Debbo fare una premessa alle cose che leggerete. Sapete tutti quanto rispetto e considerazione si debba per una delle più grandi tragedie del ‘900, la Shoah. Leggendo in altre pagine del sito potrete trovare ogni rifiuto. Purtroppo, forse è una mia sensazione, la grande e giusta attenzione alle vergogne contro gli ebrei, ha messo in ombra altri razzismi, altre persecuzioni contro “razze”, religioni, ideologie. Il nazifascismo ha costellato di crimini il secolo e gli ebrei non sono stati i soli nel mirino e neppure il gruppo etnico maggiormente colpito in termini percentuali (mi rendo conto che è orrendo fare il contabile della morte), dico questo solo perché si sappia che la barbarie si è scagliata con estrema violenza con ogni insieme di persone ritenuta diversa e/o nemica.
E’ anche utile dire che, mentre per gli ebrei si trova abbondante documentazione, per altri gruppi di perseguitati è più difficile. In ogni caso non vuole questa essere una ricerca storica ma solo un contributo perché poi, chi ne abbia voglia, possa seguire a ricercare e capire.
Ciò che riporterò ora sono articoli e documenti che riguardano persecuzioni, deportazioni e massacri di: zingari (rom), omosessuali, testimoni di Geova, disabili, …, comunisti. Anche qui solo piccole spiegazioni, ogni commento mi sembra del tutto superfluo.
http://www.istitutoresistenza-ge.it/Documenti/rom_olocausto.html
Rom: Uno sterminio dimenticato.
Durante la seconda guerra mondiale venne perpetrato, ad opera dei nazisti una violenta persecuzione nei confronti degli zingari. La persecuzione divvene ben presto deportazione e sistematico sterminio.
Accanto agli ebrei, gli zingari vennero perseguitati perché appartenenti ad un gruppo ritenuto “inferiore” e per il quale il Terzo Reich prospettò “la soluzione finale”. Quello nazista fu il periodo più tragico per un popolo che dalla sua comparsa in Europa (probabilmente attorno al XV secolo) conobbe sempre l’esclusione, gli editti di allontanamento e la persecuzione. Al processo di Norimberga contro i criminali nazisti, l’olocausto zingaro venne praticamente dimenticato e ancora oggi sono rari i lavori e le manifestazioni che lo ricordano.
Un secolo tragico
L’ inizio del ventesimo secolo fu un periodo tragico per gli Zingari. Se per alcuni aspetti rappresentò un periodo di progresso, per altri fu il teatro di tragedie immani.
La prima metà del Novecento, che vide due guerre mondiali e molti conflitti fra gli stati europei, fu caratterizzata da periodi di gravi crisi nella società, alimentate spesso da ideologie di tipo nazionalistico.
Gli zingari, da sempre ai margini, divennero ben presto vittime, assieme alle molte altre minoranze, delle nuove idee che s’imponevano ai cittadini europei. La terribile persecuzione razziale subita durante la seconda guerra mondiale fu la conseguenza del giudizio che la società europea aveva maturato sul loro conto nel corso dei secoli. Fu, quello zingaro, ‘olocausto di un popolo, mai nazionalista, mai rivendicatore di territori e risorse, mai aggressivo verso altri popoli, sempre presente nella società europea
Verso i campi di sterminio
Dopo diversi studi ad opera del dottor Ritter e della sua collaboratrice Justin, volti a dimostrare “l’irrecuperabilità della razza zingara”, nel 1938, tutti gli Zingari vagabondi furono raccolti nei campi “d’abitazione” per facilitare il loro controllo. Dal 1939 venne istituito “l’Ufficio centrale per la lotta alla piaga zingara, ad opera dello stesso Himmler .
In seguito fu emesso un mandato di cattura per tutti gli individui di sangue “misto” che si trovavano nel Reich con l’obbligo di trasferirli in campi di concentramento (tra i quali quello di sterminio di Auschwitz). Eichmann sulla “questione zingara” scrisse: “mi pare che il metodo più semplice sia quello agganciare a ciascuna tradotta di ebrei qualche vagone di zingari”.
Lo sterminio scientifico
Un medico delle SS affermò: “Abbiamo rilevato che la razza zingara non si lascia trasformare. Il nostro compito può essere solo di prendere in considerazione il problema zingaro nella sua totalità , e di regolarizzare alla radice la loro presenza in Germania”.
La sterilizzazione , si disse, è “necessaria per impedire il propagarsi di generazioni asociali e criminali”.
Himmler (capo delle S.S.e responsabile del programma attuato nei campi di concentramento ) diede l’ ordine di sterminare tutti gli zingari, eccetto gli abili al lavoro e alcune coppie di gemelli di eta’ compresa tra 5 e 12 anni, utili per inumane sperimentazioni .
Testimonianze dai lager
Ad Auschwitz vi era un campo interamente composto da Zingari ,moltissimi erano bambini.
Alcuni testimoni raccontano: “Il blocco dei bambini nei lager degli zingari non era molto diverso da quello degli adulti .Ma vedere come essi fossero ridotti era una cosa che spezzava il cuore …La bocca era smangiata dalle ulcere del noma , i loro corpi erano sciolti dalla dissenteria …
La sete e la fame erano i più grandi tormenti ; essi si scambiavano le ultime razioni di pane per un bicchiere d’acqua inquinata …Di notte strisciavano per raggiungere di nascosto le tinozze con l’acqua per lavare i piatti, e, la ingurgitavano tutta”.
I numeri dello sterminio.
Sono rare le ricerche sulla soluzione finale del problema zingaro. I più noti sono i lavori di Donald Kenrich e Grattan Puxon che vengono riportati qui sotto. Nell’Italia fascista non si creò una “questione zingara” come nella Germania nazista, tuttavia dal 1940 gli zingari vennero internati in campi (Agnone, Tossicia, Tremiti) e da testomonianze si sa che i fascisti collaborarono con i tedeschi nella deportazione. Da ricordare, per la sua efferatezza, il regime ustascia in Croazia, dove nel solo campo di Jasenovac vennero sterminati 40000 Rom.
Gli inquirenti incaricati di predisporre gli atti di accusa del processo di Norimberga, contro i criminali nazisti, non sono riusciti a valutare con precisione l’entità del massacro: sicuramente più di 500.000 zingari scomparsero nei vari campi di concentramento nazisti. Nello stesso processo vennero spese soltanto poche parole per l’ olocausto che segnò profondamente l’intero popolo zingaro.
Paese | Popolazione zingara prima del 1938 | Popolazione zingara deceduta nei lager nazisti |
Austria | 11200 | 6500 |
Belgio | 600 | 500 |
Boemia | 13000 | 6500 |
Croazia | 28500 | 28000 |
Estonia | 1000 | 1000 |
Francia | 40000 | 15000 |
Germania | 20000 | 15000 |
Olanda | 500 | 500 |
Ungheria | 100000 | 28000 |
Lettonia | 5000 | 2500 |
Lituania | 1000 | 1000 |
Lussemburgo | 200 | 200 |
Polonia | 50000 | 35000 |
Romania | 300000 | 36000 |
Slovacchia | 80000 | 1000 |
URSS | 200000 | 30000 |
Serbia | 60000 | 12000 |
Italia | 25000 | 1000 |
Dati tratti dal libro “Il destino degli zingari” di Donald Kenrick – Grattan Puxon
Edizioni RIZZOLI .
Tutti questi dati potrebbero risultare enormemente inferiori alle cifre reali, se si rendesse disponibile altra documentazione per il momento chiusa in molti archivi europei.
Chi racconterà il dolore ?
TRE FRATELLI
Erano tre fratelli
cresciuti insieme
si abbracciavano, si amavano.
Ma non presentivano
che cosa sarebbe avvenuto di loro.
Un fratello di notte
hanno portato nel lager.
Sono rimasti due fratelli
speravano che tornasse.
Ed essi cantano la canzone
della sua lontananza.
Tre fratelli uno dietro l’altro
fusi in un essere solo
divisi per sempre
lontano uno dall’altro.
Rasim Sejdic (poeta zingaro)
SONO RIMASTO IN BILICO
Sono rimasto in bilico
sulla lama di un coltello
Sono rimasto gelato come la pietra.
Il mio cuore tremò
son caduto sul filo del coltello
M’è rimasta la mano destra
e l’occhio sinistro
ho versato lacrime
ad Auschwitz dove sono rimasti gli Zingari
La lacrima è scesa
la mano ha preso la penna
per scrivere parole qualunque.
Rasim Sejdic (poeta zingaro)
http://www.romacivica.net/anpiroma/deportazione/deportazionezingari2.htm
LO STERMINIO DEGLI ZINGARI DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE
di Giovanna Boursier
in Studi Storici 2, aprile-giugno 1995 anno 36
Durante la seconda guerra mondiale vennero uccisi oltre 500.000 zingari, vittime del nazionalsocialismo e dei suoi folli progetti di dominazione razziale. La storia dello sterminio degli zingari è una storia dimenticata e offesa dalla mancanza di attenzione di storici e studiosi: ancora oggi la documentazione risulta frammentaria e la relazione dei fatti lacunosa. Eppure l’argomento dovrebbe suscitare interesse anche solo per il fatto che la persecuzione degli zingari in epoca nazista risulta essere l’unica, ovviamente con quella ebraica, dettata da motivazioni esclusivamente razziali: proprio come gli ebrei, infatti, gli zingari furono perseguitati e uccisi in quanto « razza inferiore» destinata, secondo l’aberrante ideologia nazionalsocialista, non alla sudditanza e alla servitú al Terzo Reich, ma alla morte.
Ma proprio questo è il nodo centrale del problema. Per molto tempo dopo la guerra, infatti, lo sterminio nazista degli zigani non è stato riconosciuto come razziale ma lo si è considerato conseguenza – in un certo senso anche ovvia – di quelle misure di prevenzione della criminalità che, naturalmente, si acuiscono in tempo di guerra. Una tesi che trova fondamento nella definizione di « asociali» con la quale, almeno nei primi anni del potere hitleriano, gli zingari vengono indicati nei vari ordini e decreti che li riguardano. Come sappiamo, però, la terminologia nazista non è sempre esplicativa dei fatti: in questo caso il termine « asociale» viene usato per indicare coloro che, per diverse ragioni, non sono integrabili o omologabili col nuovo ordine nazionalsocialista. Gli stessi ebrei nei primi tempi venivano deportati e registrati come « asociali» . È sulle ragioni di questa « asocialità» che bisogna indagare.
In realtà, e va precisato fin d’ora, gli zingari furono perseguitati, imprigionati, seviziati, sterilizzati, utilizzati per esperimenti medici, gasati nelle camere a gas dei campi di sterminio, perché zingari e, secondo l’ideologia nazista, « razza inferiore» , indegna di esistere. La pericolosità – o asocialità – zigana non era, infatti, assimilabile a quella degli altri individui perseguitati per ragioni di ordine pubblico. Gli zingari erano geneticamente ladri, truffatori, nomadi: la causa della loro pericolosità era nel loro sangue, che precede sempre i comportamenti.
1. Quella che i nazisti chiamarono « questione zingara» è presente fin dai primi anni del potere hitleriano.
In realtà, già prima dell’ascesa al potere del nazismo, e non solo in Germania, ma in tutta Europa, esisteva una legislazione sugli zingari orientata – in generale – prima al controllo e all’identificazione degli individui presenti sul territorio, poi alla loro omologazione e assimilazione. Nella Germania guglielmina e nella Repubblica di Weimar – analogamente a ciò che accadrà durante i primi anni del regime nazista – la « questione zingara» era affidata quasi esclusivamente alle autorità di polizia locali col compito, sostanzialmente, di far rispettare regole e doveri: gli zingari dovevano lavorare e smettere la vita nomade. Le leggi, inoltre, imponevano loro di possedere carte di identificazione particolari e permessi di soggiorno o sosta in determinati luoghi, concessi a un numero limitato di persone1.
La persecuzione nazista degli zigani si inserisce quindi in una storia di discriminazioni lunga secoli, che però, vorremmo sottolineare, solo nell’ambito della teoria e della conseguente prassi del potere nazionalsocialista poté trovare espressione tanto radicale e violenta.
Bisogna anche tener presente che in Germania era particolarmente viva e radicata quella corrente di pensiero che si potrebbe definire « razziale» , che dalle elaborazioni teoriche neoromantiche di fine Ottocento sfociava in quelle piú dichiaratamente volkisch di De Gobineau o di Houston Steward Chamberlain, impregnandosi di esaltazione nazionalpatriottica e misticismo, fino a definire il völk tedesco come popolo eletto, portatore di una missione purificatrice della razza o, piú in generale, dell’intera umanità.
Con l’avvento del nazismo fu semplice, ma essenziale, la congiunzione di teoria e prassi politico-legislativa.
Numerosi scienziati, medici, avvocati, legislatori, professori universitari, si posero al servizio del Reich per elaborare e soprattutto giustificare teorie e atti della politica razziale nazionalsocialista. In base all’assunto per cui esistevano razze superiori e razze inferiori, le prime con il diritto/dovere di dominare e annientare le altre, al Terzo Reich, e alla persona del Führer in particolare, venne affidato il compito supremo di purificazione del mondo.
Fra le razze inferiori, da sempre – e, se vogliamo, erroneamente anche dal punto di vista assurdo dei razzisti2 – quella zingara.
Dal 1934 il ministero degli Interni finanziava e coordinava quelli che venivano chiamati Centri di igiene razziale e ricerca genetica, nei quali la « questione zingara» veniva affrontata con particolare attenzione. In quest’ambito un importante punto di riferimento divenne subito il Servizio informazioni sugli zingari, un centro fondato nel 1899 a Monaco da uno zelante funzionario statale, Alfred Dillmann. Non solo tutto il materiale, tra cui numerose schedature degli zingari presenti sul territorio, venne immediatamente prelevato dai nazisti e utilizzato per identificare migliaia di persone, ma, nel giro di pochi anni, l’istituto fu ribattezzato Ufficio centrale per la lotta alla piaga zingara e trasferito a Berlino.
Nel campo delle ricerche genetico-razziali sugli zingari si distinse il dottor Robert Ritter, psichiatra e neurologo di Tubinga. Ritter e i suoi collaboratori arrivarono a sostenere la presenza di fattori genetici che condizionavano l’esistenza zigana. Eva Justin, assistente del Ritter, dopo aver esaminato 148 bambini zingari abbandonati in orfanotrofio, elaborò addirittura una teoria sulla presenza nel sangue zingaro del gene del Wandertrieb, « l’istinto al nomadismo» , segnando cosí il destino di migliaia di persone3.
Fin dal 1935 Ritter dichiarava che « gli zingari risultano come un miscuglio pericoloso di razze deteriorate […] che ha ben poco a che fare con gli zingari originari» ed esplicitava il suo progetto, quello di realizzare ricerche genealogiche e classificazioni razziali su tutti gli zingari presenti in Germania, calcolati intorno alle 30.000 persone. A questo scopo, nel 1936, fondò il massimo istituto nazista per la « questione zigana» , nel 1937 annesso al ministero della Sanità come Centro di igiene razziale e di ricerche politico demografiche, con sede a Berlino, che, incessantemente, fino al 1944, ottenne consistenti finanziamenti e massima disponibilità sia da parte della Società tedesca per la ricerca, sia del ministero degli Interni. Dopo i primi anni di lavoro, nel 1940, Ritter scriveva: « la questione zingara potrà considerarsi risolta solo quando il grosso di questi ibridi zigani, asociali e fannulloni […] sarà radunato in campi di concentramento e costretto al lavoro, e quando l’ulteriore aumento di queste popolazioni sarà definitivamente impedito» ; e nel 1943 annotava che « il numero di casi chiariti dal punto di vista della biologia razziale raggiunge attualmente 21.498» .4
Nel passaggio dalla teoria alla prassi, una delle prime ipotesi formulate per la soluzione della « questione zigana» era stata, in linea con analoghi trattamenti destinati alle razze considerate « nocive» al Reich tedesco, quella di intervenire mediante sterilizzazione coatta di tutta la popolazione zigana, cosí da impedirne l’ulteriore riproduzione.
È ciò che Poliakovdefinisce 5 « genocidio mediante gli ostacoli alla fecondazione» , una sorta di sterminio dilazionato nel tempo. Come è noto, nell’ambito della metodica e scientifica programmazione dello sterminio nazista, la sterilizzazione rappresentava un metodo di annullamento lento ma sistematico di intere popolazioni, dilazionato nel tempo ma ugualmente sicuro: milioni di individui castrati avrebbero costituito un esercito di lavoratori definitivamente inoffensivi e morti in potenza.
Lo stesso Ritter mentre proponeva, per risolvere la « questione zingara» , la reclusione e il lavoro forzato, specificava la necessità di preventiva sterilizzazione di tutti gli individui, in particolare dei bambini appena avessero compiuto il dodicesimo anno di età.
Nel 1938 Tobia Portschy, governatore della Stiria, spediva alla cancelleria del Führer un memorandum sull’argomento in cui esplicitamente sottolineava la necessità di sterilizzare gli zingari prima di deportarli in campi di lavoro. Due anni dopo, il 24 gennaio 1940, il segretario di Stato del ministero degli Interni scriveva alla polizia criminale del Reich: « Io resto del parere che una soluzione finale del problema zingaro possa essere raggiunta solo attraverso la sterilizzazione di essi e dei loro ibridi» . 6Anche Himmler raccomandava di sterilizzare in massa i ragazzi zingari al compimento dei 12 anni.
Uno dei primi accenni scritti alla sterilizzazione degli zingari risale al 1937, quando la rivista « Reichsverwaltungsblatt» pubblicò un articolo dove si affermava che il 99% dei bambini zigani di Berleburg risultava maturo per la sterilizzazione.
Durante il processo su Auschwitz sono emerse le prove della responsabilità diretta di un certo dr. Lucas nella sterilizzazione di zingari e zingare a Ravensbrück, dove risultano essere state sterilizzate oltre 120 ragazze. Ancora nel 1945, ad Auschwitz, il professor Clauberg sterilizzò circa 130 zingare appositamente trasferite in quel lager.
Si può quindi dire che la sterilizzazione degli zingari fu largamente praticata durante tutti gli anni del nazismo, prima negli ospedali, poi nei campi di concentramento. Molti zingari vennero effettivamente sterilizzati, spesso costretti all’alternativa (che poi non era affatto tale) tra sterilizzazione e internamento: esiste una documentazione abbastanza ampia su casi di donne zingare costrette a firmare le autorizzazioni all’intervento, la stessa documentazione utilizzata dopo la guerra come alibi dai responsabili7.
A mano a mano che i nazisti istituzionalizzavano e perfezionavano la loro macchina razziale, anche il « problema zingaro» si definiva assumendo dimensioni proprie, specificate, piú o meno direttamente, nei vari decreti e circolari emanati a getto continuo nel Terzo Reich.
Nelle leggi di Norimberga gli zingari non sono esplicitamente menzionati, ma sono compresi tra coloro che vengono definiti di sangue « misto e degenerato» . Nel commentario a queste disposizioni, del 1936, Globke e Stuckart indicano infatti esplicitamente gli zingari tra coloro che devono essere sottoposti alle leggi di Norimberga, scrivono che « in Europa portatori di sangue straniero sono solo ebrei e zigani» e precisano che le leggi riguardanti i mezzi ebrei devono essere applicate anche agli altri mischlings(misti) cioè ai mezzi zingari.
Nel giugno 1936 una circolare del ministero degli Interniaffida 8 la « lotta contro la piaga zingara» direttamente alle autorità di polizia, sollecitate a provvedere per la soluzione della questione: si chiede che attraverso leggi speciali e « particolarmente attraverso strumenti polizieschi» si operi concretamente sul problema. È in questo momento che iniziano le deportazioni.
Le prime sono documentate a Dachau dove giunge un trasporto di circa un centinaio di zingari. Nello stesso anno, con lo scopo di « ripulire» la città di Berlino in occasione dei giochi olimpici, 600 zingari vengono confinati a Marzahn – un’ex discarica dove le condizioni di sopravvivenza risultano preoccupanti per le stesse autorità -, che poco tempo dopo verrà dichiarato ufficialmente campo di concentramento. Nel 1937, su pressione diretta del partito nazista, viene istituito anche il campo per zingari di Frankfurt am Main9.
La corrispondenza tra le diverse autorità del Reich rivela inoltre che tra il 1933 e il 1939 quasi tutti i sindaci, le autorità di pubblica sicurezza e gli amministratori locali si preoccupano di sollecitare le autorità centrali per « la costruzione di campi di concentramento per zingari» , o per « l’erezione di nuovi campi di lavoro per zingari» .
Un po’ ovunque, quindi, gli zingari vengono radunati in luoghi particolari, non necessariamente recintati ma controllati a vista dalla polizia, sottoposti al lavoro forzato, quasi senza cibo, esposti al freddo, al gelo e alla morte continua.
Nonostante si possa affermare che i provvedimenti contro gli zingari vengono regolati già nel 1936 e poi lungo il corso del 1937, è vero che gli zingari in questo periodo rientrano ancora fondamentalmente nella categoria dei cosiddetti « asociali» : come tali, però, non fanno parte della comunità tedesca, nemmeno quando non dimostrano alcun comportamento criminale.
I presupposti istituzionali per un’azione unificata e centralizzata contro gli zingari in quanto tali vengono esplicitati da Himmler, che, nominato capo della polizia tedesca al ministero degli Interni nel giugno del 1936, in breve tempo rende la « questione zingara» centrale nell’ambito della politica razziale del Reich.
Il 16 maggio 1938, infatti, Himmler annette la Centrale del Reich per la lotta alla piaga zingara all’Rkpa di Berlino, cioè alla Centrale della polizia criminale del Reich. È un atto significativo: in questo modo la questione del « disordine zingaro» viene sottratta alla giurisdizione dei singoli Länder e delle autorità locali e posta sotto il controllo diretto della polizia criminale del Reich. La centralizzazione segna la fine della precedente prassi poliziesca tendente ad eliminare gli zingari dalla propria zona di competenza, e affida la questione ad enti con la possibilità di applicare procedure di tipo sistematico. Dal 1939 sarà istituita anche una sezione della polizia criminale col compito peculiare di « combattere la piaga zingara» , che estenderà nuovamente tutti i compiti alle autorità locali, ma con lo scopo, questa volta, di intensificare le persecuzioni.
Il 1938 è un anno cruciale per la storia dello sterminio degli zingari, come lo è per quella degli ebrei, perché è un anno cruciale per il Terzo Reich: quello della notte dei cristalli, dell’Anschluss, della conferenza di Monaco.
L’8 dicembre 1938 Himmler emana un decreto fondamentale sulla « questione zingara» , che riassume e rende esplicite tutte le direttive precedenti. È la prima legge contro gli zingari in quanto tali. Si intitola, appunto, Lotta alla piaga zingarae 10 stabilisce che, in base all’esperienza realizzata e alle conoscenze desunte dalle ricerche biologico-razziali, la questione va « considerata una questione di razza» . La distinzione tra « zingari puri» , « meticci zingari» e « vagabondi» implica la necessità di « determinare l’appartenenza razziale di ogni zingaro sul territorio del Reich» , affinché sia poi possibile affidare il problema alle autorità competenti. Queste ultime sono l’Ufficio centrale per la sicurezza dello Stato (Rsha), il ministero degli Interni e, in particolare, l’Rkpa, al quale spetta, in ultima istanza, decidere di qual « tipo» di individuo si tratti.
Se questa legge chiarisce molto bene che la « questione zingara» è considerata una « questione di razza» , le successive istruzioni del marzo 193911 servono a indicare gli atti da compiere: il censimento di tutta la popolazione zingara sul territorio, un’inchiesta di biologia razziale su ogni individuo e, di seguito, l’assegnazione di un certificato delle autorità del Reich nel quale siano indicati, attraverso colori diversi, l’appartenenza alla razza zingara e il grado di miscuglio razziale dell’individuo in questione.
Il 17 ottobre 1939 12l’Rsha (Ufficio principale per la sicurezza dello Stato) in una lettera urgente ( Schnellbriefe), ordina, sottolineando lo scopo di « una soluzione imminente della “questione zingara” su tutto il territorio del Reich» , di schedare e quindi confinare tutti gli zingari in determinati luoghi dai quali è proibito loro allontanarsi. Nello stesso ordine si scrive già di campi di internamento per zingari, loro approntamento, trasporto e vettovagliamento13. È, in pratica, la premessa della deportazione.
Il ritmo degli arresti degli zingari tedeschi si intensifica: alla fine del mese di ottobre è documentato l’arresto di un centinaio di « cartomanti» , considerate da Himmler una minaccia concreta per il morale della nazione14.
Si stanno attivando i meccanismi della deportazione di massa degli zingari, tanto è vero che in una lettera di Eichmann del 16 ottobre 1939, in risposta a Nebe che gli chiedeva chiarimenti sull’organizzazione dei trasporti di zingari, egli scrive: « mi pare che il metodo piú semplice sia quello di agganciare a ciascuna tradotta [di ebrei] qualche vagone di zingari» .15
Se poi il programma non viene immediatamente realizzato ciò è dovuto piú agli avvenimenti concomitanti (scarsità di convogli e precedenza data alla deportazione degli ebrei) che alla mancanza di volontà. Il 30 gennaio 1940, Heydrich, in una riunione a Berlino, ribadisce che « dopo i due movimenti di massa (ebrei e polacchi), l’ultimo riguarderà lo smaltimento di circa trentamila zingari dal Reich […]» . Pochi mesi dopo l’Rsha vieta il rilascio di zingari già detenuti in carcere o in campi di concentramento e crea, al proprio interno, un apposito ufficio, denominato prima IV-D4, poi IV-A4, per la deportazione di ebrei, zingari e polacchi, affidato ad Eichmann16.
A completare il quadro il 27 aprile 1940 quando, in riferimento allo Schnellbriefe dell’ottobre precedente, Himmler promulga un ulteriore decreto e ordina la deportazione di 2.500 zingari dalle zone di confine del Reich al governatorato generale17: « Il primo trasferimento di zingari in direzione del governatorato generale sarà effettuato alla metà del mese di maggio con 2.500 persone raggruppate per clan» . Di seguito si indica il numero di persone che ogni comando di polizia locale deve raccogliere, dando la precedenza a coloro che risultano già schedati o, come recita il vocabolario nazista, « censiti» ; si precisa che la cifra di 2.500 persone non deve essere in nessun caso innalzata o abbassata e che, se necessario, si ricorrerà alla deportazione di altri zingari dai territori vicini.
Alcuni studiosi hanno sostenuto che queste deportazioni erano motivate da ragioni militari, di sicurezza e ordine, perché gli zingari praticavano lo spionaggio. Ciò sarebbe in aperta contraddizione proprio con l’indicazione delle cifre, dovuta invece alla disponibilità di convogli e alle necessità del Reich. Tali indicazioni numeriche, quindi, possono piuttosto suffragare l’ipotesi di un progetto preciso sulla « questione zingara» e della sua messa a punto che per il momento prevedeva questo e non altro. Del resto, in vista dell’imminente campagna dell’Est, non è casuale nemmeno l’indicazione dei luoghi della deportazione: 1.000 persone dalla zona Bremen/Hamburg, altre 1.000 da Dusseldorf, Koln e Hannover e 500 dalla regione di Frankfurt am Main/Stuttgard.
Le deportazioni ebbero inizio a maggio e si svolsero piú o meno secondo i piani, anche se furono necessari trasporti supplementari. Sulla sorte dei deportati si sa qualcosa: alcuni arrivarono in Polonia e furono rilasciati dalle autorità del luogo che non sapevano cosa fare, altri furono imprigionati in campi di raccolta o in ghetti, sotto il controllo delle Ss, come a Belzec, Radom, Kielce, Kryckow, e utilizzati per il lavoro forzato, molti proseguirono verso i campi di sterminio, altri ancora vennero uccisi nelle esecuzioni sommarie di massa compiute dalle Ss in tutti i territori occupati.
Con la fine dell’anno la deportazione degli zingari verso la Polonia cessa e le motivazioni sono di vario ordine: la scarsità dei convogli; le continue rimostranze delle autorità polacche per l’enorme numero di prigionieri affluiti; il fatto che la schedatura degli zingari non fosse ancora terminata; la necessità di approntare un piano dettagliato sulla loro sorte. Soprattutto, questa pausa nelle deportazioni di zingari, è motivata dalla necessità di dare assoluta precedenza a quelle degli ebrei: le loro case servivano infatti per il piano di ripopolamento tedesco delle zone polacche, affidato da Hitler ad Himmler nell’ottobre del 1939.
La prima politica di deportazione degli zingari diventa cosí di lungo termine. Restano i campi di concentramento già esistenti e gli zingari già imprigionati.
Contemporaneamente vari elementi introducono ed evidenziano i presupposti della « soluzione finale» per gli zingari: il 7 agosto 1941 Himmler promulga una circolare che stabilisce le etichette biologiche degli zingari suddividendoli in Z (zingari puri), ZM+ (nati da matrimoni misti con oltre il 50% di sangue zingaro), ZM (con uguale percentuale di sangue tedesco e zingaro), ZM-.18
Gli zingari vengono anche definitivamente assimilati agli ebrei nell’annullamento dei diritti personali, con provvedimenti che riguardano la loro espulsione dalle scuole tedesche, il divieto di sposare cittadini tedeschi, il loro esonero dalla carriera militare, l’esclusione dall’assistenza medica e dalla retribuzione festiva per i lavoratori, peraltro già congedati dalle fabbriche belliche o da altri impianti di interesse strategico.
Con l’attacco all’Unione Sovietica si evidenzia e si fa sempre piú violenta la politica di sterminio. Facendo delle esecuzioni di massa il loro metodo principale, le Einsatztruppen e le truppe di occupazione intensificano la loro campagna di morte contro gli zingari anche in Russia, negli Stati balcanici e in tutto l’Est.
All’inizio del 1941 un trasporto di 5.007 zingari arriva nel ghetto Lodz: quasi tutti i prigionieri muoiono durante l’inverno per un’epidemia di tifo petecchiale, e i superstiti, nel gennaio dell’anno successivo, vengono trasferiti a Chelmno e qui gasati.
Gli zingari vengono perseguitati e imprigionati anche negli altri territori conquistati e occupati dai nazisti: Francia, Belgio, Olanda, Jugoslavia, Italia. Vengono deportati nei campi di concentramento, costretti al lavoro forzato, uccisi, se non dal freddo o dall’inedia, dalle Ss. Il 31 luglio 1942, ad una richiesta da parte delle autorità polacche circa il comportamento da tenere verso gli zingari, il ministero per i Territori occupati dell’Est risponde che per il momento valgono le stesse regole date per gli ebrei.
Il 1942 rappresenta un altro momento cruciale di questa storia. Nel giro di un anno la Germania, che aveva raggiunto l’apice della potenza e della politica di dominazione, deve rivedere i propri piani, mentre la tendenza della guerra si inverte. È in quest’ambito, ancora contraddittorio, di grande entusiasmo e contemporaneo inizio della fine, che troviamo momenti fondamentali della politica razziale del Reich e, in particolare, del percorso verso la « soluzione finale» . Va anche ricordato che nel gennaio del 1942 si tiene la conferenza di Wannsee, in cui si decidono i mezzi e i metodi della « soluzione finale» .
Il 16 dicembre 1942 19 Himmler firma l’ordinanza per la deportazione degli zingari ad Auschwitz, uno dei piú noti campi di sterminio. Il 29 gennaio 1943 l’Rsha emana le istruzioni per l’esecuzione del decreto: gli zingari dovranno essere « selezionati e, nel corso di un’operazione della durata di qualche settimana, trasferiti in campo di concentramento […] verso il lager di Auschwitz» . Si stabilisce anche che, per quanto possibile, gli zingari vengano internati senza dividere le famiglie. L’operazione dovrà partire « il 1° marzo del 1943 e terminare entro la fine del mese» .
È un decreto fondamentale perché comprende l’intera storia della deportazione e dello sterminio degli zingari. Vi ritroviamo, riassunte, tutte le elucubrazioni sulla razza zingara, dalla questione, sollevata da Himmler, della purezza di certi gruppi, alla identificazione di tutti gli altri come razza impura e indegna di vivere. Inoltre si affida l’intera operazione alle autorità di polizia e si stabilisce non solo che gli zingari devono essere tutti internati ma che il luogo del loro trasferimento sia Auschwitz, il piú noto campo di sterminio. Il fatto che l’intera operazione debba concludersi entro il mese è probabilmente ancora una volta da collegare ai tempi imposti dalla guerra. Due giorni prima di questo decreto, infatti, Himmler aveva chiesto all’Rsha una fornitura di almeno 35.000 uomini abili al lavoro da destinare ai lager. L’Rsha rispondeva dicendo di aver solo 10/15.000 ebrei disponibili. Lo stesso giorno Himmler ordina l’internamento degli zingari.
