Debbo fare una premessa alle cose che leggerete. Sapete tutti quanto rispetto e considerazione si debba per una delle più grandi tragedie del ‘900, la Shoah. Leggendo in altre pagine del sito potrete trovare ogni rifiuto. Purtroppo, forse è una mia sensazione, la grande e giusta attenzione alle vergogne contro gli ebrei, ha messo in ombra altri razzismi, altre persecuzioni contro “razze”, religioni, ideologie. Il nazifascismo ha costellato di crimini il secolo e gli ebrei non sono stati i soli nel mirino e neppure il gruppo etnico maggiormente colpito in termini percentuali (mi rendo conto che è orrendo fare il contabile della morte), dico questo solo perché si sappia che la barbarie si è scagliata con estrema violenza con ogni insieme di persone ritenuta diversa e/o nemica.
E’ anche utile dire che, mentre per gli ebrei si trova abbondante documentazione, per altri gruppi di perseguitati è più difficile. In ogni caso non vuole questa essere una ricerca storica ma solo un contributo perché poi, chi ne abbia voglia, possa seguire a ricercare e capire.
Ciò che riporterò ora sono articoli e documenti che riguardano persecuzioni, deportazioni e massacri di: zingari (rom), omosessuali, testimoni di Geova, disabili, …, comunisti. Anche qui solo piccole spiegazioni, ogni commento mi sembra del tutto superfluo. Inizierò con una cosa antica ma poco nota: non esistono le razze !
http://www.fi.cnr.it/r&f/n7/cavalli.htm
Intervista con Luca Cavalli Sforza*
a cura di Glauco Tocchini Valentini**
* Professore Emerito Attivo dell’Università di Stanford (California) ed Esperto del CNR presso l’Istituto di Genetica Biochimica ed Evoluzionistica del CNR, Pavia
**Direttore dell’Istituto di Biologia Cellulare del CNR, Roma
Conoscere la genetica per
sconfiggere il razzismo
Tu sei stato genetista batterico all’inizio della tua carriera. Ti sei occupato del sesso dei batteri. Hai scoperto il primo episoma, F, che infetta le cellule batteriche che ne sono sprovviste, generando la capacità di scambi genetici fra di loro, ed è anche capace di integrarsi nel cromosoma batterico. Ti sei anche occupato di resistenza agli antibiotici e hai dimostrato che tutta la resistenza batterica ad un antibiotico origina per mutazioni del DNA. Come mai hai abbandonato la genetica batterica in cui avevi fatto un buon inizio, per passare a quella dell’uomo?
Io ho scoperto la genetica batterica quando ancora non esisteva, grazie ad un libro che Adriano Buzzati-Traverso, prima di partire come militare per la guerra in Libia, aveva lasciato ad Emilio Veratti, professore di patologia generale a Pavia, perché lo passasse a uno studente interessato. Il libro era costituito dagli atti di un simposio in cui un gruppo di microbiologi discuteva la possibilità di studiare la genetica dei microorganismi. Io avevo cominciato il quarto anno di medicina e, insieme con il mio compagno e amico Giovanni Magni, mancato purtroppo prematuramente alla fine dell’anno scorso, abbiamo studiato attentamente il libro e deciso di dedicarci a questo argomento, cominciando ad occuparcene insieme in laboratorio.
Buzzati è tornato dalla Libia prima della fine della guerra perché soffriva di asma. Io sono diventato “allievo interno” del suo laboratorio e ho cominciato a lavorare in genetica della Drosofila. Alla fine della guerra non vi erano possibilità di lavoro all’Università, ma trovai un posto all’Istituto Sieroterapico Milanese ove potei occuparmi di genetica dei batteri. Fu di questo argomento che continuai ad interessarmi quando trovai, e tenni dal 1948 al 1950, un posto di assistente al Dipartimento di Genetica dell’Università di Cambridge, con il celebre professore R. A. Fisher. Ma qui ebbi anche occasione di rinforzare le mie conoscenze di statistica e di genetica di popolazioni, che coltivavo da un po’ di tempo accanto all’attività sperimentale sui batteri.
E cosa ti ha spinto a passare infine alla genetica umana?
Tornato in Italia alla fine del 1950 lavoravo di nuovo al Sieroterapico Milanese, ma nel 1951 ho cominciato a passare due pomeriggi ogni settimana all’Università di Parma per tenervi un incarico di insegnamento di Genetica. Uno dei miei primi studenti fu il professor Antonio Moroni, ora professore di Ecologia e direttore dell’omonimo Istituto dell’Università di Parma. Moroni era anche professore di scienze al Seminario di Parma, e mi fece conoscere l’esistenza di materiale di grande interesse per la genetica negli archivi della Chiesa Cattolica: dai libri parrocchiali, che permettono di ricostruire la demografia degli ultimi quattro secoli, alle dispense matrimoniali di consanguineità, attraverso le quali si possono studiare aspetti importanti dalla struttura genetica delle popolazioni. Aiutato da Moroni e poi anche da Franco Conterio, ora professore di Antropologia a Parma, ho potuto cominciare, nelle poche ore che passavo a Parma, uno studio sistematico di questi dati.
Anche il lavoro di genetica batterica andava, all’inizio, molto bene; però ero considerato, non solo tra i batteriologi italiani, ma anche, all’inizio, tra quelli inglesi, pazzo ad occuparmi di genetica batterica (bisogna pensare che a quell’epoca molti credevano ancora che i batteri non avessero nucleo). Intorno al 1953 le ricerche sul sesso batterico, che erano state iniziate da Lederberg nel 1946 e a cui io avevo cominciato a dare i miei primi contributi nel 1949, provocarono uno scoppio di interesse sull’argomento. I migliori laboratori e cervelli d’Europa e d’America si lanciarono sulla genetica di Escherichia coli e il ritmo delle scoperte si fece frenetico. Intanto la mia situazione al Sieroterapico Milanese cominciò a peggiorare con un nuovo direttore, che si interessava solo di applicazioni di scarso interesse. Le mie ricerche non gli piacevano e perciò scelse di rendermi la vita difficile. Proprio allora cominciò la decadenza di questo istituto la cui attività si concluse qualche anno fa. Data la situazione, all’inizio del 1957 decisi di andarmene ed associarmi all’iniziativa di Buzzati che aveva cominciato a Pavia dei corsi paragonabili ad un Ph. D. in genetica. Divisi così il mio tempo fra Parma e Pavia, finché divenni professore di ruolo a Pavia nel 1962. In quell’epoca Buzzati stava trasportando il suo Istituto a Napoli, fuori dell’Università, creandovi quel Laboratorio del CNR (LIGB) poi divenuto Istituto Internazionale di Genetica e Biofisica (IIGB), che acquistò ben presto fama internazionale. Io ereditai da Buzzati un istituto di Genetica vuoto di apparecchi e con pochissimo personale, ma con l’aiuto validissimo di Magni fu possibile riportarlo rapidamente ad un ottimo livello, creando anche un Laboratorio (poi Istituto) del CNR che continua ad essere adiacente al Dipartimento di Genetica, a condividerne la biblioteca e mantenere una stretta collaborazione, anche dopo il trasferimento di ambedue, laboratorio CNR e dipartimento, nel nuovo campus dell’Università di Pavia. In quell’epoca cominciai ad avere impegni didattici e amministrativi abbastanza pesanti ed uscii dal campo della genetica batterica per concentrarmi su quella delle popolazioni umane. La ricerca sui dati di archivi cattolici divenne sempre più importante; è continuata e non è finita neanche oggi. Sto ora scrivendo un libro dal titolo Inbreeding, Consaguineity and Drift in Italy, che riassume le ricerche con Moroni e molti altri collaboratori, tra cui Gianna Zei, Rosalba Guglielmino, Italo Barrai e Franco Conterio, e terminando le analisi statistiche cominciate quarantaquattro anni fa. Il mio principale svago sono state numerose spedizioni che ho condotto quasi ogni anno in Africa tra il 1966 e il 1985, con l’idea di spostare le mie ricerche sul campo della genetica di popolazioni umane dalla valle del Parma, ove le avevo cominciate, alla foresta tropicale africana. Motivo principale di interesse è che vi vivono ancora i Pigmei, uno dei pochi esempi di popolazioni che non hanno ancora completamente abbandonato la vita di caccia e la raccolta di vegetali. Questo è stato, per più di un milione di anni, il modo corrente di vita dei nostri antenati fino all’invenzione dell’agricoltura, avvenuta solo meno di diecimila anni fa e diffusasi lentamente a partire da pochi centri di origine.
