Il mezzo, l’etere, si può polarizzare in virtù della sua elasticità e quando è polarizzato è in una condizione di accumulo di energia potenziale (elettrica) che ridarà, sotto forma di energia cinetica (magnetica), quando lo sforzo cesserà. In definitiva la propagazione di onde elettromagnetiche nello spazio è dovuta alla trasformazione continua di una di queste forme di energia nell’altra e viceversa, e, istante per istante, l’energia totale nello spazio è ugualmente divisa tra energia potenziale (elettrica) e cinetica (magnetica). È quanto oggi sappiamo: si originano onde elettromagnetiche ogniqualvolta ci si trovi in presenza di una variazione o di un campo elettrico o di un campo magnetico (è interessante notare che la connessione tra materia e moto avrà importanza per Maxwell anche nello sviluppo di altri contributi che egli dette alla fisica, come nella teoria cinetica dei gas).

        È certo che con questa terza memoria Maxwell si sbarazza di quel grande ingombro che erano vortici e ruote inattive. Rimane però un etere con caratteristiche quasi materiali che Faraday non avrebbe mai condiviso. Allo stesso modo però a Maxwell non andava giù quella interconnessione di materia e forza che Faraday assumeva dalla tradizione romantica.

        A questo punto della sua attività scientifica, Maxwell voleva ricapitolare e mettere in bell’ordine il complesso dei suoi lavori elettromagnetici. Si ritirò nella sua casa di campagna (1865) dove la sua principale occupazione fu la compilazione del Treatise on Electricity and Magnetism (bibl. 15) che vide la luce nel 1873, sei anni prima della prematura scomparsa dello stesso Maxwell (aveva 48 anni). Il lavoro è ora sistematico ed i contributi di Maxwell si mescolano con quelli di altri autori risultando addirittura compressi e non esaltati. Sulla strada della terza memoria, Maxwell abbandona del tutto i modelli meccanici affidandosi al solo etere al quale sembra assegnare una realtà fisica. Egli tralascia molti dei procedimenti che lo avevano guidato sulla strada della scoperta delle sue equazioni del campo elettromagnetico. La deduzione di queste equazioni è puramente analitica a partire dalle equazioni fondamentali della meccanica nella forma che ad esse aveva dato Lagrange. Paradossalmente in questo modo di operare sparisce la meccanica stessa che diventa, in definitiva, una teoria eminentemente matematica, elaborata con Green, Stokes ed Hamilton. L’elettromagnetismo diventa quindi una meccanica dell’etere e, come lo stesso Maxwell affermava, “l’integrale è l’espressione matematica adeguata per la teoria dell’azione a distanza tra particelle, mentre l’equazione differenziale è l’espressione appropriata per una teoria dell’azione esercitata tra particelle contigue di un mezzo“. L’elaborazione matematica di Maxwell, anche qui, arriva alle 20 equazioni che descrivono il comportamento del campo elettromagnetico (si osservi che il numero di queste equazioni verrà ridotto a 9 da Hertz ed a 5 da Lorentz, 4 provenienti dalla teoria di Maxwell ed una rappresentante la Forza di Lorentz).

        In definitiva, secondo la teoria di Maxwell, una perturbazione elettromagnetica (ad esempio una carica che acceleri) si propaga in tutto lo spazio sotto forma di onde elettromagnetiche. L’esistenza di tali onde rimane quindi un’ipotesi nella teoria: la conferma o la confutazione di essa metterà alla prova l’intera teoria in un vero e proprio experimentum crucis. Riguardo la velocità di tali onde valgono ora le stesse considerazioni che Maxwell aveva fatto nella sua seconda memoria: esse si muovono con la velocità della luce e quindi la luce è un’onda elettromagnetica.. Vale però la pena di ricordare che tutto l’impianto maxwelliano è basato sull’ipotesi di esistenza di un mezzo, l’etere, in cui avessero sede le perturbazioni; questo etere era inoltre meccanicamente indispensabile. Allora, con Maxwell, se dell’energia viene trasmessa da un corpo ad un altro nel tempo, ci deve essere un mezzo o sostanza in cui l’energia esiste dopo aver lasciato un corpo e prima di raggiungere l’altro. Se si ammette questo mezzo come ipotesi è evidente che esso dovrà diventare oggetto preminente delle future ricerche sperimentali.