I rastrellamenti iniziano nel mese di febbraio. Le operazioni proseguono rapidamente e massicciamente. Persino ospedali e orfanotrofi vengono perquisiti. Le Ss circondano gli accampamenti o i campi di raccolta e rastrellano tutti i presenti, spesso dicendo loro che sarebbero stati trasportati in una colonia in territorio polacco. In una testimonianza raccolta da Kenrick e Puxonsi 20 legge:
Il 9 marzo 1943, 134 zingari, uomini, donne e bambini, furono svegliati nell’accampamento di Berleburg […] Furono ammassati nel cortile di una fabbrica e privati di ogni avere; furono caricati in carri bestiame e avviati ad Auschwitz. Ne sopravvissero 9 […] Gli zingari venivano prelevati addirittura dai posti di lavoro e deportati immediatamente […] Ogni gerarca aveva un’interpretazione sua da dare […] taluni separavano i genitori dai figli, inviando i primi nei lager e lasciando i secondi sul posto, e viceversa.
Nei campi di concentramento, probabilmente proprio in quanto considerati di razza pura degenerata, gli zingari vengono spesso utilizzati come cavie negli esperimenti medici e di sterilizzazione. Ci sono molte testimonianze in questo senso. Ad Auschwitz il dott. Mengele compiva i suoi agghiaccianti esperimenti sui bambini zingari, in particolare sui gemelli. Una delle sue cavie fu Barbara Richter, che ha lasciato un’intensa testimonianza sulla sua vicenda:
Il dott. Mengele mi ha presa per fare esperimenti. Per tre volte mi hanno preso il sangue per i soldati. Allora ricevevo un poco di latte e un pezzetto di pane con il salame. Poi il dott. Mengele mi ha iniettato la malaria. Per otto settimane sono stata tra la vita e la morte, perché mi è venuta anche un’infezione alla faccia […].21
Persino il giorno della gasazione finale degli zingari, Mengele preleva ancora i corpi di dodici coppie di gemelli zingari per sottoporli a sperimentazione.
Sulla presenza degli zingari nei campi di concentramento esiste una documentazione frammentata, ma sufficiente a testimoniare della loro prigionia un po’ ovunque. Erano contrassegnati dal triangolo nero degli « asociali» spesso affiancato dalla lettera « Z» , per Zigeuner, « Zingari» . La loro presenza risulta documentata a Dachau, a Lachenback, a Majdanek, a Mauthausen, a Buchenwald, a Ravensbrück, a Treblinka e anche a Sobibor, Belzec, Gross-Rosen, Gusen, Natzweiler, Theresienstadt.
La documentazione maggiore riguarda Auschwitz, dove, per un certo periodo, esistette una sezione appositamente riservata agli zingari: il campo BIIe per famiglie zingare22. Lo Zigeunerlager, come era chiamato, entrò in funzione alla fine del febbraio 1943 e cessò di esistere ai primi di agosto del 1944, quando tutti coloro che vi erano sopravvissuti vennero condotti nelle camere a gas. Il primo trasporto vi giunse il 26 febbraio 1943. Dal 7 marzo vengono regolarmente registrati trasporti di zingari dai territori occupati, tanto che in breve tempo risulta superato il limite della capienza, 10.000 persone. Va specificato che anche prima della costruzione del campo per famiglie zingare, gli zingari erano internati ad Auschwitz e che alcuni vi rimasero anche dopo la costruzione del lager BIIe: il 20 gennaio 1944 ne risultano 479.
Nello Zigeunerlager i prigionieri vivevano in condizioni particolari: separati dagli altri prigionieri, gli zingari non erano sottoposti alla selezione iniziale – anche se si sa di alcuni convogli neanche registrati e mandati immediatamente nelle camere a gas23 -, ma, tatuati e rasati a zero, subito destinati alle loro baracche dove rimanevano con le loro famiglie. Poi nessuno si preoccupava di loro: non avevano l’appello mattutino, non facevano parte dei gruppi di lavoro, le donne potevano addirittura partorire. Una condizione che potrebbe persino sembrare di privilegio, se non fosse che l’abbandono e il disinteresse verso questi internati da parte delle autorità di Auschwitz sottintendeva, in realtà, il loro destino di morte. Per questo gli zingari venivano abbandonati, in condizioni agghiaccianti: la mancanza di cibo, il freddo, le malattie rendevano difficilissima la sopravvivenza. Hermann Langbein, allora medico nell’infermeria del lager, ricorda di aver registrato che l’indice di mortalità dello Zigeunerlager risultava molto piú alto che nel resto di Auschwitz. Per questo vi si recò e trovò condizioni orrende: bambini colpiti da una terribile malattia della pelle, causata dalla denutrizione, il noma, uomini e donne moribondi, in stato di abbandono totale, stipati in baracche gelide e senza spazio per muoversi. Langbein ricorda che la sentinella polacca lo condusse anche nel blocco dove stavano le donne in attesa di partorire:
Su un pagliericcio giacciono sei bambini che hanno pochi giorni di vita. Che aspetto hanno! Le membra sono secche e il ventre è gonfio. Nelle brande lí accanto ci sono le madri; occhi esausti e ardenti di febbre. Una canta piano una ninna nanna: « A quella va meglio che a tutte, ha perso la ragione» […] L’infermiere polacco che ho conosciuto a suo tempo nel lager principale mi porta fuori dalla baracca. Al muro sul retro è annessa una baracchetta di legno che lui apre: è la stanza dei cadaveri. Ho già visto molti cadaveri nel campo di concentramento. Ma qui mi ritraggo spaventato. Una montagna di corpi alta piú di due metri. Quasi tutti bambini, neonati, adolescenti. In cima scorrazzano i topi24.
Alla fine, quindi, anche le condizioni particolari dello Zigeunerlager si rivelano per quello che sono, la realtà di un campo di sterminio nazista.
Non si conoscono con precisione le ragioni di questo trattamento particolare. Poco dopo la costruzione dello Zigeunerlager, l’ufficio V dell’Rsha, precisa che solo « per il momento» gli zingari vanno tenuti separati dagli altri prigionieri, per essere poi sottoposti allo stesso trattamento riservato agli ebrei. Si possono fare delle ipotesi tra le quali la piú accreditata è che si trattasse di un progetto di sperimentazione – analogamente al caso del lager per famiglie del ghetto di Theresienstadt – per capire cosa si potesse fare di altri gruppi razzialmente simili qualora fosse continuata l’occupazione tedesca. Tale ipotesi è anche suffragata dal fatto che, come abbiamo visto, gli zingari di Auschwitz erano tra le principali vittime degli esperimenti medici e di sterilizzazione. Altre supposizioni che sono state fatte: il campo serviva a mantenere negli zingari l’illusione della sopravvivenza e ad evitare, cosí, ribellioni; venivano tenuti lontani dagli altri prigionieri che non volevano gli zingari; le vicende della guerra avevano lasciato aperto il problema; le camere a gas erano sempre impegnate nell’eliminazione degli ebrei. La Novitch suppone che gli zingari fossero lasciati in vita a beneficio di eventuali ispezioni della Croce rossa nel lager e anche perché il loro sterminio coinvolgeva molti zingari assimilati i cui congiunti erano ancora liberi. In ogni caso tutti questi fatti descrivono piú le conseguenze che le cause della deportazione. Il loro destino di morte non può essere messo in dubbio.
La storia dello Zigeunerlager termina la notte tra il 31 luglio e il 1° agosto 1944, quando tutti gli zingari ancora in vita vengono uccisi nelle camere a gas e poi bruciati nei forni crematori. Erano oltre 3.000 persone, forse anche 4.000. Anche i motivi dell’ordine di annientamento non si conoscono. Ma, anche in questo caso, si possono fare delle supposizioni: la fine del lager BIIe avviene quando è registrato l’arrivo di un grosso convoglio di ebrei ungheresi abili al lavoro; il fronte russo si avvicina e l’apparato di sterminio viene potenziato al massimo; i convogli arrivano soprattutto ad Auschwitz ma insieme avanzano gli alleati. Insomma, la fine dello Zigeunerlager viene probabilmente decisa quando alla teoria razziale si sovrappone la prassi inclemente della guerra e i nazisti necessitano del massimo di manodopera, ma vogliono contemporaneamente arrivare alla « soluzione finale» nel più breve tempo possibile.
Non si sa esattamente nemmeno chi abbia dato l’ordine dello sterminio: Höss, comandante di Auschwitz, dice di averlo ricevuto da Himmler dopo una visita del Reichsführer delle Ss nel campo, ma le date non coincidono25. È molto probabile che sia stato Höss stesso a decretarne la fine, ovviamente in accordo con le alte gerarchie del Reich.
Le selezioni iniziarono nell’aprile del 1944 (alcuni zingari abili al lavoro vennero mandati a Ravensbrück, Buchenwald e Flossenberg) e continuarono fino al giorno prima della gasazione finale.
Alle ore 20.00 del 31 luglio gli zingari vennero caricati su camion e trasportati nelle camere a gas: nessuno si salvò, in quella terribile notte. Racconta un medico ebreo prigioniero ad Auschwitz:
L’ora dell’annientamento è suonata anche per i 4.500 detenuti del campo zingaro. La procedura è stata la stessa applicata per il campo ceco. Prima di tutto divieto di uscire dalle baracche. Poi le Ss e i cani poliziotto hanno cacciato gli zingari dalle baracche e li hanno fatti allineare. Hanno distribuito a ciascuno le razioni di pane e i salamini. Una razione per tre giorni. Hanno detto loro che li portavano in un altro campo […] Il blocco degli zingari sempre cosí rumoroso, s’è fatto muto e deserto. Si ode solo il fruscio dei fili spinati e porte e finestre lasciate aperte che sbattono di continuo.
Molti dei sopravvissuti ad Auschwitz ricordano quella notte con parole di angoscia terribile, e, in particolare, si soffermano sulla descrizione agghiacciante della ribellione degli zingari al loro terribile destino: « Le Ss – scrive Langbein – dovettero fare uso di tutta la loro brutalità. Alcuni, che cercavano di far salire gli zingari sui carri, non ci riuscirono» . Langbein riporta anche la testimonianza dell’infermiera Steinberg che, pochi mesi prima, aveva ricevuto istruzioni per la compilazione di un elenco di tutti gli zingari ancora nel blocco: « Udimmo urla […] Il tutto durò parecchie ore. Ad un certo punto venne da me un ufficiale delle Ss che non conoscevo a dettarmi una lettera che diceva “Trattamento speciale eseguito”» […] Quando si fece giorno nel campo non era rimasto un solo zingaro26.
Ma la testimonianza piú preziosa, in tempi di revisionismi e negazioni della storia, risulta quella di Höss, comandante di Auschwitz, preziosa perché diventa ammissione di fatti proprio da parte di un nazista: « Non fu facile mandarli alle camere a gas. Personalmente non vi assistetti, ma Schwarzhuber mi disse che, fino ad allora, nessuna operazione di sterminio era stata cosí difficile» .27
Nel gennaio del 1945 gli zingari rimasti ad Auschwitz erano pochissimi: all’appello del 17 gennaio risposero 28 solo 4 uomini.
Note
1 Esemplare, a questo proposito, la legge bavarese del 16 luglio 1926, Legge per la lotta contro gli zingari, i nomadi e i refrattari al lavoro (Gesetz zur Bekampfung von Zigeuner, Landfahren und Arbeitscheusen), che, oltre a stabilire l’espulsione degli zingari non nati in Baviera, vietava loro di viaggiare in bande, di accamparsi e di rimanere sul territorio senza un’occupazione stabile.
2 In realtà gli zingari, per la loro origine indiana e l’appartenenza linguistica al ceppo indoeuropeo, sono ariani. Per gli ideologi nazisti non era un problema forzare le interpretazioni a giustificazione dei propri presupposti. L’espediente fu quello di non negare i fatti, ma di farli scomparire nel corso del tempo: gli zingari, originariamente «razza pura», ma nomade, nel corso dei secoli e attraverso il contatto con altri popoli, erano ormai decaduti a una condizione di «miscuglio razziale irrecuperabile».
3 E. Justin, Lebensschicksale artfremd erzogener Zigeunerkinder, Berlin, Schuetz, 1944.
4 Sulle teorizzazioni razziali e le loro conseguenze pratiche un libro molto utile è B. Muller-Hill, Tödliche Wissenschaft. Die Aussonderung von Juden, Zigeunern und Geisteskranken 1933-45, Hamburg, Rowohlt, 1984 (trad. it., Scienza di morte, Pisa, Ets edizioni, 1989, pp. 70-75).
5 L. Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, Torino, Einaudi, 1955 (ed. orig., Breviaire de la haine, Paris, Calmann-Levy, 1955).
6 M. Novitch, Il genocidio zigano, in «Quaderni del Centro di studi sulla deportazione», Roma, n. 2, 1965.
7 Sulla sterilizzazione cfr. anche D. Kenricjk-G. Puxon, The destiny of Europe’s Gypsies, London, Sussex University Press, 1972 (trad. it., Il destino degli zingari, Milano, Rizzoli, 1975).
8 Institut fur Zeitgeschichte, München, RuPrMdI (decreto del ministero degli Interni) del 6-6-1936, doc. 17.02.
9 Cfr. anche M. Zimmermann, Verfolgt, Vertrieben, Vernichtet, Essen, Klartext, 1989. Dello stesso autore anche From discrimination to the Family Camp, in «Dachau Review», Comité International de Dachau, Bruxelles, n. 2, 1990.
10 Institut fur Zeitgeschichte, München, circolare RFSSuChdDtPol (circolare del capo della polizia e delle Ss presso il ministero degli Interni) dell’8-12-1938, doc. 17.02.
11 Institut fur Zeitgeschichte, München, circolare del RFSSuChdDtPol dell’1-3-1939, doc. 17.02.
12 Institut fur Zeitgeschichte, München, Schnellbriefe RSHA (Reichsicherheitshauptamt) del 17-10-1939, «Zigeunererfassung», doc. 17.02. È spesso ricordato come «Editto di insediamento» e, secondo alcuni studiosi, segna l’inizio della persecuzione razziale sistematica vera e propria.
13 Queste questioni erano state affrontate poco prima, esattamente il 20 novembre 1939, in una riunione segreta convocata da Heydrich a Berlino. Si era discusso di politica razziale e, probabilmente, deciso il trasferimento degli zigani tedeschi nella Polonia occupata. In base agli scarni verbali ancora esistenti si sa che quattro punti erano all’ordine del giorno: concentramento degli ebrei nelle città; loro reinsediamento in Polonia; trasferimento di 30.000 zigani dal Reich alla Polonia; sistematica deportazione degli ebrei dai territori annessi al Reich su treni merci.
14 Institut fur Zeitgeschichte, München, Vorbeugende Verbrechenbekampfung durch die Polizei del 20-11-1939, doc. 17.02.
15 Institut fur Zeitgeschichte, München, lettera di Eichmann a Nebe, doc. Eichmann.
16 Nel 1961, durante il suo interrogatorio nel processo di Gerusalemme, Eichmann confermerà di esser stato il responsabile di questo ufficio e di essersi occupato della «questione zingara».
17 Institut fur Zeitgeschichte, München, RFSSuChdDtPol, 27-4-1940, inviato agli uffici di polizia criminale di Hamburg, Bremen, Hannover, Dusseldorf, Koln, Frankfurt a. M., Stuttgard, doc. 17.02.
18 L’attenzione alla «questione zingara» si ritrova anche nelle differenze di opinioni manifestate ai piú alti livelli della gerarchia del Reich. Himmler voleva risparmiare alcune tribú zingare che, in base alle argomentazioni razziali e biologiche, considerava «pure»: a questo scopo emanò persino una direttiva (13-10-1942) per tutelare i sinti e i lalleri. Ovviamente tutto ciò non ebbe alcun seguito ma può essere indicativo dell’interesse intorno al problema della «soluzione finale per gli zingari».
19 Il decreto non è mai stato ritrovato, ma si legge in Institut fur Zeitgeschichte, München, nelle istruzioni urgenti (Schnellbriefe) dell’Rsha datate 29-1-1943, doc. 17.02.
20 D. Kenrick-Grattan Puxon, op. cit., p. 105.
21 «Lacio Drom», a cura del Centro Studi zingari, Roma, n. 5/6, 1974.
22 Sul lager di Auschwitz sono molto suggestive le pagine di H. Langbein, Menschen in Auschwitz, Wien, Europa Verlag, 1972 (trad. it., Uomini ad Auschwitz, Milano, Mursia, 1984).
23 Il 23 marzo 1943 un convoglio di 1.700 zingari dalla Polonia, probabilmente per il dilagare di un’epidemia di tifo petecchiale, e il 30 maggio 1943 un altro di 2.500 zingari dalla Cecoslovacchia.
24 H. Langbein, op. cit., p. 253.
25 R. Höss, Kommandant in Auschwitz, Stuttgart, Deutsche Verlag-Anstalt, 1958 (trad. it., Comandante ad Auschwitz, Torino, Einaudi, 1960).
26 Sono testimonianze citate da Kenrick-Puxon, op. cit., p. 181.
27 R. Höss, Kommandant in Auschwitz, cit.
28 Auschwitz fu liberata il 27 gennaio 1945.
http://www.romacivica.net/anpiroma/deportazione/deportazionezingari2a.htm
LO STERMINIO DEGLI ZINGARI DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE (parte II)
di Giovanna Boursier
in Studi Storici 2, aprile-giugno 1995 anno 36
Non è facile dire quanti zingari morirono ad Auschwitz, cosí come non si conosce con precisione nemmeno il numero di quelli uccisi in quella tragica notte. Secondo i calcoli piú accreditati sono circa 23.000 gli zingari morti in quel lager 29.
Altrettanto difficile stabilire il numero totale degli zingari vittime del nazismo: le cifre ufficiali indicano circa 500.000 persone ma sembrano non tenere conto di molti dati e scontare la carenza di materiale e documentazione sull’argomento. Il materiale d’archivio testimonia infatti che molti zingari, oltreché nei lager, furono uccisi nelle esecuzioni di massa delle Eisatztruppen e tanti altri furono sterilizzati e rimessi in libertà.
In realtà il numero totale degli zingari uccisi sotto la dittatura nazista non è documentabile con precisione, in primo luogo perché è incerto il numero degli zingari presenti in Europa prima della guerra. Per lo sterminio degli ebrei una valutazione indiretta è stata ricavata dalla scomparsa, o dal gravissimo indebolimento delle comunità ebraiche europee. Dopo la guerra, queste comunità hanno potuto, certo con approssimazione e difficoltà, contare i superstiti e quelli che non erano tornati. È evidente a tutti che fare lo stesso per gli zigani non era possibile, e tantomeno lo è oggi. Gli stessi zingari, poi, non hanno una cultura scritta e non sono quindi protagonisti attivi della memoria della loro storia.I paragoni numerici tra lo sterminio degli ebrei e quello degli zingari – che spesso vengono fatti – sono inutili. In questo ambito le precisazioni non conducono mai a indicazioni univoche o a criteri semplici per capire. L’unico paragone possibile è sulla sostanza dell’ideologia e della politica razziale naziste, che li accomunano nel loro destino di morte. Il giudizio su uomini che predicano l’annientamento di altri uomini perché di razza diversa va infatti pronunciato unicamente sulle azioni e sul pensiero, e le cifre diventano in una certa misura irrilevanti.
Nella storia dello sterminio degli zingari anche il periodo successivo alla guerra riveste grande importanza, non solo perché apre ulteriori prospettive di indagine storica, ma anche perché evidenzia l’inizio di un nuovo capitolo nella storia della persecuzione degli zingari30.
La fine della guerra e la scoperta dei campi di sterminio nazisti non riguardarono gli zingari.
Da subito, persino negli aiuti immediati dei giorni successivi alla liberazione, gli zingari furono ex deportati di ultima categoria. Michail Krausnick, riferendosi alla città di Karlsruhe, riporta il primo rapporto – del 14 settembre 1945 – fatto dalle autorità cittadine e locali responsabili degli aiuti ai perseguitati, offerti tramite la pubblica assistenza, nel quale vengono indicate le cifre massime concesse: prigionieri politici 229 -RM, ebrei 263 -RM, perseguitati religiosi 283 -RM, zingari 42 -RM.
Nei processi ai nazisti responsabili di crimini contro l’umanità che seguirono la liberazione, primo tra tutti quello di Norimberga, gli zingari non ebbero considerazione: mai nessuno zingaro fu chiamato a deporre come testimone o parte in causa.
Eppure nei resoconti dei dibattimenti processuali gli zingari sono ripetutamente citati, anche se indirettamente. Molto spesso sono menzionati nelle deposizioni, in particolare come vittime degli esperimenti medici: ad esempio, nella sua testimonianza Franz Blaha, un medico cecoslovacco dal 1939 prigioniero a Dachau, racconta che nell’autunno del 1944 « un’ottantina di prigionieri, tutti ungheresi e zingari, vennero sottoposti a esperimenti col sale. Chiusi in una baracca per cinque giorni ebbero come unico cibo e bevanda dell’acqua salata […]» . 31 Ma nella sentenza finale sull’operato dei « gruppi d’azione» c’è un unico paragrafo che riguarda lo sterminio degli zingari:
I gruppi d’assalto ricevettero l’ordine di fucilare gli zingari. Non fu fornita nessuna spiegazione circa il motivo per cui questo popolo inoffensivo, che nel corso dei secoli ha donato al mondo, con musica e canti, tutta la sua ricchezza, doveva essere braccato come un animale selvaggio. Pittoreschi negli abiti e nelle usanze, essi hanno dato svago e divertimento alla società, l’hanno talvolta stancata con la loro indolenza. Ma nessuno mai li ha condannati come una minaccia mortale per la società organizzata, nessuno tranne il nazionalsocialismo, che per bocca di Hitler, di Himmler, di Heydrich, ordinò la loro eliminazione32.
Il processo Eichmann, tenutosi a Gerusalemme nel 1961 – quando ormai erano passati piú di quindici anni dalla fine della guerra e le informazioni sullo sterminio degli zingari iniziavano a disegnare il quadro tragico di questa vicenda -, non ebbe esiti diversi. Anche in questo caso nel corso del dibattimento molte testimonianze avevano ricordato lo sterminio degli zingari, anche perché Eichmann era stato, durante la guerra, uno dei principali responsabili della « questione zingara» . Louis Frank, che era stato prigioniero ad Auschwitz e aveva lavorato nel lager di Birkenau come contabile, rese una deposizione sul ruolo svolto da Eichmann nel lager di Birkenau, in cui, tra l’altro disse:
[…] Comunque Eichmann è sicuramente implicato nella creazione del lager zingaro di Birkenau, che fu poi chiuso gasando tutti i suoi abitanti: donne, uomini e bambini. Questo campo aveva le stesse caratteristiche di quello per le famiglie ceche, era costruito allo stesso modo e come l’altro finí nelle camere a gas. Il fatto che oggi non si parli pubblicamente dei crimini dei nazisti contro gli zingari è soltanto perché, non essendoci tra loro uomini con specifiche competenze, nessuno vuole riconoscere le loro ragioni […].33
Il 14 agosto, dopo 114 udienze, il dibattimento terminò e l’11 dicembre si ebbe la sentenza. Tra i vari capi di imputazione, quelli 9-12 riguardavano i crimini contro i « non ebrei» , e, in particolare, il capo d’accusa numero 11 accusava Eichmann della deportazione di « decine di migliaia di zingari» ad Auschwitz. Eppure la sentenza finale stabiliva che « non è stato provato che l’imputato sapesse che gli zingari erano portati via per essere sterminati» . La ragione di un simile verdetto risulta incomprensibile, poiché lo stesso Eichmann, in istruttoria, aveva ricordato che lo sterminio degli zingari era stato ordinato da Himmler; che per gli zingari non c’erano direttive precise come c’erano invece per gli ebrei; che il suo ufficio era stato incaricato di evacuare 30.000 zingari dal territorio del Reich; e che, nonostante non riuscisse a ricordare tutti i particolari e le date perché c’erano state molte interferenze e grande confusione, non aveva mai dubitato del fatto che gli zingari, come gli ebrei, fossero portati via per essere sterminati34. Eichmann, insomma, si era dimostrato consapevole del loro sterminio come di quello degli ebrei. Inconsapevoli, e indifferenti, si rivelarono, invece, i tribunali che non considerarono il « problema zingaro» argomento dei loro dibattimenti.
Dunque sullo sterminio degli zingari nessun riconoscimento di errore, nessuna colpa, nessuna vergogna. Tra i responsabili nessun colpevole.
Nel 1964 un procedimento a carico di Eva Justin si concluse con una sentenza che riteneva le incriminazioni insufficienti a rinviarla a giudizio. Si diceva che Eva Justin aveva – evidentemente in maniera inconsapevole – desunto le sue argomentazioni dal dottor Ritter, ma senza convinzione profonda. E si aggiungeva che, comunque, dopo tanti anni, i testimoni zingari non potevano essere sicuri che la donna che li aveva personalmente seviziati e torturati nei lager fosse proprio lei 35.
Un altro fatto molto grave è che la documentazione relativa alla persecuzione degli zingari rimase, per lungo tempo dopo la guerra, nelle mani di polizia e organi competenti per essere catalogata. Nei processi intentati dagli zingari per ottenere i risarcimenti mancò quindi la documentazione necessaria.
Nel dopoguerra, inoltre, erano gli stessi Rassenforschen, o i medesimi Zigeuner-Sach-bearbeiter che durante la guerra lavoravano per l’Rkpa, ad occupare i luoghi deputati alla verifica degli atti dei tribunali tedeschi, e quindi a « dimostrare» che nessun danno materiale e morale andava ricompensato. Questi funzionari sempre zelanti continuavano a sostenere l’esistenza di una « specie» zingara e a definirla asociale, pericolosa e diversa. Ciò permise di negare la persecuzione nazista degli zingari in quanto razza. Cosí, ad esempio, quando, nel 1951, Anna Eckstein avanzò una richiesta di risarcimento come ex deportata zingara, fu immediatamente citata dalla polizia criminale e condotta davanti all’ex Ss Leo Karsten, responsabile dell’ufficio per la « questione degli zingari» a Berlino. Karsten dimostrò quindi l’invalidità dei vecchi NS-Atti degli zingari e negò alla donna ogni risarcimento36.
Come si intuisce, la sottovalutazione, per non dire la negazione, della « questione zingara» nel dopoguerra nasconde in verità un problema molto complesso e concreto, quello dei risarcimenti dovuti alle vittime del nazismo. Il non riconoscimento dello sterminio razziale permise di negare i fatti e trascurare le responsabilità.
Dopo la seconda guerra mondiale, infatti, la Germania federale aveva dovuto sottoscrivere la Convenzione di Bonn che prescriveva il pagamento di un indennizzo a coloro che erano stati perseguitati per motivi di « nazionalità, razza o religione» e che avessero sofferto la perdita di libertà, di proprietà o danni fisici. Come abbiamo visto, in questa categoria di persone rientravano, a pieno titolo, anche gli zingari. Se lo sterminio di oltre mezzo milione di zingari fosse stato riconosciuto e la loro persecuzione identificata come razziale, le riparazioni sarebbero state concesse anche a loro. Invece, si sosteneva, la deportazione degli zingari era stata motivata da ragioni di ordine pubblico e di prevenzione della criminalità o dello spionaggio.
Alle prime richieste di risarcimento intentate dagli zingari tedeschi nel dopoguerra rispose ufficialmente una circolare del ministero degli Interni del Würtemberg datata 9 maggio 1950 sostenendo che le riparazioni previste dalla convenzione non riguardavano gli zingari in quanto « perseguitati sotto il regime nazista, non già per motivi razziali, bensí per i loro precedenti asociali e delinquenziali» .
Nel corso degli anni Cinquanta, però, la discussione sul riconoscimento o meno di uno sterminio razziale dovette misurarsi non solo con l’aumento delle richieste di risarcimento presentate dagli zingari, ma soprattutto con l’emergere della documentazione. In proposito l’atteggiamento delle autorità fu assolutamente elusivo: si fissò una data di inizio delle persecuzioni « di tipo razziale» , identificando due fasi nei tempi della persecuzione degli zingari e continuando a considerare i primi provvedimenti nazisti come semplici « misure di sicurezza» .37
Una delle prime domande di indennizzo sulla « questione zingara» era stata presentata da Erik Balasz, arrestato dai nazisti nel 1940, quando aveva solo sedici anni, con tutta la sua famiglia. La madre era stata fucilata a Ravensbrück, mentre lui era stato sottoposto a esperimenti medici a Benninghausen, dove si era anche ammalato gravemente di tubercolosi. Nel 1955 la Commissione per le richieste di indennizzo stabilí che il risarcimento non era dovuto perché Balasz era stato arrestato in territorio polacco per motivi di sicurezza e non per motivi di razza. Il tribunale concludeva riconoscendo che i provvedimenti contro gli zingari erano diventati di ordine razziale solo dopo il decreto di Auschwitz del 16 dicembre 194238.
Un caso analogo a quello Balasz è quello di Wacslaw Mierzinski, ex deportato polacco, che nel 1955 presenta richiesta di risarcimento al tribunale di Lünenburg, nella Bassa Sassonia. Anche in questo caso il tribunale non riconosce gli estremi della deportazione razziale, sostenendo che, poiché il padre del richiedente era stato arrestato per presunta appartenenza ad un’organizzazione clandestina polacca, anche il figlio doveva essere stato considerato nemico dello Stato. La sentenza conclude che la questione della razza « non aveva avuto parte alcuna nella motivazione del provvedimento» di internamento di Wacslaw Mierzinski39.
Queste e altre decisioni della magistratura tedesca a livello locale ebbero poi il pieno avallo istituzionale nel 1956, quando la Corte suprema della Germania federale sentenziò ufficialmente che la persecuzione nazista degli zingari non era stata « razziale» almeno fino al famigerato decreto di Auschwitz del 1943 e che quindi, prima di allora, si era trattato solo di misure dovute a una « campagna preventiva contro i crimini» . Di conseguenza gli zingari catturati dai nazisti prima del 1° marzo 1943 erano considerati deportati in quanto asociali e criminali e non in quanto zingari, perciò non avevano diritto ai risarcimenti. Gli indennizzi si potevano concedere solo a coloro che erano stati imprigionati dopo quella data, o che allora si trovavano già nel lager e, in questo caso, si considerava soltanto l’ultimo periodo di prigionia.
Sulla base di questa sentenza e dello schietto tono dei giuristi tedeschi la maggior parte delle richieste di risarcimento finirono come quella di Karl G., deportato con tutta la famiglia in Polonia dai nazisti, e al quale fu negato ogni diritto al risarcimento. A sua figlia, Froscha G., che al momento della deportazione aveva solo sei anni e che dovette lasciare la scuola perché zingara, fu risposto, nel 1958, che « in base alla sentenza del BGH del gennaio 1956 si stabilisce la ragione del decreto del Reichsführers e capo della polizia tedesca del 27/4/40 […] la deportazione degli zingari in epoca nazista non fu una misura coercitiva per ragioni di razza» .40
La sentenza del 1956 assume quindi un grande valore simbolico: non solo per il mancato riconoscimento della storia, ma per la negazione dei diritti dei sopravvissuti zingari ai lager nazisti.
Per anni il lavoro forzato, il furto di beni, di appartamenti, carrozzoni, utensili o strumenti musicali, i danni alla salute, la deportazione coatta e la morte non vennero considerati.
Questa situazione andò avanti almeno fino alla prima metà degli anni Sessanta quando furono gli zingari a cercare un’alternativa, prima di tutto unendosi in un organismo rappresentativo di tutta la collettività zingara e poi chiedendo che gli indennizzi fossero riconosciuti collettivamente, al popolo intero, e non a individui singoli la cui debolezza era facile da strumentalizzare.
Nel 1956 venne fondata la Verband Deutscher Sinti und Roma, un’associazione che ancora oggi costituisce un ottimo punto di riferimento per chiunque voglia reperire materiale e documentazione sullo sterminio degli zingari.
Il 7 novembre 1960 questa associazione ottenne, dal tribunale di Kiel, il diritto al risarcimento – peraltro già rifiutato in precedenza – per uno zingaro deportato nel maggio 194041.
Tre anni dopo, nel 1963, il verdetto del 1956 venne finalmente rivisto e annullato. Erano però trascorsi diciotto anni dalla fine della guerra: molti sopravvissuti zingari erano morti, altri avevano ormai rinunciato ai loro diritti.
Le autorità tedesche continuavano a dilazionare i tempi, sostenendo che le richieste di indennizzo risultavano inaccettabili dal momento che non esisteva alcun organismo rappresentativo del popolo zingaro. Nemmeno la fondazione, nel 1971, della Romani Union, riconosciuta poi a livello internazionale come organizzazione non governativa dell’Onu con statuto consultivo, valse al caso, tanto è vero che ancora nel 1978, al secondo congresso mondiale della Romani Union, Grattan Puxon sottolineava « to the German representatives our claim for some form of block reparations in respect of the war crimes committed against the Romani people» .42
Alla fine del 1979, in seguito a un’importante iniziativa della Verband Deutscher Sinti und Roma, che raccolse a Bergen-Belsen piú di 1.500 persone, fra le quali Simone Veil43, il governo tedesco accettò, per la prima volta dopo la guerra44, di incontrare una delegazione di zingari.