Come mai sei andato in America?
La situazione della scienza italiana negli anni ’60 era ancora molto difficile. Lo stipendio universitario era assai più basso di ora, bisognava incrementarlo con altre attività, i mezzi di laboratorio erano limitati, il futuro incerto. I doveri della direzione di Istituto limitavano le possibilità di occuparmi di ricerca quanto volevo. Era difficile trovare bravi tecnici, bisognava sempre crearli da zero; soprattutto non si trovavano esperti di altre discipline affini, che avessero voglia di collaborare nei campi di cui sentivo il bisogno, dalla statistica all’antropologia, alla linguistica. La scelta di argomenti di ricerca che avevo fatto con la genetica di popolazioni umane era stata felice, perché la disciplina era allora quasi inesistente, e non c’era concorrenza all’estero. Anche se isolati in un Paese in cui la ricerca era poco incoraggiata, non si veniva continuamente superati da colleghi americani, inglesi, francesi che lavoravano in centri di eccellenza come le molte Università americane e inglesi, o l’Istituto Pasteur, come succedeva ormai per la genetica batterica. Si poteva creare così una nuova disciplina, anche se a un certo punto all’estero se ne accorgevano e diventava difficile restare a galla. Soprattutto sentivo il bisogno di tornare più vicino al laboratorio, e per questo mi era necessario liberarmi dalle responsabilità amministrative. Come sanno i miei colleghi italiani, questo è molto difficile in Italia. Intanto il mio amico Lederberg era diventato professore e direttore di un nuovo Dipartimento di Genetica a Stanford nel 1958 e nel 1962 mi offrì una cattedra di genetica, che restò disponibile per me finché la accettai nel 1971. Nel 1968 feci una prova di un anno per vedere come avrebbe reagito la famiglia all’emigrazione, e all’inizio del `71 ci trasferimmo, dopo essermi assicurato che la situazione a Pavia poteva continuare senza scosse. Avevo già ottenuto che la direzione del laboratorio CNR fosse affidata ad Arturo Falaschi, e quella dell’Istituto universitario venne, dopo qualche ritardo, assegnata a Luigi De Carli. Potei dare le dimissioni quando mi sentii tranquillo. Avevo 49 anni e fui tentato di cambiare completamente argomento di ricerca, ma dopo alcuni tentativi fatti a Stanford decisi di tornare al mio vecchio campo, con una svolta importante: il contatto con i Pigmei mi aveva profondamente impressionato, e volevo capire come poteva una cultura variare così profondamente da un gruppo etnico all’altro. I Pigmei vivevano in modo così diverso da noi, eppure era inevitabile sentirli come fratelli, intelligenti e dolcissimi. Per questo cominciai due nuove linee di lavoro: gli effetti evolutivi di un’invenzione fondamentale, l’agricoltura, che i Pigmei non avevano ancora accettato, e questo fu possibile grazie alla collaborazione con un archeologo, Albert Ammerman. L’altra linea di ricerca fu la teoria matematica della trasmissione ed evoluzione culturale, che potei sviluppare con Marc Feldman. Ma presto tornai all’analisi dei dati genetici sulle popolazioni umane e, quindi, allo studio della variazione e dell’evoluzione due grandi scopi della Genetica oltre, naturalmente, alla trasmissione e alla funzione dei geni. Mi accorsi che c’era molto bisogno di aumentare la nostre conoscenze sulla variazione genetica dell’uomo, cioè il numero dei “polimorfismi” noti, e le loro differenze da una popolazione all’altra. Perciò scelsi due strade. La prima fu l’elenco ed analisi sistematica delle conoscenze su polimorfismi genetici già esistenti sull’Uomo, dai gruppi sanguigni alle proteine ed enzimi ed altri “marcatori” genetici, e qui ebbi l’aiuto incomparabile di Paolo Menozzi, professore di Ecologia a Parma, e di Alberto Piazza, professore di Genetica Umana a Torino. Grazie alla loro collaborazione è stato possibile scrivere il libro “Storia e Geografia dei Geni Umani”, comparso poco fa anche in italiano per i tipi di Adelphi. L’altra strada, molto più lunga, fu la scoperta di nuovi polimorfismi; con i vecchi metodi di studio, limitati alle proteine, se ne conoscevano solo poche centinaia, e questa strada si dimostrò difficile. Ma l’analisi diretta del DNA, cominciata nel 1980 circa, ha portato ad una vera e propria rivoluzione soprattutto dopo l’invenzione, nel 1986, della PCR (la sintesi di DNA mediante una reazione a catena, catalizzata dalla DNA polimerasi). Dal 1980 il lavoro principale del mio laboratorio è lo studio della variazione genetica a livello del DNA. Due anni fa ho avuto un colpo di fortuna, perché due miei collaboratori hanno inventato un nuovo metodo per la scoperta e il tipaggio dei polimorfismi del DNA, che è per certi aspetti il migliore oggi esistente. Con questo metodo sono già aumentate di dieci volte la nostre conoscenze sulla variazione del cromosoma Y finora estremamente limitate, malgrado gli sforzi di molti laboratori.
Quanto grande è la variazione genetica e perché è importante studiarla?
Sappiamo che il DNA preso a caso da individui diversi può differire per un nucleotide su mille circa. Ognuno di noi riceve da ogni genitore un “genoma” fatto di tre miliardi di nucleotidi (più esattamente, paia di nucleotidi, ma il conto non cambia, poiché in ogni paio basta conoscere uno dei due nucleotidi per prevedere l’altro). Quindi tra due individui ci si attendono tre milioni di differenze. Una variazione di questo gigantesco ordine di grandezza assicura lavoro per un tempo lunghissimo.
Lo studio della variazione genetica è indissolubilmente connesso con quello dell’evoluzione e permette di ricostruire la storia biologica delle popolazioni, aiutando così anche l’archeologia, la linguistica e le altre discipline coinvolte nella storia dell’Uomo. Il razzismo è basato sull’ignoranza della genetica ed è proprio lo studio della variazione che fornisce le armi più sicure per distruggerlo.
Molte malattie sono dovute a variazione genetica. I confini tra variazione “normale” e “patologica” sono vaghi; ce ne stiamo accorgendo soprattutto ora che cominciamo ad avere le armi per attaccare le malattie genetiche più difficili da studiare (dette poligeniche), al cui determinismo contribuiscono parecchi geni, che da soli non hanno attività patogena, ma in certe combinazioni fra loro o con eventi di natura non genetica, possono divenire deleteri.
Tu hai proposto il programma di ricerche che si intitola “Diversità del Genoma Umano” (HGDP in inglese). Che cosa si propone il programma ed a che punto si trova?