        Due quindi erano le questioni che Maxwell lasciava ad una verifica sperimentale: l’esistenza di onde elettromagnetiche e l’esistenza di un etere che le sostenga. Oltre a ciò le sue equazioni non soddisfacevano da un punto di vista euristico poiché non risultano simmetriche come le equazioni della dinamica e poiché erano state ricavate con grande disinvoltura matematica (come quando, osserva Rosenfeld, dovendo ricavare la velocità di propagazione di un’onda elettromagnetica, egli si dimentica di un fattore 1 diviso la radice di 2 , trovando poi il valore corretto per essa con ulteriori manipolazioni dettate dal risultato che sapeva di dover trovare. Su questo punto si veda bibl. 7).

        Come già accennato Maxwell scomparve nel 1879. Nel 1880 veniva pubblicata postuma su Nature una sua lettera a D.F. Todd. In questa lettera, tra l’altro, suggeriva un modo per poter accertare sperimentalmente la presenza del supposto etere attraverso la misura della velocità della luce in un tragitto andata – ritorno che la stessa avrebbe dovuto percorrere in direzione parallela al moto della Terra intorno al Sole (qui l’effetto del supposto etere sarebbe stato del 2º ordine nel rapporto v/c, con v velocità della Terra e c velocità della luce).

        L’accoglienza a queste teorie non fu della più entusiasta. L’unico fatto, e non da poco, che riconciliava il mondo dei fisici era che, in definitiva, Maxwell si era servito di un mezzo meccanico, l’etere, ed aveva unificato in una mirabile sintesi i fenomeni dell’elettricità, del magnetismo e dell’ottica. Ma, al di là dell’accoglienza dei contemporanei, è certamente vero che la sua teoria in sé e nei molti punti in cui era logicamente indeterminata apriva ad una grossa mole di lavori sperimentali che non tardarono a prodursi particolarmente ad opera di Hertz e Michelson.

NOTE

1) Più in generale è utile, a questo punto, soffermarsi su alcuni termini fin qui utilizzati e non compiutamente spiegati: atomi, atomi o molecole di Boscovich, molecole, punti atomi, punti inestesi, particelle,… Quando ho usato (od userò ) tali termini l’ho fatto perché in quel momento quello è il termine che utilizza Faraday. Egli non ha ancora le idee molto chiare sulla costituzione della materia (solo più avanti in due memorie, che discuterò, del 1844 e del 1846, avanzerà una sua teoria). È comunque in difficoltà: deve comunicare con un linguaggio vecchio dei concetti nuovi (è un poco lo stesso problema che aveva avuto Volta con ‘conduttori di prima e seconda classe‘, con ‘catene aperte‘ o ‘catene chiuse‘). Si può comunque ed in linea di massima dire che egli aderisce alle concezioni di Boscovich che prevedono una materia costituiti da atomi intesi come punti matematici circondati da atmosfere di forza (bibl. 16). Si osservi comunque che le concezioni di Faraday, quando si saranno precisate, differiscono almeno in un punto estremamente importante da quelle di Boscovich. Mentre quest’ultimo mantiene la distinzione newtoniana tra materia e forza, per Faraday esistono solo forze (bibl. 1, pagg. 73/80).