Nell’aprile del 1980 il governo tedesco riconobbe ufficialmente che gli zingari avevano subito, sotto il regime nazista nell’Europa occupata, « una persecuzione razziale» .
Note
29 Recentemente, proprio sulle cifre degli zingari deportati e sterminati, sta lavorando Donald Kenrick ma non ha ancora pubblicato i nuovi dati. Nel testo di Kenrick e Puxon comunque è già redatta una sorta di tabella sulle cifre dei deportati suddivisi per paese.
30 Michael Krausnick in un utile libro, Unfarth karlsruhe – a cura della Verband der Sinti und Roma, e. V., Karlsruhe, 1990 – intitola significativamente il capitolo dedicato al dopoguerra La seconda volta.
31 T. Taylor, Anatomia dei processi di Norimberga, Milano, Rizzoli, 1993.
32 E. Marcolungo-M. Karpati, Chi sono gli zingari?, Torino, Ed. Gruppo Abele, 1985, p. 33.
33 Institut fur Zeitgeschichte, München, doc. Eich/1497.
34 Institut fur Zeitgeschichte, München, doc. Eich. Cfr. anche H. Arendt, La banalità del male, Milano, Feltrinelli, 19922 (I ed. 1964), p. 252.
35 Sui processi ai responsabili dello sterminio degli zingari si veda anche B. Muller-Hill, op. cit.
36 M. Krausnick, op. cit. Si veda anche R. Rose, Bürgerrechte für Sinti und Roma, Heidelberg, Zentralrat Deutscher Sinti und Roma, 1987.
37 Un atteggiamento che si è mantenuto fino ad anni piú vicini a noi, anche tra alcuni storici che, persino dove riconoscevano la persecuzione razziale, discutevano poi sul quando si potesse fissarne la data di inizio, dando per scontato che nei primi anni del regime nazista gli zingari fossero stati sottoposti a misure coercitive in quanto criminali e asociali, e che solo da un certo punto in poi fosse cominciata la vera «lotta contro la piaga zingara».
38 Sappiamo invece che molti zingari erano stati deportati ben prima della fine del 1942 e che a quell’epoca molti erano già stati uccisi, violentati, sterilizzati e internati in tutti i paesi occupati dai nazisti. Un documento ancora riservato dell’IZG, che deve essere il resoconto di un processo a carico di un certo Arndt (i nomi sono ancora coperti da segreto), racconta «la fucilazione di 10-12 zingari […] donne e uomini tra i dieci e i cinquantanni», avvenuta nel bosco di Bonschecker, intorno «alla metà di ottobre del 1939» (Institut fur Zeitgeschichte, München, doc. Gg. 01.20).
39 Questi e altri casi sono raccontati da Kenrick-Puxon, op. cit., pp. 210-211.
40 Institut fur Zeitgeschichte, München, Landesamt für Wiedergutmachung, doc./EK-Nr. 22136-B3a/Wg.
41 Institut fur Zeitgeschichte, München, doc. 05.30.
42 G. Puxon, Gypsies Seek Reparations, in «Patterns of prejudice», London, Institut of Jewish affairs, n. 15, 1981.
43 Simone Veil durante la guerra era stata deportata a Bergen Belsen, dove perse la madre. In questa occasione la sua presenza, dovuta a una scelta personale e motivata, fu di grande aiuto alla causa dei rom e dei sinti tedeschi.
44 L’ultima volta era accaduto nel 1942 e il governo tedesco era rappresentato da Heinrich Himmler.
IL POPOLO DEI ROM È PERSEGUITATO DA UNA MENTALITÀ OSTILE, CHE SI TRADUCE ANCHE IN MISURE POLITICHE AD ESSO AVVERSE.
QUESTO ARTICOLO, PUBBLICATO SUL MENSILE ANGLICANO “THE MONTH” (NOVEMBRE 2000), È FIRMATO DA SYLWIA INGMIRE, MEMBRO DEL “ROMANY SUPPORT GROUP” (GRUPPO DI APPOGGIO AI ROM). TITOLO ORIGINALE: “DOES GOD LOVE ROMA?”
I rom restano una delle minoranze più emarginate e più discriminate d’Europa. La loro esperienza di razzismo, violenza, discriminazione e persecuzione attraverso l’Europa dovrebbe essere motivo di vergogna e di scandalo per noi tutti” (Commissione per i Rifugiati, Marzo 19991).
I rom apparvero drammaticamente sulla scena dell’opinione pubblica britannica nell’autunno del 1997. L’arrivo a Dover di parecchie centinaia di rom cechi e slovacchi che chiedevano asilo, diede il via ad una campagna di stampa che era dolorosamente lontana da quel luogo di rifugio pacifico che i rom speravano di trovare presso di noi. Ricordo quei giorni come un tempo di paura quando noi (interpreti) avevamo spesso l’occasione di aiutare i rom che chiedevano asilo a nascondersi agli occhi scrutatori di reporter aggressivi o anche di interrompere interviste manipolatrici condotte alla maniera: “Io non parlare inglese”. Tutta la gamma della stampa, dai tabloid ai grandi giornali, conducevano la peggior campagna di incitamento all’odio che io abbia mai avuto occasione di incontrare. La retorica di termini come “attacco”, “diluvio”, “invasione”, “imbroglio”, “marea”, “orde”, veniva agitata da giornali come The Independent, The Daily Mail, The Sun, e dal ben noto Dover Express.
Volevano farci dimenticare che quei reportage trattavano di persone reali. Potevamo ben dimenticarlo, dato che quelle persone erano semplicemente “gitani”, che ci sono ben noti quando vengono ricondotti a stereotipi familiari quali: “disonesti e pigri” (The Sun, The Express); “ladri” (The Sport); “psicopatici” (The Independent); “fogna umana” (The Dover Express); “esercito organizzato di criminali” (The Daily Mail); “i nomadi avidi dell’Europa orientale” (The Sun). Nel mezzo di quest’orgia populista di scritti, innescata dall’ignoranza – a volte genuina, a volte voluta2 e legata più al razzismo che alla noncuranza3 – ci sono state alcune voci equilibrate i cui argomenti contrari hanno tentato di renderci più coscienti della dura realtà che si trova sullo sfondo della triste condizione dei gitani. Jeremy Hardy ha affermato che “i rom sono persone, non una sottospecie umana né un disordine comportamentale.”4 Allo stesso tempo, Isobel Fonseca e Tom Gross proclamavano “La verità sui gitani”5 e “La verità sui rom. Una nazione senza patria.”6
Chi sono?
La domanda: “Chi sono i gitani o i rom?” non è nuova. È vecchia quanto i 600 anni circa della loro storia europea. Eppure malgrado considerevoli successi accademici nel districare la storia dei rom, la capacità comune di rispondere a questa domanda è ancora pesantemente rinchiusa in quell’immaginario radicato nella nostra storia medievale e pre-moderna. Il popolo rom, quando non viene completamente ignorato, suscita in noi oggi gli stessi sentimenti che suscitava secoli fa, e quando parliamo di questa minoranza, la più grande d’Europa (circa otto milioni di persone), ci si trova per lo più nel regno delle emozioni e della conoscenza non documentata. All’inizio del terzo millennio, i rom sono per noi europei quello che sono sempre stati per i nostri antenati: un simbolo ricco e fertile dell’”altro”, di qualcuno che non è uno di noi, che non ci appartiene, che è tutto ciò che noi non siamo: di pelle scura, rumoroso, aggressivo, litigioso, bugiardo, imbroglione, ladro, pigro, non incline al lavoro, primitivo, ostile, provocatore e pagano. Fin dall’inizio della loro presenza in Europa, i rom sono divenuti un’antitesi di comodo alla nostra civiltà europea, svolgendo il ruolo del “selvaggio” Indiano d’America nel creare la nostra identità europea. Il nostro lavoro duro, l’onestà e le virtù cristiane potevano essere meglio definite alla luce della loro disonestà, pigrizia e paganesimo. Come nella storia di Dorian Gray, essi erano fatti per diventare oscuri, il riflesso sinistro delle società di accoglienza, l’incarnazione di tutto ciò che è disgustoso e negativo.
Per secoli, i rom non sono stati considerati un popolo, essendo privati della loro propria identità etnica e visti come un gruppo sociale di nomadi, zingari con la zeta minuscola, che non hanno valori culturali distinti da quelli della società di accoglienza. Questo punto di vista è ancora oggi ben vivo, e ho spesso avuto l’occasione di constatare che vengono percepiti dall’élite più progressista e istruita in Polonia come persone senza “retaggio culturale”, che non hanno dato nessun “contributo culturale” alla società in generale. Un’altra credenza popolare secondo la quale i rom non sono altro che una banda di criminali senza cultura risale a parecchie centinaia di anni. Nella Germania del XV secolo, S. Munster si chiedeva se non avessero inventato la loro lingua solo per scopi criminali.7 Un secolo dopo, M. Bielski, polacco, scriveva nella sua cronaca: “Essi hanno inventato questa lingua per rubare, in modo che nessuno se non loro stessi li possa capire”. Anche il colore scuro della loro pelle veniva considerato da questo autore come un altro mezzo utilizzato per imbrogliare e confondere gli altri: “Essi rendono i loro volti e i loro capelli neri facendo mensilmente delle applicazioni di orzo misto a fiele di mucca e olio.”8
Spogliati di ogni caratteristica attraente e perfino della loro identità etnica, disumanizzati, deformati, distorti dallo specchio deformante dell’immaginario europeo, i rom divennero i candidati ideali per lo scopo che era stato concepito per loro. Divennero oggetto d’odio e di disprezzo nell’impunità, e tutto questo per una “buona ragione”. La Bibbia, utilizzata dai nostri antenati come un repertorio pratico di riferimenti e spiegazioni adatti ad ogni circostanza, si dimostrava all’altezza del test. Una delle teorie circa le origini degli zingari veniva collocata nel racconto biblico riguardante Caino, che per punizione divina doveva diventare “ramingo e fuggiasco sulla terra”.9 Caino allora disse fremendo: “Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono? Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere”.10
Un’altra teoria biblica collegava i rom a Cam, il figlio di Noè i cui discendenti dovevano essere puniti a causa del peccato commesso da Cam contro suo padre: “Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli!”11 C’erano molte altre teorie; ad ogni modo, che i rom venissero considerati i discendenti dei soldati che avevano ucciso i bambini di Betlemme o che dovessero portare per l’eternità il peso della colpa di un fabbro zingaro che aveva fatto i chiodi usati dai soldati romani per la crocifissione di Cristo, l’essenza era sempre la stessa. Nell’immaginario pubblico, le loro origini miserabili erano macchiate da una colpa sacrilega che non poteva venire assolta e in quanto tale richiedeva punizione.
Espulsione o morte
“L’età della responsabilità criminale dei rom dovrebbe venire abbassata fino alla nascita, perché il loro primo crimine è quello di venire al mondo”.
Questa è un’affermazione pubblica fatta da Miroslav Sladek, un politico ceco contemporaneo di primo piano e leader del Partito Repubblicano che ha ottenuto l’8,5% dei voti durante le elezioni generali del 1998, conquistando così 18 seggi nel Parlamento ceco.12 Il suo messaggio non era qualcosa di nuovo. Avrebbe potuto benissimo essere tratto da qualsiasi polverosa cronaca medievale, perché il punto è che negli ultimi seicento anni, per quanto riguarda l’atteggiamento degli europei nei riguardi degli zingari o dei rom, niente è veramente cambiato.
“La storia del popolo rom è una storia di persecuzione continua. Dal Medioevo fino ai nostri giorni, sono stati oggetto di discriminazione razziale e di genocidio puro e semplice”.13
Ogni raccolta di date e fatti riguardanti la presenza rom in Europa ci colpisce per la persistenza e continuità della persecuzione contro questo popolo. Fin dalla fine del XIV secolo, la scelta offerta ai rom in Europa era l’espulsione o la pena di morte. Espulsi virtualmente da tutti i paesi europei e, quindi, non avendo nessun luogo dove andare, i rom dovevano utilizzare tutte le loro energie per evitare la pena di morte prevista nel caso fossero stati trovati a girovagare. Dovettero imparare a nascondersi, dovevano diventare eterni partigiani o, come dice il giornale The Sun, “nomadi avidi”. “Avidi”, certo, di ogni possibilità di sopravvivenza. Fin dal 1500, in Germania, l’esecuzione della pena di morte degli zingari era messa alla portata di tutti. Chiunque poteva uccidere uno zingaro con impunità assicurata e la certezza di servire una buona causa. In Inghilterra la pena di morte per gli zingari, adulti e bambini, venne introdotta intorno al 1530, in Scozia nel 1541, in Danimarca nel 1536, in Finlandia nel 1559. Dire che i rom erano braccati in Europa è più che una semplice locuzione letteraria. In una cronaca tedesca del XVIII secolo si legge:
“Uccisero un bel cervo, cinque daini, tre grossi cinghiali, altri nove più piccoli, una donna zingara, due uomini zingari e un bambino zingaro”.14
L’aristocrazia tedesca aveva l’abitudine di collezionare i resti dei corpi di rom come parte dei suoi trofei di caccia. La seconda guerra mondiale produsse la caccia più fruttuosa di tutti i tempi, con circa 500.000 persone uccise, il 35% dell’intera popolazione rom. I vecchi atteggiamenti sono duri a morire. Più vicino alla nostra realtà democratica, Jan Slota, leader del Partito Nazionale Slovacco e membro del governo slovacco dal 1992 al 1998, ha affermato: “A mio parere, il solo modo di trattare con gli zingari è utilizzare una lunga frusta e un piccolo recinto.”15 Il sindaco di Medvez, in Slovacchia, ritiene che la sola soluzione per il “problema zingaro” della Slovacchia sia di “ucciderli tutti”, aggiungendo subito dopo: “Non sono un razzista … ma bisognerebbe proprio sparare ad alcuni zingari”.16 I muri degli edifici pubblici delle città dell’Europa orientale divennero bacheche pubbliche per messaggi quali: “Morte agli zingari”; “Gli zingari nelle camere a gas”; “Uno zingaro buono è uno zingaro morto”, e così via; messaggi che passano inosservati a tutti, ma non ai rom. Dal semplice scribacchiare su muri e staccionate si è giunti ad un nuovo gioco ceco in Internet, chiamato “Uccidi i tuoi zingari”, basato su una soluzione semplice: più zingari uccidi, più punti fai.
Se uno pensasse che questi atteggiamenti appartengono solo all’Europa orientale, dovrebbe ricredersi. Un giornale, The High Wycombe Midweek (6/06/93), ha pubblicato la riflessione seguente:
“È una tragedia che la nostra società continui a tollerare e anzi ad aiutare questa accozzaglia di vagabondi che spazzano via lo Stato e lo derubano a man bassa … Si deve stabilire un insediamento per gli zingari vicino a Sellafield, dove possono prendersi quante radiazioni vogliono”.
Un’altra voce è giunta da una donna di un villaggio del Somerset: “Una pallottola in testa: ecco ciò di cui hanno bisogno! … Se stessi morendo di cancro, acquisterei un fucile e ne ammazzerei sei”.17 Si può cercare di ignorare e di prendere le distanze da queste affermazioni come troppo estremiste, però di fatto non lo sono. Non finché rimangono il prodotto di un modo di pensare voluto e delle fantasie di signore pacifiche di mezza età, amanti del giardinaggio. E questa è precisamente la ragione per la quale i rom dell’Europa orientale cercano asilo e rifugio in Occidente. La differenza tra le due situazioni non consiste tanto in ciò che noi pensiamo dei rom, ma in ciò che ci si permette di pensare senza biasimo, contro di essi.
L’odio contro i rom
La caduta del comunismo nell’Europa orientale e la trasformazione degli Stati post-comunisti in democrazie moderne viene spesso descritta in termini come “senza spargimento di sangue”, “pacifica” o la rivoluzione “di velluto”. Le cose stanno certamente così se si decide di non vedere l’impatto che questa trasformazione ha avuto sulle minoranze e specialmente sul popolo rom. Essi hanno pagato il prezzo più alto per la libertà di espressione ritrovata dall’Europa orientale. L’odio contro i rom, che era stato soppresso per così tanti decenni da un regime autoritario, poteva ora venire liberamente in superficie e stigmatizzare i rom con gli stessi vecchi stereotipi negativi.
“Essi sono cittadini normali, ma la gente preferisce pensare che sono malvagi perché solo allora può incolpare gli zingari per i propri fallimenti e incanalare la propria rabbia contro di loro”.18
Così parlava un polacco intervistato per le strade di Ziebice, una città della Polonia del sud dove negli ultimi anni ’90 una campagna di violenza e di terrore aveva costretto circa settanta famiglie rom a fuggire per salvarsi la vita. Con la marea montante del nazionalismo in tutti i Paesi dell’Europa orientale, la presenza degli zingari, gli “altri”, viene sentita come necessaria, se non indispensabile, per ridefinire l’identità nazionale di ciascun Paese. Il nazionalismo è stato basato, in Europa orientale, fin dal XIX secolo sui fattori etnici primordiali del “sangue” (parentela), del suolo e dell’anima. Se questi erano i parametri per affermare l’appartenenza di una persona al gruppo dei “nostri”, essi possono essere anche utilizzati per presupporre l’opposto, e ciò si traduce nel meccanismo di esclusione di coloro che non appartengono a “noi”. Il “sangue”: i rom sono di razza diversa; vengono chiamati “catrame”, “negri”, e troppo spesso sono oggetto degli sputi disgustati di passanti casuali. Il “suolo”: essi non ne sono proprietari, non ne hanno mai posseduto, sono sempre stati girovaghi infaticabili. Per quanto riguarda l’”anima”, “dubito che ne abbiano una”, disse un parroco di una zona del sud della Polonia.19 Per secoli sono stati considerati “pagani cristiani” che “non hanno religione né fede” e che “accettano solo superficialmente la religione del Paese che attraversano”.20
La marea di violenza e di pogrom sistematici contro i rom coprì i Paesi dell’Europa orientale, lasciando dietro di sé case bruciate, finestre rotte, corpi mutilati e in molti casi perdita dei loro cari: padri, madri, sorelle, fratelli e figli. L’antico proverbio rom dice: “Non aver paura di una paura; quando dieci paure si mettono assieme, allora devi aver paura”.21 In Romania, circa 300 rom sono stati uccisi con atti di violenza razzista dal 1989.22 Nella Repubblica Ceca si sono registrati 1.205 attacchi razziali tra il 1990 e il 1997. Tra il 1990 e il 1993, 26 rom sono stati uccisi e nel 1998-’99, il numero delle vittime della violenza era ancora in crescita. In Polonia non ci sono dati statistici che mostrino la marea della violenza contro i rom, né studi completi e dettagliati che analizzino la situazione della minoranza rom.
Inoltre, non c’è nessuna pressione internazionale, non ci sono occhi investigatori di giornalisti stranieri che fiutino lo scandalo, non ci sono attivisti per i diritti umani decisi ad affrontare il mondo. A nostra disposizione ci sono dei rapporti troppo spesso frammentari, troppo generali, troppo eufemistici e talvolta persino contraddittori e devianti. In altre parole, in Polonia non c’è neppure una piccola traccia di scandali di importanza internazionale, ma ci sono dei pogrom anti-Rom. Anche i rapporti più frammentari ne parlano. I pogrom iniziarono fin dal 1981 a Konin e Oswiecim (conosciuta come Auschwitz durante la seconda guerra mondiale). Il Ministro degli Interni, responsabile della concessione dei passaporti internazionali, rilasciò in tutta fretta i documenti di duecento membri della minoranza etnica perseguitata. La maggioranza emigrò in Svezia, alla ricerca di asilo politico. “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, si potrebbe dire: solo che il peggio doveva ancora venire.
Il pogrom di Mlawa nel 1991 creò un precedente pericoloso, visto che la polizia intervenne solo dopo il secondo giorno degli assalti della folla. Il giorno prima, tre rom erano stati uccisi e molte case dei rom erano state devastate dalla folla. Da allora, la violenza e la paura sono diventate esperienza quotidiana per la comunità rom in Polonia. Non si sono mai fatte cronologie né mappe degli attacchi e non è mia intenzione coprire questa lacuna. Però ciò che vorrei fare è rompere il silenzio che circonda la sorte miserevole dei rom in Polonia. Debice, Slupsk, Sandomierz, Kielce, Swiebodzin, Bytom, Kety, Nowy Targ, Brzeg, Ziebice, Zabrze, Sporysz, Radom, Ciechocinek, Sulechow, Bialystok, Chorzow, Katowice, Andrychow, Pabianice, Krosnice, Przemysl, Suwalki, Tarnow.
Questi sono i nomi solo di alcune città dove la violenza anti-rom ha fatto la sua tragica apparizione. È virtualmente impossibile fornire delle date, poiché nella maggior parte di queste città la violenza non si è limitata a incidenti isolati ma ha preso la forma di una campagna di terrore continua e senza scrupoli, condotta con cadenza settimanale. Come in altri Paesi post-comunisti, la polizia polacca ha adottato, quando va bene, una politica di non coinvolgimento, o recandosi troppo tardi sulla scena del crimine o non andandoci per niente e facendo delle indagini non molto accurate.
Molto raramente la polizia ha arrestato i responsabili e anche quando questo è stato fatto, essi sono stati liberati dopo poche ore senza alcuna imputazione. Nessuna procedura giudiziaria è mai stata aperta in Polonia per questo tipo di violenza. A Debice cinque su sessanta assalitori sono stati presi e consegnati alla polizia, ma le accuse vennero lasciate cadere ben prima che si giungesse in tribunale.23
Il razzismo della polizia
Nel 1995, un’inchiesta condotta dal Ministero ceco degli Interni per le Accademie di Polizia rivelò che l’ottanta per cento degli studenti manifestava un elevato livello di razzismo. Una grande maggioranza degli studenti intervistati affermarono che se avessero visto un bambino rom assalito per strada, non gli sarebbero venuti in aiuto.24 Una ricerca simile non è mai stata fatta all’interno del corpo di Polizia della Polonia, poiché le autorità polacche non riconoscono l’esistenza del razzismo. Al contrario, le pratiche correnti della Polizia nei riguardi della minoranza rom riflette il disprezzo e l’odio che sono sentiti dalla maggioranza della società. Abusi verbali come: “Voi zingari dovreste essere portati tutti nella foresta e fucilati”,25 o “Voi gitani siete sempre portatori di disordini”,26 vanno a braccetto con azioni arbitrarie e brutali della Polizia (come: arresti di gruppo, detenzione fino al massimo consentito legalmente senza accuse, abusi fisici gravi e tortura).
La polizia utilizza anche delle strategie che vittimizzano ancor più coloro che già sono vittime. I rom sono spesso minacciati da agenti di polizia con l’arresto o pene pecuniarie per chiamate d’emergenza senza causa reale, fatte nel contesto di attacchi subiti o del timore di attacchi. La polizia della città di Swidwin adotta una politica diversa: gli uomini rom sono oggetto di arresti di gruppo regolari per prevenire gli attacchi di neo-fascisti o di gruppi militari estremisti, e questo col pretesto che è più sicuro per loro essere rinchiusi in prigione piuttosto che essere persone libere che avrebbero o potrebbero avere la scelta di difendere le loro donne e bambini indifesi.
La posizione ufficiale della polizia è il diniego assoluto dell’esistenza di qualsiasi problema. F. Orpeluk, sovrintendente del posto di polizia principale di Ziebice considerava la campagna di aggressione e di violenza contro i rom (conosciuta come: “crociata per la pulizia della città”) come un fatto gonfiato oltre ogni proporzione dai media.27 Il sindaco, T. Wolski, da parte sua, nega che la tensione razziale abbia lacerato la città, e non ammette l’esistenza di nessuna forma di discriminazione contro i rom.28 Questo atteggiamento è prevalente tra i rappresentanti delle autorità locali in Polonia. Un sovrintendente di un’altra regione affermò: “La polizia non registra nessun aumento nel numero degli atti di aggressione commessi contro i rom. Durante gli ultimi anni, abbiamo registrato incidenti singoli, sporadici, diretti contro di essi.”29 E. Mezyk, portavoce della polizia di Nowy Sacz, concludeva: “Non ho mai sentito parlare di numerosi attacchi contro gli zingari. Non credo che la comunità rom dovrebbe sentirsi più in pericolo di altre. Dopotutto, tutti noi abbiamo paura di qualcosa.”30
A livello nazionale, il razzismo e la persecuzione contro i rom sono coperti da silenzio. Bartosz interpreta il silenzio ufficiale come derivante da “una speranza quasi magica che ciò che non viene detto si disintegrerà da se stesso e cesserà di esistere.”31 Però, una credenza magica può difficilmente rendere conto di un’azione politica o della mancanza di essa.
Il riconoscere e il prendere coscienza del problema ai massimi livelli presuppone che si prendano misure globali per combatterlo. Invece il non riconoscerlo è la sola via sicura per nascondere la realtà, e quindi per tentare di sfuggirvi impunemente.
Confrontato con pressioni dall’esterno, come l’imposizione possibile di restrizioni sul rilascio di visti da parte della Gran Bretagna, il governo polacco ha costantemente negato l’esistenza di qualsiasi fondamento per le richieste di asilo politico da parte dei rom. Il governo dichiara: “I rom non sono perseguitati, in Polonia: abbiamo qui un fenomeno tipico di emigrazione per ragioni economiche.”32
La parola degli zingari viene misurata sulla parola degli uomini di governo nel senso che si utilizzano effettivamente gli stereotipi secondo i quali i rom sono imbroglioni e bugiardi. “La situazione dei rom in Polonia non è così cattiva come la presentano essi stessi”, ha affermato J. Mojsiejuk, direttore dei Diritti Umani al Ministero degli Interni. “I funzionari governativi sospettano che alcune società legali specializzate collaborino alla costruzione di sedicenti prove di discriminazione”.33
Ci sono vantaggi politici tangibili provenienti dalla retorica ufficiale del diniego, e cioè la richiesta della Polonia di far parte dell’Unione Europea.
La situazione della comunità rom in Polonia svela la cruda realtà di abuso dei diritti umani, della mancanza di protezione da parte della polizia contro la violenza razziale, e le politiche discriminatorie dello Stato per quanto riguarda l’istruzione, l’alloggio, e il lavoro della comunità rom.
Il negare la credibilità delle richieste dei Rom è, da una parte, una scelta politica cosciente per venire incontro alle attese e alle richieste della Comunità Europea; d’altra parte, il negare è anche un atteggiamento sub-cosciente fortemente radicato negli abissi del pregiudizio e del disprezzo.
False richieste di asilo
I rom che richiedono asilo, fuggendo la persecuzione razziale dall’Europa orientale, non suscitano molte simpatie in Europa occidentale. La posizione ufficiale rafforza la credenza popolare secondo la quale sono richieste di asilo “false”, trattandosi in realtà di migranti per ragioni economiche che invadono la Gran Bretagna per spazzare via lo Stato. Il Ministro dell’Immigrazione, Mike O’Brien, è apparso sulla stampa polacca insistendo chiaramente con il messaggio:
“Siete nell’errore se credete che sarete i benvenuti in Gran Bretagna. Non crediate che il popolo britannico abbia disposizioni morbide. I soldi che spendete per il vostro viaggio verso l’Inghilterra sono soldi buttati via”.34
Parlando alla TV ceca e slovacca ha affermato: “Consideriamo le vostre richieste di asilo come false; vi spediremo indietro il più rapidamente possibile; potreste benissimo passare in detenzione il tempo del vostro soggiorno nel Regno Unito”.35 Jack Straw, il Ministro degli Interni, ha rigettato la credibilità delle richieste di asilo da parte dei rom quando ha affermato in un programma radio della BBC: “Una società di avvocati di Londra si è recata a Dover per consegnare i moduli verdi a questa gente per aiutarli a costruire, inventare e perseguire le loro richieste con spese enormi a carico dei contribuenti”.36
Sono stata personalmente coinvolta nelle procedure dell’Ufficio di Immigrazione del Regno Unito per quanto riguarda i rom che chiedevano asilo. Nelle molte occasioni in cui ho partecipato ai colloqui fatti loro, in quanto osservatrice esterna e interprete, sono stata disgustata dal disprezzo diffuso che funzionari dell’ufficio e alcuni dei loro interpreti ufficiali e impiegati esprimevano liberamente nei riguardi dei rom. Ho condiviso la loro paura ed ero personalmente spaventata dal modo con cui quei colloqui, che erano piuttosto degli interrogatori, venivano condotti. Quasi ogni gesto e osservazione dimostravano gli stessi atteggiamenti pregiudiziali che prevalgono tra gli europei orientali. Questo mi sembrava un insulto evidente, in quanto i rom venivano giudicati prima che avessero la possibilità di parlare. Il cento per cento delle richieste di asilo presentate dai rom vengono respinte dal Ministero degli Interni. Ho letto e tradotto centinaia di lettere di rifiuto da parte del Ministero degli Interni durante gli ultimi tre anni. La mia impressione è che tutte queste lettere usino la stessa retorica di scetticismo e di rigetto, qualunque sia la gravità del caso in questione. Il vocabolario e la grammatica di molte lettere sono orribili e riflettono la profondità del “pensiero” e delle “ragioni” che si trovano dietro la prognosi da essi espressa.
Secondo la mia esperienza, i rom che chiedono asilo non esprimono né sorpresa né shock di fronte al modo indifferente, altezzoso e sprezzante col quale vengono trattati qui. Sono stoici e rassegnati, essendo evidentemente abituati a trattamenti peggiori altrove. La speranza che li ha condotti qui non dura a lungo. Proprio come erano vulnerabili e impotenti di fronte all’oppressione e alla violenza in patria, così si sentono impotenti di fronte alla burocrazia britannica, che richiede loro credibilità e negandola allo stesso tempo.
Padre J. Tischner ha scritto che la “storia dei rom ci dice molte cose sulla coscienza umana, in particolare sulla coscienza cristiana”.37 Quando il 91% dei cechi e degli slovacchi, il 79% degli ungheresi, il 73% dei polacchi, il 59% dei tedeschi, e il 50% degli spagnoli dichiarano il loro odio contro i rom,38 si può dire che essi sono ancora l’alter ego dell’Europa, o, come si esprime M. Kaufman, “la disgrazia perdurante dell’Europa”. Fonseca osservava: “In un mondo illuminato, o per lo meno in un mondo che si compiace dell’eufemismo, è ancora cosa accettabile odiare gli zingari”.39
L’impotenza dei rom è ulteriormente accresciuta dal loro quasi totale isolamento e solitudine nel portare questo peso. La loro sorte miserevole è stata finora riconosciuta e condannata solo da pochi e non hanno ancora ricevuto nessun tipo di quel sostegno pubblico che ha contribuito a smantellare le strutture di oppressione in Sudafrica o negli Stati Uniti. Il primo passo potrebbe essere quello di riconoscere i resti di razzismo contro i rom che si trovano in noi stessi, ma questo potrebbe dimostrarsi difficile o addirittura impossibile. Una tipica reazione di autodifesa potrebbe essere simile a quella di R. Marek: “Come può una persona calunniarmi in questo modo? Io non sono per nulla razzista. Sono un credente praticante, ed ogni domenica dò dei soldi ad una zingara mendicante alle porte della chiesa. Accarezzo il suo bambino e ogni tanto dò loro una caramella”.40
Così i rom devono aspettare; hanno aspettato così a lungo… Per alcuni di loro, abbastanza a lungo da chiedere: “Quanto vediamo ci provoca grande paura … Noi rom dobbiamo chiedere: c’è spazio per noi da qualche parte?”41 Per altri emarginati, respinti, discriminati, perseguitati e profondamente feriti, ciò che resta è sussurrare: “Perché Dio ha creato i rom se il nostro destino è di essere così, dovunque?”42 “Dov’è Dio? Ci ha forse dimenticati?”43
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1 Unwanted Journey – Why Central European Roma are fleeing to the UK [Il viaggio indesiderato – Perché i Rom dell’Europa centrale stanno fuggendo verso il Regno Unito], Commissione per i Rifugiati, Marzo 1999, p.90.