Il programma si propone di sfruttare la tecnologia della genetica molecolare per studiare meglio la variazione genetica, raccogliendo, immagazzinando in modi efficienti e distribuendo ai ricercatori campioni di DNA che rappresentino tutte le popolazioni del mondo. I risultati devono venir resi pubblici appena possibile. Proposto ufficialmente nel 1991, e sviluppato all’inizio pacificamente, ha cominciato a incontrare nel 1994 difficoltà politiche in certi ambienti antiscientifici e antitecnologici, soprattutto nel Canada e negli Stati Uniti, ed è solo nell’autunno 1997 che si è avuta una schiarita praticamente completa. Prevediamo di poter entrare in funzione entro il 1998. Ma ancora il 23 ottobre 1997 un giornalista della prestigiosa rivista inglese Nature, Colin Mac Ilwaine, ha scritto che l’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti aveva pubblicato un rapporto che scoraggiava le fondazioni governative americane dal finanziare il progetto. Questo articolo era completamente contrario ai fatti e Nature ha dovuto rimangiarselo. Il numero del 20 novembre dell’illustre periodico scientifico inglese porta due lettere di protesta: una firmata da Sir Walter Bodmer, da Jean Dausset e da me ed un’altra di Jack Schull, che pure contraddice l’articolo di Nature. Jean Dausset è premio Nobel per la scoperta del sistema genetico, importante per i trapianti, HLA, e fondatore del Centre d’Etudes des Polymorphismes Humains (CEPH), che ha reso possibile la creazione della mappa genetica (da studio del linkage) dei cromosomi umani. È previsto di estendere l’attività del CEPH all’HGDP. Jack Schull è il presidente del gruppo di lavoro dell’Accademia delle Scienze USA che ha redatto il rapporto interpretato in modo del tutto erroneo da Nature. L’attività del gruppo di lavoro è durata due anni; il loro rapporto, che sarà pubblicato per intero entro la fine dell’anno (nella serie dei rapporti del National Research Council) è chiaramente favorevole al progetto. È davvero preoccupante che una rivista influente come Nature dimostri ostilità ingiustificata contro il progetto HDGP. Sembra che il giornalista di Nature male informato, invece di leggere il rapporto (lungo 81 pagine), abbia telefonato ad un suo amico che, si dà il caso, era uno di quei componenti del gruppo di lavoro, di 15 persone, avversi al progetto, e abbia confuso, involontariamente o no, l’opinione dell’amico con quella del gruppo.
Quali sono i rapporti tra HGDP e il Progetto del Genoma Umano?
Il Progetto del Genoma Umano aveva finora evitato accuratamente di considerare la variazione individuale, e si è sempre dedicato all’analisi di un solo genoma, cioè di un mezzo individuo; si tratta di un mezzo individuo differente da un laboratorio all’altro, poiché sono varie le persone che hanno contribuito a sequenziare segmenti diversi del genoma. Una curiosità genetica è che, se si potesse ricostruire un individuo fatto come quello che risulterà dal sequenziamento del genoma umano, quest’individuo potrebbe non essere vitale, poiché, mettendo insieme un genoma a pezzi trovati in vari individui si possono generare, almeno in Drosofila, dei cosiddetti “letali sintetici”. Ritengo che i motivi che spinsero inizialmente il Progetto Genoma Umano ad escludere lo studio delle variazioni, fossero il timore di aumentare oltre misura la complessità del programma, specie in base alle tecniche di dieci anni fa, e anche quello di incorrere in nuove difficoltà politiche, che all’inizio del Progetto Genoma Umano furono assai simili e altrettanto aspre quanto quelle che ha avuto il nostro programma. Le difficoltà furono eliminate dalla pubblicazione di un rapporto di un gruppo di lavoro, nominato dall’Accademia delle Scienze degli USA, che diede via libera al Progetto, esattamente come sta avvenendo nel nostro caso.
Quest’anno il Progetto del Genoma Umano ha cambiato completamente la sua politica a proposito della variazione individuale e sta partendo su uno studio di variazione genetica, da condurre però limitatamente agli Stati Uniti. Infatti si è reso conto che senza questa estensione non avrebbe potuto mantenere in modo adeguato la promessa di aiutare lo sviluppo della genetica medica. Vi sono anche nuove tecnologie che rendono più facile l’analisi della variazione. Penso che ad un certo punto vi sarà qualche convergenza tra i due programmi, Genoma Umano e HGDP, che finora sono stati completamene indipendenti.
Geni contro il razzismo
Un pregiudizio tuttora diffuso, ma privo di basi scientifiche: l’avevano già dimostrato Julian Huxley e Alfredo Addome nel l935
Uno studio basato sulla teoria dell’evoluzione poi confermato dalla biologia molecolare
Alla fine dell’Ottocento il mondo era dominato da popolazioni di origine europea, che avevano creato vasti imperi coloniali e controllavano l’economia dell’intero pianeta. Solo dopo la Seconda guerra mondiale la situazione avrebbe cominciato a mutare, ma molto lentamente. La superiorità tecnologica e militare dell’Occidente aveva favorito la convinzione che i popoli di origine europea (quindi di pelle bianca) fossero intrinsecamente superiori alle altre popolazioni della Terra, più avanzati, più potenti, più civili, destinati a dominare il mondo. E una convinzione di cui talvolta risuona ancor oggi un’eco nelle parole di alcuni politici, ma solo dei più ignoranti.
Al principio del secolo scorso, negli Stati Uniti si promulgano leggi volte a impedire l’integrazione razziale. Fra il 1896 e il 1915, i matrimoni fra bianchi e neri vengono vietati in 28 Stati dell’Unione. I sostenitori dell’eugenica, cioè di politiche volte al ‘miglioramento della razza’ si organizzano in un movimento di rilevante consistenza, che nel 1924 porterà all’adozione di leggi che limitano severamente l’integrazione di individui non di “razza nordica”. Fra gli esclusi sarà la “razza mediterranea” (che comprende, fra gli altri, noi italiani). Nel decennio successivo, il razzismo eugenico, privo di qualunque fondamento scientifico, è costretto alla ritirata negli Stati Uniti, ma la sterilizzazione forzata di persone che presentano “difetti” considerati ereditari proseguirà per decenni, e le leggi che vietano i matrimoni interazziali sono dichiarate anticostituzionali solo nel 1967. Oltreoceano, il nazismo al potere decreta la sterilizzazione forzata, e procede all’eliminazione fisica dei portatori di handicap fisici e mentali, uno sterminio che si estenderà presto a tutti gli appartenenti a “razze inferiori”, a ebrei e zingari.
In Italia le “leggi razziali” sono approvate nel 1938. Se negli Stati Uniti e in Germania sono state considerazioni pseudoscientifiche e convinzioni ideologiche a promuovere queste leggi razziste, il caso italiano è diverso: si tratta del vile calcolo politico di un dittatore obnubilato, che di lì a poco guiderà il Paese al disastro. In Italia, le leggi del ’38 determineranno la persecuzione e lo smembramento di migliaia di famiglie, la deportazione di decine di migliaia di individui nei lager nazisti, la fuga all’estero di molti dei nostri cervelli migliori.
Questi erano i tempi. Ma si trattava semplicemente di una falsa ideologia, non di conoscenze scientifiche arretrate. Ce lo dimostra un bel libro di Julian Huxley e Alfred Haddon, «Noi europei un’indagine sul “problema razziale”», comparso a Londra nel 1935 e ora in edizione italiana presso Edizioni di Comunità, a cura di Claudio Pogliano.
Già in apertura di libro, gli autori distinguono fra il concetto di razza e il concetto di nazione, precisando come le caratteristiche socioculturali di un popolo siano tutt’altra cosa dalle sue caratteristiche etniche. Lavorando sui dati disponibili allora e con strumenti d’indagine molto limitati rispetto a quelli sviluppati in seguito, Huxley e Haddon giungono a conclusioni straordinariamente simili a quelle odierne.
L’analisi delle differenze somatiche fra i diversi tipi umani rivela una certa discontinuità fra regione e regione del mondo. Cambiano i tratti fisici, il colore della pelle, l’altezza, la forma della faccia e la corporatura. Ma questi aspetti della nostra costituzione biologica si riferiscono solo alla superficie del corpo. La quasi totalità delle nostre caratteristiche biologiche è nascosta, si tratta di caratteri ereditari che non si rivelano all’occhio dell’osservatore. Analizzando il sistema di gruppi sanguigni A-B-0 (in sostanza l’unico carattere genetico che si poteva studiare quando il libro fu scritto), le differenze fra i gruppi umani stanziati in diverse regioni del mondo appaiono assai più continue e graduali.