2) Lo ‘stato elettro-tonico‘ viene introdotto da Faraday, con le solite cautele, nel 1831, al par. 60 di bibl. 2. Al par, 71 egli afferma ” questo peculiare stato è come se fosse uno stato di tensione, e può essere considerato come equivalente ad una corrente elettrica, almeno uguale a quella prodotta quando si crea o si annulla una induzione”. Dice D’Agostino (bibl. 4, pag. 18) “è come se vi fosse una membrana elastica in tensione nelle vicinanze di un corpo elettrizzato e specialmente di un magnete. Alle variazioni della tensione dello stato elettrotonico Faraday collegava lo scatenarsi di correnti indotte che si hanno nelle vicinanze di un magnete in movimento“. Questo stato somiglia un poco a ciò che più oltre Maxwell chiamerà ‘corrente di spostamento’. Nel 1846, in analogia ai fenomeni dell’elasticità, W. Thomson introdusse un vettore A (‘spostamento elastico’) legato all’induzione magnetica B dalla relazione rot A = B (questo vettore A non è altro che il potenziale vettore già introdotto da Neumann, Weber e Kirchhoff). Fu Maxwell (1855) che chiamò A intensità elettrotonica ed interpretò la relazione di Thomson nel senso che “l’intera intensità elettrotonica che circonda ogni superficie misura il numero delle linee magnetiche di forza che passano attraverso quella superficie” e, poiché la forza elettromotrice indotta è data dalla derivata parziale, rispetto al tempo, cambiata di segno del vettore A, Maxwell afferma che la f.e.m. “di ciascun elemento di conduttore è misurata dall’istantanea percentuale di variazione dell’intensità elettrotonica su quell’elemento” (citazioni da bibl. 5, pag. 244). Oltre a quella accennata Thomson sviluppò altre analogie: tra la teoria del potenziale di Laplace e Poisson e quella del flusso di calore nel caso stazionario; tra forze elettriche propagantesi da particella a particella contigua e calore; tra fenomeni magnetici e stati di sforzo di un corpo elastico sottoposto a deformazione (usando la matematica di Stokes e Green).

3) Faraday era cosciente che l’unico modo per affermare sperimentalmente la teoria di campo sarebbe stato il mostrare che la propagazione delle linee di forza nello spazio avviene in un tempo finito (la curvatura delle linee di forza non era un argomento in sé probante). I suoi Diari, a partire dal paragrafo 1342, sono una drammatica testimonianza del suo progettare e non riuscire a realizzare esperimenti in proposito. Queste pagine dei Diari sono anche prova del metodo e della enorme abilità del nostro nell’inventare esperienze a sostegno di una determinata teoria.

4) Weber (1804 – 1890) aveva trovato una formula che rendeva conto delle azioni che si esercitavano tra cariche in moto (costituenti cioè delle correnti). In questa formula compariva un parametro c che rappresentava il rapporto tra l’unità elettrostatica e l’unità elettrodinamica di carica. In accurate misure per determinare il valore di c, Weber e Kohlraush trovarono per esso il valore di 3,11.10 (elevato alla decima) cm/sec, coincidente con quello che, negli stessi anni, era stato trovato da Fizeau e da Foucault per la velocità della luce in esperienze di natura completamente diversa (ottica). Questa coincidenza fu notata da Weber ma egli, nel contesto in cui si muoveva, non dette molta importanza alla cosa.

BIBLIOGRAFIA

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6 – C. DE MARZO – Maxwell e la fisica classica – Laterza, 1978.

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10-R. TATON (a cura di) – Storia generale delle scienze (vol. 3º) – Casini, 1966.

11-M. FARADAY – Thoughts on Ray-Vibrations – Phil. Mag. S.3, Vol. 28, 188, 1846.

12-J. K. MAXWELL – On Faraday’s Lines of Force – Trans. Cambr. Phil. Soc., 10, 1856.

13-J, K. MAXWELL – On Physical Lines of Force – Phil. Mag. , 21, 23, 1861 e 1862.

14-J. K. MAXWELL – A Dynamical Theory of the Electromagnetic Field – Roy. Soc. Trans. , 155, 1864.

15-J. K. MAXWELL – Treatise on Electricity and Magnetism – Clarendon Press, Oxford 1873.

16-R. RENZETTI – Concezioni particellari e di campo nella prima metà del XIX secolo. L’opera di Michael Faraday – Nota interna nº 656 (19/12/1975) dell’Istituto di Fisica dell’Università di Roma.



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