2 The Guardian, 24/03/2000.
3 The Herald, 21/10/1997.
4 The Guardian, 25/03/2000.
5 The Guardian, 24/03/2000.
6 Evening Standard, 26/10/1999.
7 Bartosz, A., Nie Boj sie Cygana, Asteria, Zglobice, 1995, p.24.
8 Ibid., p.25-26.
9 Genesi 4,12.
10 Ibid., 4,13-14.
11 Ibid., 9,25
12 Unwanted Journey 1999, p.27.
13 Puxon, G., Roma: Europe’s Gypsies, Minority Rights. Report 14: Minority Rights Group, 1987, p.12.
14 Bartosz, A.,1995, p.30.
15 Unwanted Journey 1999, p.11.
16 Ibid., 1999, p.44.
17 The Independent, 16/06/1993.
18 Ziebieki (quotidiano), 1998.
19 Bartosz, A., 1995, p.101.
20 Mirga, A., e Mroz, L., Cyganie – Odmiennosc i nietlorancja, PWN, Warszawa, 1994, p.71.
21 Ficowskj, J., Cyganie na Polskich Drogach, Wydawhierwo Literackie, Krakow, 1985, p.247.
22 Unwanted Journey, 1999, p.14.
23 European Roma Rights Centre (ERRC), Country Report: Poland, 1998.
24 Research Directorate Immigration and Refugee Board, Ottawa, Canada, Nov. 1997, p.10.
25 European Roma Rights Centre Report, autunno 1997, p.19.
26 Affermazione di un testimone, 03/01/1995, Refugee Legal Centre Library, p.3.
27 Ziebicki (quotidiano), 1999.
28 Notiziario della TV polacca, 1999.
29 Notiziario della TV polacca, 1999.
30 Polityka (settimanale), 25/09/1999, p.30.
31 Bartosz, A., 1995, p.58.
32 Wprost (settimanale), 24/10/1999.
33 Ibid.
34 Rrom Po Drom (rivista mensile), 01/02/1999.
35 Unwanted Journey, 1999, p.71.
36 Ibid., p.72.
37 Mirga, A., e Mroz, L., 1994, p.10.
38 Bartosz, A., 1995, p.61.
39 Fonseca, I., Bury me Standing: The Gypsies and their Journey, Vintage, 1996, p.232.
40 Gazeta Krakowska (quotidiano), 1998.
41 Brearly, M., Periodico politico del JPR, The Roma/Gypsies of Europe: a persecuted people, 1996, p.1.
42 The Guardian, 25/07/1998.
43 Gazeta – Magazyn (settimanale), 26-27/06/1998.
La persecuzione degli zingari da parte del Fascismo
Scarsissime le fonti, basate soprattutto sulle testimonianze orali. Le disposizioni del settembre 1940 relativamente all’internamento dei rom presenti in Italia. Più che lacunosa la documentazione sui campi di concentramento nel nostro paese. Le vittime del nazismo furono almeno mezzo milione
“Mia figlia Lalla è nata in Sardegna a Perdasdefogu il 7 gennaio 1943, perché eravamo lì in un campo di concentramento”. Quella di Rosa Raidic (Lacio Drom n.2/3, 1984) è una delle rarissime voci di zingari testimoni della seconda guerra mondiale, una delle poche testimonianze che riguardano l’internamento in Italia, sotto la dittatura fascista, di un popolo sempre perseguitato e, anche per questo, ignorato e dimenticato dalla memoria e dalla storia delle dittature nazifasciste.
Dello sterminio degli zingari si sa infatti molto poco, troppo poco. Nonostante sia ormai appurato che, come gli ebrei, furono vittime della persecuzione e dello sterminio razziali praticati dai nazisti in Germania e nei paesi dell’Europa occupata, normalmente si tralascia la loro vicenda o, nel migliore dei casi, se ne accenna in lavori che si occupano del Terzo Reich o del sistema concentrazionario in generale includendoli tra le vittime per poi tralasciare cause e conseguenze della loro persecuzione. Questo anche a causa del fatto che per molto tempo dopo la guerra lo sterminio del popolo zingaro non è stato riconosciuto come razziale ma lo si è considerato conseguenza (quasi ovvia) di quelle misure di prevenzione della criminalità che ovviamente si acuiscono in caso di guerra. Una tesi che trova fondamento nella definizione di “asociali” con la quale inizialmente gli zingari furono deportati, ma che non considera il fatto che, secondo le teorie nazionalsocialiste, gli zingari erano tali perché le caratteristiche loro attribuite dai nazisti erano nei loro geni, nel loro sangue, che li rendeva “irrecuperabili” condannandoli quindi allo sterminio, alla cosiddetta “soluzione finale”.
Va comunque tenuto presente che, almeno per ciò che riguarda il nazismo (e grazie soprattutto all’impegno della studiosa ebrea Miriam Novitch che dedicò gran parte della sua vita a raccogliere documenti sullo sterminio del popolo Rom), esiste oggi una documentazione sufficiente a dimostrare che gli zingari sono stati tra le vittime dello sterminio razziale e che almeno 500.000 di loro sono morti nei Lager, dopo esser stati imprigionati, torturati e violentati come tutti gli altri prigionieri. Altri sono stati uccisi nelle esecuzioni di massa nei paesi dell’est, ma su questo i dati sono davvero scarsissimi.
Non si può invece parlare di ricerca per quel che riguarda l’Italia dove le conoscenze sulla persecuzione degli zingari durante il fascismo sono poche e contraddittorie e si basano quasi esclusivamente sulle testimonianze raccolte nel dopoguerra dai pochi studiosi (tra i quali spicca la figura di Mirella Karpati, del Centro studi zingari, che ha raccolto quasi tutta la documentazione orale oggi disponibile) che si sono occupati della deportazione degli zingari, senza mai ricevere la dovuta attenzione. I dati storici raccolti a oltre cinquant’anni dai fatti sono scarsi, tanto da non permettere ancora di stabilire con certezza come e quanto gli zingari siano stati perseguitati nell’Italia fascista e per quali ragioni.
Eppure la documentazione d’archivio ci fornisce testimonianze orali, ci restituiscono un quadro ancora contraddittorio ma di grande interesse. Coloro che si sono occupati dell’argomento hanno finora generalmente affermato che la politica discriminatoria fascista era indirizzata in particolare contro gli zingari stranieri presenti in territorio italiano e dovuta a ragioni di ordine pubblico. Secondo questa ipotesi fu essenzialmente l’occupazione della Jugoslavia e la conseguente fuga degli zingari da quel paese a costringere le autorità italiane a internare gli zingari. In un certo senso è persino ovvio che le misure di internamento e deportazione degli zingari siano aumentate e divenute più intransigenti con l’occupazione della Jugoslavia, anche solo perché è da quel territorio che molti zingari scapparono in Italia dopo l’occupazione nazifascista. E’ quindi possibile ipotizzare che le misure di deportazione per gli zingari, italiani e non, si siano acutizzate sul finire del 1941, ma questo non esclude atteggiamenti discriminatori anche in precedenza e non necessariamente indirizzati contro gli zingari stranieri.
L’11 settembre 1940 vengono emanate le prime disposizioni per l’internamento degli zingari italiani: una circolare telegrafica del Ministero degli Interni, firmata dal capo della polizia Bocchini e indirizzata a tutte le prefetture fa esplicito riferimento all’internamento degli zingari italiani, dando per scontato il fatto che, in base ad altre direttive quelli stranieri debbano essere respinti e allontanati dal territorio del regno. Nella circolare è scritto che “sia perché essi commettono talvolta delitti gravi per natura intrinseca et modalità organizzazione et esecuzione, sia per possibilità che tra medesimi vi siano elementi capaci di esplicare attività antinazionale… est indispensabile che tutti zingari siano controllati”. Si dispone quindi “che quelli nazionalità italiana certa aut presunta ancora in circolazione vengano rastrellati più breve tempo possibile et concentrati sotto rigorosa vigilanza in località meglio adatte ciascuna provincia…”.
Come si vede si tratta di un ordine importante anche perché, nei documenti d’archivio, è seguito da una fitta corrispondenza che indica come i prefetti eseguano gli ordini procedendo al rastrellamento degli zingari nelle loro provincie: esistono lettere e telegrammi delle autorità di Campobasso, Udine, Ferrara, Ascoli Piceno, Aosta, Bolzano, Trieste e Verona, che, rispondendo agli ordini, indicano come, rapidamente, gli zingari diventino una preoccupazione urgente e importante in tutto il Regno. Poi, il 27 aprile 1941, il Ministero dell’Interno emana un’altra circolare avente ancora per oggetto ‘l”Internamento degli zingari italiani”.
Purtroppo, finora, l’esistenza dei campi di concentramento per zingari è documentata quasi esclusivamente dalle testimonianze orali. I ricordi degli zingari sono frammentari, spezzati dalla riservatezza della memoria e dalla mancanza di una tradizione scritta che caratterizza la loro cultura, ma raccontano l’esistenza di luoghi di detenzione come Perdasdefogu, in Sardegna, il convento di San Bernardino ad Agnone, in provincia di Campobasso, Tossicia, in provincia di Teramo.
Mitzi Herzemberg (Lacio Drom n. 1, 1987) ricorda che ad Agnone, dove gli zingari erano rinchiusi nel convento di San Bernardino, talvolta gli uomini venivano portati fuori a scavare buchi per le mine che servivano a ritardare l’avanzata alleata. Le guardie fasciste inferivano con punizioni durissime sui prigionieri: lui, che allora aveva quattordici anni, lavorava in cucina e cercava di passare un po’ di cibo ai suoi familiari, venne portato fuori per essere fucilato con alcuni altri. Si salvò perché all’ultimo momento la sua pena fu commutata in bstonature e segregazione.
Antonio Hudorovic è stato prigioniero a Tossicia: “Una volta, – dice – quando eravamo a Tossicia, è venuto un ufficiale tedesco. Ci ha preso tutte le misure, anche della testa. Ha detto che era per darci un vestito e un cappello”. Tossicia è l’unico campo di concentramento sul quale si hanno dati abbastanza certi. Le carte e gli atti degli archivi comunali – sui quali ha lavorato in particolare Anna Maria Masserini (Storia dei nomadi, GB od., 1990) – dicono che risulta funzionante dal 21 ottobre 1940 e che dall’estate del 1942 ci sono anche prigionieri zingari, in condizioni miserevoli descritte dal direttore del campo e dall’ufficiale sanitario come invivibili.
Testimonianze sparse ricordano altri luoghi di detenzione: Viterbo, Montopoli Sabina, Collefiorito, le isole Tremiti. E’ anche documentata la presenza di zingari a Ferramonti di Tarsia, uno dei più grandi campi di concentramento italiani, esistito dal luglio 1940 al settembre 1943.
Come è noto, dopo l’8 settembre e con l’inizio dell’occupazione tedesca, molti campi dell’Italia centro-meridionale vennero smantellati, anche per l’arrivo degli alleati, ma questo non significò la fine della deportazione in Italia, nemmeno per gli zingari. Il rom abruzzese Arcangelo Morelli racconta di esser stato rinchiuso e torturato nel manicomio dell’Aquila, trasformato in quartier generale della Gestapo e sappiamo anche che a Gries di Bolzano, anticamera dei Lager nazisti, erano detenuti anche gli zingari.
Giuseppe Levakovich, in un libro che è la sua memoria, ripercorre molte delle vicende degli zingari negli anni delle dittature e della guerra, prima in Jugoslavia poi in Italia e ricorda, con amarezza, lastoria di sua moglie, Wilma, e di altre due giovani zingare, Muja e Mitska, internate a Ravensbrück e poi a Dachau.
Giovanna Boursier
(da Triangolo Rosso, n. 1/98 – gennaio 1998)
IL TRIANGOLO VIOLA
LA PERSECUZIONE NAZISTA DEI TESTIMONI DI GEOVA
E’ stato opportunamente detto che “non è mai troppo tardi per ricordare”, e per questo, anche se oltre mezzo secolo ci separa dai fatti, la vicenda dell’internamento nei campi di concentramento e di sterminio è ancora di attualità. La cosiddetta “burocrazia dello sterminio nazista” ha tentato di annullare l’esistenza di milioni di individui nei 13 anni forse più tragici della storia europea contemporanea. Nel caso di 11 milioni di persone lo ha fatto letteralmente provocandone la morte fisica. Di tutti gli internati si è tentato comunque di annullare l’individualità e la dignità. Bambini e adulti hanno sofferto pene indicibili. La burocrazia dello sterminio non aveva a che fare tanto con esseri umani, quanto con categorie. E queste nei campi si distinguevano per i triangoli e le stelle di vari colori.
Così, com’è noto, la categoria degli ebrei aveva la stella gialla, quella dei politici un triangolo rosso (con indicazione della nazione di provenienza), i delinquenti erano contrassegnati dal triangolo verde, gli omosessuali da quello rosa, i rom e i sinti (definiti zingari) da uno marrone, e così via per un totale di 8‑9 categorie, una delle quali era quella dei testimoni di Geova, riconoscibili nei campi dal triangolo viola che indossavano.
Le categorie, a loro volta, rimandavano alle ragioni che giustificavano (sempreché le coscienze naziste cercassero giustificazioni) dapprima il colpirle, quindi l’internamento e, infine, la soppressione o la “soluzione finale”. Per certe categorie le ragioni erano di ordine etnico: la distanza dallo pseudo‑modello razziale ariano “giustificava” la repressione e l’internamento di categorie ritenute neppure appartenenti all’umanità, quali ebrei e zingari. Per altre categorie, le motivazioni dell’internamento erano di ordine ideologico, come nel caso dei politici. Per un’unica categoria, per meglio dire, per un unico gruppo, tuttavia, le ragioni erano di ordine esclusivamente religioso.* Era proprio questo a rendere così peculiare la presenza di questa comunità relativamente piccola all’interno del sistema concentrazionario. Si trattava dei testimoni di Geova. Quando i nazisti salirono al potere nel 1933, i poco più di 20.000 Testimoni tedeschi furono immediatamente presi di mira quali nemici dello Stato per il loro rifiuto di sostenere l’ideologia nazista imperniata sull’odio.’ Quasi 10.000 Testimoni infine avrebbero sofferto nelle prigioni o nei campi nazisti, dove 2.000 di loro trovarono la morte.
Pur scrupolosi nell’osservare le leggi, i Testimoni non prendevano parte alle questioni politiche e soprattutto alle guerre. Dal loro credo religioso discendevano una serie di comportamenti quotidiani che si scontravano con l’ideologia totalizzante del nazismo: il rifiuto di imbracciare le armi innanzitutto e di lavorare per l’industria bellica, il rifiuto di idolatrare il fúhrer (il saluto “Heil Hitler!”) o la svastica, il rifiuto di aderire al partito nazista, nonché l’imparzialità con cui diffondevano il messaggio evangelico non facendo distinzioni tra etnie, razze, ecc. Quella dei Testimoni fu la prima associazione religiosa ad essere proscritta nella Germania nazista già nella primavera del 1933, e tra i primi internati c’erano appunto i Testimoni, la cui presenza nei campi è documentabile almeno sin dal 1934. 1 comportamenti che scaturivano dal proprio credo religioso erano seguiti dai Testimoni con coerenza e scrupolo, come hanno messo in luce anche diversi studiosi. Wolfgang Sofsky, sociologo tedesco, ha fatto notare: “Le SS attribuivano a questi detenuti [testimoni di Geova] un’influenza maggiore di quella che in realtà avevano. Per molti anni essi vennero perseguitati assai duramente a causa del loro coerente atteggiamento di resistenza passiva: per rompere la loro solidarietà si decise di sparpagliarli in blocchi diversi, ma poi si dovette fare marcia indietro quando ci si accorse del pericolo rappresentato dal loro attivismo “missionario” all’interno delle camerate. [ … ] la resistenza passiva dei testimoni di Geova era rivolta soltanto contro quegli ordini che erano inconciliabili con le loro concezioni religíose’.*
Per uscire dai campi di concentramento o di prigione ai Testimoni internati sarebbe stato sufficiente firmare una abiura (non a caso, uno strumento tipico della repressione religiosa). Era un foglio banale, in cui il detenuto sottoscriveva una dichiarazione che diceva in parte: “Ho lasciato completamente l’organizzazione [degli Studenti Biblici o Testimoni di Geova] e mi sono liberato nel modo più assoluto degli insegnamenti di questa setta. Con la presente assicuro che mai più prenderò parte all’attività [ … ] degli Studenti Biblici. Denuncerò immediatamente chiunque mi avvicini con l’insegnamento degli Studenti Biblici o riveli in qualche modo di farne parte. Consegnerò immediatamente al più vicino posto di polizia tutte le pubblicazioni degli Studenti Biblici che dovessero essere inviate al mio indirizzo. In futuro stimerò le leggi dello Stato, specie in caso di guerra difenderò, armi alla mano, la madrepatria e mi unirò in tutto e per tutto alla collettività”.’
Accontentandosi di una semplice firma su un foglio di carta, i nazisti riconoscevano implicitamente il rigore morale e la coerenza dei Testimoni. Sapevano di dover combattere con loro una battaglia per il dominio dello spirito. Se fossero riusciti a infrangere l’integrità e la coerenza del singolo Testimone inducendolo a firmare l’abiura, ne avrebbero fiaccato la spiritualità. Era una lotta di religione.
Prima ancora, la lotta era cominciata in tutta la Germania. Dal 1933 Bibbie e pubblicazioni bibliche vennero confiscate ai Testimoni e date alle fiamme. Singoli Testimoni furono picchiati e arrestati perché assistevano a riunioni di culto. Si moltiplicarono i licenziamenti di Testimoni che lavoravano nella pubblica amministrazione, nella scuola o in altri impieghi. 1 loro figli vennero espulsi da scuola. Centinaia di genitori si videro privati della potestà quando i figli furono avviati a centri di rieducazione nazista. Nel 1936 la Gestapo formò un’unità speciale per dare la caccia ai Testimoni che si ostinavano a sfidare il bando nazista e continuavano ad osservare clandestinamente i precetti della loro fede. Nel 1938 erano già circa 6.000 i Testimoni imprigionati o internati per la loro fede, con la loro riconoscibile uniforme completata dal triangolo viola. Molti di loro morirono di stenti, altri dopo essere stati torturati dalle SS che volevano i nominativi di loro confratelli e circa 300 Testimoni furono condannati da tribunali militari quali obiettori di coscienza e giustiziati.
La storia dei testimoni di Geova nella Germania nazista è dunque singolare per varie ragioni: (1) 1 Testimoni potevano scegliere: diversamente da altri prigionieri, ciascun Testimone avrebbe riottenuto la libertà semplicemente firmando un atto di abiura della propria fede religiosa. (2) 1 Testimoni furono l’unico gruppo religioso a prendere una posizione coerente contro il regime nazista. Per questo nei campi di concentramento erano l’unico gruppo religioso riconoscibile da uno specifico simbolo sull’uniforme, il triangolo viola. (3) 1 Testimoni, infine, denunciarono apertamente e sugli stampati che diffondevano le barbarie naziste, e per questo la Gestapo e le SS profusero un impegno spropositato nel vano tentativo di annientare questo gruppo relativamente piccolo.
Sono passati più di 50 anni dalla liberazione dai campi di concentramento. Non è mai troppo tardi per ricordare uomini e donne che, per ragioni religiose, erano entrati in quel mondo terrificante fin dal suo inizio. Molti di loro, come milioni di altri, persero tanto: averi, salute, ma soprattutto familiari, amici o la loro stessa vita. Come tanti altri, però, seppero conservare una propria dignità in mezzo a quegli orrori. E, soprattutto, non persero ciò a cui forse tenevano di più: la propria fede religiosa, per la quale tanto erano stati disposti a soffrire.
* D. GARBE, Between Resistance and Martyrdom. fehovahs Witnesses during the ‘Third Reich’, Conferenza, Museo dell’Olocausto di Washington, 29 settembre 1994.
‘ C. KING, fehovahs Witnesses under Nazism, in A Mosaic of Victims. Non‑Iews Persecuted and Murdered by the Nazis, a c. di M. Berenbaum, New York University Press, New York, 1990, p. 189; F. PERADOTTO, Un’esperienza da ricordare, in Religiosi nei lager, a c. di F. Cereja, Franco Angeli, Milano, 1999, p. 19.
W. SOFSKY, L’ordine del terrore, Laterza, Bari‑Roma, 1995, p. 181. L. TRISTAN, S. GRAFFARD, I Bibelforscher e il nazismo (1933‑1945), Editions Tiresias, Parigi, 1994, p. 50.
I testimoni di Geova nel periodo nazista
AVVENIMENTI IN ORDINE CRONOLOGICO
1933 1 testimoni di Geova attivi in Germania sono circa 25000. In marzo a Dachau viene aperto il primo campo di concentramento.
l aprile: Vietate tutte le pubblicazioni religiose stampate dai testimoni di Geova.
Giugno: La polizia di stato prussiana mette al bando l’opera e l’organizzazione dei testimoni di Geova. Alcuni Testimoni vengono condannati a pene detentive in campi di lavoro e di concentramento. La filiale della Watch Tower Society, a Magdeburgo, viene perquisita e chiusa.
16 agosto: Prima menzione dell’esistenza dei campi di concentramento sulla rivista L’Età d’Oro (ora Svegliatevi!), pubblicata dai testimoni di Geova in vari paesi.
1934 7 ottobre: I testimoni di Geova di 50 paesi, Germania inclusa, inviano a Hitler telegrammi di protesta.
1935 1 aprile: Testimoni di Geova vengono espulsi da tutti i posti dell’amministrazione statale e arrestati in tutta la Germania. Vengono sospese pensioni e indennità. Essere sposati con un testimone di Geova viene ora ritenuto motivo valido per il divorzio. Figli di testimoni di Geova vengono espulsi dalle scuole. Alcuni vengono strappati ai genitori per essere allevati in famiglie naziste e in riformatori.
1936 Arresti in massa di testimoni di Geova. Diverse migliaia di loro vengono deportati in campi di concentramento, dove alcuni rimarranno fino al 1945.
12 dicembre: In tutta la Germania i testimoni di Geova distribuiscono segretamente in un’ora 200.000 copie della Risoluzione adottata a Lucerna, una protesta contro la barbarie nazista.
1937 Nel campo di concentramento di Buchenwald si ha il primo caso noto dell’uso del triangolo viola come segno di identificazione degli internati testimoni di Geova.
22 aprile: Per ordine della Gestapo tutti i testimoni di Geova rilasciati dal carcere vengono inviati direttamente nei campi di concentramento.
20 giugno: I testimoni di Geova di tutta la Germania distribuiscono segretamente la “Lettera aperta’ in cui vengono forniti molti particolari relativi alla barbarie nazista.
1938 2 ottobre: Il presidente della Watch Tower Society, Joseph F. Rutherford, denuncia la persecuzione nazista contro gli ebrei in un discorso trasmesso da 50 stazioni radio.
9 e 10 novembre: Gli ebrei, durante un pogrom diventato famoso come Krisfallnachf (notte dei cristalli), subiscono un attacco feroce a livello nazionale. Circa 25.000 ebrei di sesso maschile vengono deportati nei campi di concentramento.
15 novembre: Tutti i bambini ebrei vengono espulsi dalle scuole.
1939 15 settembre: Nel campo di concentramento di Sachsenhausen viene fucilato August Dickmann, testimone di Geova e primo obiettore di coscienza ad essere giustiziato durante la guerra.
1940 La rivista Consolazione, pubblicata dai testimoni di Geova, nel numero del 12 giugno informa: “Quando la Germania iniziò la Blitzkrieg (guerra lampo) in Polonia c’erano 3.500.000 ebrei … la loro distruzione sembra in corso”.
1941 Consolazione del 1° dicembre riferisce: In Austria i 45.000 ebrei che rimangono vengono eliminati scientificamente”.
1942 20 gennaio: Alla Conferenza di Wannsee, i funzionari nazisti decidono la cosiddetta “soluzione finale”, lo sterminio degli ebrei in Europa.
1943 Consolazione del 22 dicembre afferma: “Se i nazisti dovessero vincere la guerra, altre popolazioni, anche se ridotte in schiavitù, sarebbero risparmiate, ma gli ebrei sarebbero sterminati. … Dovunque è penetrato il nazismo, attraverso conquiste militari o in altro modo, gli ebrei sono stati crudelmente sterminati”.
1944 Consolazione del 19 gennaio riferisce: “Circa 7.000.000 di ebrei sono caduti nelle mani dei nazisti; l’intenzione di Hitler è quella di eliminarli tutti”.
1945 7 maggio: La Germania si arrende e ha fine la guerra in Europa. In novembre iniziano a Norimberga i processi per i crimini di guerra.
1946 30 settembre: A Norimberga vengono emesse le sentenze dei processi per i crimini di guerra. Lo stesso giorno i testimoni di Geova tengono u na assemblea pubblica allo Zeppelinwiese, usato in precedenza per i raduni nazionalsocialisti.
http://www.romacivica.net/anpiroma/deportazione/deportazionedisabili.htm
Progetto T4: lo sterminio dei disabili
a cura di Michele Pacciano
Forse non tutti sanno che il genocidio nazista cominciò proprio dai disabili. Le persone handicappate, minori e adulte, furono le prime cavie designate di tutte le tecniche di annientamento, sterilizzazione e eutanasia sviluppate poi nella Shoah. Le prime prove documentali degli orrori nazisti, riguardarono proprio la persecuzione e i campi di uccisione dei disabili, anticamera dell’universo concentrazionario. Come vedremo le campagne di sterilizzazione, internamento e deportazione delle persone handicappate, presero il via nei mesi immediatamente successivi all’ascesa di Hitler, trovando terreno fertile nelle teorie eugenetiche e nella difesa della razza.
Dopo un’intensa campagna di sterilizzazione, si passò all’uccisione sistematica dei bambini disabili, cui è dedicata una larga parte di questa ricerca, in quanto uno degli aspetti più oscuri dell’olocausto. Il progetto T4, l’eutanasia di massa degli adulti disabili, che condusse alla morte circa 70.000 cittadini tedeschi, iniziò solo nel 1939, per interrompersi poi, ma solo formalmente, su pressione dell’opinione pubblica e delle Chiese, nell’agosto del 1941. Con l’estendersi dei fronti di guerra, lo sterminio dei disabili non risparmiò certo i Paesi occupati, con drammatici strascichi anche in Italia, come testimonia la deportazione dei disabili ebrei internati negli ospedali psichiatrici di Venezia, deportati ad Auschwitz-Birkenau. Perché nella tragedia di ognuno, si ritrova la Storia di tutti.
Sono passati 56 anni dalla Liberazione, ma la Shoah non è poi così lontana. Solo un anno fa in Austria si è celebrato l’ultimo processo contro il dottor Henrich Gross, psichiatra di Vienna, già citato nella ricerca, accusato di aver effettuato oltre 300 esperimenti usando bambini disabili come cavie umane. E’ di questi giorni la notizia che, anche in Italia, un’apposita commissione sta quantificando i risarcimenti dovuti alle vittime dell’olocausto, tra le quali rientrano, a pieno titolo, anche le persone disabili che abbiano patito persecuzioni. Il risarcimento, per quanto simbolico, potrà dare dignità a tutte quelle “Persone” che la gli artefici della Shoah avevano preteso di cancellare con “Più” o con un “Meno”.
Lo sterminio dei disabili, scenario e modalità
Lo sterminio dei disabili, non fu solo la parte scura e misconosciuta dell’olocausto. L’eliminazione sistematica di più di settantamila handicappati da parte del Terzo Reich fu la fase iniziale della Shoah, una sorta di macabra prova generale di quello che sarebbe poi accaduto ad ebrei e zingari.
La presa di potere da parte dei nazisti, il 30 Gennaio 1933, pose le condizioni per una politica di epurazione e soppressione a difesa della razza, ma le teorie eugenetiche alla base del progetto, non erano certo nuove. La difesa della razza non è un parto della sola filosofia tedesca, ma affonda le sue radici nelle teorie sull’ereditarietà e sull’evoluzione della specie, che animò tutto il diciannovesimo secolo e i primi anni del ventesimo, con importanti contributi che vennero soprattutto dalla scuola americana di Princeton e da una attualizzazione delle teorie lombrosiane. A Lombroso si deve, infatti, una prima classificazione degli esseri inferiori, mutuata poi dal nazismo.
La Germania di Hitler fu dunque il terreno di coltura dove queste teorie prosperarono e si attuarono. Le prime vittime furono i disabili. Le tecniche di annientamento, attraverso i vari stadi dell’ostracismo, internamento, deportazione ed eliminazione fisica, furono prima provate su portatori di handicap fisici e mentali per essere poi essere attuati su larga scala.
Il 14 Luglio 1933, a pochi mesi dalla presa di potere, Hitler emanò la famosa legge sulla sterilizzazione, che entrò in vigore per tutto il Reich solo il 25 Luglio dello stesso anno, per motivi eminentemente politici.
Il 14 Luglio, infatti, il Reich aveva firmato un accordo economico con il Vaticano.
La promulgazione della legge sulla sterilizzazione avrebbe quindi potuto incrinare i rapporti con la Santa Sede.
L’attuazione della campagna contro i disabili, si avvalse anche di una serie di regolamenti emanati su base regionale cui fece seguito, il 18 Ottobre 1935, la legge sulla salute coniugale, che impediva i matrimoni e la procreazione tra persone disabili, favorendo una serie di pratiche abortiste, previo consenso della donna, per quei soggetti affetti dalle seguenti patologie:
A capo di tutta l’operazione, articolata in base a denunce di ospedali e case di cura, fu posto, su espressa menzione del Furher, il medico generale del Reich, Gherard Wagner, sostituito negli ultimi mesi del 1938 dal suo vice Leonardo Conti, patologo di chiara origine italiana e convinto assertore della superiorità della razza.
Le pratiche di sterilizzazione venivano inoltrate dai singoli ospedali ad una specifica commissione territoriale composta da medici e membri del Partito, che ne vagliava la positività. Se si guarda a un dato statistico, ci si accorge come le donne fossero in maggioranza rispetto agli uomini e le pratiche di sterilizzazione fossero improntate più a un criterio di utilità sociale che a una vera e propria difesa della razza.
A questo proposito appare calzante l’esempio della diagnosi effettuata su Erwin Ammann, maschio ventottenne del Tirolo, incluso nella categoria delle persone asociali e proposto per la sterilizzazione. Il test su Ammann dette esito negativo e un funzionario della commissione riuscì a provare l’utilità sociale del soggetto, rivelando la sua effettiva capacità lavorativa e la possibilità di svolgere mansioni manuali complesse. Questo a riprova della effettiva discrezionalità delle commissioni esaminatrici. Ciò nonostante tra i soggetti proposti per la sterilizzazione, guardando il dato relativo agli anni tra il 1933 e il 1938, solo il 7,2% delle domande fu respinto, salvo la possibilità di appello degli ospedali richiedenti.
Il 1938 segna comunque uno spartiacque nella politica eugenetica nazista. Se si assiste ad un primo picco delle sterilizzazioni dovuto alla campagna espansionistica di Hitler, dopo l’annessione dell’Austria e dei Sudeti, si assiste anche all’inizio di quell’operazione di eutanasia collettiva, tenuta strettamente segreta, e partita direttamente dalla cancelleria privata del Furher, che culminerà nel 1939 con l’inizio del famigerato progetto T4.
Il primo passo: l’uccisione dei bambini disabili
L’offensiva contro i pazienti disabili ricoverati in ospedali di stato e case di cura si era inaugurata nel 1933 con l’introduzione della sterilizzazione e una riduzione del livello di assistenza. Ma era solo il principio. Nel 1935 Adolf Hitler aveva dichiarato a Gerhard Wagner, capo dei medici del Reich, che una volta iniziata la guerra avrebbe attuato l’eutanasia; e il Fuhrer fu di parola. Quando, il primo settembre 1939 ebbe inizio la guerra, l’apparato per sopprimere i disabili era pronto e le uccisioni ebbero inizio. E cosi come alla legislazione sulla sterilizzazione emanata contro i portatori di handicap aveva fatto seguito quella promulgata contro gli ebrei e gli zingari, all’assassinio dei disabili segui l’assassinio degli ebrei e degli zingari.
Il primo passo fu l’assassinio dei bambini disabili. Nel 1938 Hitler prese a pretesto il caso del neonato di una famiglia di nome Knauer per attivare il progettato programma di eutanasia. A quanto pare il figlio (o la figlia: il sesso non ci è noto) degli Knauer era nato con gravi handicap. Non è possibile ricostruire con certezza l’esatta natura del suo disturbo, ma le testimonianze sembrano concordare sul fatto che fosse cieco e che i medici avessero formulato nei suoi confronti la diagnosi di “idiotismo”. Tuttavia non tutti gli osservatori rilevarono la sua cecità e per quanto riguarda la diagnosi di idiotismo non furono offerti argomenti sufficientemente precisi; Il neonato soffriva inoltre di convulsioni.
Il padre del bambino consultò Werner Catel, direttore della Clinica infantile dell’Università di Lipsia, e gli chiese di accogliere il figlio.Catel ricoverò il neonato, ma più tardi avrebbe affermato che il padre gli aveva chiesto di sopprimere il bambino, richiesta cui aveva opposto un rifiuto trattandosi di un atto punito dalla legge.