Gli autori concludono, correttamente, che non vi è base alcuna per parlare di distinzioni in razze – e meno ancora in sottospecie – per la specie umana, come facciamo per i cani e i cavalli e per molte altre specie. I tratti esterni del corpo, quelli che mostrano maggiore variazione, sono direttamente soggetti all’influenza dell’ambiente e in particolare del clima dell’area in cui una popolazione vive, per cui cambiano in tempi brevi sulla scala evolutiva. Per quanto riguarda i caratteri nascosti – quelli che contano davvero nel farci essere ciò che siamo – la variazione fra un popolo e un altro è ben poco superiore alla variazione che si riscontra all’interno di uno stesso popolo.
Quello che Huxley e Haddon non potevano sapere, perché solo negli ultimi decenni lo si è potuto dimostrare con sicurezza, grazie alla genetica molecolare e ai progressi della paleontologia e dell’archeologia, è che la ragione per cui la specie umana è cosi poco differenziata al suo interno rispetto alle altre specie viventi è semplicemente che si tratta di una specie molto giovane. Siamo distribuiti sull’intero pianeta, ma la migrazione che ha portato Homo sapiens sapiens a occupare i continenti è avvenuta solo nelle ultime decine di migliaia di anni, non nelle ultime decine di milioni. Non c’è stato il tempo per differenziarsi in razze o specie distinte.
La variabilità genetica è dovuta alla mutazione, un fenomeno spontaneo e abbastanza raro che si verifica a ogni generazione e fa si che i geni dei figli non siano una copia perfettamente identica di quelli dei loro genitori. A volte la mutazione fornisce un figlio di una caratteristica particolarmente vantaggiosa rispetto all’ambiente in cui vive, che dà a chi ne è munito maggiori probabilità di sopravvivere e riprodursi rispetto a chi ne è sprovvisto, così che il numero dei suoi discendenti tende ad aumentare nell’arco delle generazioni. Questa è la selezione naturale. Mutazione e selezione naturale sono due pilastri della teoria dell’evoluzione. La mutazione genera cambiamento, la selezione fa sì che le mutazioni vantaggiose si diffondano nello spazio e nel tempo.
La variabilità genetica interna a una specie è la sua migliore garanzia di sopravvivenza. In Europa, ad esempio, le grandi epidemie di peste hanno ucciso anche i 2/3 della popolazione in certe regioni. Gli altri però sono sopravvissuti, talora grazie a qualche migliore difesa genetica. Lo stesso fenomeno si sta verificando oggi in Africa e in parte dell’Asia con l’epidemia di Aids.
Ci sono altri due fattori che contribuiscono a creare variabilità, la migrazione e la deriva genetica. La migrazione rimescola le carte (cioè i geni), per via dello scambio genetico tra immigranti e nativi, e tende quindi a rendere le popolazioni più omogenee. La deriva genetica è invece la fluttuazione casuale della frequenza dei geni da una generazione a un’altra. Nel corso della storia umana vi sono stati numerosi episodi che hanno drasticamente ridotto di numero gli esseri umani. In Europa, ad esempio, i gruppi sopravvissuti all’ultima, glaciazione, fra i 25.000 e i 13.000 anni fa, dovevano essere di dimensioni molto ridotte. Ogni volta che si verifica una strozzatura demografica, solo i geni dei sopravvissuti vengono passati alle generazioni successive. Quando un piccolo gruppo migra altrove, però, può creare una popolazione un po’ diversa.
E interessante confrontare le conclusioni di Huxley e Haddon sui Popoli europei con lo stato delle conoscenze di oggi. Gli autori non hanno introdotto gli effetti della deriva genetica, che già era stata studiata nella teoria matematica dell’evoluzione sviluppata negli anni Venti. Ma la sua importanza non era ancora stata capita, e solo l’avvento del computer avrebbe permesso di sviluppare la potenza di calcolo necessaria per applicare le formule teoriche ai dati.
Huxley e Raddon accettano la distinzione, proposta dall’antropologia fisica, in tre gruppi etnici europei (rifiutando esplicitamente il termine “razze”): Mediterranei, Nordici ed Eurasiatici (questi ultimi estesi dalla Francia centrale alla Russia). Aggiungono due gruppi noti solo attraverso la ricerca archeologica: i cercatori di metalli distribuiti lungo le coste mediterranee e atlantiche e il cosiddetto “popolo del bicchiere”.
La descrizione odierna delle caratteristiche genetiche delle popolazioni europee non se ne discosta molto. Ferma restando l’estrema similarità si nota una leggera differenziazione fra 4 gruppi: il grosso delle nazioni del Centro Europa; un gruppo di tre nazioni mediterranee di lingua romanza (Italia, Spagna e Portogallo); un gruppo di due nazioni di lingua slava (Russia e Polonia) e l’Ungheria (che parla una lingua di altra origine). Questi tre gruppi ricordano da vicino i tre proposti, da Huxley e Haddon. Il quarto comprende Scozia, Galles e Irlanda, di radice celtica. A questi si aggiungono alcuni “isolati” etnici e linguistici, come i baschi, i sardi, gli islandesi, i lapponi, i finnici, i greci e gli jugoslavi. Per ciascuno di questi gruppi si possono rilevare le tracce di antiche emigrazioni che hanno favorito una marcata deriva genetica.
La grande fortuna dei popoli dell’Occidente negli ultimi secoli ha tutt’altra spiegazione che una presunta superiorità biologica. In un saggio pubblicato pochi anni orsono («Armi, acciaio e malattie», Einaudi), il fisiologo ed ecologo Jared Diamond ne individua convincentemente le ragioni in una concatenazione di fattori di natura squisitamente ecologica. Al tempo stesso, è importante rendersi conto che questa supremazia è anch’essa temporanea: già il secolo in cui siamo entrati vedrà nuovi protagonisti imporsi sulla scena mondiale.
All’ascesa di ogni impero ha fatto seguito, in pochi secoli, il suo declino. Il predominio occidentale dal Cinquecento in poi è stato largamente costruito sullo sfruttamento delle risorse umane, agricole e minerarie del resto del pianeta. I migranti che a milioni oggi traversano la Terra per bussare alle porte dei Paesi ricchi vengono anche a recuperare parte di quanto è stato loro sottratto. E da come sapremo, o non sapremo, promuovere uno sviluppo ragionevole su scala globale, che si potrà misurare il valore effettivo della nostra civiltà e la probabilità della sua sopravvivenza.
Poiché sono fondamentalmente un democratico, pubblico pure le sciocchezze dei cattolici di destra che infestano il web a margine di totustuus . Si tratta di un tal Moranti che scrive su Kattolico. Riesce a capovolgere la frittata credendo che non gli ricada sul cranio. Questi poveretti vanno controllati perché sono bestie pronte a mordere quando arriverà il nuovo Uomo della Provvidenza. Occorre però ricordare qualcosa: i roghi di omosessuali (chiamati finocchi proprio perché si gettava finocchio nei roghi per attenuare il penetrante odore di carne umana ustionata), di streghe, di liberi pensatori, … Altra menzione va alla Chiesa che benedice le espulsioni di ebrei e islamici dalla Spagna, che accompagna con la croce i massacri spagnoli (e non solo) nelle Americhe. Che dire poi della Chiesa che è la maggiore azionista contro gli ebrei, i noti deicidi ? [si veda in proposito, e come limitatissima esemplificazione: R. Taradel, B. Raggi: La segregazione amichevole (la Civiltà Cattolica e la questione ebraica, 1850-1945), Editori Riuniti 2000.
http://www.kattoliko.it/leggendanera/bioetica/razzismo.htm
Il razzismo? Darwin più teosofia
di Adolfo Moranti
Le radici del razzismo sono nel cuore delle correnti culturali della modernità: l’illuminismo, il positivismo scientifico e la critica della civiltà cristiana medievale e della Chiesa cattolica
Dopo il 1945 lo spettro del razzismo si aggira per l’Europa. L’impatto del genocidio degli ebrei e di altre minoranze etniche perpetrato a cavallo della seconda guerra mondiale ha segnato in profondità la cultura europea dell’ultima metà del ‘900, e oggi i mass media hanno volgarizzato l’uso del termine “razzismo” estendendolo ad una serie di usi sempre più distanti dalla sua realtà originaria: il linguaggio comune, plasmato dal gergo giornalistico, oggi tende ad utilizzare come sinonimi termini quali “xenofobia”, “razzismo”, “intolleranza”, “antisemitismo”. In tal modo la parola ‘razzismo” significa cosi tante cose da non significarne più alcuna, e il suo utilizzo rischia di farla diventare un termine puramente retorico, il cui significato è di volta in volta imposto dal potere politico e mediale: per cui “razzisti” sono sempre e comunque ‘gli altri”.
È importante, per capire questo fenomeno, ricostruire la storia del razzismo, le sue radici filosofiche e scientifiche, il clima culturale che ha reso possibile prima pensare e poi applicare il razzismo alla cultura e alla società.
Se apriamo il Dizionario enciclopedico Treccani della lingua italiana, alla voce “razzismo” leggiamo: «Termine, diffuso in Italia soprattutto dal 1938, usato per indicare da una parte le dottrine che postulano quale presupposto del divenire storico l’esistenza di “razze superiori” e “inferiori”, le prime destinate al comando, le seconde alla sottomissione, e dall’altra l’azione tendente a ottenere la “purezza” e il miglioramento delle razze superiori». Il lettore può constatare da un lato la riduzione nel pensiero razzista dell’umanità a specie zoologica — una fra le tante esistenti, e pertanto sottoposta agli stessi processi di valutazione e selezione riservati ai bovini da latte a al suini da carne —, e nel contempo l’impressione profondamente errata che il razzismo sia un fenomeno novecentesco, connesso al dilagare del nazismo in Europa ed albo sterminio degli ebrei, e pertanto cessato nel 1945.
Questa interpretazione del razzismo come breve parentesi in spiegabile e barbarica all’interno del percorso progressivo della cultura europea del ‘900 è esattamente parallela — e ne condivide le fonti ispirative — alla definizione crociana del nazismo come parentesi inspiegabile e irrazionale della cultura politica europea, e come questa e autoconsolatoria e sbagliata.
Chi voglia studiare direttamente i “testi sacri” del pensiero razzista otto-novecentesco vi scopre infatti una singolare coesistenza di filoni culturali apparentemente diversi e che la nostra sensibilità troverebbe oggi razionalmente incompatibili fra loro, ma che nella cultura degli albori della modernità si fusero assieme:
a) l’utilizzo entusiasta delle conoscenze scientifiche derivanti dalla genetica, dalla teoria dell’evoluzione e dall’antropologia scientifica: già Ia generazione successiva a Charles Darwin iniziô ad usare l’evoluzionismo per “interpretare” le differenze fra culture e razze in modo da sottolineare la superiorità della razza wasp (bianca, anglosassone e protestante) e giustificarne il colonialismo.
b) la cultura materialista e positivista allora egemone fece si che queste teorie scientifiche si mescolassero assieme alla critica illuministica alla società organica e all’universalismo cattolico e medievale, per cui non tanto un generico cristianesimo, ma soprattutto il Cattolicesimo romano divenne il “nemico principale” delle teorie razziste, e tale è rimasto fino ad oggi.
c) l’alternativa al Cattolicesimo venne cercata sviluppando i temi tipicamente romantici (e puritani) della “mistica del popolo”, inteso come comunità dei portatori della stessa eredità simultaneamente biologica e spirituale, fino a generare nel corso del ‘900 una impressionante serie di sette nazionaliste sospese fra il luteranesimo e il neopaganesimo più estremi come ad esempio la Teosofia, in cui il razzismo biologico si mescolava con deliri neospiritualisti di ogni tipo.
d) infine, il culto giacobino dell’onnipotenza dello Stato divenne l’obbligata cornice politica e giuridica del razzismo, come di ogni totalitarismo moderno. Allo Stato venne affidato il compito di “rigenerare” la società distruggendo ogni resistenza: il sogno giacobino di Saint-Just diveniva realtà con più di un secolo di ritardo.
Il razzismo non è stato quindi un’anomalia inspiegabile nel cammino ascendente della società europea verso le sognate “radiose sorti, e progressive”: al contrario, anche in quest’ambito il ‘900 si è limitato a realizzare quanto è stato a lungo pensato e discusso nel secolo precedente e nello stesso tempo, senza il lungo percorso di costruzione non solo di una pseudo-scienza, ma anche di una pseudo-filosofia ed anche di una pseudo-religiosità razzista, percorso che si è dipanato per ben due secoli, il XVIII e il XIX, i genocidi del 900 non avrebbero potuto essere pensati e realizzati.
Le radici sette-ottocentesche del razzismo non sono cresciute fuori, ma nel cuore delle grandi correnti culturali che hanno costruito la modernità: in primo luogo l’illuminismo e il positivismo scientifico e il derivante clima di critica serrata e caustica del patrimonio culturale e spirituale dell’Europa anteriore alla rivoluzione politica, scientifica ed industriale del XVIII-XIX secolo; tale critica ebbe il suo massimo bersaglio nella civiltà cristiana medievale e soprattutto nella Chiesa cattolica, e i razzisti avevano ben chiara la coscienza di continuare a combattere una “battaglia di civiltà” che da Voltaire e dal kulturkampf bismarkiano sembra condurre direttamente ai Lager (e per via simmetrica, ai GuLag), in nome del progresso della scienza e della botta contro Ia superstizione cristiana e, massimamente, cattolica. In questo cammino il 1945 rappresenta un punto di svolta, ma non la fine della strada. Smettendo di coprirsi gli occhi si constata che il razzismo, nelle sue componenti pseudo-scientifiche e pseudo-religiose, è ampiamente sopravvissuto alla fine del Terzo Reich, dimostrando una vitalità ed una capacità di convivere con sistemi politici e culturali variegati solo apparentemente paradossale, semplicemente rivestendosi di panni maggiormente politically correct. La tragedia cambogiana, le recenti polemiche attorno alla riapertura del processo contro l’ex-premier serbo Slobodan Milosevic, accusato dal Tribunale Penale Internazionale di genocidio, e la continuazione dei “genocidi nascosti” contro i Cristiani in Sudan e i Tibetani in Cina, costituiscono un ulteriore motivo per ricordare come, dall’abbandono delle radici culturali e spirituali cattoliche, la modernità occidentale abbia ricavato solamente allucinazioni ideologiche, dolore e distruzione.
Bibliografia
Adolfo Moranti, Il razzismo. Storia di una malattia della cultura europea, Il Cerchio, collana “L’Altrotesto”, Rimini 2003.
© Il Timone n. 31, Marzo 2004
Ma torniamo a cose serie.
Il pensiero laico nei confronti del razzismo e della religione
di Roberto VACCA
Treviso, 23 settembre 2000
Razzismo e religione
Bertrand Russell disse in un’intervista del 1957: «Recentemente gira la voce che io sia opposto all’ortodossia religiosa meno di prima. È totalmente infondata, Io credo che tutte le grandi religioni del mondo – Buddismo, Induismo, Cristianesimo, Islam e Comunismo – siano false e dannose» [Aveva dimenticato il fascismo, ma forse non lo considerava una grande religione].