Tali appelli pervennero a Hitler attraverso la sua cancelleria privata, dove già erano state raccolte suppliche analoghe. Questa Cancelleria del Fuhrer diretta da Philipp Bouhler, preparava le informazioni per il Fuihrer, il quale decise di intervenire nel caso Knauer. Hitler ordinò a Karl Branda, suo medico di scorta, di visitare. il neonato degli Knauer, di consultarsi con i medici di Lipsia e di uccidere il bambino nel caso in cui la diagnosi avesse ratificato le condizioni fisiche e psichiche descritte nella supplica. A Lipsia Brandt si consultò con i medici curanti, confermò la diagnosi e autorizzò l’eutanasia: il bambino fu ucciso.
Dopo l’uccisione del neonato degli Knauer, Hitler autorizzò Brandt e Bouhler a istituire un programma di soppressione dei bambini portatori di difetti fisici o mentali. Pertanto egli nominò Brandt e Bouhler, suoi plenipotenziari per questo cosiddetto programma di eutanasia infantile. Come la maggior parte dei capi nazista, i due uomini erano relativamente giovani: Brandt aveva 35 anni e Bouhler ne aveva 39. Il primo, a cui era stata affidata la responsabilità di prendere una decisione nel caso Knauer, era una scelta scontata; il che non si può dire nel caso del secondo. Non vi è dubbio che Bouhler fu scelto perché Hitler voleva affidare alla KdF (Cancelleria privata di Hitler), la responsabilità dell’impresa. Un ufficio doveva organizzare e dirigere l’operazione di sterminio e la KdF, che era già stata coinvolta nel caso Knauer, era una scelta perfetta. Se la direzione fosse stata affidata a un dipartimento governativo, I’RMdI ad esempio, la cerchia degli iniziati si sarebbe allargata e non si sarebbe potuto mantenere il segreto sulle uccisioni. Si sarebbe resa necessaria la collaborazione di troppi uffici governativi e di troppi pubblici funzionari.Inoltre incaricare il governo dell’esecuzione di questo compito avrebbe richiesto ordini ufficiali scritti che Hitler non intendeva emanare. Se la direzione fosse stata assegnata a un ufficio del partito nazista, ad esempio la Cancelleria del partito nazista o la Schutzstaffell del partito (le SS), un simile aperto coinvolgimento dei capi e degli uffici locali del partito avrebbe reso difficile un’attuazione del programma ordinata e segreta. Inoltre Hitler non voleva rischiare di generare un’ondata di disapprovazione nei riguardi del partito prima di essersi accertato di avere l’opinione pubblica dalla sua parte.
La KdF era l’ufficio più idoneo ad attuare il programma di eutanasia perché non aveva nessuno degli inconvenienti sopra elencati. Non era un ente statale. Sebbene fosse un’agenzia del partito (il suo nome completo era Cancelleria del Fuhrer del partito nazista), essa era totalmente indipendente dal quartier generale del partito a Monaco, la Cancelleria del partito nazista diretta da Martin Bormann.
La KdF fungeva da cancelleria privata di Hitler, accanto ma separata dalla Cancelleria presidenziale di Hitler, diretta da Otto Meissner, e dalla Cancelleria del Reich, diretta da Rans Reinrich Lammers.
Celata alla vista del pubblico e di dimensioni relativamente modeste, la KdF poteva gestire le uccisioni senza coinvolgere troppe persone e senza acquistare troppa visibilità. La KdF, ubicata a Berlino sul Lutzow Ufer e, successivamente, al numero 8 della Voss Strabe, era suddivisa in cinque uffici centrali. Il primo si occupava degli affari privati di Hitler ed era diretto da Albert Bormann, fratello di Martin. Il secondo affrontava questioni riguardanti il governo e il partito ed era diretto da Viktor Brack. Tale ufficio si occupava anche delle domande di clemenza, ivi incluse quelle che richiedevano la morte pietosa; la domanda degli Knauer era giunta fino a Hitler passando per questo ufficio. Il terzo ufficio centrale gestiva le amnistie per i membri del partito condannati dai tribunali del partito, il quarto si occupava di tutti gli affari economici e sociali e il quinto affrontava questioni concernenti l’amministrazione interna e il personale. Bouhler assegnò il compito di organizzare le uccisioni per eutanasia al II ufficio centrale e quindi affidò al trentaquattrenne Brack la gestione quotidiana del programma di eutanasia.
Nel II ufficio centrale della KdF Viktor Brack aveva creato quattro uffici. L’ufficio IIa era occupato da Werner Blankenburg, vice di Brack; gli uffici IIc e IId si occupavano degli affari delle forze armate, della polizia, delle SS e del partito nazista.
L’ufficio IIb, che si occupava del governo del Reich, fatta eccezione per le forze armate e la polizia, era anch esso responsabile delle domande di clemenza. Brack affidò a questo ufficio l’incarico di coordinare l’eutanasia infantile. Hans Hefelmann lo diresse e Richard von Hegener svolse la funzione di aggiunto.
Hefelmann era nato a Dresda nell’ottobre del 1906 e dunque aveva soltanto 32 anni
quando assunse un ruolo centrale nella prima massiccia operazione di sterminio del regime nazista. Figlio di un produttore agricolo, Hefelmann aveva ricevuto il dottorato in agricoltura nel 1932. Si era iscritto al partito nazista nel febbraio del 1931 e, dopo aver condotto per un breve periodo un’attività commerciale privata, era entrato a far parte dello staff del dipartimento di economia del quartier generale nazista, passando quindi alla KdF nel gennaio del 1936. Posto a capo dell’ufficio IIb nel 1937, diresse questo dipartimento e eutanasia fino alla sua chiamata alle armi avvenuta nel 1943. Nel 1942 Bouhler raccomandò Hefelmann per una decorazione di guerra; come molti altri, responsabili delle operazioni di sterminio, Hefelmann fu decorato per il suo servizio dietro le linee. Sebbene Bouhler si avvalesse della terminologia utilizzata per dissimulare le stragi, la motivazione da lui fornita per conferire a Hefelmann la Croce di guerra di seconda classe conteneva un evidente riferimento all’eutanasia infantile: “Oltre a fornire contributi particolarmente importanti nella gestione di problemi di sanità pubblica di competenza del II ufficio centrale, il camerata Dr, Hefelmann ha fornito la base intellettuale per l’esecuzione di un compito speciale, importante per lo sforzo bellico e assegnato dal Fuhrer. Egli dirige un dipartimento separato, con responsabilità autonome, finalizzato a questo compito speciale.
Von Hegener, figlio di un ufficiale dell’esercito, era nato nel settembre del 1905 nella Prussia orientale e dunque aveva soltanto un anno più di Hefelmann. Dopo aver ottenuto il diploma di scuola secondaria nel 1923, entrò nel mondo degli affari; lavorò per la Dresdner Bank dal 1923 al 1929, per una ditta di trasporti fino al 1931 e quindi come statistico per l’Associazione tedesca dei produttori di ferro e acciaio. Nel 1931 si era Iscritto al partito nazista e aveva partecipato attivamente all’attività della cellula locale. Nel 1937 entrò a far parte dello staff della KdF per svolgere infine l’incarico di vice di Hefelmann nell’ufficio IIb e nell’ambito del programma di eutanasia infantile. Il lavoro di von Hegener fu altamente stimato: lo stesso giorno e con la medesima motivazione, Bouhler lo propose per la stessa decorazione per cui aveva proposto Hefelmann.
Tra il febbraio e il marzo del 1939 gli uomini incaricati della direzione dell’eutanasia dei bambini si riunirono e misero a punto i metodi della sua attuazione. Dapprima Brack e Hefelmann della KdF s’incontrarono privatamente con Herbert Linden dell’RMdI. Linden rappresentava il IV dipartimento, la cui collaborazione era indispensabile per una efficiente attuazione dell’operazione di sterminio per eutanasia.
Nell’RMdI il IV dipartimento si occupava della sanità pubblica e dunque aveva imposto la legislazione razziale ed eugenetica, inclusa la legge sulla sterilizzazione. Il dipartimento supervisionava le autorità sanitarie degli stati federali [Lànder] e delle province prussiane; gli ospedali di stato e case di cura [Heil-und P.flegeanstalten]; e gli
ufficiali sanitari [Amtsarzte] locali.Ministerialdirigent Arthur Gutt fu a capo del dipartimento fino alla fine del 1939, quando fu costretto ad andare in pensione per incapacità. Nato nel 1891, Gutt aveva ottenuto l’abilitazione all ‘ esercizio della professione medica nel 1918. Nel settembre del 1932 si era iscritto al partito nazista e,
nel luglio del 1933 si era unito alle SS, raggiungendo nel 1938 il grado di generale di brigata. Manifestò uno spiccato interesse per le tematiche razziali e l’eugenetica divenendo il coautore di due commenti semiufficiali sulle leggi dell’ereditarietà e sulle leggi razziali di Norimberga.
Sul conto di Herbert Linden disponiamo di informazioni assai più scarse. La sua qualifica era quella di Ministerialrat (consigliere ministeriale), un gradino al di sotto del Ministerialdirigent. Linden svolse l’incarico di capo sezione [Referent] nel dipartimento di Gutt e pare che fosse responsabile sia degli ospedali di stato e case di cura sia dell’applicazione delle leggi sulla sterilizzazione e il matrimonio. Fatto più importante, fu l’autore insieme a Gutt e Mabfeller del commento sulle leggi razziali di Norimberga e sulla Legge per la salute matrimoniale. Linden era nato nel settembre del 1899 a Costanza, nel Baden, e nel 1925 aveva ottenuto l’abilitazione all’esercizio della professione medica. Non sappiamo quando entrò a far parte dell’amministrazione statale, ma sembra che trascorse gran parte della sua carriera nella veste di pubblico funzionario; dal suo certificato d’iscrizione all’ordine dei medici non risulta che egli abbia mai esercitato la professione privatamente, o che si sia mai specializzato in una branca della medicina. Egli aderì presto al partito nazista, il 23 novembre del 1925, ma a quanto pare non svolse alcun incarico nel partito, ne entrò a far parte delle SA o delle SS. Alla fine della Linden sfuggi all ‘ arresto e all’interrogatorio; si suicidò il 27 aprile 1945. In tal modo Linden il più oscuro fra i principali responsabili dell’eutanasia.
Dopo che Brack, Hefelmann e Linden ebbero concordato le modalità con cui procedere, essi ampliarono il gruppo di pianificazione includendo alcuni medici scelti: Karl Brandt, Werner Catel, Hans Heinze, Hellmuth Unger e Ernst Wentzler.Ad eccezione di Brandt, il quale era nato nel gennaio del 1904, questi medici avevano tutti una quarantina d’anni. Brandt, che si era iscritto al partito nazista nel 1932 e alle SS nel 1934 era una scelta scontata: aveva gestito il caso Knauer e era stato nominato da Hitler plenipotenziario per l’eutanasia.Catel, che si era iscritto al partito soltanto nel maggio del 1937, era un ‘altra scelta obbligata perché il neonato degli Knauer era stato ucciso nella sua clinica.Heinze, uno specialista in psichiatria e neurologia che dirigeva l’ospedale statale di Brandenburg-Gorden, aveva preso la tessera del partito nel maggio del 1933; si era aggiunto al gruppo su indicazione di Linden. Unger era un oftalmologo la cui domanda d’iscrizione al partito era stata respinta. Nel romanzo Sendung und Cewissen (Missione e coscienza) aveva difeso l’eutanasia; successivamente da quest’opera si sarebbe ricavato un adattamento per il grande schermo intitolato Ich klage an (Io accuso), una pellicola propagandistica. La sorella di von Hegener aveva raccomandato Unger a Hefelmann.Wentzler, che si era iscritto al partito nel 1934, era un pediatra che esercitava con successo a Berlino; era stato raccomandato alla KdF da Leonardo Conti, il fuhrer dei medici del Reich.
Fin dall’inizio la pianificazione e l’attuazione dell’eutanasia furono classificate “top secret” [geheime Reichssache] e la KdF doveva restare invisibile. Pertanto i pianificatori crearono un’organizzazione fittizia per camuffare la direzione dell’eutanasia infantile da parte della KdF.Essi scelsero il nome fantasioso di Comitato per la registrazione scientifica di gravi disturbi ereditari [Reichsausschufb zur wissenschaftlichen von erb und anlagebedingten schweren Leiden].Questo ente fittizio, chiamato per brevità “Comitato del Reich”, esisteva soltanto sulla carta: il suo indirizzo era una casella postale. Esso serviva esclusivamente a coprire le attività della KdF. Hefelmann e von Hegener la dirigevano senza ovviamente usare i loro nomi, firmando i documenti come “Dr, Klein”; come vedremo, tutti i funzionari della Kdf usavano nomi in codice quando gestivano le operazioni di eutanasia. Per i non iniziati il Comitato del Reich, serviva a celare l’operazione di sterminio; il suo nome contorto si adattava alla perfezione al suo presunto ruolo di istituto di ricerca scientifica.
Questo piccolo gruppo di medici e dirigenti sviluppò il sistema di eutanasia durante le riunioni tenutesi nella primavera del 1939. Essi decisero che il processo di selezione si sarebbe basato su moduli di dichiarazione (Meldebogen).Concordarono inoltre che i dati così raccolti sarebbero stati valutati da periti, che avrebbero deciso il destino del bambino preso in esame., Verso l’estate del 1939 il gruppo aveva terminato la fase di pianificazione e il progetto poteva entrare nella fase attuativa.Le prime uccisioni ebbero luogo intorno all’ottobre del 1939.
Né la KdF né il Comitato del Reich potevano dare inizio e portare a compimento il progetto di sterminio. Per questo i pianificatori avevano bisogno dell’RMdI, perché soltanto un ministero poteva garantire che si ottemperasse alle disposizioni del programma di eutanasia. Perciò il 18 agosto 1939 1’RMdI fece circolare un decreto intitolato Meldepflicht fur mibgestaltete usw. Neugeborene (Obbligo di dichiarazione di neonati deformi ecc.). Esso recava il timbro “strettamente confidenziale” e non fu pubblicato sulla gazzetta ufficiale del ministero; preparato dal IV dipartimento, fu siglato dal segretario di stato Wilhelm Stuckart a nome del ministro del Reich Wilhelm Frick.
Il decreto ordinava alle ostetriche e ai medici di dichiarare tutti gli infanti nati con specifiche condizioni mediche:
1. idiotismo e mongolismo (in particolare i casi che presentavano anche cecità e sordità);
2. microcefalia (dimensioni della testa abnormemente piccole);
Oltre ai neonati, i medici dovevano dichiarare tutti i bambini sotto i tre anni affetti da tali condizioni.
Al decreto fu allegato un campione del modulo di dichiarazione
Quest’ultimo richiedeva le seguenti informazioni, oltre al nome, l’età e il sesso del bambino: una descrizione particolareggiata della malattia; una spiegazione del modo in cui la funzionalità del bambino veniva compromessa dalla malattia; dettagli relativi alla degenza e al nome dell’ospedale; una stima della speranza di vita; e possibilità di miglioramento. Il modulo occupava soltanto un lato di una pagina; lo spazio per le descrizioni particolareggiate non era quindi molto. Ostetriche e medici dovevano sottoporre le loro dichiarazioni all’ufficio di sanità pubblica locale, che doveva verificare le informazioni e quindi inviare la dichiarazione al Comitato del Reich presso la casella postale 101, Berlino W 9.
La frase di apertura del decreto si prefiggeva di dare l’impressione che l’obiettivo del ministero fosse quello di realizzare un’indagine scientifica che avrebbe aiutato i bambini sofferenti di gravi disturbi: “La registrazione tempestiva dei casi appropriati in cui siano presenti deformazioni e ritardo mentale ereditari è essenziale per la chiarificazione di problemi scientifici”.Sebbene la mancata pubblicazione del decreto da parte dell’RMdI e l’uso di un istituto di ricerca privato munito di casella postale avrebbe potuto destare dei sospetti, sembra che nella maggior parte dei casi il provvedimento venisse accolto come una semplice richiesta di informazioni per un’indagine statistica. In nessun luogo il decreto rivelava le vere ragioni dietro questo obbligo di dichiarare bambini disabili. Il modulo originale, utilizzato per dichiarare i bambini, si rivelò insufficiente. Perciò il 7 giugno 1940 I’RMdI emanò una circolare che annunciava l’introduzione di un nuovo modulo. Quest’ultimo richiedeva una maggiore dovizia di particolari.Mentre il vecchio modulo domandava soltanto il nome, l’età e il sesso del bambino, il nuovo richiedeva anche il suo recapito e la sua fede religiosa. Le domande concernenti lo stato di salute del bambino erano maggiormente dettagliate ma non presentavano differenze sostanziali. Fatto più importante, il nuovo modulo richiedeva informazioni circa la nascita del bambino e le storie cliniche di genitori, fratelli, sorelle e altri parenti.
L’RMdI aveva messo in moto il programma che avrebbe condotto all’uccisione dei bambini disabili. Tuttavia il ministero era soltanto “l’addetto al trasporto della posta”; era il Comitato del Reich ad amministrare il programma. Quest’ultimo assolveva a due funzioni, una considerata amministrativa e l’altra medica. L’amministrazione s’imperniava sull’ufficio IIb della KdF, dove Hefelmann e von Hegener dirigevano l’impresa. La direzione medica del Comìtato spettava al valutatori esperti.
I moduli con cui si dichiaravano i bambini furono compilati da ostetriche e medici, che li consegnarono agli uffici sanitari locali; per evitare confusioni, gli uffici provinciali e statali tenevano registri e controllavano che i moduli venissero trasmessi al Comitato del Reich. Hefelmann e von Hegener rientravano in possesso dei moduli attraverso la casella postale e alla KdF li registravano e classificavano. Questi due funzionari, che non avevano alcuna formazione in campo medico, decidevano quali fra i casi dichiarati meritavano la particolare attenzione dei periti medici e li inviavano a questi ultimi perché prendessero una decisione.
I periti erano Werner Catel, Hans Heinze ed Ernst Wentzler, tutti membri del comitato di pianificazione e sostenitori militanti dell’eutanasia. Essi presero tutte le decisioni unicamente sulla base dei moduli di dichiarazione; non visitarono mai i bambini e neanche consultarono la casistica medica esistente. I periti annotavano un voto accanto ai propri nomi su una carta da lettera che recava l’intestazione “Comitato del Reich”, ma che era preparata dalla KdF per ogni bambino preso in esame. Non vi era spazio per lunghi commenti. Un semplice segno più (+) indicava l’inclusione nel programma e dunque l’uccisione del bambino; un semplice segno meno (-) indicava l’esclusione, il che voleva dire che il bambino poteva continuare a vivere. Se il perito era indeciso, annotava “osservazione”, il che differiva la decisione. Poiché la KdF non possedeva una copiatrice, non era possibile inviare ai valutatori più copie dei moduli di dichiarazione. Pertanto Catel, Heinze e Wentzler non votavano separatamente; lo stesso foglio per registrare i voti e lo stesso modulo di dichiarazione passavano dall’uno all’altro, in modo tale che ognuno era a conoscenza dei voti espressi dagli altri due.
Per l’uccisione dei bambini, che una volta presi nella rete dell’operazione diventavano noti come “bambini del Comitato del Reich”, il Comitato creò i cosiddetti reparti per l’assistenza esperta dei bambini presso ospedali e cliniche statali. Il primo di questi reparti fu istituito rapidamente sotto la direzione di Hans Heinze presso il suo istituto a Brandenburg-Gorden; per creare gli altri ci volle del tempo perché la KdF doveva reclutare direttori di istituti disposti a ospitare reparti per l’eutanasia e medici disposti a realizzarla.
Il primo luglio 1940 I’RMdI emanò una circolare che annunciava la creazione (che in realtà era avvenuta qualche tempo prima) del primo reparto infantile del Comitato del Reich a Brandenburg-Gorden vicino Berlino. Il provvedimento, continuando a dissimulare l’intento reale del programma, informava gli uffici sanitari che: “sotto esperta supervisione medica, il reparto di psichiatria infantile a Gorden, vicino Brandeburgo sull’Haven, fornirà tutti gli interventi terapeutici disponibili, resi possibili da recenti scoperte scientifiche”.
La stessa disinformazione caratterizzò tutti gli atti successivi fatti circolare dall’RMdI. Il 18 giugno 1940, ad esempio, il ministro chiese che il sistema assistenziale coprisse le spese di ricovero di bambini appartenenti a famiglie indigenti. Il ministero avvisava gli enti assistenziali che il denaro sarebbe stato ben speso perché, anche se solo in pochi casi la salute del bambino sarebbe migliorata, i risparmi futuri in ordine all’assistenza avrebbero compensato le spese.
Tuttavia non era possibile svelare ai genitori o agli enti assistenziali il costo effettivo del cosiddetto trattamento perché avrebbe voluto dire rivelare troppo; i genitori si aspettavano che il trattamento durasse per anni o decenni e dunque costasse molto, e le autorità, che sapevano che trattamento si sarebbe concluso rapidamente, non potevano dargli chiarimenti.
Da principio perfino i medici che compilavano i moduli di dichiarazione non si resero conto della verità. Un ufficiale sanitario, interessato a organizzare il trasferimento alcuni bambini presso il nuovo istituto di Gorden, si lamentò del fatto che quest’ultimo non rispondeva alle sue domande relative ai costi. Il Comitato del Reich possedeva i fondi per coprire tutte le spese quando non vi era alternativa, ma cercava, ogniqualvolta era possibile, di indurre i genitori o gli enti assistenziali a pagare per le uccisioni segrete.
Il sistema di sterminio si fondava sulla collaborazione di burocrati, medici e genitori:
l’RMdI facilitava la collaborazione dell’amministrazione pubblica, incluso il servizio sanitario, la KdF reclutava i medici, le infermiere e il personale per le uccisioni effettive e i burocrati e i medici lavoravano affinché i genitori dessero il loro consenso.
Quando il sistema di dichiarazione e valutazione dei bambini disabili fu attivato, si fece pressante esigenza di istituire altri reparti di eutanasia e di reclutarne lo staff; da solo il reparto infantile di Gorden non poteva gestire tutte le vittime attese. La KdF reclutò i medici necessari per compiere le uccisioni, i quali poi divennero affiliati al Comitato del Reich. Hefelmann, von Hegener e Linden direttamente o tramite le autorità sanitarie degli stati federali e delle province prussiane. La maggior parte dei medici scelti collaborarono con l’operazione di sterminio; una minoranza si rifiutò e fu dispensata dal partecipare.
Come vedremo, l’uccisione dei disabili adulti avrebbe presto superato l’uccisione dei bambini, coinvolgendo un numero assai più elevato di assassini e di vittime, Molti medici (per esempio i direttori degli ospedali statali di Gorden, Eichberg e Eglfing-Haar) avrebbero svolto un ruolo nell’uccisione sia di bambini che di adulti, e spesso non è più possibile ricostruire esattamente il modo in cui il coinvolgimento di tali medici nel programma di eutanasia infantile si trasformò in partecipazione all’eutanasia degli adulti. Infine il Comitato del Reich aveva istituito almeno 22 reparti di eutanasia infantile. Su alcuni reparti non si hanno altre informazioni oltre alla loro mera esistenza; altri sono stati ricoperti da infamia in seguito alle rivelazioni emerse nel corso dei processi che ebbero luogo dopo la fine della guerra.
Non è difficile capire perché Gorden fu scelta quale sede del primo reparto di eutanasia infantile. Gorden era un grande complesso ospedaliero, che assolveva il ruolo di istituto pubblico per la provincia prussiana di Brandeburgo. Era situata vicino alla città di Brandeburgo e al suo centro di uccisione di pazienti adulti che, come vedremo, fu istituito addirittura prima che Gorden inaugurasse il suo reparto infantile. Quest’ultima non era lontana da Berlino e dunque non vi era alcun problema di comunicazione rapida con la KdF. Inoltre Gorden era diretta da Hans Heinze, che era uno dei tre periti per l’eutanasia infantile.
Il reparto di Gorden e i metodi ivi introdotti da Heinze costituirono il modello per altri reparti infantili; Gorden divenne un centro di formazione per medici incaricati di dirigere l’uccisione dei bambini. Hermann Wesse, ad esempio, si formò a Gordon nel maggio del 1941 prima di assumere il comando del reparto infantile nell’istituto renano di Waldniel vicino Andernach; e svolse un nuovo tirocio a Gorden nel gennaio e nel febbraio del 1942 prima di essere trasferito ai reparti di eutanasia di Uchtspringe e Kalmenhof, vicino Idstein. Inoltre, a differenza di quasi tutti gli altri reparti infantili, Gorden aveva ampie attrezzature di ricerca dove Heinze e i suoi allievi eseguirono esperimenti medici sui bambini prima e dopo l’uccisione. Inoltre Gorden utilizzava il vicino centro di uccisione di Brandeburgo per garantire l’uccisione rapida di gruppi di bambini.
Nel 1940 furono istituiti almeno altri due reparti di eutanasia infantile. Uno fu istituito nel grande istituto statale Am Steinhof a Vienna. Nel luglio del 1940 fu inaugurato il sanatorio pedagogico per bambini Am Spiegelgrund con 640 posti letto in edifici situati entro i confini dell’Amo Steinhof, Esso svolse la funzione di reparto di eutanasia infantile per l’Austria. Il primo direttore medico fu Erwin Jekelius e il secondo direttore, che assunse l’incarico nel luglio del 1942 dopo la chiamata alle armi di Jekelius, fu Ernst Illingo.
Questi aveva lavorato a Gorden come assistente di Heinze; qui aveva appreso il suo lavoro ed eseguito le prime uccisioni. Il trasferimento fu il frutto di trattative fra Heinze e il servizio sanitario viennese, ed entrambe le parti sapevano che l’incarico di Illing a Vienna prevedeva l’attuazione dell’eutanasia infantile “senza attirare l’attenzione dell’opinione pubblica”.
Nel 1940 un altro reparto di eutanasia infantile fu istituito nello stato federale della Bavaria, nel grande istituto pubblico Eglfing-Haar, vicino Monaco. In questo complesso ospedaliero erano ricoverati sia adulti che bambini; il reparto di eutanasia infantile fu collocato lontano dai padiglioni in cui si trovavano i pazienti ordinari.
Eglfing-Haar era diretto da Hermann Pfannmuller, uno dei primi artefici dell’eutanasia di bambini e adulti. Pfannmuller, che aveva ottenuto l’abilitazione all’esercizio della professione medica nel 1913 e il diploma di specializzazione in psichiatria ne11918, aveva lavorato in vari istituti statali (concentrandosi spesso sul trattamento degli alcolisti) prima di essere nominato direttore di Eglfing-Haar. Era un membro del partito nazista di vecchia data; si era iscritto nel 1922, ma poco dopo era stato costretto, in quanto pubblico funzionario, a lasciare il partito e non aveva potuto reiscriversi fino al maggio 1933. Contribuì all’attuazione delle leggi razziali ed eugenetiche, dirigendo nel 1935 l’ufficio per l’ereditarietà razziale di Augusta; fu anche uno dei primi sostenitori dell’eutanasia. A Eglfing-Haar egli introdusse rapidamente un sistema che sottoponeva i pazienti a un regime rigoroso; guidò anche delle visite all’istituto al fine di istruire il pubblico sui difetti biologici dei pazienti affidati alle sue cure.
Possediamo una testimonianza insolitamente vivida delle visite guidate da Pfannmuller e del trattamento cui venivano sottoposti i pazienti di Eglfing-Haar addirittura prima che l’eutanasia avesse ufficialmente inizio, Ludwig Lehner, un insegnante bavarese, testimoniò nel 1946 a Londra, dove fu poi giudicato come POW tedesco, circa la propria esperienza in una di queste visite guidate da Pfannmuller. Lehner , un oppositore del regime nazista, fece questa visita nell’autunno del 1939, poco dopo la sua liberazione da Dachau. Sebbene fosse stato arruolato nel 1940 e avesse trascorso gli anni del conflitto come soldato tedesco, egli ricordava vividamente la sua visita all’Elglfing-Haar e descrisse i suoi ricordi agli inglesi che lo avevano fatto prigioniero: Durante la mia visita fui testimone oculare dei seguenti eventi: dopo aver visitato qualche reparto, il direttore che, se non ricordo male si chiamava Pfannmuller, ci condusse in un reparto infantile. Vi erano dalle 15 alle 25 culle con altrettanti bambini. Ricordo la franchezza e il cinismo del suo discorso:<< queste creature sono solo un onere per il nostro corpo nazionale sanitario. Noi non uccidiamo con veleno, con iniezioni o con metodi che permetterebbero alla stampa straniera di allestire una nuova campagna diffamatoria. Il nostro metodo e molto più semlice e naturale>>. Ho ancora chiaro di fronte a me lo spettacolo di questo uomo grasso che sorrideva compiaciuto, circondato da bambini che morivano di fame. L’assassino sottolineò inoltre che ai bambini non era stato tolto il cibo all’improvviso, ma erano state lentamente ridotte le razioni.
Nel corso della sua deposizione di fronte al Tribunale militare statunitense, Pfanmuller respinse tale accusa:<< Se Lehner afferma che ho strappato un povero bambino al suo letto con le mie mani grasse, dirò che non ho mai avuto mani grasse. Sicuramente non ho mai fatto larghi sorrisi per cose del genere>>. In realtà Pfannmuller si riferì all’uccisione dei bambini a Eglfing-Haar con orgoglio, dichiarando di fronte ad una corte tedesca postbellica che <<addormentare i bambini era la forma più pulita di eutanasia>>.
La maggior parte dei reparti inifantili fu istituita dal Comitato del Reich dopo il 1940.Uno dei più importanti fu quello di Eichberg, nei pressi di Eltville, un istituto statale nel distretto di Wiesbaden, nella provincia prussiana di Hessen-Nassau. Il direttore Friedrich Mennecke era già stato reclutato per partecipare all’eutanasia degli adulti quando, nel 1941, Hefelmann Evon Hegener avevano visitato Eichberg, ordinando a Mennecke di aprire un reparto per l’eutanasia infantile. I due avevano già ottenuto il permesso da Fritz Bernotat, un burocrate che aveva il ruolo di supervisore di tutti gli istituti del distretto, nazista militante e sosteniitore entusiasta delle uccisioni. Dopo la guerra Mennecke non riusciva più a ricordare esattamente quando era stato Inaugurato il reparto Infantile di Eichberg, ma supponeva che fosse avvenuto nell’aprile 1941.
Sebbene Mennecke fosse il direttore di Eichberg e supervisore del reparto infantile, la gestione quotidiana del reparto di eutanasia fu assegnata al suo vice, Walter Eugen Schmidt, Mennecke compilava i moduli del Comitato del Reich e ordinava le uccisioni; Schmidt svolgeva li ruolo di supervisore e talvolta realizzava le uccisioni.
Quando nel 1942 Mennecke fu chiamato alle armi, Schmidt divenne direttore ad interim dell’istituto e capo unico del reparto di eutanasia infantile. Inoltre, anche quando Mennecke era assente, Schmidt lo teneva informato su Eichberg in lettere piene di dicerie locali, che includevano notizie su ogni uccisione.
Un secondo reparto infantile fu istituito a Hessen-Nassau, fornendo a questa provincia relativamente piccola un numero insolitamente elevato di reparti di eutanasia, Il secondo reparto fu istituito alla fine del 1941 o agli inizi del 1942 a Kalmenhof, vicino Idstein, nel Taunus. Kalmenhof-Idstein era un sanatorio pedagogico fondato nel XIX secolo come una fondazione privata. Dopo l’ascesa al potere dei nazisti esso non riuscì a mantenere la propria indipendenza e, alla fine, Fritz Bernotat divenne presidente della fondazione che possedeva l’istituto di Kalmenhof. Dopo l’inizio del conflitto e la chiamata alle armi di molti medici, Mathilde Weber, che era giunta a Idstein dopo aver conseguito l’abilitazione all’esercizio della professione medica ne1 1938, divenne funzionario medico capo di Kalmenhof e in questa veste diresse anche il reparto infantile. Nel 1944 la Weber rassegnò le dimissioni per sottoporsi a una cura contro la tubercolosi e fu sostituita dall’esperto Hermann Wesse, che si era formato a Gorden e aveva già prestato servizio nei reparti di eutanasia a Waldniel e Uchtspringe.
In Bavaria, che già disponeva di Eglfing-Haar, fu aperto un nuovo reparto di eutanasia infantile presso l’istituto di Kaufbeuren, in Svevia. Questo istituto pubblico e la sua filiale nell’ Irsee erano stati diretti fin dal 1929 dal medico Valentin Falthauser. Sebbene si fosse iscritto al partito nazista solo alla .fine de11935, Falthauser era un fautore dell’eutanasia dei bambini e degli adulti. Egli, in qualità di direttore di Kaufbeuren- Irsee, diresse anche il suo reparto di eutanasia infantile; qui continuò a uccidere bambini anche dopo la fine della guerra. I soldati americani che arrestarono Falthauser scoprirono che l’ultima vittima era deceduta il 29 marzo 1945, 21 giorni dopo la resa incondizionata della Germania.