Sulla falsità riporto alcune considerazioni nella sezione seguente. Sono opinabili invece, i vantaggi o danni della religione. Indubitabile, invece, che le religioni tradizionali di tutti i paesi abbiano una forte connotazione razzista strettamente connessa alla identità etnica. «Sioux» in lingua sioux e «romani» in lingua zingara, significano «uomini»: chi non appartiene a quel popolo non è uomo. Gli ebrei si consideravano tradizionalmente il popolo eletto. Nella religione cristiana cattolica la fede nell’onnipotenza di Dio conduce alla fede nella predestinazione: chi si salva e chi è dannato è già stato deciso dall’Onnipotente a priori. La credenza è tanto scandalosa che viene messa a tacere. È inevitabile che emerga nel dogma dell’immacolata concezione (che pochi cattolici conoscono). Quando Maria, madre di Cristo, fu concepita dai suoi genitori, non le fu impresso il peccato originale (virgo sine labe originali concepta) perché era predestinata a essere la madre di Dio. La razza dei predestinati non ha carattere etnico, né è definita per meriti speciali: sono scelti arbitrariamente dalla divinità.
Predestinati a che cosa? Alla salvezza eterna come conseguenza dell’essere scevri da peccato. La dote umana più alta è quindi definita come aderenza a un codice di comportamento. Il valore umano, dunque, è definito in modo pragmatico anche se con riferimenti alla motivazione (l’amore di Dio). Viene ignorata la circostanza che lo spirito umano raggiunge le vette più interessanti nelle persone che sanno di più e scoprono leggi e regolarità della natura (sia quella a noi esterna, sia la natura nostra interna che produce pensiero, arte, poesia). E anche nelle persone che vedono verità logiche e matematiche che capiscono essere vere e sublimi.
Le religioni ignorano questa spiritualità, dettano massime e testi che diventano vaghi, appena smettono di riferirsi a questioni od oggetti materiali e banali. Questa banalità è premessa per l’assenza di pensiero, caratteristica essenziale della malvagità: lo scrisse Hannah Arendt parlando di Eichmann. Chi accetta come grandi verità (indiscusse, gratuite) dogmi di origine soprannaturale, è pronto a sacrificare sul loro altare benessere e libertà di chi non le condivide: è pronto a essere un razzista.
Si oppone a queste visioni il pensiero laico? È difficile definirlo. Non è pensiero ateo, né agnostico (che hanno definizione negativa). Chiamiamolo pensiero gentile – di noi che apparteniamo a un’altra gens – a un’altra tribù dubbiosa, scettica, aperta alle controversie, che mette al primo posto la conoscenza e comprensione del mondo e dei nostri simili – insieme alla cooperazione (vitale per sopravvivere e vivere bene), che accetta nuovi membri, offre scelte senza obbligare nessuno, è pronta a rivedere le verità trovate. Questa elencazione da’ un’idea di che cosa chiamiamo spiritualità. La condividiamo con uomini e donne di ogni provenienza e di ogni aspetto. Molti di questi li incontriamo in Rete (su Internet): sono amici nuovi con cui scambiamo parole, idee, sentimenti progetti – non sappiamo che faccia abbiano e la cosa è irrilevante. Siamo pronti a imparare da chiunque e a insegnare a chiunque.
Religione e miracoli
Le religioni sono basate sulla fede. I musulmani credono che il Corano esista ab eterno: una sua copia coeva di Allah esiste in cielo da sempre. Molti cristiani credono nella verginità della Madonna prima, durante e dopo il parto e nella presenza in Paradiso anche del suo corpo fisico. La fede si estende a ogni sorta di miracoli.
I miracoli si possono definire azioni umane che sospendono o annullano la validità di leggi fisiche per ottenere risultati inaspettati per dimostrare i poteri eccezionali di qualcuno o per aiutare qualcuno che abbia dimostrato di avere fede nel successo del miracolo. In quest’ultimo caso il miracolato non è un osservatore affidabile perché manifestava la sua fede prima dell’evento.
Inoltre: per decidere che un evento sia avvenuto in contrasto con le leggi fisiche, dobbiamo supporle note. Ma anche le leggi fisiche meglio comprovate dall’esperienza sono solo approssimazioni più o meno rozze. Anticamente si consideravano magie: vedere eventi a distanza di migliaia di chilometri, mentre accadono; volare più veloci del suono; usare macchine che ragionano, calcolano e parlano. Si credeva che le leggi fisiche rendessero impossibili queste azioni. Ma non era così: televisione, aerei supersonici e computer non sono miracolosi. Ancora: riteniamo di riconoscere una legge fisica se, in modo osservabile e ripetibile da chiunque, nelle stesse condizioni si osservano processi che dipendono da certi meccanismi e che si possono descrivere in modo preciso (spesso matematico) e prevedere. Dunque gli eventi che si verificano una volta sola non essendo osservabili e ripetibili, sono non eventi.
Il Cardinale Newman teorizzava che dovremmo credere ai miracoli antichi perché confermati da tante testimonianze. Ciascuna di queste aggiunge probabilità alla verità del miracolo e la somma di moltissime probabilità diventa una certezza. Newman diceva: «Anche chi non ha mai circumnavigato l’Inghilterra crede che sia un’isola per la somma delle testimonianze di tanti che hanno percorso qualche pezzo di costa. Proprio come nel caso dei miracoli». Pareto obiettò: circumnavigare l’Inghilterra è fisicamente possibile e non è vietato. Chi dimostrasse che è attaccata alla Francia, diverrebbe famoso. Dunque non si tratta di una somma di testimonianze, ma di uno stato di fatto osservabile oggi e di una ipotesi robusta: se esistesse un dubbio minimo sull’insularità della Gran Bretagna, la curiosità e il desiderio di fama degli uomini lo dirimerebbero.
Concludo. Gli argomenti esposti tagliano la testa al toro: non li accetta chi non capisce l’approccio logico-sperimentale e invoca visceralmente l’evidenza di certi prodigî. La situazione migliora. Nel numero della Civiltà Cattolica del 2 settembre 1905 un articolista sosteneva che il sangue di San Gennaro contenuto in una boccetta di vetro sigillata all’interno di una scatola d’argento chiusa durante il miracolo cambiava di peso da 987 a 1015 grammi (circa il 2,75%). Il 14 settembre 1905 il quotidiano di Genova Il Lavoro pubblicò una lettera in cui il matematico Giovanni Vacca (mio padre) sfidava i gesuiti a pesare in pubblico quel sangue per constatare se cambiasse o no peso per le loro preghiere. La prova non fu mai fatta. Alcuni credenti risposero vagamente su altri giornali che già certi professori dell’università di Napoli (rivelatisi inesistenti) l’avevano eseguita con successo. I miracoli sembrano tali fin quando non si eseguono controlli.
Cito infine la reliquia conservata in una chiesa in Italia centrale, Questa consiste di 5 grumi del sangue di un martire: ciascuno di essi pesa quanto tutti e 5 insieme! L’informazione era contenuta in un depliant turistico distribuito ai partecipanti a un Congresso dell’Unione Matematica. Era presente il Prof. Carlo Pucci che notò come fosse inopportuno raccontare quella assurdità (facilmente dimostrabile come falsa) proprio ai matematici.
Facciamo notare, dunque, quanto sia inopportuno raccontare assurdità a chicchessia.
L’antisemitismo: perché è il peggiore razzismo?
Accanto alla Sinagoga di Roma c’è una chiesetta ove anticamente gli ebrei del ghetto erano obbligati a sentire sermoni per indottrinarli. Una scritta in latino e in ebraico sopra la porta della chiesa biasima gli ebrei che con la loro caparbietà a non volersi convertire muovono i cristiani a una giusta ira (Expandi manus meas tota die ad – populue incredulum qui graditur – in via non bona post cogitationes suas – populus qui ad iuracundiam provocat me – ante faciem meam semper – Congregatio divina pietas posuit).