Infine il Comitato del Reich istituì reparti di eutanasia infantile in tutta la Germania, anche se molti possedevano dimensioni relativamente modeste. Nella maggior parte dei casi la loro istituzione fu indiscutibilmente il frutto della collaborazione fra il Comitato del Reich e i funzionari locali.. Nello stato federale del Wurttemberg, ad esempio, Hefelmann e von Hegener lavorarono con due medici che dirigevano il sistema di assistenza sanitaria presso il ministero degli interni del Wurttemberg: Eugen Stahle e il suo subordinato Otto Mauthe, responsabile degli istituti di igiene mentale e dei servizi psichiatrici [lrrenwesen]. Stahle e Mauthe collaborarono con il Comitato del Reich fin da principio e accettarono senza indugio di trasferire i bambini dagli istituti del Wiirttemberg ai reparti di eutanasia infantile fuori del loro stato. Quando il Comitato del Reich volle stabilire un reparto di eutanasia infantile nel Wurttemberg, fu naturale rivolgersi a Stahle e Mauthe. I due funzionari consigliarono la Casa dell’infanzia municipale di Stoccarda e durante gli ultimi mesi del 1942 le discussioni tra il Comitato del Reich e le autorità sanitarie municipali sfociarono in un accordo che prevedeva l’istituzione di un reparto di eutanasia infantile.
Lo stesso tipo di collaborazione ebbe luogo in altri stati federali.
Nel Baden, ad esempio, Ludwig Sprauer, che dirigeva il dipartimento sanitario del ministero degli interni di tale stato, dispose l’istituzione di un reparto di eutanasia infantile a Wiesloch. Tuttavia, mentre nel Wurttemberg Hefelmann e von Hegener attuarono ogni cosa senza intermediazione, nel Baden Linden dell’RMdl fu costretto a chiedere la collaborazione di Sprauer. Il reparto di eutanasia infantile di Wiesloch, istituito agli inizi del 1941 , era supervisionato da Josef Artur Schreck, vicedirettore dell’istituto. Dopo l’uccisione di tre bambini Schreck si rifiutò di proseguire, affermando che “un ospedale non è il luogo appropriato”per simili uccisioni; tuttavia egli continuò a soprintendere al reparto di eutanasia, mentre il dr. Kuhnke, un giovane medico di Eglfing- Haar, eseguì le uccisioni durante visite occasionali a Wiesloch.
Questa collaborazione tra il Comitato del Reich e le autorità locali diede i suoi frutti anche nelle province prussiane. Quando il comitato volle istituire un reparto infantile nella provincia renana, Hefelmann e von Hegener riuscirono a convincere il direttore dell’ospedale statale di Andernach ad aprire un reparto infantile presso il suo istituto; essi perciò si rivolsero al funzionario dell’amministrazione provinciale responsabile degli ospedali statali, il professore e psichiatra Walter Creutz. Nel maggio del 1941 Hefelmann e von Hegener fecero visita a Creutz a Dusseldorf e tutti insieme pianificarono un reparto di eutanasia infantile con una capacità di 200 posti letto, collocati in un edificio autonomo ubicato nell’appezzamento di terreno su cui sorgeva l’istituto pubblico di Waldniel, nei pressi di Andernach. Tuttavia il reclutamento del personale si dimostrò un’impresa piu ardua. Creutz non fu in grado di fornire un medico alle dipendenze della provincia renana che assumesse l’incarico di dirigere il reparto, e il Comitato del Reich fu costretto a chiamare Georg Renno, un medico trentatreenne che aveva aderito al partito nazista nel 1930 e alle SS nel 1931. Come vedremo, Renno aveva già partecipato all’operazione di sterminio dei disabili adulti prima di recarsi a Waldniel, un’attività che avrebbe ripreso dopo aver lasciato tale istituto. Quando agli inizi del 1942 Renno lasciò l’istituto, ancora una volta il Comitato del Reich corse in soccorso dei funzionari locali, sostituendo Renno con Hermann Wesse. Questi era di cinque anni piu giovane di Renno e non aveva aderito al partito nazista fino all’aprile de1193/34. Nel dicembre del 1941 Wesse incontrò Hefelmann, von Hegener e Renno nella sala d’aspetto della stazione ferroviaria di Dusseldorf e convenne di accettare la nomina di Waldniel a capo del reparto di eutanasia. Creutz non ebbe nulla da eccepire, ma espresse preoccupazione per la mancanza di esperienza medica da parte di Wesse, quasi che la conoscenza medica fosse un prerequisito per uccidere i bambini. Di conseguenza Wesse fu destinato a un periodo di tirocinio a Gorden e nella clinica psichiatrica di Bonn prima di assumere il comando a Waldniel.
Talvolta la scelta dell’istituto e del medico aveva un carattere maggiormente informale. Ad esempio, la nomina di Alfred Leu a direttore del reparto infantile di Sachsenberg, vicino Schwerin, nella provincia prussiana di Mecklenburg, fu il prodotto di un iter di selezione informale. A Sachsenberg Leu era uno dei molti medici anziani; sembra che la sua nomina a capo del reparto sia da ricondurre ai suoi stretti contatti con i capi del partito nazista provinciale. Aggirando i funzionari locali, Hefelmann e von Hegener invitarono Leu a recarsi nei loro uffici presso la KdF, chiedendo e ottenendo che accettasse l’incarico. Piu tardi Leu avrebbe affermato di non aver ucciso nessun bambino, ma di essersi limitato alla supervisione del reparto, mentre il personale infermieristico eseguiva materialmente le uccisioni.
Sachsenberg non fu 1 ‘unico reparto infantile istituito in virtù di contatti personali. Due valutatori esperti (Catel e Wentzler) aprirono due reparti di eutanasia nei propri istituti: Catel presso la Clinica infantile dell’Università di Lipsia e Wentzler presso la sua clinica privata a Berlino. Inoltre, come abbiamo visto, il primo reparto di eutanasia era stato inaugurato a Gorden sotto la direzione di Heinze, il terzo valutatore. I valutatori inoltre consigliarono alla KdF medici reputati idonei a mettere in atto l’eutanasia infantile. Wentzler raccomandò Wilhelm Bayer, un medico di Amburgo, che a partire dal 1934 aveva diretto l’ospedale infantile Hamburg-Rothenburgsort che contava 450 letti; Wentzler e Bayer erano stati entrambi colleghi presso la Charite a Berlino. Bayer accettò e Hamburg-Rothenburgsort ospitò un altro reparto di eutanasia infantile.
La politica di eutanasia infantile fu iniziata e diretta dai burocrati della KdF, ma la sua attuazione fu lasciata agli specialisti; i medici dei reparti infantili. I burocrati della KdF non si preoccuparono delle modalità di eliminazione dei bambini; si affidarono alla perizia dei medici scelti. Erano questi ultimi che dovevano trovare il metodo migliore. Pertanto, nel corso di una riunione presso gli uffici della KdF, a Bayer fu comunicato che la scelta della tecnica di soppressione era lasciata alla discrezione dei medici.
Un metodo di uccisione era la morte per inedia. Sappiamo per certo che talvolta questo metodo fu applicato: quando la guerra volgeva ormai al termine, le razioni di cibo si erano ridotte al punto di scendere sotto la soglia della soprawivenza e la morte per inedia e “i padiglioni della morte per inedia” si diffusero in molti istituti. Ciò malgrado non fu la morte per inedia il metodo generalmente adottato nei reparti di eutanasia infantile.
Il metodo preferito fu l’uso di farmaci. Benché la decisione relativa al tipo di farmaci da impiegare spettasse a ciascun specialista, i medici condivisero informazioni relative ai farmaci scambiandosi visite o incontrandosi a Berlino. Pfannmuller, ad esempio, visitò l’ Am Steinhof di Vienna e notò che coloro che praticavano l’eutanasia usavano la morfina-scopolamina; egli preferiva però i barbiturici luminal (un sedativo) e veronal (un sonnifero). A Berlino Bayer fu informato dell’efficacia del bromuro, della morfina, del veronal e del luminal. Tra questi il luminal divenne il metodo prediletto della maggior parte dei medici, con la morfina-scopolamina come seconda scelta, di solito destinata a coloro che resistevano al luminal o al veronal.
I medici potevano scegliere anche le modalità di somministrazione del farmaco. Di solito i farmaci letali erano somministrati in compresse, altre volte in forma liquida; in rare occasioni, quando il paziente non poteva o non voleva inghiottire, si ricorreva a un’iniezione. Solitamente le compresse erano disciolte in un liquido come il tè in modo tale che il bambino ingerisse il farmaco assieme ad alimenti abituali.
È evidente il vantaggio di un simile metodo per un’operazione di sterminio segreta. Questi farmaci veniva somministrati regolarmente in ogni struttura sanitaria; divenivano letali soltanto se si aumentavano le dosi. Perciò i bambini venivano uccisi non a causa dell’ingerimento di veleni estranei, ma di un’overdose di un farmaco comune. Inoltre l’overdose di barbiturici e farmaci analoghi non davano luogo a una morte immediata; davano invece luogo a complicazioni mediche, in particolare la polmonite, che alla fine (di solito nel giro di due o tre giorni) provocava il decesso. A quel punto i medici potevano constatare una “morte naturale”. Anche Pfannmuller, che dopo la guerra respinse tutte le prove che gli attribuivano la responsabilità della morte d’inedia dei suoi pazienti, confermò tale finzione davanti al Tribunale militare statunitense: “Devo sottolineare che non si tratta di avvelenamento. Il bambino muore a causa di una congestione polmonare, non muore per avvelenamento”.
Rimaneva però un problema: in che modo gli ospedali riuscivano a ottenere i grossi quantitativi di farmaci necessari per le uccisioni continuando a mantenere segrete le attività? I medici non potevano risolvere questo problema; spettava ai burocrati della KdF trovare una soluzione. Tuttavia ne la KdF ne il Comitato del Reich da essa creato come copertura potevano legittimamente acquistare grosse quantità di farmaci.
La KdFdovevareperire un altro ente che agisse da intermediario.
I funzionari della KdF chiesero aiuto all’impero della polizia e delle SS e capeggiato da Heinrich Himmler. Essi ricevettero la collaborazione richiesta dalla polizia giudiziaria (Krimanalpolizei o Kripo) che, insieme alla polizia segreta di stato ( Geheime Staatspolizei o Gestapo), costituiva la polizia di sicurezza (Sicherheitspolizei o Sipo ). Nel 1939 la Sipo si congiunse a sua volta con il servizio di sicurezza delle SS (Sicherheitsdienst o SD) per istituire 1 ‘Ufficio centrale per la sicurezza del Reich (Reichssicherheitshauptamt o RSHA) . Pertanto quest ultimo, diretto da Reinhard Heydrich, combinava in un’ unica struttura due enti governativi, Kripo e Gestapo, con il servizio segreto (SD) di un’ organizzazione politica. L’Ufficio centrale della polizia giudiziaria del Reich (RKPA), chiamato Ufficio V dell’RSHA, era diretto da Arthur Nebe, il quale, insieme al suo vice Paul Werner, raggiunse un accordo con la KdF riguardo il ruolo della Kripo nell’ambito del programma di eutanasia. Da quel momento in poi la Kripo avrebbe fornito i farmaci che sarebbero stati utilizzati dai medici
nei reparti di eutanasia per uccidere i bambini disabili e, piu tardi, anche gli adulti disabili. Nebe assegnò l’incarico di procurarsi il veleno all’Istituto tecnico criminale dell’RKPA (Kriminaltechnisches Institut o KTI).
Sebbene situato all’interno dell’RKPA, il KTI, diretto dall’ingegnere Walter Heess, fungeva da gruppo di supporto tecnico per l’intera Sipo. Tra i suoi compiti figuravano l’indagine sulla falsificazione e la distruzione incendiaria di documenti e l’esame di armi da fuoco e altre prove che richiedevano l’analisi in un laboratorio di polizia. Il compito di ottenere il veleno spettò al reparto di analisi chimica interno al KTI; il suo capo era Albert Widmann, un ufficiale delle SS che aveva conseguito un dottorato in ingegneria chimica.
Widmann a quanto pare ricevette l’ordine di collaborare con la KdF direttamente da Nebe, e tra il reparto chimico del KTI e la KdF si instaurò una collaborazione permanente. L’Ufficio di Widmann serviva da copertura per la KdF, e von Hegener aveva il ruolo di contatto. Nel 1940 il reparto chimico del KTI iniziò a preparare le sostanze chimiche richieste dalla KdF (in particolar modo suppositori con overdosi di morfina-scopolamina), inviandole alla KdF per la distribuzione; talvolta nella cassaforte degli uffici della KdFerano perfino conservate delle ampolle. In una fase posteriore del conflitto bellico, le unità di combattimento delle SS furono ampliate e il KTI, quale tassello dell’impero di Himmler, incrementò le risorse a sua disposizione. Di conseguenza l’ufficio di Widmann otteneva svariate sostanze tossiche (tra cui il luminal e la morfina) dal servizio medico delle Waffen SS; il KTI quindi inviava i farmaci alla KdF (spesso nella persona di von Hegener); quest’ultima infine li inviava ai reparti di eutanasia attraverso il Comitato del Reich; accadeva spesso, tuttavia, che il KTI consegnasse le medicine direttamente agli istituti.
Per uccidere i bambini il Comitato del Reich doveva trasferirli nei reparti di eutanasia. Ciò richiedeva una vasta operazione che coinvolgeva un gran numero di uffici. Il processo aveva inizio quando un medico o un’ostetrica compilava un rapporto sul bambino, trasmesso attraverso le autorità sanitarie locali. Sulla base di questo rapporto i periti prendevano una decisione. Se decidevano che il bambino doveva essere incluso nell’operazione, il Comitato del Reich -cioè Hefelmann o von Hegener alla KdF, attuava il passo successivo.
Il Comitato del Reich non entrava direttamente in contatto ne con i parenti dei bambini ne con i loro medici. Esso non possedeva ne status ufficiale ne facoltà di coercizione. Inoltre si doveva evitare il contatto diretto in modo da impedire che il. coinvolgimento della KdF divenisse di dominio pubblico. Perciò il Comitato si rivolgeva alle autorità sanitarie degli stati federali e delle province prussiane; ed erano questi enti a organizzare il trasferimento dei bambini. Nel Wurttemberg, Stahle, del ministero degli interni del Wurttemberg, e gli ufficiali sanitari locali disposero il trasferimento di almeno 93 bambini in reparti di eutanasia ubicati fuori dallo stato. Parimenti, 1’8 agosto del 1943 le autorità di Amburgo trasferirono 24 bambini dall’istituto Langenhorn di Amburgo al reparto di eutanasia Hessen-Nassau a Eichberg. Tutti i 24 bambini morirono a Eichberg nel giro di due mesi: 4 in agosto, 13 a settembre e 7 nell’ottobre del 1943.
Se un bambino si trovava già in un istituto, in particolare un istituto che possedeva un reparto di eutanasia infantile, il trasferimento non poneva alcun problema. Tuttavia la maggior parte dei neonati e dei bambini piccoli dichiarati al Comitato del Reich si trovavano a casa o in ospedali locali; in questi casi i genitori dovevano essere convinti a concedere l’autorizzazione del trasferimento. Di solito le autorità sanitarie degli stati federali e delle province prussiane affidavano questo compito agli ufficiali sanitari locali.
Una volta che il bambino veniva trasferito, i periti del comitato del Reich avevano a disposizione due modalità di procedura alternative. La prima opzione era quella di ordinare la soppressione del bambino non appena questi era giunto nel reparto di eutanasia. La seconda opzione, la più utilizzata, era quella di richiedere che il medico del reparto osservasse il bambino e riferisse sui suoi progressi; soltanto dopo che il medico aveva redatto un rapporto negativo veniva dato l’ordine di uccidere. Questo periodo di cosiddetta osservazione doveva presumibilmente impedire gli errori. Tuttavia di solito i medici dei reparti di eutanasia non fornivano rapporti favorevoli; né il Comitato del Reich né i medici dei reparti di eutanasia erano propensi a dimettere i bambini del Comitato del Reich una volta che questi erano stati ricoverati.
L’ordine effettivo di uccidere un bambino partiva dal Comitato del Reich.
Questo ordine di uccisione veniva chiamato eufemisticamente una “autorizzazione” a “sottoporre a trattamento” il bambino. Si utilizzava i1 termine “autorizzazione” perché l’eutanasia, nei modi in cui questa era stata ordinata da Hitler, giocava sull’illusione che, con la realizzazione del programma, lo stato si sarebbe limitato a facilitare e autorizzare un’azione che un medico avrebbe desiderato compiere per ragioni umanitarie, anche se era proibita da un codice penale arcaico. Il termine “trattamento” veniva usato semplicemente perché parole come “uccidere” erano giudicate .troppo compromettenti perfino per documenti segreti . Dopo la guerra Schmidt, del reparto di eutanasia infantile di Eichberg, avrebbe testimoniato che “Berlino ci inviava i cosiddetti ” documenti di autorizzazione” e, dopo un po’ di tempo, arrivavano questi bambini”; egli aggiunge: “i bambini venivano aiutati a morire”.
Sebbene la maggior parte dei bambini del Comitato del Reich non soffrisse di malattie dolorose o terminali, gli assassini difesero i loro atti sostenendo che i disturbi che affliggevano i loro pazienti erano inabilitanti e incurabili. Le invalidità da dichiarare erano disturbi effettivamente gravi; comprendevano disordini neurologici e deformità fisiche giudicate incurabili ed ereditarie secondo i canoni delle conoscenze mediche del tempo. Tuttavia anche questo criterio di uccisione, che una malattia fosse incurabile anche se non necessariamente terminale, rimase soltanto teoria. Dopo che era iniziato il programma di eutanasia infantile, il Comitato del Reich e i suoi medici non seguirono le proprie regole ne osservarono sufficienti restrizioni nel prendere decisioni relative all’opportunità di includere o meno un bambino nel programma.
In primo luogo la diagnosi che portava all’inclusione era spesso imprecisa e troppo concisa. I medici non concordavano sulle possibilità di miglioramento e spesso i valutatori esperti, che si affidavano alle descrizioni fornite dai medici, accettavano la prognosi meno favorevole. Sovente i medici dei reparti di eutanasia giudicavano incurabili le condizioni del paziente anche se i medici di famiglia, che conoscevano meglio i bambini, non le avevano giudicate gravi.
In secondo luogo i medici coinvolti nel programma assumevano che le invalidità che giustificavano l’inclusione avrebbero per sempre impedito all’infante di essere autonomo nel mondo adulto. Tuttavia perfino il medico capo dell’eutanasia degli adulti giudicò difettose le procedure per giungere a tale decisione; citando il caso di Helen Keller, una bambina cieca e sorda, egli sostenne che era impossibile giungere a una conclusione definitiva circa le capacità future del bambino basandosi su una diagnosi fatta nel periodo infantile. Allo stesso modo, in un primo momento il perito Wentzler si oppose all’inclusione di bambini mongoloidi nel programma, sostenendo che questi possiedono un gusto particolare per la musica e un amore per la vita.
In terzo luogo la categoria “idiozia e mongolismo” era sufficientemente vaga da consentire l’inclusione di bambini ritardati sulla base della loro intelligenza e del loro comportamento. In effetti su questi bambini si formulavano giudizi in base a una valutazione semplicistica e fallibile della loro intelligenza e della loro istruzione. Spesso i valori sociali, tra cui quelli che riguardavano specificamente il comportamento infantile, influenzavano la decisione di uccidere, così come avevano influenzato la decisione di sterilizzare.
I medici dei reparti di eutanasia contribuivano all’iter decisionale nella stessa misura dei tre valutatori esperti, visitando i bambini e riferendo sul loro conto. Essi erano spesso giovani e inesperti, sicuramente non abbastanza qualificati per formulare simili giudizi. Sebbene avessero ricevuto una formazione specifica, molti non possedevano neppure un diploma di specializzazione.
Se prendiamo in considerazione i medici dei reparti di eutanasia più frequentemente citati (Heinze, Jekelius, Mennecke, Pfannmuller, Renno, Schmidt e Wesse) scopriamo che quattro avevano conseguito un diploma di specializzazione (psichiatria, neurologia, o entrambe): Pfannmiiller nel 1918, Heinze nel 1928, I1ling nel 1937 e Jekelius nel 1938; ma gli altri quattro non lo conseguirono mai. Essi tentarono di conseguirlo durante la guerra (ad esempio nel 1940 Mennecke ne fece domanda al comitato medico e contemporaneamente chiese l’aiuto della KdF e dell’RMdl), ma i loro sforzi furono frustrati. Molto semplicemente questi medici non avevano la formazione o l’esperienza per prendere le decisioni che competevano ai responsabili dei reparti di eutanasia. Perfino il professor Carl Schneider di Heidelberg, egli stesso fortemente impegnato nel programma, osservò che la loro “formazione era limitata e le loro diagnosi non sempre accurate”.
Ciononostante questi medici erano ambiziosi, ansiosi di fare la loro parte e si lamentavano se non gli veniva inviato un numero sufficiente di bambini. Il Comitato del Reich ricompensava un buon lavoro: il personale di un reparto di eutanasia produttivo riceveva un premio pecuniario.
I bambini del Comitato del Reich furono uccisi perché non potevano avere spazio nel progetto della società tedesca del futuro. Oltre a ciò, tuttavia, i medici erano desiderosi di sfruttare la loro morte per far progredire la scienza e la propria competenza; come vedremo, le eutanasie svolsero anche la funzione di laboratorio per “il progresso della scienza”. Poiché i reparti di eutanasia non possedevano l’attrezzatura e i medici non avevano la preparazione necessaria per condurre ricerche scientifiche, queste ultime furono condotte altrove. Numerosi istituti scientifici trassero profitto dalle uccisioni, ma due furono strettamente associati al programma di eutanasia infantile: la Clinica di psichiatria e neurologia dell’Università di Heidelberg, diretta da Carl Schneider e l’osservatorio di ricerca presso l’istituto Gorden, diretto da Heinze. Questi e altri centri di ricerca studiarono gruppi selezionati di bambini del Comitato del Reich prima che questi venissero uccisi e successivamente eseguirono su di essi esami autoptici;. inoltre dai bambini uccisi furono rimossi gli organi, in particolare il cervello, per scopi scientifici. Anche i giovani medici dei reparti di eutanasia potevano trarre vantaggio dalla frequentazione dei corsi presso i centri di ricerca, utilizzando i proventi del loro operato per avanzare nella carriera accademica.
A partire dal momento in cui venivano compilati i moduli di dichiarazione, attraverso una molteplicità di passi inevitabili (osservazione, valutazione, uccisione, dissezione), i bambini erano posti sotto la tutela del Comitato del Reich. Al fine di ottenere il controllo sui bambini, il comitato e i suoi medici usavano menzogne e minacce per assicurarsi la collaborazione dei genitori. Tranne nel caso in cui il bambino si trovava già in un istituto, il programma poteva funzionare soltanto se i genitori acconsentivano di ricoverare i loro figli nei reparti di eutanasia. Di solito ciò non poneva alcun problema: le autorità non facevano altro che ingannare i genitori, dicendogli che in quei reparti i figli avrebbero potuto ricevere le cure necessarie.
Come abbiamo visto, la circolare diffusa dall’RMdI negli uffici sanitari prometteva terapie scientifiche avanzate e di solito questo stratagemma convinceva i genitori a ricoverare i figli. Tuttavia alcuni genitori si opposero. Questi non volevano separarsi dai figli, o perché sospettavano una diagnosi falsa visto che i medici di famiglia erano pervenuti a una prognosi meno negativa, oppure perché temevano il peggio avendo udito le voci circa le uccisioni per eutanasia. Questi genitori furono fatti oggetto di pressioni da parte del Comitato del Reich.
Il 20 settembre 1941 1 ‘RMdI emanò una circolare indirizzata alle amministrazioni degli stati federali e delle province prussiane, oltre che negli uffici sanitari pubblici, che tentava di confutare le obiezioni sollevate in merito all ‘ affidamento dei bambini. Ribadendo i grandi benefici terapeutici offerti dal Comitato del Reich, il decreto spiegava in dettaglio il modo in cui l’istituzionalizzazione dei bambini disabili avrebbe liberato la famiglia in modo da consentirle di prendersi cura dei fratelli o delle sorelle sani. Essa accusava sia i parenti che i medici di famiglia di non valutare adeguatamente la gravità di tali minorazioni, in particolare nel caso dei bambini mongoloidi, la cui “felice disposizione o amore per la musica” veniva indebitamente interpretata come motivo di ottimismo. Essa respingeva l’obiezione sollevata da alcuni genitori secondo cui i reparti del Comitato del Reich erano situati in ospedali statali, dichiarando che si trattava in realtà di “reparti aperti per la cura esperta di bambini e giovani”.
La circolare esortava gli uffici sanitari e i medici a convincere i genitori utilizzando argomenti forniti dal ministero; ma essa indicava anche la possibilità di ricorrere alla forza. Infine la circolare del ministero sottolineava che il rifiuto di ricoverare il bambino, una volta che al genitore erano stati spiegati tutti i fatti, sarebbe stato dannoso per la famiglia e per i figli che godevano di buona salute. In tal caso le autorità sanitarie “avrebbero potuto indagare per stabilire se tale rifiuto costituisse una violazione del diritto di custodia”.
Di solito la minaccia di privare i genitori dei diritti di custodia aveva effetto. Una pressione ancora maggiore poteva essere esercitata sulle madri quando i padri erano assenti perché impegnati nel conflitto bellico. In simili casi il Comitato del Reich, rifacendosi a un accordo tra il ministero del lavoro e quello degli interni, richiedeva all’ufficio del lavoro locale di assegnare la madre recalcitrante alla manodopera temporanea; a quel punto quest’ultima non aveva altra scelta se non affidare il bambino. Evidentemente queste misure coercitive erano efficaci soltanto nei confronti di madri appartenenti alla classe lavoratrice, non in grado di finanziare l’assistenza dell’infanzia, in particolare dopo che i sussidi per l’infanzia furono negati a coloro che non erano stati dichiarati “connazionali utili”.
Tattiche analoghe furono impiegate contro i genitori che tentavano di strappare i loro figli ai reparti di eutanasia. In teoria, riprendersi un bambino era una possibilità, così come il ricovero doveva essere volontario; di fatto era praticamente impossibile. I medici dei reparti di eutanasia facevano tutto quello che era in loro potere per impedire ai genitori di riprendersi i figli. Alcuni genitori presentarono una petizione all’istituto, alcuni lo denunciarono alle corti e alcuni usarono dei sotterfugi per riavere i loro bambini. Pochi riuscirono nel loro intento.
Dopo la guerra i dirigenti e i medici coinvolti nell’eutanasia infantile non vollero ammettere di aver ucciso bambini senza il consenso dei loro genitori, ma non poterono dissimulare completamente questa realtà. Essi fecero riferimento a genitori e parenti che erano felici di consentire alle autorità di liberarli dal peso di un bambino disabile; spesso questi parenti venivano dai ranghi del partito nazista.
Nella maggior parte dei casi, tuttavia, pochi genitori acconsentirono all’uccisione dei loro figli. Inoltre i medici ebbero sempre un concetto di consenso assai bizzarro. Sebbene ai genitori non venisse mai detto che il bambino sarebbe stato ucciso, era spesso consuetudine prepararli all’evento raccontandogli una storia falsa circa un’operazione altamente rischiosa, forse addirittura letale, che però avrebbe potuto guarire il figlio. Se i genitori autorizzavano tale operazione, i medici interpretavano tale autorizzazione come un consenso in merito all’attuazione dell’eutanasia.
L’uccisione dei bambini fu il primo atto del programma di sterminio per eutanasia.
I bambini erano giudicati particolarmente importanti perché rappresentavano la posterità; la soppressione di quanti erano considerati malati e deformi era essenziale al successo del programma di purificazione razziale ed eugenetica. Tuttavia ben presto il progetto di uccidere i bambini disabili fu oscurato da quello di uccidere gli adulti disabili. Tuttavia quando, nell’agosto del 1941, Hitler ordinò l’interruzione della prima fase dell’eutanasia degli adulti, i bambini non rientrarono in questo cosiddetto “ordine di sospensione” e l’eutanasia infantile continuò fino al termine della guerra.
A quel punto la portata dell’eutanasia infantile si era estesa. Dapprima essa comprendeva solamente neonati e bambini piccoli, nessuno al di sopra dei tre anni. Tuttavia successivamente vi rientrarono anche bambini più grandi; e alla fine nei reparti infantili furono uccisi anche adolescenti. Fu Hitler, che si riservava l’autorità di risolvere i problemi, a prendere la decisione di includere i bambini più grandi. È importante ricordare che non tutti i bambini erano affetti da malattie incurabili o da deformità permanentemente invalidanti; molti furono istituzionalizzati per invalidità meno gravi o semplicemente perché erano bambini lenti ad apprendere e con problemi comportamentali.
Poiché molti documenti che attestano le uccisioni non sono giunti fino a noi, è impossibile calcolare il numero di bambini uccisi nei reparti infantili durante la seconda guerra mondiale. La migliore stima è un totale di almeno 5000 bambini assassinati.
Il progetto T4. La soppressione degli adulti disabili
Come aveva anticipato a Gherard Wagner in una precedente conversazione privata, con l’inizio della guerra Hitler iniziò l’operazione di eutanasia dei disabili adulti. Nell’ottobre del 1939 Hitler convocò una riunione informale alla presenza di Hans Henrich Lammers, ministro della cancelleria, Leonardo Conti, subentrato a Wagner come medico generale del Reich e Martin Bormann, segretario particolare e vera e propria “anima nera” del Fuhrer per illustrare scopi e modalità del progetto.
Dopo la campagna di sterilizzazione, l’eliminazione dei disabili adulti, istituzionalizzati e non, mirava, nella deriva ideologica del nazismo, a cancellare il passato. “Quelle dei disabili – come ebbe a dire Hitler nella riunione preparatoria – erano vite indegne di essere vissute.
Alla base del progetto vi era comunque un criterio di ordine preminentemente economico e utilitaristico: secondo gli accurati calcoli di uno statistico del Reich, l’eutanasia dei portatori di Handicap adulto, se calcolata su base decennale, avrebbe fatto risparmiare all’erario tedesco qualcosa come 885.439.980 marchi, senza contare il mancato esborso di spese alimentari e di mantenimento.
L’avvio dello sterminio dei disabili adulti, coincise comunque con un rafforzamento del potere nazista. Hitler l’attuò, pur con tecniche di assoluta segretezza e dissimulazione, perché convinto dell’assoluta impunità e della comprovata capacità di manovrare il consenso ad ogni livello. Quando questa consapevolezza venne meno, nella prima metà del 1941, il Fuhrer fu costretto a cambiare repentinamente, ma non nella sostanza le modalità di esecuzione di quello che verrà universalmente chiamato “Progetto action T4”, o più semplicemente: “T4”.
Il 15 ottobre 1939, la cancelleria privata di Hitler, che già si era occupata dello sterminio dei bambini handicappati, fisici e mentali, emanò un ordine di servizio, a firma autografa del Fuhrer, che imponeva a tutti gli istituti e case di cura del Reich, di fornire, su base regionale, gli elenchi dettagliati di quei degenti definiti incurabili o terminali. Questo documento, anche in sede di processo di Norimberga, fu addotto a prova della responsabilità dei vari medici e gerarchi che, a diverso titolo, avevano partecipato al T4, ciò nonostante questa informativa non fu mai istituzionalizzata, il T4 rimase sempre circondato dalla più assoluta segretezza e si mosse con rigore assolutamente scientifico.
La supervisione del progetto fu affidata in un primo tempo a Leonardo Conti, ma dopo una serie di lotte interne al partito, cui non erano estranei Himmler e Flick, Conti fu sacrificato e la direzione organizzativa fu assunta da Philiph Bouler e Karl Brandt, fedelissimi di Himmler, che si erano già occupato dell’eutanasia infantile dei disabili. Dal punto di vista operativo comunque, la competenza passò ben presto al II ufficio della cancelleria privata di Hitler, diretto da Viktor Brack.
L’eliminazione dei bambini disabili, a suo modo, era stato un’operazione circoscritta, questo era uno sterminio su larga scala: tutto andava razionalizzato e soprattutto – secondo la tecnica cara a Brack – programmato e mistificato. La cancelleria del Fuhrer non poteva e non doveva essere coinvolta direttamente.
Il II ufficio della cancelleria e tutti gli uffici medici relativi al progetto, diretti fino al 1940 dallo psichiatra Werner Hayde , furono subito trasferiti in una grande villa confiscata a ricchi ebrei berlinesi. Proprio all’indirizzo di questa villa, situata al numero 4 di Tiergarten straße a Berlino, si deve il nome in codice del primo progetto nazista di sterminio di massa.