Mentre si attende che la scritta venga rimossa e conservata in un museo sul razzismo [se ne faccia promotore il kattolico Moranti, n.d.r], troviamo anche su Internet testi diffusi da revisionisti che negano l’Olocausto. Gli eventi che condussero i nazisti a uccidere 6 milioni di ebrei sono ben documentati. Questa negazione è empia e malvagia. Altri antisemiti non negano l’Olocausto, ma lo giustificano.
Io perdo la calma e vedo rosso quando ho sentore di antisemitismo. Perché? La ragione è che rifiuto il punto di vista secondo il quale ci sono due ragioni per cui saremmo giustificati a dire che gli ebrei si lamentano troppo. La prima sarebbe che non sono stati perseguitati più di tanti altri popoli perseguitati, schiavizzati e anche sterminati nel mondo in epoche più o meno recenti, e che si lamentano come se lo fossero. La seconda sarebbe che (almeno tanti fra loro) sono avidi, avari, interessosi e poco umani.
Sulla prima ragione (la più importante): è vero che gli indiani d’America, i neri in Africa e in America e i popoli colonizzati in tutto il mondo sono stati maltrattati orrendamente. Alcune popolazioni sono state completamente sterminate (e di tante si è perso ogni ricordo nell’antichità). È documentato il caso dei Tasmaniani, gli ultimi dei quali furono uccisi o morirono verso il 1869. Si vestivano di pelli. Sapevano solo affumicare le carni, non cuocerle. Di loro non è restato niente. Furono uccisi da coloni anglosassoni anche loro molto primitivi, che ignoravano tutto dei tasmaniani e della stessa civile convivenza. Gli ebrei stessi sono stati perseguitati con i pogrom in Europa orientale, convertiti per forza, cacciati dalla Spagna (nel 1492).
Tutti questi carnefici erano, ancora, gente primitiva – come Romani, Cartaginesi e Aztechi (che facevano sacrifici umani), come i cristiani – spagnoli e italiani – che bruciavano gli eretici in piazza.
Perché, allora, queste crudeltà più antiche sono meno bestiali o più veniali del genocidio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale? Non sostengo che in questo secolo certi crimini non sono più scusabili, mentre erano scusabili molti secoli fa. C’è un argomento ben più forte che si articola in vari punti:
- lo sterminio è orrendo e inaudito per la sua dimensione: sei milioni di ebrei distrutti con metodi industriali dopo aver cercato di distruggerne la personalità, il carattere, l’anima. (Leggi Se questo è un uomo di Primo Levi per avere una testimonianza diretta, tragica e certo non isterica);
- la distruzione cieca di molti campioni di umanità di alto valore è empia. Fra gli sterminati c’erano scienziati, artisti, pensatori, rabbini che continuavano una tradizione culturale volta a elevare il pensiero umano. È la tradizione a cui dobbiamo il giorno di riposo settimanale (sconosciuto ai Romani), i ragionamenti legali di tipo talmudico, ripresi anche da Tommaso d’Aquino e dalla psicanalisi [L’unico altro esempio di un simile sacrilegio, con dimensioni analoghe, è dato dalla liquidazione in massa degli avversari e dei dissenzienti da parte del regime di Stalin. A questo mancavano solo le camere a gas e i forni crematori, che sono aggravanti notevoli];
- i colpevoli del genocidio degli ebrei non erano ex galeotti come in Tasmania, né rozzi pionieri come in USA. Erano statisti e tecnici istruiti: sapevano bene chi e che cosa cercavano di distruggere;
- i colpevoli del genocidio degli ebrei sono recenti e i loro successori sono ancora fra noi (neonazi, neofascisti, pseudostorici, stranamente francesi, che negano che lo sterminio sia mai esistito). Sono nemici vivi, temibili se dimentichiamo da dove vengono e quali tendenze infernali abbiano.
Per questo minimizzare la strage degli ebrei è atteggiamento che condanno. Mi fa avvampare di ira: e un’alleanza inconscia col male che in questo secolo è stato rappresentato in misura così grande dal fascismo [È stato rappresentato anche dalla mafia, ma quella non la approva nessuno, almeno apertamente]. Combatto questo male estremo e disumano con veemenza maggiore di quella che uso contro altri mali, al confronto minori: incompetenza, furbizia, disonestà intellettuale o finanziaria, favoritismi.
L’altro argomento che tanti ebrei sono avidi, avari, poco umani, vale poco. Certo che è vero. È vero di ogni gruppo umano composto da migliaia di persone. I pareri in merito dipendono dalle esperienze individuali e non si deve generalizzare indebitamente. Forse lo faccio anche io, ma mi è successo di incontrare tanti ebrei di alto valore intellettuale, artistico, scientifico e insieme umano (Primo Levi, Rita Levi Montalcini, Natalia Ginzburg, Bruno Zevi, Alvin Toffler, quello dello Shock del Futuro e tanti altri meno noti). Poi ne ho incontrati di stupidi, maleducati, ignoranti e ce ne saranno di imbroglioni anche se non ne ho conoscenza diretta. Ma la percentuale di quelli buoni mi sembra maggiore che fra i non ebrei.
Comunque questi sono dettagli. Il valore spirituale e umano della tradizione ebraica è alto. Ho scritto varie cose sull’importanza e le derivazioni (morali e civili) del pensiero talmudico. Provare a distruggere i rappresentanti di quella tradizione è orrendo. Le tendenze razziste sono prive di ogni base razionale e si manifestano come un credo – una fede. Abbandonare la ragione – unica nostra arma potente – conduce a conseguire risultati casuali (negativi per la metà) o fini nettamente perversi.
Segue un breve saggio sul come si sterminava.
L’INGEGNERIA DELLO STERMINIO
di Giorgio Nebbia
Professore emerito Universita’ di Bari
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http://www.greencrossitalia.it/ita/speciali/auschwitz/ingegneria%20_sterminio/des01.htm
1. Il ritorno dei mostri
Chi incanta oggi i ragazzi con un sogno neo-“nazista”, capace di spingerli all’assalto di ebrei, immigrati, persone di colore, presenta l’epoca hitleriana come il periodo del trionfo della tecnica e dell’ordine, della moneta stabile e di riforme sociali in cui anche i lavoratori “stavano bene”, il periodo di un “socialismo” realizzato all’insegna di una nazione forte, efficiente, organizzata, bianca, ariana.
In questo quadro riesce facile aizzare i naziskin contro le persone appartenenti a quegli stessi gruppi che allora si opponevano od erano estranei al grande disegno di un “nuovo ordine”: ebrei, comunisti, zingari, omosessuali, neri, testimoni di Jehova, diversi (1).
Fondamentale, per dare credibilità ad un folle progetto neonazista, è negare il più osceno volto del nazionalsocialismo, lo sterminio fisico di qualsiasi oppositore o “diverso”.
Questo sterminio ha avuto numerosissimi volti ed episodi: campi di concentramento per “asociali”, socialisti, comunisti, sono stati organizzati fin dal 1933; poi altri campi sono stati creati per gli Ebrei tedeschi, poi per gli Ebrei dei territori occupati, per i prigionieri di guerra, eccetera.
Il culmine della violenza fu rappresentata dai campi di sterminio di cui Auschwitz fu l’esemplare più “raffinato” di organizzazione e di tecniche di assassinio. Auschwitz che fu liberato all’inizio del 1945 e fu visitato “a forni ancora caldi”, che fu fotografato e filmato più ancora di altri campi, in cui furono ricuperati dei pezzi di archivi e di documentazione sfuggiti alla distruzione da parte delle SS.
Auschwitz, diventato simbolo del nazismo, è stato ed è l’obiettivo principale del revisionismo neonazista: se fosse stato possibile dimostrare che non era vero che i nazisti avevano un raffinato sistema di camere a gas, che l’acido cianidrico serviva soltanto per uccidere i ratti, che i forni crematori servivano soltanto per incenerire i corpi delle persone morte per malattie, sarebbe stato portato un colpo decisivo all’ondata mondiale di indignazione. Ne è nata così una “scuola” di negazionismo, nei paesi anglosassoni e in Francia, con fedeli discepoli in Italia, Olanda e in altri paesi.