Lo sterminio dei bambini era stato a suo modo un’operazione abbastanza circoscritta, questa invece era vissuta come un progetto su larga scala e richiedeva, pertanto, un’organizzazione oliata ed efficiente. Viktor Brack dotò il T4 di tutta una serie di uffici tra i quali primeggiavano l’ufficio medico e l’ufficio aministrativo, coperti da una fitta rete di cooperative mediche del Reich, tra cui la famigerata Rag (unione degli ospedali e case di cura del Reich) che fungeva da paravento per gli uffici medici. All’ufficio trasporti competeva invece lo spostamento dei pazienti dagli istituti di provenienza a quelli che furono definiti “centri di uccisione”.
Questo compito, primo tassello della campagna di dissimulazione orchestrata da Brack, era demandato al braccio operativo del “Gekart”, con la supervisione delle SS che prelevavano i pazienti nei famigerati autobus grigi.
Molti dei soggetti disabili, definiti tali in base ad una sommaria diagnosi psichiatrica basata solo su elementi chimico-biologici, visto che la psicanalisi era bandita dal nazismo come foriera di influenze ebraiche, si rendevano conto di ciò che li aspettava e gli aguzzini erano costretti a riempirli di sedativi durante e dopo il trasporto.
Dopo aver approntato la macchina organizzativa bisognava passare alla fase attuativa ed approntare i centri di uccisione. In un primo tempo ci fu una macabra querelle rispetto all’utilità di usare iniezioni letali o gas, poi, su espressa menzione di Brack, si optò per la seconda ipotesi, definita subitanea e meno dolorosa.
Il primo centro di uccisione fu approntato tra il dicembre del 1939 e il gennaio del 1940 in un ex istituto carcerario situato presso Brandeburgo sull’Haven. Il sito, un castello isolato, fu scelto per la vicinanza a Berlino e per essere facilmente dissimulabile rispetto alle eventuali proteste dell’opinione pubblica. Alla prova generale di cassazione, avvenuta dopo aver approntato una stanza apposita che poteva contenere 70 soggetti, assistettero tutti i vertici del T4, tra cui lo stesso Brack, Boulher, Conti e Linden. Subito dopo il campo di Brandeburgo furono istituiti, in rapida successione, altri 5 campi di uccisione che coprivano tutti il territorio del Reich germanico: Grafeneck, Hartheim, Sonnenstein, Bernburg e Hadamar.
Per questioni di segretezza i nomi dei campi non apparvero mai sui documenti di transito ma furono designati con casuali lettere dell’alfabeto. I responsabili degli stessi assunsero vari pseudonimi e lo stesso Brack fu designato sempre come “Jenninger”.
Per quanto riguarda l’organizzazione interna, ogni campo era strutturato con personale medico, che spesso non aveva nessuna cognizione anatomica ed era reclutato a caso anche tra gli studenti universitari, personale infermieristico e cosiddetti fuochisti, addetti alla gasazione, al crematorio alla cremazione dei cadaveri.
Il tutto si svolgeva come una catena di montaggio. I pazienti venivano prelevati dagli istituti di provenienza a cui il personale di transito rilasciava regolare ricevuta con il numero esatto dei soggetti prelevati. Una volta arrivati presso i campi di uccisione, i disabili venivano smistati nelle sale di accoglienza che spesso erano sopraelevate rispetto alla camera a gas: se le sale d’accoglienza erano situate a pian terreno, la camera a gas doveva necessariamente trovarsi nell’interrato. Dopo la spoliazione degli abiti e degli effetti personali, che venivano accuratamente raccolti dal personale infermieristico e andavano ad ingrossare un fondo nero del T4, gli individui venivano prima sottoposti ad una sommaria visita medica che ne controllava i possibili denti e placche d’oro, poi, dopo essere stati marchiati con nastro adesivo, erano invitati a fare la doccia e condotti nella camera di gasazione che veniva poi chiusa ermeticamente, dando fiato a quattro soffioni posti in alto attraverso un meccanismo posto in una stanza adiacente. La morte sopravveniva nel giro di 10 minuti dopodiché il personale di servizio accatastava i cadaveri, li conduceva al crematorio e, in maniera sommaria, provvedeva all’accatastamento delle ceneri in una fossa comune.
Quando il programma di uccisione arrivò a pieno regime, nelle camere a gas, al posto dei 70 soggetti iniziali, venivano accatastate più di 300 o 400 persone alla volta. Quando, il 24 agosto 1941, pressato dall’opinione pubblica interna, Hitler ordinò la temporanea sospensione delle esecuzioni, si calcolò che il progetto T4 avesse fatto più di 70000 vittime. Ma gli storici di Norimberga accertarono come questa cifra fosse eccessivamente inferiore ai dati reali visto che, guardando alle prove documentali, il calcolo si riferiva soprattutto ai decessi avvenuti nei campi di uccisione senza contare le innumerevoli morti causate con iniezione letali, prima e dopo le uccisioni di massa.
I disabili e la guerra, dissimulazione e dignità storica
Con l’estendersi dei fronti di guerra e la formale chiusura dei principali centri di uccisione, lo sterminio dei disabili del Reich continuò sotto varie forme, mentre la campagna di annientamento delle persone handicappate nei Paesi occupati, le inglobò nell’universo concentrazionario dei lager, spedendoli soprattutto nei campi di sterminio dell’Europa orientale.
Dei sei milioni di vittime accertate della Shoah, è a tuttoggi difficile stabilire quanti fossero i disabili. Secondo le testimonianze raccolte negli incartamenti si Norimberga, dopo la temporanea interruzione delle esecuzioni nel 1941, alcuni campi di uccisione tedeschi continuarono l’operazione di sterminio fino all’arrivo degli alleati. In ogni caso però la ricerca si fa più difficile, a questo punto infatti la campagna di dissimulazione delle uccisioni raggiunse il suo culmine.
Mentre nell’Europa orientale si procedeva alle gasazioni di massa di ebrei, zingari e oppositori politici, i disabili appartenenti al Reich germanico, venivano eliminati in gran segreto negli ospedali, spesso, come confessò lo stesso Viktor Brack al processo di Norimberga, si ricorreva a barbiturici o iniezioni letali, costringendo gli infermieri renitenti, sotto minaccia di morte.
Diversa sorte toccò invece ai disabili dei Paesi occupati che, spesso per motivi politici o razziali, dopo un breve periodo d’internamento, venivano deportati nei campi di sterminio e, in quanto ritenuti inabili al lavoro o troppo deboli, erano tra i primi ad essere soppressi, appena scesi dai convogli. Ciò nonostante si hanno notizie, seppur frammentarie, di disabili sopravvissuti ad Auschwitz-Birkenau.
La cosa più difficile appare comunque dare un volto alle vittime, anche perché negli anni di guerra, a scopi meramente utilitaristici, i nazisti allargarono ulteriormente la dizione di persona disabile, internando per fittizi problemi mentali, gente perfettamente normale, tra cui oppositori politici, persone con lievi problemi di tossicodipendenza e omosessuali.
Non vi è dubbio comunque che il processo di dissimulazione della verità storica, attuato soprattutto dall’ufficio amministrativo della T4, raggiunse la sua massima espressione, nonostante le ripetute pressioni che provenivano fin dalla metà anni trenta dalla magistratura, dalle Chiese e da larga parte della nobiltà tedesca, nell’ultimo atto del T4 prima della soluzione finale: la deportazione degli ebrei disabili.
La deportazione dei disabili ebrei, la truffa di Cholm II
Nell’ambito del processo di Norimberga Viktor Brack affermò sotto giuramento che nessun disabile ebreo fosse stato internato nei campi di uccisione nell’attuazione del piano di eutanasia delle persone handicappate, dello stesso furono le testimonianze di Karl Brandt e dei medici che avevano operativamente partecipato al T4. Per rincarare la dose si disse anche che ai disabili ebrei non era dovuta quella “morte compassionevole (la gasazione), riservata agli handicappati tedeschi. Non servivano certo le testimonianze contrarie per rivelare l’assoluta falsità di queste affermazioni. Come affermò tra gli altri, Herbert Kaslich, detto “l’elettricista del T4. I disabili ebrei furono inclusi nel programma di eutanasia, fin dall’inizio: prima come singoli e poi non più solo in quanto disabili, ma come appartenenti al gruppo etnico ostracizzato e perseguitato. Secondo le statistiche più aggiornate, nell’ambito del programma di eutanasia, vennero assassinati nel corso del 1940, dai 4.000 ai 5.000 handicappati ebrei.
La persecuzione dei disabili ebrei si svolse esattamente sulla falsa di quanto era avvenuto per gli handicappati tedeschi. Guardando ai pazienti di religione ebraica internati negli ospedali tedeschi prima del 1933, si ravvisa come la campagna di sterilizzazione, in quanto disabili, non li risparmiò di certo. Le prove documentali afferenti al 1939 parlano di almeno una paziente ebrea sterilizzata nell’ospedale di Amburgo. Il primo passo fu certamente l’ostracismo di quei disabili ebrei che, ospedalizzati e non, mantenevano un certo status sociale che permetteva loro di sottoporsi alle dovute cure mediche e di condurre una vita di relazione.
Nel 1938 un decreto del Reich escluse gli ebrei dall’assistenza pubblica: i servizi di assistenza erano demandati alle sole organizzazioni ebraiche, solo se queste dimostravano di non potersene fare carico, subentrava lo Stato. Le misure furono notevolmente inasprite nel 1939: un decreto impose che la “Rappresentanza ebraica del Reich”, un organo di autonomia della comunità israelitica tedesca, si trasformasse in “Associazione ebraica del Reich” e perdesse molti dei suoi poteri, diventando molto più controllabile. Da ora in poi gli ebrei di sesso maschile dovevano anteporre al proprio nome di battesimo quello di Israel, mentre alle donne era fatto obbligo di anteporre al proprio nome di battesimo quello di Sara. L’ostracismo e la progressiva esclusione dalle professioni dagli uffici pubblici non fecero che impoverire le casse della comunità ebraica tedesca, con ovvie ricadute sui disabili. Molte famiglie israelite sceglievano la via dell’emigrazione senza poter portare con sé i congiunti disabili. Molti parenti continuarono a pagare le rimesse a favore dei disabili internati, ma molti di essi, già ricoverati in ospedali tedeschi, finivano sotto il controllo dello Stato. Nelle case di cura tedesche si cominciavano a prevedere reparti per soli pazienti ebrei.
La persecuzione di massa nei confronti dei disabili ebrei e la loro integrazione nel programma di eutanasia come gruppo etnico, non più solo come disabili, avvenne a partire dal 15 aprile 1940.
Herbert Linden, uno dei massimi responsabili del T4, emanò in quella data una circolare che imponeva a tutti gli ospedali di dichiarare la presenza di pazienti ebrei al fine di riunirli in appositi centri di raccolta che altro non erano se non l’anticamera dei campi di uccisione.
I pazienti ebrei del Nord e della provincia di Berlino, furono riuniti nel campo di raccolta di Buck, da cui i famigerati autobus grigi del Gekrat, il braccio operativo dell’ufficio trasporti del T4, con carichi di circa duecento persone alla volta, li prelevasse e li conducesse al campo di uccisione di Brandeburgo. La sorte che li attendeva è ben nota.
Nel caso dei pazienti ebrei le pressioni di parenti, magistratura, ospedali e associazioni per avere notizie sulla loro sorte, furono certo più incisive rispetto a quelle esercitate in rapporto ai disabili tedeschi, anche perché gli ospedali di provenienza, con il trasferimento dei disabili ebrei ad altra sede o con la loro dipartita, vedevano congelati i cespiti loro dovuti per l’assistenza.
Fu allora che i vertici del T4 architettarono quella che può veramente definirsi “la maxitruffa di Cholm o Chelm che dir si voglia, visto che nelle prove documentali questa struttura fantasma viene nominata in tutti e due i modi.
Quando i parenti di pazienti ebrei o chi per loro, dopo il trasferimento, chiedevano notizie dei propri congiunti ricoverati, la direzione degli ospedali di provenienza, si limitava a dire che i soggetti erano stati trasferiti nell’unità di Chelm, vicino Lublino, in Polonia, con tanto di indirizzo e di casella postale. I cespiti dovuti quindi, dovevano essere versati a questa struttura .
Va da sé che Chelm altro non se non una casella postale fittizia. Un corriere addetto all’operazione, provvedeva ad imbucare le lettere di risposta presso Lublino, recapitando poi i cespiti alle casse del T4, già rimpinguate da effetti personali e denti d’oro prelevati ai cadaveri. Due o tre mesi dal trasferimento, la direzione di Cholm, comunicava ai parenti l’avvenuto decesso del congiunto. In caso di obiezioni, era intimato di rivolgersi al governo centrale.
La truffa, molto lucrosa, ma anche abbastanza maldestra, durò per più di un anno. Quando nell’agosto del 1941 il Reich decise la deportazione in massa degli ebrei tedeschi ed austriaci, anche i disabili israeliti seguirono la sorte dei loro correligionari nei campi di sterminio.
Il 22 giugno 1941 la Wermacht tedesca penetrò in territorio sovietico e il regime nazista s’imbarcò nella sua seconda e più imponente operazione di sterminio. Il primo obiettivo fu la soppressione degli ebrei sovietici, degli zingari, e, quando possibile, dei disabili. Il comandante di questa operazione, il generale Edward Wagner così annotava nel suo diario nel settembre del 1941: “I russi considerano i frenastenici, Sacri. Ciò nondimeno, la loro eliminazione è necessaria“.
La soluzione finale è quindi intimamente correlata, nei metodi e nelle modalità allo sterminio dei disabili. Prove documentali testimoniano infatti che dopo un primo periodo di fucilazioni di massa, sotto la direzione di Adolf Eickman si passò alla costituzione di quell’universo concentrazionario che ebbe in Auschwitz il suo simbolo più drammatico e dolente.
I campi di concentramento furono pensati e strutturati sul modello presistente dei campi di uccisione per disabili. Gran parte del personale del T4, rimasto disoccupato dopo la chiusura dei centri di uccisione, venne massicciamente impiegato nella soluzione finale.
Si hanno prove concrete che nel 1943, il dottor Dietrich Allers, già direttore dell’ufficio amministrativo del T4 nella sua seconda fase, abbia architettato e gestito il campo di transito italiano della Risiera di San Sabba, dove non pochi ebrei e partigiani morirono per gas e iniezione letale.
Anche l’Italia pagò il suo prezzo, anche l’Italia ebbe le sue vittime tra i disabili. Ma un computo esatto appare ancora difficile. Le vittime italiane, furono soprattutto ebrei, destinati alla deportazione verso Auschwitz, che non fecero neanche in tempo a scendere dai convogli. Nella maggior parte dei casi infatti vennero uccisi subito dopo il loro arrivo al campo.
I manicomi di Venezia: una storia italiana
Le deportazioni da S. Servolo e S. Clemente
La storia della deportazione dei pazienti ebrei ricoverati negli ospedali di S. Servolo e S. Clemente a Venezia, nella dinamica ed esemplarità delle vicende personali, assume una valenza paradigmatica nell’ambito della più ampia degli ebrei italiani.
L’11 ottobre del ’44, su ordine del comando tedesco, coordinato dal capitano Stangl con l’attiva partecipazione della polizia italiana, i cinque pazienti ebrei dell’ospedale psichiatrico di S.Clemente ed i sei ricoverati di religione ebraica presso l’O.P veneziano di S. servolo, furono prelevati per essere prima custoditi coattamente presso l’ospedale civile, che divenne un vero e proprio lazaretto prigione per gli israeliti malati e poi condotti al campo di concentramento di Birkenau.
Se si guarda alle vicende personali dei singoli soggetti, la cui ricostruzione storico-documentale è dovuta al lavoro certosino degli studiosi Angelo Lallo e Lorenzo Torresini, ci si rende conto di come all’indomani delle leggi razziali, anche in Italia il malato mentale, specie se ebreo, fu sottoposto ad una vera e propria eutanasia sociale, ne mancarono peraltro i tentativi di salvataggio da parte di singoli medici ed operatori sanitari.
Esemplare a questo proposito, appare il caso del paziente M.l. sulla cui identità ebraica, si erano avuti all’inizio forti dubbi. Il paziente in questione, sfollato da Palermo, non presentava chiari sintomi di malattia mentale, ma solo un disorientamento da postumi di bombardamento.
Fu ricoverato in ospedale psichiatrico, presumibilmente con documenti falsi, nel tentativo di sottrarlo ad eventuali retate. Si sospetta che il direttore della casa di cura, fosse a conoscenza dell’escamotage.
La cattura dei degenti ebrei, come di tutta la popolazione ebraica del Veneto fu possibile a causa dell’intensa opera di delazione dell’ebreo Mauro Grini, noto alla polizia e al comando tedesco, col soprannome di Signor Manzoni, che non si faceva certo di denunciare i propri correligionari.
Per parte sua, il presidente della comunità ebraica veneziana Giuseppe Jona, dopo le leggi razziali, essendo stato costretto a fornire gli elenchi della comunità, si tolse la vita.
Dal ’38 al ’44, quando possibile i malati ebrei veneziani furono in qualche modo preservati dall’accoglienza e dal supporto della casa di riposo israelita, che nulla potè, comunque, al momento della deportazione.
La lettura delle prove documentali dimostra come ben pochi dei ricoverati ebrei di S. Servolo e S. Clemente, presentassero vere e proprie patologie mentali. In alcuni casi si trattava di gente perfettamente integrata nel tessuto sociale e, come nel caso del paziente, G.R., nato in Turchia, financo iscritta ai fasci di combattimento, cui le leggi razziali inflissero un trauma psichico difficilmente sanabile.
Questo ad ulteriore riprova che le leggi razziali e la Shoah furono, prima di tutto, alienazione sociale ed individuale della persona umana.
Caricati sui carri bestiame per Birkenau, degli 11 pazienti ebrei di Venezia non si seppe più nulla. Alcuni compresero ciò che li aspettava, altri salirono felici e ignari sui convogli.
Ai direttori dei manicomi arrivarono anche cartoline di saluto dai campi, non si sa se per comprovare un’esecuzione o per che altro. Le cartoline erano in realtà parte integrante di quel processo di dissimilazione della verità storica che abbiamo visto essere caratteristica del regime nazista. Molto probabilmente, gli undici degenti psichiatrici furono trucidati all’arrivo. I loro documenti, le loro tracce, furono bruciati. Le loro vite, cancellate. Come tutti i disabili, secondo i nazisti, non erano mai vissuti.
http://www.romacivica.net/anpiroma/deportazione/deportazioneomo.htm
Il triangolo rosa: la persecuzione
di omosessuali e transessuali
La deportazione di gay e lesbiche
Il 30 gennaio 1933, soltanto un mese dopo l’ascesa al potere di Hitler, il nuovo governo nazista proibisce tutti i periodici della comunità omosessuale e mette fuori legge tutte le organizzazioni omosessuali. Il 6 maggio 1933 la sede dell’Istituto di Sessuologia viene devastata e i libri della biblioteca sequestrati e bruciati. Tra la primavera e l’estate del 1933 le SS razziano i luoghi di incontro e di socializzazione degli omosessuali. Nel 1935 il governo nazista modifica il “Paragrafo 175” promulgato da Bismarck, allargandone la casistica e ampliandone la portata. Alla fine del 1936 viene costituito l’Ufficio Centrale per la lotta all’omosessualità e all’aborto.
Il Paragrafo 175
Le origini del Paragrafo 175 del Codice Criminale del Reich risalgono all’art. 116 della “Costitutio Criminali Carolina”, promulgata dall’imperatore Carlo V nel 1532, che recitava: “Quelle persone coinvolte in condotta lasciva, sia uomo con uomo, che donna con donna, o essere umano con animale, perderanno la loro vita bruciando sul rogo”. Un principio ripreso dal Nuovo Codice del 1847 della Prussia, nella sezione nº 143, “perché tale comportamento dimostra una speciale degenerazione della persona ed è così pericoloso per la moralità”. Nel 1871, Otto von Bismarck promulga con il numero 175 una nuova normativa anti-omosessuale, estesa a tutto l’Impero Tedesco: “L’immoralità contronatura, commessa fra persone di sesso maschile o fra uomini ed animali, è punita con l’imprigionamento; inoltre può comportare la privazione dei diritti civili”
Sul finire degli anni Venti del XX secolo si fa pressione da più parti per l’abrogazione del Paragrafo 175. Nel 1929 i Socialdemocratici votano per abrogare la normativa anti-omosessuale di Bismark (il Paragrafo 175). Nel ’33, però, gli stessi socialdemocratici ridicolizzano l’omosessualità del comandante della SA (Sturm Abteilungen, Reparti d’Assalto), Ernst Rhöm. Nel giugno 1934, con l’imboscata che prende il nome di “Nacht und Nebel Aktion” (Azione Notte e Nebbia), Hitler fa arrestare Rhöm ed eliminare fisicamente i vertici delle SA. Il primo luglio 1934, sul “Berlin Morgen Post”, Hitler scrive: “Io ordino che tutti i graduati delle SA mantengano una condotta decorosa, e che tutte le violazioni del § 175 esitino nelle immediate dimissioni dalle SA e dal Partito Nazista. Io voglio uomini a capo delle SA, e non ridicole scimmie!”.
Il 28 giugno 1935 Hitler promulga il Paragrafo 175a (detto anche “175 modificato”), che inasprisce la repressione degli omosessuali, estendendola perfino alle “fantasie sessuali”, per cui qualunque accenno verbale, o scritto, o disegno, che evochi un legame o un rapporto omosessuale, comporta l’internamento in un Lager.
Ecco il testo del Paragrafo 175 modificato.
§175. Un uomo che commette atti licenziosi e lascivi con un altro uomo o permette l’abuso su di sé di atti licenziosi e lascivi, deve essere punito con l’imprigionamento. Se uno dei due coinvolti ha meno di 21 anni, al momento del compimento dell’atto la Corte può, specialmente in casi particolari, inasprire la punizione.
175a. E’ obbligatorio l’imprigionamento in un penitenziario per un periodo di tempo non superiore ai dieci anni, ed in presenza di circostanze attuenuanti, per non meno di tre mesi a:
1. l’uomo che, con l’uso della forza o della minaccia della vita, obbliga un altro uomo a commettere atti licenziosi e lascivi con lui o obbliga la controparte a sottomettersi ad abuso con atti licenziosi o lascivi.
2. l’uomo che, sfruttando la propria posizione di superiorità in una relazione, per motivi di servizio, impiego o grado, induce un altro uomo a commettere atti licenziosi e lascivi con lui o a sottomettersi ad abuso mediante tali atti.
3. l’uomo che, avendo più di 21 anni induce un uomo che ha meno di 21 anni a commettere atti licenziosi e lascivi con lui o a sottomettersi ad abuso mediante tali atti.
4. l’uomo che, organizza in modo professionale atti licenziosi e lascivi con altri uomini, o a sottometterli ad abuso mediante tali atti, o offre sé stesso per atti licenziosi o lascivi con altri uomini.
175b. Gli atti licenziosi e lascivi contrari alla natura, fra esseri umani ed animali, devono essere puniti con l’imprigionamento; può rendersi necessaria la perdita dei diritti civili.
Il triangolo rosa nei campi di concentramento
Gli omosessuali furono tra i primi ad essere internati nei campi di concentramento: nel 1933 abbiamo i primi internamenti a Fuhlsbuttel, nel 1934 a Dachau e Sachsenhausen. A metà degli anni Trenta la loro percentuale nei lager fu circa del 10%, poi negli anni della guerra calò enormemente. Tra il 1933 ed il 1945 le persone processate per la violazione del Paragrafo 175 furono circa 60.000, di questi circa 10.000 vennero internati nei campi di concentramento. Gli altri furono condannati a pene detentive. Il tasso di mortalità degli omosessuali nei campi fu del 60%, contro il 41% dei prigionieri politici ed il 35% dei Testimoni di Geova. Un altro dato significativo è dato dal fatto che due terzi degli omosessuali internati morirono durante il primo anno di permanenza nei campi. All’inizio essi furono costretti ad indossare un bracciale giallo con una “A” al centro (“Arschficker”, sodomita). Successivamente venne adottato un triangolo rosa cucito all’altezza del petto.
“Le Ragioni di un Silenzio. La persecuzione degli omosessuali durante il nazifascismo“, di Rüdiger Lautmann
(in Atti del Seminario di Verona, 16 ottobre 1999, Circolo Pink e Società Letteraria di Verona)
“Ho cercato di fare una conta per difetto: il risultato della stima è che ci sono stati circa 10.000 uomini con il triangolo rosa nei campi di concentramento (possono essere stati 5.000 come forse 15.000). Questa cifra é stata confermata anche da successive ricerche e stime. Noi siamo stati una piccola minoranza di perseguitati, anche perché siamo ancora oggi una piccola minoranza nella società. Spesso qualcuno riferisce di centinaia di migliaia di omosessuali morti nei lager, ma ciò non corrisponde al vero, ed anche gli omosessuali stessi non dovrebbero citare numeri a cinque zeri.
Gli omosessuali hanno forse avuto fortuna nella sfortuna? Questo non si può dire; molte migliaia sono stati giudicati dalla giustizia penale, e come conseguenza finirono nei campi di lavoro, che non si chiamavano di sterminio, ma che in realtà erano la stessa cosa. La ricerca, a questo riguardo, é ancora lungi dall’essere portata a termine.
Il destino degli uomini nei campi di concentramento era orrendo, in particolar modo quando portavano il triangolo rosa. Secondo i nostri conteggi, che possono essere convertiti in percentuale, essi avevano un rischio di morte particolarmente alto (60%) se comparato con le altre categorie di internati. Tali stime sono però alquanto approssimative se si prendono in considerazione anche gli internati ebrei, polacchi e russi. In conseguenza di ciò penso che dovremmo rinunciare a comparare fra loro le diverse categorie dei perseguitati dal nazismo: ognuno ha avuto il proprio destino, e per ogni categoria di internati la persecuzione nazista ha rappresentato qualcosa di particolare.
Le lesbiche, ad esempio, non erano rappresentate da una vera e propria categoria all’interno dei lager; dal punto di vista numerico solo poche venivano internate ufficialmente come lesbiche, ma non per questo non soffrivano della minaccia e dell’ostilità nazista nei campi di concentramento. La loro sofferenza non era minore rispetto a quella degli omosessuali maschi, assumeva solo una forma diversa.”
La persecuzione degli omosessuali da parte del fascismo italiano
Il fascismo perseguitò gli omosessuali, anche se il codice penale Rocco, a differenza del Paragrafo 145 voluto da Hitler, non conteneva al suo interno una specifica normativa antiomosessuale.
Nel progetto del Codice Rocco del 1927, peraltro, era previsto un articolo, il 528, che puniva con la reclusione da uno a tre anni i colpevoli di relazioni omosessuali. Alla fine, però, il regime fascista decise di eliminare tale articolo dalla versione finale del codice, non certo per motivazioni liberali, ma perché prevedere il reato di omosessualità, significava ammettere l’esistenza degli omosessuali in Italia, come si legge nella relazione redatta dalla Commissione Appiani, che aveva il compito di discutere l’attuazione della nuona normativa: “La Commissione ne propose ad unanimità e senza alcuna esitazione la soppressione per questi due fondamentali riflessi. La previsione di questo reato non è affatto necessaria perché per fortuna e orgoglio dell’Italia il vizio abominevole che ne darebbe vita non è così diffuso tra noi da giustificare l’intervento del legislatore, nei congrui casi può ricorrere l’applicazione delle più severe sanzioni relative ai diritti di violenza carnale, corruzione di minorenni o offesa al pudore, ma è noto che per gli abituali e i professionisti del vizio, per verità assai rari, e di impostazione assolutamente straniera, la Polizia provvede fin d’ora, con assai maggior efficacia, mediante l’applicazione immediata delle sue misure di sicurezza e detentive”.
La repressione dell’omosessualità venne dunque affidata all’intervento della polizia che, dopo aver sottoposto il caso alla Commissione Provinciale, provvedeva alla diffida o all’ammonizione e al diffido. Furono oltre 20mila le pratiche di ammonizione nei confronti degli omosessuali. Molti omosessuali furono anche confinati in isole del Mediterraneo, in particolare le Tremiti.
(Notizie tratte in gran parte da “La persecuzione degli omosessuali durante il nazifascismo”, a cura del CIRCOLO PINK – Centro di Iniziativa e Cultura Gay e Lesbica Verona)
OMOSESSUALITÀ E
RAZZISMO FASCISTA
di: Giovanni Dall’Orto [0]
La politica esplicitamente “razzista” del fascismo italiano contro gli omosessuali durò tre anni (dal 1936 al 1939) ma anche nella sua brevità l’episodio si rivela assai istruttivo per capire la mentalità che fa ancor oggi degli omosessuali il gruppo di persone più odiato dai cittadini italiani e maggiormente colpito dall’intolleranza [1].
In Storia esistono silenzi e “spazi vuoti” che contrariamente a quel che si crede hanno grande importanza, perché danno le dimensioni del rimosso, di ciò che viene censurato dalla società. Il grande spazio bianco che, in epoca fascista, campeggia là dove dovrebbe esserci una politica sull’omosessualità, è in effetti più eloquente di mille discorsi.
In Italia l’inserimento degli omosessuali tra i gruppi di cittadini da colpire per la “tutela della razza” avvenne palesemente per scimmiottare la Germania nazista, ma venne goffamente trapiantato su un terreno culturale del tutto incongruo.
La decisione, frutto di un entusiasmo astratto, interferì anzi con la tradizione razzista preesistente, disturbandola, e soprattutto cozzò contro una tradizione di repressione dell’omosessualità estremamente efficace e collaudata, rischiando di intralciarla e di rivelarsi addirittura controproducente.
Il paradosso maggiore di tale decisione fu questo: definire gli omosessuali in quanto “razza”, al pari degli ebrei o dei negri, significava riconoscere loro uno status di gruppo sociale, per quanto deviante e criminale.
Ciò contraddiceva in pieno la strategia seguita fin lì dal fascismo, che a sua volta si basava su almeno un secolo di tradizione giuridica e repressiva italiana, che puntava a cancellare del tutto l’omosessualità negandole qualsiasi spazio di visibilità, fosse pure deviante.
Si spiega così il risultato modesto di questa politica: meno di 90 condanne al confino “politico” per “difesa della razza” inflitte ad omosessuali tra il 1936 e il 1939; e di queste 42 sono opera di un unico questore di Catania, Molina, che prese troppo sul serio una decisione che i suoi colleghi, per lo più, si limitarono a snobbare.
Questo “fallimento” non apparirà del tutto strano a chi noti che promulgando il Codice Rocco nel 1931 il fascismo aveva appena avuto, cinque anni prima delle leggi razziali, l’occasione di introdurre leggi anti-omosessuali in Italia. Ebbene: l’idea era stata scartata, come vedremo, proprio per non dare pubblicità al fenomeno dell’omosessualità.
Gli italiani sono troppo virili per essere omosessuali: ecco la parola d’ordine del regime… Per settant’anni gli italiani avevano ripetuto che l’omosessualità era un tipico vizio da inglesi e da tedeschi, e proprio il fascismo avrebbe dovuto confessare l’inconfessabile, e cioè che l’omosessualità esisteva perfino in Italia?
Non stupisce insomma che le leggi razziali italiane non abbiano portato con sé nessuna legge antiomosessuale: l’estensione della “politica di difesa della razza” agli omosessuali avvenne semmai per via di misure amministrative, e non per mezzo di leggi ad hoc come nella Germania nazista. In pratica ciò che avvenne fu classificare come “confinati politici” anziché come “confinati comuni” un’ottantina di omosessuali, o poco più [2]. Tutto qui.
Il confino stesso, “politico” o comune, era comminato agli omosessuali non sulla base di una legge apposita, bensì sulla base del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza (promulgato con Regio decreto n. 773 il 18-6-1931) , che dava alla polizia il potere discrezionale di eliminare dalla convivenza sociale un individuo che avesse un atteggiamento “scandaloso”. Per questo non era necessario un processo regolare (ne bastava uno sommario), non erano necessarie prove, in quanto le prove le doveva fornire la polizia, che proponeva il confino e la cui “parola d’onore” costituiva prova essa stessa. Bastava che la polizia affermasse che una certa persona “dava scandalo”: tutto qui.
In questo modo fu facile punire quegli omosessuali che non vivevano in modo sufficientemente segreto la loro condizione. Altri metodi repressivi di cui ho trovato traccia negli archivi sono il pestaggio (normale sotto il fascismo), l’uso delle classiche bottiglie d’olio di ricino, il licenziamento se si lavorava per un ente pubblico, e molto spesso anche l’ammonizione (una specie di arresto domiciliare mitigato) sotto la sorveglianza costante della polizia [3].
Queste sono tutte forme di repressione che non passano attraverso il codice penale, e perciò non lasciano traccia, non si prestano ad essere pubblicate sui giornali, sfuggono all’attenzione degli storici, non entrano a fare parte di statistiche, sono indolori per la società… ma non ovviamente per chi ne è colpito.
Al contrario la persecuzione “razziale” degli omosessuali, laddove fu applicata con coerenza, a Catania, creò uno scandalo (sotterraneo) di tale dimensioni che persone anziane interrogate nel 1987 se ne ricordavano ancora. Non c’è dunque da stupirsi se allo scoppio della guerra il fascismo si sbarazzò alla chetichella di questa nuova, e inadeguata, strategia di persecuzione.
La rimozione dal corpo sociale attraverso l’arresto del singolo omosessuale troppo “chiacchierato”, come il Fadigati degli Occhiali d’oro di Bassani, rafforza l’immagine sociale della “normalità”. Al contrario l’improvviso arresto indiscriminato di decine di persone, in maggior parte “insospettabili” quando non sposate e con figli, minava dall’interno l’immagine della “normalità eterosessuale”.
Voglio dire: se da un giorno all’altro qualunque insospettabile padre di famiglia può di colpo rivelarsi un “pederasta”, qual è allora la linea di separazione fra i “normali” ed i “pederasti”, che tutti i “normali” pretendono sia netta e riconoscibile?
Paradossalmente una politica repressiva di questo tipo, applicata con coerenza, finirebbe per confermare ciò che oggi affermano i movimenti di liberazione gay: che le e gli omosessuali non sono una razza a parte e tanto meno mostri, che sono persone come tutte le altre, e che omosessuale può essere chiunque: il tuo collega di lavoro, il tuo amico del cuore, tua figlia, la tua vicina di casa.
In parole povere, il razzismo nazista entrava in conflitto con il razzismo italiano (o genericamente cattolico-mediterraneo), culturalmente diverso, imponendo la scelta fra un tipo o l’altro di razzismo.
Il razzismo nazista si basava infatti sull’assunto ottocentesco secondo cui le persone omosessuali costituiscono una specie di “ritorno all’indietro” nel cammino darwiniano dell’evoluzione della specie, una “involuzione” che nel gergo scientifico dell’epoca si chiamava “degenerazione” [4].
Il programma razziale nazista esigeva l’eliminazione, da quello che oggi chiameremmo “lo stock genetico” del Volk tedesco, di tutte quelle persone che, essendo “degenerate”, costituivano un handicap al trionfo del popolo tedesco nella “selezione naturale” fra i popoli.
Gli ebrei, come tutti i non-ariani, erano causa di “degenerazione”, e così gli zingari, gli slavi, gli omosessuali, gli handicappati. Nel pensiero razzista essere ebreo ed essere omosessuale costituiva, alla lettera, un handicap fisico, una tara genetica, per quanto invisibile: per questa ragione era logico e scientificamente ineccepibile (ovviamente dal punto di vista della scienza ottocentesca, sul quale il nazismo, come del resto anche lo stalinismo, si attardava) eliminare un ebreo o un omosessuale tanto quanto eliminare un paraplegico o un mongoloide.
Per questa via si sarebbe infine arrivati a purgare (il termine scientifico esatto è: “rigenerare”) la razza tedesca da tutti i geni difettosi, accelerando in questo modo l'”inevitabile” trionfo evoluzionistico su tutte le altre razze umane.
Questo spiega perché il nazismo ampliasse (almeno in teoria) il campo di azione del paragrafo 175 del codice penale tedesco, che puniva gli atti omosessuali fra uomini. Per la visione “scientifica” del nazismo era irrilevante sapere se un omosessuale mettesse in pratica o meno i suoi desideri: egli era da eliminare dal Volk per ciò che era, e non per ciò che faceva, esattamente come un ebreo era da eliminare anche qualora fosse ateo e non rispettasse le prescrizioni rituali della tradizione giudaica.
Tutto ciò è lontano anni luce dal tipo di razzismo anti-omosessuale che emerge dai verbali e dai documenti a carico dei confinati politici omosessuali che ho consultato, soprattutto da quelli di Catania. Qui la mentalità degli inquirenti identifica l’omosessuale (anzi, il “pederasta“) con un individuo:
a) sessualmente passivo e che:
b) mette in pratica tale passività subendo il coito anale.
La cosa assurda è che coloro che praticano il rapporto anale nel ruolo “attivo” non sono affatto catalogati come “pederasti“, bensì come “maschi”.
Questa visione emerge chiaramente dalle relazioni contro singoli imputati: gli estensori delle note affermano che l’accusato Tizio o Caio teneva comportamenti tali da “attirare i maschi”, che sono quindi catalogati come gruppo separato da quello dei “pederasti”.
La stessa mentalità mostra la relazione che Molina accluse al fascicolo di ognuno dei 42 accusati. In essa, lamentandosi della scandalosa visibilità che a suo dire avrebbe raggiunto la “pederastia” a Catania, si lascia scappare: “in passato (…) il pederasta e il suo ammiratore preferivano le vie solitarie“.
Da questa frase si deduce che esisterebbe una categoria di persone, gli “ammiratori di pederasti”, che pur avendo rapporti omosessuali con i “pederasti” non sono “pederasti” a loro volta, e questo perché si riservano, nel coito, il ruolo del “maschio”, cioè quello “attivo”.
Ebbene: quali punti di contatto esistono fra la mentalità nazista che si preoccupa dei sogni e delle fantasie erotiche, e quella dei poliziotti catanesi che non catalogano come rapporti omosessuali i rapporti anali con persone dello stesso sesso qualora siano nel ruolo “attivo”?
E che dire del questore Molina che sottopone a visita medica all’ano tutti gli imputati, ottenendo certificazione del fatto che l’ano di ciascuno svela, dalla conformazione, di aver subìto sodomia?
Come conciliare con la “difesa della razza” la battaglia grottesca che si combatte a Catania con perizie e contro-perizie degli imputati per attestare la “normalità” o “anormalità” di conformazione dell’ano? (Il risultato è scontato: tutti gli imputati, nessuno escluso, furono condannati come pederasti passivi).
Il bello è che un ex-confinato, da me intervistato alcuni anni fa[5], mi rivelò che molti confinati politici catanesi non avevano mai praticato la sodomia passiva (caso mai il contrario).
Ciò mostra fino a qual punto il pregiudizio razzista accechi.
Ma tant’è. Il razzismo, ogni razzismo, presume e pretende di conoscere in anticipo i caratteri individuali e somatici e il valore sociale di un essere umano a partire da dati accidentali, quali la lingua che parla, la religione che professa, il sesso a cui appartiene, oppure il colore della pelle, la forma del naso o nel nostro caso la forma (vera o presunta)… dell’ano.
Se poi (come di solito accade) i dati non confermano i preconcetti, allora (è questo il bello del razzismo) ci si limita ad ignorarli come se non esistessero o, se si può, a falsificarli come nel nostro caso.
Credo che a questo punto sia evidente come il razzismo anti-omosessuale importato dalla Germania non sia riuscito ad attecchire in Italia non certo per una pretesa refrattarietà del popolo italiano al razzismo, bensì perché troppo forte e radicata si rivelò la concorrenza del preesistente razzismo autoctono, più adatto ai preconcetti della popolazione indigena.
Ecco il motivo per cui negli stessi anni in cui in Germania era già in atto la deportazione nei campi di sterminio, che costò la vita ad almeno diecimila omosessuali (ma c’è chi arriva a centocinquantamila: le cifre esatte non si sapranno mai [6]) in Italia tutti gli omosessuali inviati al confino vennero rispediti a casa incolumi, sia pure in libertà vigilata.
Il fatto è che in Germania il nazismo stroncò, affogandolo nel sangue, un mondo omosessuale strutturato, organizzato, visibile, parzialmente cosciente di sé, che si poneva come “alternativo” a quello “normale”. L’Italia, per seguire la Germania su quella strada, avrebbe dovuto paradossalmente prima rendere visibile ciò che per scelta politica secolare aveva reso occulto, e poi combattere per farlo ri-diventare occulto!
Quanto poco il fascismo fosse disposto a percorrere questa irragionevole strada lo rivela l’esame a tappeto della rivista più significativa della politica razzista italiana, “La difesa della razza”. In questo periodico non solo non appaiono mai, ed è già una sorpresa, articoli contro gli omosessuali; vi si arriva al punto di citare Magnus Hirschfeld (per decenni uno degli alfieri della liberazione omosessuale in Germania) attaccandolo per la sua origine ebraica, senza però nominare mai la sua militanza omosessuale, che pure era l’unico motivo per cui era celebre! Il sospetto che il fascismo italiano abbia su questo punto “censurato” i modelli nazisti, diviene così certezza.
Non avrebbe potuto essere altrimenti. Il fascismo ereditava infatti dal periodo umbertino-giolittiano una tradizione repressiva che privilegiava, fin dall’approvazione del Codice penale Zanardelli nel 1889, una repressione “morbida”, una “tolleranza repressiva” (per usare la definizione di Marcuse) che ai fini pratici si è rivelata molto più efficace e vischiosa di quanto non sia stata la tradizione repressiva nordeuropea ed anglosassone in genere [7].
Perché mai la classe politica italiana dell’Ottocento, di cui il fascismo era il continuatore, operò questa scelta?
La risposta è semplice: perché sapeva che in Italia esisteva già un’altra agenzia di potere a cui poteva essere affidato il controllo e la repressione dell’omosessualità: la Chiesa cattolica.
Per la classe politica liberale ottocentesca (ma anche per quella attuale, perfino a sinistra), il campo della morale, specialmente sessuale, è di “naturale” competenza della religione. La morale sessuale non riguarda lo Stato, che al più ha il dovere di intervenire solo quando l’immoralità rischia di creare turbamento all'”ordine pubblico”.
Non si tratta di una innovazione. La spartizione delle aree di controllo sociale fra chiesa cattolica e Stato fu utilizzata già dallo stesso Napoleone, attraverso lo strumento del Concordato.
Quello che voglio dire è, in altre parole, che nei paesi cattolici la Chiesa garantisce la repressione e la “copertura” di quelle aree di comportamento che i codici penali lasciano volutamente “scoperte”.
L’esistenza di una “divisione dei compiti” fra chi si deve occupare del “campo della morale” (cioè la Chiesa) e lo Stato, è ammessa senza difficoltà dalla classe politica italiana del secolo scorso.
Lo stesso Zanardelli spiegò con queste parole perché il progetto del codice penale che avrebbe preso il suo nome non facesse menzione dell’omosessualità:
“Se occorre da un lato reprimere severamente i fatti dai quali può derivare alle famiglie un danno evidente ed apprezzabile, o che sono contrari alla pubblica decenza, d’altra parte occorre altresì che il legislatore non invada il campo della morale” (…) “Il Progetto tace pertanto intorno alle libidini contro natura; avvegnaché rispetto ad esse (…) riesce più utile l’ignoranza del vizio che non sia per giovare al pubblico esempio la cognizione delle pene che lo reprimono” [8]. |
In perfetta sintonia con questa tradizione nel 1933 operò la medesima scelta anche il codice penale tuttora in vigore, il “Codice Rocco” nel quale, nonostante le proposte contrarie, l’omosessualità non è menzionata[9].
La proposta di criminalizzare l’omosessualità, spiegò Alfredo Rocco al momento di presentare il nuovo codice penale,
“fu oggetto di quasi generale ostilità. Venne principalmente opposto che il turpe vizio, che si sarebbe voluto colpire, non è così diffuso in Italia da richiedere l’intervento della legge penale. Questa deve uniformarsi a criteri di assoluta necessità nelle sue incriminazioni: e perciò nuove configurazioni di reato non possono trovare giustificazione, se il legislatore non si trovi in cospetto di forme di immoralità che si presentino nella convivenza sociale in forma allarmante. E ciò, per fortuna, non è, in Italia, per il vizio suddetto. Queste ragioni, contrarie all’incriminazione dell’omosessualità, mi hanno convinto, e, nel testo definitivo, ho soppresso la relativa disposizione“[10]. |
Per concludere con le citazioni, che spero convincenti, vorrei sottoporre all’attenzione un trafiletto apparso nel 1926 su “Il popolo d’Italia“, quotidiano fascista fondato da Benito Mussolini e diretto da Arnaldo Mussolini, e quindi specchio decisamente fedele, nelle sue prese di posizione, del pensiero “ufficiale” del fascismo.
Argomento è una recensione non meglio identificata, apparsa poco prima su un altro giornale, dell’epistolario di Oscar Wilde, nella quale si condannava l’Inghilterra per aver perseguitato un genio letterario di così alto livello.
L’articolo non firmato, che si intitola: Perversioni, si scaglia contro questa presa di posizione, affermando:
“Curiamo di mantenere pura e vigile la fortunata sanità del nostro popolo, e se ascoltiamo con piacere a teatro Il ventaglio di Lady Windermere, o ci compiaciamo per La casa del melograno o La ballata del prigioniero, dove questo mediocre poeta e scrittore di derivazione pur tocca certe note umane profonde, nei giornali italiani – che vanno per le mani di tutti – si faccia il silenzio intorno alle documentazioni epistolari di vergognose malattie, abbandonate al pubblico sotto pretesti vagamente letterarii. Il silenzio è l’unica forma di rispettosa pietà per il morto e di preservazione dal contagio per i vivi” [11]. . |
Di fronte a una tradizione del genere non stupisce che la persecuzione razziale degli omosessuali abbia preso alla sprovvista le autorità italiane, abituate ad una prassi repressiva “di basso profilo”, così come quelle naziste erano abituate a una tradizione di repressione aggressiva ed esplicita ereditata dalla Germania pre-nazista.
Questo fu uno dei motivi per cui bastarono tre anni perché il regime si stufasse di un metodo di controllo così complicato. Il controllo occhiuto del parroco, del commissario di polizia, dei parenti e dei vicini risultava più efficace e meno costoso. Di confino politico per gli omosessuali il fascismo non parlò più.
In conclusione, è importante sottolineare come l’abbandono della politica fascista esplicitamente razzista contro gli omosessuali non derivasse da un improbabile atteggiamento “illuminato”, bensì dall’utilizzo preferenziale di una repressione sociale talmente capillare e diffusa da rendere superfluo lo sradicamento dello stile di vita omosessuale (come avvenne in Germania sotto il nazismo) perché in Italia era (come in parte è tuttora) impossibile persino concepire l’idea di uno “stile di vita omosessuale” [12].
Si osservi che negare addirittura che un gruppo perseguitato costituisca un gruppo, è la forma più raffinata di razzismo, perché pur non rinunciando a perseguitare per la sua “diversità” chi del gruppo fa parte, si nega addirittura che egli o ella esista (in quanto membro di quel gruppo) e soprattutto che esistano le sofferenze causategli dalla persecuzione.
La difficoltà (per non dire impossibilità) di trovare documenti iconografici di epoca fascista per una mostra come quella che ospita il presente intervento, si spiega proprio con la volontà deliberata e testarda di non concedere per nessuna ragione all’omosessualità di affiorare al livello della realtà: la censura si applicava persino ai casi di cronaca nera!
Grazie a questo atteggiamento, che non è stato certo rinnegato con la caduta del fascismo, l’omosessualità è diventata, in Italia, il regno del non-detto, dei sussurri, degli eufemismi, dei giri di parole, dei volti nascosti: un mondo che c’è, però non esiste, perché non ha il diritto ad affiorare alla realtà.
Tale mentalità è purtroppo vivissima oggi, anche all’interno del mondo omosessuale (a cui io che scrivo appartengo) ed è la prima causa degli atti di violenza, di intolleranza e di discriminazione che colpiscono la comunità lesbica e gay del nostro Paese.
Quello che nascondeva lo “spazio vuoto” di cui parlavo all’inizio di questo contributo è, né più né meno, proprio questo bagaglio di violenze e sofferenze umane.
Sarebbe ora di alzare il velo una volta per tutte…
Note
[0] Questo saggio è stato scritto per il catalogo della mostra del Centro Furio Jesi (a cura di), La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, Grafis, Bologna 1994, pp. 139-144. (Anche come, Giovanni Dall’Orto, Fascismo dimenticato, “Babilonia” n. 122, maggio 1994, pp. 72-75, privo delle note).
La bibliografia è stata aggiornata prima di metterlo online.
Successivamente ho rivisto questo saggio come: “Il paradosso del razzismo fascista verso l’omosessualità”, in: Alberto Burgio (cur.), Nel nome della razza – Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 515-525 [per accordi con l’editore non posso mettere online questa versione del saggio].
[1] Nell’inchiesta sui gruppi sociali più “simpatici” e “antipatici” che da tre-quattro anni un istituto demografico rende noti annualmente ai mass-media, gli omosessuali hanno sempre conquistato il primo posto dell'”antipatia”.
A chi fa presente questo dato, ancor oggi, viene di solito obiettato che “antipatia” non equivale a razzismo, e quindi gli italiani non sono razzisti verso gli omosessuali, e che poi comunque gli omosessuali non sono una razza: il che peraltro è vero. (Ma se è per questo, nemmeno ebrei o extracomunitari lo sono).
Il punto è che, razza o no, il numero di gay assassinati ogni anno a causa della violenza omofoba è in Italia superiore al numero di ebrei, extracomunitari o zingari assassinati per violenza razzista. Il fatto che questo dato, fino ad oggi, non abbia suscitato né l’interesse né la preoccupazione di nessuno, se non degli omosessuali, indica quanto sia radicato e subdolo il razzismo antiomosessuale nel nostro Paese.
[2] Ho potuto studiare, grazie all’aiuto dell’Anppia, i fascicoli di questi condannati, ed ho pubblicato i risultati negli articoli: Per il bene della razza al confino il pederasta, “Babilonia” n. 35, aprile 1986, pp. 14-17; e Credere, obbedire, non “battere”, “Babilonia” n. 36, maggio 1986, pp. 13-17; inoltre: Allarmi, siamo gay, “Panorama”, 20 aprile 1986, pp. 156-165. Una versione ridotta di questo studio è apparsa come: “In difesa della razza”, in: Heinz Heger, Gli uomini con il triangolo rosa, Sonda, Torino 1991, pp. 161-184.
Sono anche riuscito ad intervistare un ex-confinato: Ci furono dei “femmenella” che piangevano quando venimmo via dalle Tremiti!, “Babilonia” n. 50, ottobre 1987, pp. 26-28.
Lo stesso materiale è stato successivamente studiato in modo acuto e approfondito nella tesi di laurea (inedita) di Franco Goretti, Omosessuali e confino nel periodo fascista, Università “La sapienza”, Roma, Facoltà di lettere e filosofia, anno accademico 1990-1991, che si è avvalsa anche di interviste alle persone coinvolte.
Dello stesso autore si veda anche: “Catania, 1939”. In: Enrico Venturelli (a cura di), Le parole e la storia, Il Cassero, Bologna 1991, pp. 120-129, sui confinati politici omosessuali di Catania.
Dario Petrosino ha poi analizzato l’ideologia che emerge dai periodici italiani in epoca fascista: Dario Petrosino, “Traditori della stirpe. Il razzismo contro gli omosessuali nella stampa del fascismo”, in Razzismo italiano, a cura di Alberto Burgio e Luciano Casali, Clueb, Bologna 1996, pp. 89-107.
Di Petrosino si veda soprattutto: Traditori della stirpe. L’immagine popolare dell’omosessualità nel ventennio fascista, Università degli studi di Bologna, Facoltà di lettere e filosofia, anno accademico 1993-1994. È la prima ricerca del genere in Italia.
[3] Si veda Luigi Salerno, Enciclopedia di polizia, Bocca, Milano 1938, alle voci “ammonizione” e “confino di polizia”.
[4] Sull’argomento vedi il mio: Il concetto di degenerazione nel pensiero borghese dell’Ottocento; “Sodoma” n. 2, 1985, pp. 59-74, e oggi soprattutto l’ottima tesi di laurea, raffinata nelle analisi e illuminante nelle conclusioni, di Carola Susani: La riflessione sull’omosessualità nel tardo positivismo italiano, Università “La sapienza”, Roma, Facoltà di lettere e filosofia, anno accademico 1990-1991.
[5]Ci furono dei “femmenella” che piangevano quando venimmo via dalle Tremiti!, “Babilonia” n. 50, ottobre 1987, pp. 26-28.
[6] Il solo tentativo affidabile di estrapolare cifre attendibili a partire dai pochissimi dati superstiti è quello di Rüdiger Lautmann, “Gli omosessuali nei campi di concentramento nazisti” (in: Martin Sherman, Bent, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984, pp. 89-100), che valuta il numero di “triangoli rosa” fra un minimo di 5.000 ed un massimo di 15.000. (In compenso Lautmann ha scoperto che il tasso di mortalità degli omosessuali nei lager sfiorava il 100%).
Queste cifre sono state criticate come eccessivamente prudenti, specie se si considerano le circa 10.000 condanne per omosessualità pronunciate ogni anno in Germania durante il periodo nazista. Lautmann, peraltro, sottolinea come non tutti i condannati finissero automaticamente nei lager; altri invece obiettano che in ambienti quali l’esercito l’omosessualità sarebbe stata punita con la morte senza processo.
In particolare, alfiere di cifre più “catastrofiche” è Massimo Consoli, autore di Homocaust, Kaos, Milano 1991. Tuttavia, secondo il mio punto di vista, non sempre Consoli vaglia con attenzione le fonti su cui basa le sue analisi: alcune sue conclusioni le trovo francamente opinabili.
Insomma: probabilmente non sapremo mai il numero esatto di omosessuali assassinati durante il periodo nazista, nonostante lo studio sia stato inaspettatamente rivoluzionato dalla caduta del Muro, che ha reso disponibili i documenti nazisti conservati a Berlino Est. L’ottima scelta di tali documenti inediti pubblicata in Günter Grau, Homosexualität in der NS-Zeit: Dokumente einer Diskriminierung und und Verfolgung, Fischer, Frankfurt am Main 1993 (anche come: Hidden Holocaust?, Cassel, London & New York 1995) rivela che la persecuzione degli omosessuali nella Germania nazista fu più capillare ed ossessiva di quanto si fosse immaginato, ma tendenzialmente conferma le stime “prudenziali” di Lautmann.
Infine, sullo sterminio degli omosessuali nella Germania nazista si veda: Rüdiger Lautmann, Categorisation in concentration camps as a collective fate: a comparison of homosexuals, Jeovah witnesses and political prisoners, “Journal of homosexuality”, XIX (1) 1990, pp. 67-88;
Jean Boisson, Le triangle rose: la déportation des homosexuels (1933-1945), Laffont, Paris 1988;
Warren Johansson e William Percy, voce “Holocaust, gay”, in Encyclopedia of homosexuality, a cura di Wayne Dynes, Garland, New York 1990, vol. 1, pp. 546-550;
Richard Plant, The pink triangle: the Nazi war against homosexuals, Holt, New York 1986.
In italiano troviamo: Martin Sherman, Bent, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984;
Heinz Heger (pseud.), Gli uomini col triangolo rosa, Sonda, Torino 1991;
George Mosse, Sessualità e nazionalismo, Laterza, Bari 1984 e 1996;
Giulio Russo e Gianfranco Goretti (a cura di), Le ragioni di un silenzio, Ombre corte, Verona 2002.
Poiché nel mondo accademico italiano è presente una corrente “negazionista” secondo cui gli omosessuali tedeschi non furono mai deportati nei lager nazisti, non posso non citare per finire il contributo autobiografico di Rudolf Höss, che ne parla esplicitamente:
Comandante ad Auschwitz, Einaudi, Torino 1969 e 1985, pp. 79-90.
[7] Ho dedicato alla questione un saggio, che analizza anche la tradizione giuridica italiana dall’inizio dell’Ottocento ad oggi: “La ‘tolleranza repressiva’ dell’omosessualità“, in: Arci gay nazionale (a cura di), Omosessuali e Stato, Cassero, Bologna 1988, pp. 37-57.
Per una discussione delle leggi sulla morale sessuale del primo codice penale italiano si veda il fondamentale: Romano Canosa, Sesso e Stato. Devianza sessuale e interventi istituzionali nell’Ottocento italiano, Mazzotta, Milano 1981, soprattutto le pp. 101-121.
Ottimo anche il contributo di Bruno Wanrooij, Storia del pudore, Marsilio, Venezia 1990, che analizza la battaglia culturale sul campo della sessualità nell’Italia dell’Ottocento e del primo Novecento.
Per una bibliografia dei testi giuridici e medici ottocenteschi relativi all’omosessualità rimando infine a: Giovanni Dall’Orto, Leggere omosessuale, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984, pp. 79-101.
[8]Camera dei Deputati, Progetto per il codice penale per il Regno d’Italia, vol. 1, Relazione ministeriale, Stamperia reale, Roma 1887, pp. 213-214. Neretto aggiunto da me.
[9] Sul Codice Rocco e la sua decisione sull’omosessualità, il dibattito che la precedette, e le basi teoriche su cui si fondò, si veda ora la citata tesi di laurea di Carola Susani.
[10]Relazione ministeriale sul progetto di Codice Penale, II, 314. Citato in V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, UTET, Torino 1936, parte 2, p. 218.
Per altri pareri contrari all’incriminazione dell’omosessualità nel nuovo codice penale, e per una discussione generale sul periodo nazi-fascista rimando al mio: “Le ragioni di una persecuzione“, in: Martin Sherman, Bent, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984, pp. 101-119, specie alle pp. 115-117.
[11]Perversioni, “Il popolo d’Italia”, 7 novembre 1926. Il neretto è mio.
[12] L’unico omosessuale che nei primi tre decenni del secolo cercò di ripercorrere in Italia le orme di Hirschfeld fu Aldo Mieli.
Su di lui vedi: Giovanni Dall’Orto, Aldo Mieli, “Babilonia” n. 57, giugno 1988, pp. 52-54, e l’importante contributo di Carola Susani: “Una critica della Norma nell’Italia del fascismo”, in: Enrico Venturelli (a cura di), Le parole e la storia, Il Cassero, Bologna 1991, pp. 110-119, nonché la citata tesi di laurea della stessa autrice.
IL NAZISMO
E LA PERSECUZIONE DEGLI OMOSESSUALI
Gli omosessuali, troppo a lungo e ancora oggi troppo spesso dimenticati, sono stati il terzo gruppo, dopo ebrei e zingari, ad essere perseguitati, internati e uccisi nei campi di sterminio. Con l’intento di purificare la società tedesca e propagare l’ideale di razza Ariana, i nazisti condannarono gli omosessuali come “socialmente aberranti”. Subito dopo essere stato eletto, il 30 gennaio 1933, Hitler mise fuori legge tutte le associazioni gay e lesbiche. Le truppe di Camicie Brune (SS) razziarono in brevissimo tempo tutti i luoghi di incontro e di socializzazione degli omosessuali.
“Furono 100mila gli omosessuali arrestati dai nazisti tra il 1933 e il 1945. Tra questi, 15mila vennero internati nei campi di concentramento. Dai documenti ufficiali del regime e’ risultato che solo 4mila furono i sopravvissuti”. I dati sono forniti dall’Arcigay che, ogni anno partecipa attivamente in molte città italiane, come parte in causa, alle celebrazioni della ‘Giornata della memoria’ iniziate nell’anno 2000.
“La persecuzione dei ‘triangoli rosa’ sta lentamente uscendo dall’invisibilita’, grazie all’impegno della comunita’ omosessuale -afferma il presidente dell’associazione Sergio Lo Giudice- Purtroppo sono ancora tante le resistenze e gli ostacoli ad un ricordo pieno e senza imbarazzi di quello sterminio”.
Sono ancora molti, secondo Lo Giudice, quelli che “preferiscono ignorare quei morti, imbarazzati dal razzismo delle loro stesse posizioni odierne sull’omosessualita’”.
I testi raccolti in questo dossier sono solo rappresentativi della vasta e interessante letteratura che è oggi disponibile sull’argomento, soprattutto su internet (Rimandiamo, per coloro che vogliono approfondire l’argomento, alla vasta raccolta di documenti e indirizzi web che si trovano sul sito dello storico Giovanni Dall’Orto)
TRIANGOLI ROSA
Di Roberto Mauri
A febbraio ricorre da qualche anno la “Giornata della Memoria”, per ricordare le vittime dei lager nazisti. Una persecuzione che ha colpito anche decine di migliaia di persone omosessuali.
Il triangolo rosa: un simbolo comune nel mondo gay, da quando è stato adottato dalmovimento di liberazione gay. Quel triangolo, appiccicato sulla vetrina di un negozio del centro, oggi ci attrae, ci dice che lì non saremo discriminati, che quello è in sostanza un luogo gay. Ma quando il triangolo rosa nacque, non fu per indicare protezione e appartenenza…
Un triangolo rosa cucito sulla giacca, in un campo di concentramento nazista, significava che chi lo portava era un perverso, un rifiuto sociale buono solo per la fatica ed alla fine per la morte.
Dal 1933 insieme agli ebrei, agli zingari, ai testimoni di Geova, e ai comunisti, anche i gay conobbero la deportazione e la vita nei campi di concentramento; anche i gay furono considerati “nemici del Reich e della razza”; anche i gay furono sterminati e cremati. E fu proprio dentro ai campi di concentramento che Hitler e i suoi uomini decisero di distinguere i gay dagli altri deportati attraverso un triangolo rosa.
Al contrario di quanto pensano alcuni, la deportazione degli omosessuali non fu un fatto al quale i nazisti offrirono scarsa attenzione: è dimostrato che le autorità tedesche trattarono la questione molte volte. Nel 1934, per esempio, la Gestapo (la polizia politica nazista) richiese a tutti i dipartimenti di polizia di compilare un elenco di persone notoriamente omosessuali.
Un paio d’anni dopo, la repressione contro i gay si rese ancora più feroce: il ministro Himmler prese pubblicamente posizione contro il pericolo che l’omosessualità rappresentava per la razza. Nacque addirittura il Dipartimento di Sicurezza Federale contro l’aborto e l’omosessualità. I treni si riempivano intanto sempre più spesso di deportati omosessuali.
Nel 1937 Himmler, in un incontro tenutosi fra lui e i comandanti delle SS, dichiarò che eliminare gli omosessuali era diventato necessario.
Anche all’interno delle forze armate tedesche venne fatta pulizia in profondità e chi veniva considerato gay aveva un solo modo per salvarsi la vita: accettare la castrazione e partire verso i fronti più pericolosi.
In Italia per fortuna il quadro era diverso: dal 1936 le autorità fasciste punirono la “devianza sessuale” con il semplice confino.
In tempi di revisionismo storico feroce, oggi alcuni starnazzano stupidaggini sostenendo che gli omosessuali non furono mai deportati in base al loro orientamento sessuale, ma questo viene sistematicamente smentito dai fatti.
Piaccia o no, secondo i dati rinvenuti negli archivi di diversi lager, presso i tribunali e gli uffici di polizia, risulta che nel 1943 i campi di concentramento avevano già ospitato 46.436 persone omosessuali e gli storici più possibilisti si spingono fino a una valutazione complessiva che arriva a 250.000 deportati.
Per questa ragione Irène Michine, rappresentante della francese Federazione nazionale dei deportati e degli internati resistenti e patrioti sostiene che si deve insistere perché anche gli omosessuali vengano universalmente considerati vittime a pieno titolo della deportazione, ed auspica fra l’altro che anche ai gay vengano dedicati monumenti commemorativi.
Dall’altra parte della barricata siede invece Pierre Edues che dalle colonne della rivista “Illico” all’inizio del 2002 dichiarava: “Non c’è stata nessuna deportazione omosessuale. Ho letto il rapporto della Fondazione per la memoria della deportazione i cui dirigenti non sono ex deportati. Sono stato in diversi campi e non ho mai visto dei triangoli rosa. Quelli che manifestano oggi per loro non sono i loro figli: i gay non hanno figli”.
È triste pensare che esista ancora gente col tempo e la voglia di negare un fatto storico inconfutabile. È patetico notare che gli argomenti che usa sono poverissimi e privi di qualunque interesse. Si annoti, signor Edues, che la memoria non è qualcosa che si passa necessaria-mente di padre in figlio; non ha niente a che vedere con la genetica.
Un piccolo popolo di persone silenziose e miti si è spento in decine di campi di sterminio. Non per cause religiose, non per ragioni razziali e nemmeno per motivi legati al proprio credo politico.
Di questo sterminio quasi non resta memoria. Una targa di marmo rosa, piccola, discreta e giusta, che commemora le vittime gay della violenza nazista nel campo di concentramento di Dachau, ha atteso più di vent’anni prima di ottenere la necessaria autorizzazione.
Ad Amsterdam si trova un monumento più celebre, il grande ”Homomonument” che attrae turisti gay da tutto il mondo.
Anche in Italia esiste un monumento alla memoria delle vittime omosessuali sotto il nazismo: si trova a Bologna presso la Piazza di Porta Saragozza (per terra, nei giardini al lato del celebre “Cassero”: http://www.cassero.it/show.php?248).
Oggi quello che resta agli omosessuali italiani per non perdere la memoria è quella lapide discreta di Bologna, qualche raro libro e un triangolo rosa che anche quando serve per indicare una discoteca, un club o una rivista, ha dietro alle spalle la storia che gli appartiene.
(da Pride di Gennaio 2003)
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