Il punto fondamentale era sostenere che “Auschwitz è una bugia”; fatto questo le SS diventavano i custodi di normali prigioni; i milioni di morti sarebbero apparsi vittime di epidemie; gli industriali che usavano mano d’opera schiava sarebbero apparsi normali imprenditori.
L’operazione è cominciata negli anni cinquanta del secolo scorso, è andata crescendo fino agli anni settanta e si è fatta sempre più vivace a partire dal 1980 (2). Purtroppo col passare del tempo le conoscenze sulla vera storia economica e sociale del nazionalsocialismo si sono affievolite; due generazioni si sono susseguite a quella di coloro che erano adulti negli anni trenta e quaranta del Novecento; e anche fra costoro, almeno in Italia, ben pochi si sono sforzati di conoscere e spiegare e insegnare tale terribile storia.
Denunciare e smentire le falsificazioni della storia, come ha fatto opportunamente il libro di Till Bastian (2a), è una questione che riguarda non soltanto gli Ebrei e la loro storia e i loro morti, ma tutta intera l’umanità.
2. L’organizzazione dello sterminio
La storia umana ha purtroppo visto, nel suo corso, innumerevoli casi di uccisioni o di perdite di vite umane a decine e centinaia di migliaia: nel corso delle rivoluzioni, delle guerre fra etnie e sette religiose, della conquista di territori e delle loro materie prime. Abbiamo davanti agli occhi gli stermini di massa dei nativi americani da parte dei conquistatori cristiani; la morte di milioni di russi durante l’esilio e il lavoro forzato dopo la Rivoluzione d’Ottobre; gli stermini di etnie come gli Armeni o i Tamil; le guerre tribali in Africa; quelle fra musulmani sunniti e sciiti; i conflitti fra israeliani e palestinesi; fra slavi e musulmani nell’ex-Jugoslavia, e innumerevoli altri.
Lo sterminio di massa — prevalentemente, ma non solo, di Ebrei — condotto dai nazisti negli anni 1938-1945, ha però qualcosa di diverso da quelli che lo hanno preceduto e seguito: nell’uccisione di persone inermi sono stati impiegati mezzi tecnici raffinati, come forse mai è avvenuto prima, con la partecipazione di aziende, con regolari contratti e affari, con perfetta anche se allucinante, logica imprenditoriale e con lauti profitti, proprio in contrasto con l’immagine di un nazionalsocialismo romantico e anticapitalista che viene ancora fatta circolare.
Ci sono state discussioni fra funzionari, uffici nazisti e fornitori, sulla qualità dei macchinari e delle merci fornite per lo sterminio, c’è stato un coinvolgimento, non occasionale, di imprenditori che hanno cercato di fare “del loro meglio” per accontentare i committenti e perché lo sterminio venisse condotto nella maniera “migliore”.
Nel caso dello sterminio condotto dai nazisti vi sono stati, credo per la prima volta nella storia, stretti rapporti fra potere politico e aziende capitalistiche e i relativi tecnici, per cui il ricordo e lo studio di tale sterminio porta a mettere in discussione anche il ruolo e la moralità della tecnica e dell’impresa (3).
A mano a mano che è aumentato il numero di persone catturate per motivi di religione, di “diversità” rispetto alla “razza bianca e ariana” dominante (oppositori del regime, comunisti, zingari, omosessuali, ebrei, testimoni di Geova (4), prigionieri di guerra, catturati in Germania e poi in tutte le parti dell’Europa occupate dai tedeschi), il regime nazista si è trovato di fronte ad un numero crescente di persone che dovevano essere trasportate da un posto all’altro, concentrate in campi, alimentate, sia pure sotto i limiti della sopravvivenza, smistate e suddivise, controllate. Tutto questo comportava l’uso di mezzi di trasporto, la costruzione di edifici, l’impiego di guardie, sorveglianti, medici, tutte risorse sottratte allo sforzo bellico.
I prigionieri che potevano essere utilizzati come mano d’opera schiava, fino al loro esaurimento, venivano ceduti alle industrie come la I.G. Farben, la Krupp, le imprese di costruzioni, le fabbriche di aeroplani e missili, eccetera. Quelli che non “servivano” come potenziale mano d’opera erano esposti a malattie, epidemie, e tutto ciò rappresentava per la Germania un inutile “costo” che “doveva essere” ridotto o eliminato.
Oltre al deliberato progetto di “soluzione finale” del problema ebraico (5) — attuato con una fredda determinazione che non può certo essere negata neanche dagli zelanti revisionisti della storia del nazismo — vi è stato un vero e certo sterminio di milioni di persone, lasciate morire per stenti, per le fatiche, per malattie, per fame o deliberatamente uccise.
Come era naturale in una struttura militare-poliziesca efficiente e pignola, lo sfruttamento e l’eliminazione delle persone catturate sono avvenuti tenendo una puntigliosa documentazione tecnica e amministrativa il cui esame offre un quadro allucinante di questa particolare dittatura di destra, borghese e affaristica, che e’ stato il nazismo.
Nella confusione degli ultimi mesi di guerra una parte rilevante dei documenti, delle testimonianze, degli stessi edifici e strutture di sterminio sono stati smantellati, distrutti, dispersi.
I comandi delle SS e le industrie che con esse avevano avuto affari hanno distrutto, prima della cattura da parte degli Alleati, gran parte della corrispondenza, dei contratti, delle fatture.
Tuttavia la rapida avanzata delle truppe alleate e’ riuscita a ricuperare almeno una parte rilevante della documentazione che e’ stata, in parte, resa pubblica nel primo processo di Norimberga ai principali criminali nazisti (6) (7), nei dodici processi “successivi” di Norimberga (8) (9), nei numerosi altri processi davanti a tribunali inglesi, tedeschi, israeliani, ecc.
Uno degli ultimi processi e’ stato quello di Eichmann a Gerusalemme (giugno 1961-maggio 1962) (10).
Il materiale raccolto in quegli anni e contenente la testimonianza o gli elenchi del gran numero – milioni – di persone morte in seguito ai lavori forzati, per malattia e uccise nei campi di concentramento nazisti, fu enorme.
Si tratta di milioni di pagine di resoconti e testimonianze raccolti nelle lingue originali delle vittime e dei carnefici – tedesco, polacco, francese, olandese, ungherese, eccetera e relativi dialetti – rieleborati, tradotti e ritradotti da e nelle lingue dei processi; milioni di pagine di corrispondenza fra i vari uffici delle forze armate tedesche e delle SS e gli uffici dei campi, e i fornitori di materiali, e le aziende che utilizzavano mano d’opera schiava.
Tutta questa documentazione e’ dispersa in decine di archivi sparsi nel mondo (con l’apertura degli archivi russi si e’ ampliata la disponibilita’ e la possibilita’ di esplorazione di molto altro materiale documentario (11)), in parte microfilmata, catalogata, stampata, in gran parte inedita, in condizioni di conservazione sempre piu’ precarie, in parte deteriorata; in parte divulgata in forma giornalistica o apologetica o distorta.
Lo stesso materiale pubblicato, molto e in varie lingue, soprattutto negli anni cinquanta, e’ ora disperso in biblioteche private e pubbliche, e’ stato in gran parte dimenticato o non e’ stato letto affatto dalle centinaia di milioni di persone nate dal 1945 in avanti.
Infine gran parte delle persone coinvolte, degli autori e dei testimoni sono morti; chi e’ sopravvissuto alla tragedia talvolta ha testimoniato a distanza di settimane, o mesi o anni dagli eventi di cui e’ stato partecipe.
3. Radici e tecniche del “revisionismo”
Davanti a questa gigantesca tragedia dell’umanita’ ci si puo’ porre con due diverse attitudini: la ricerca delle concordanze e la ricostruzione, nel modo piu’ laico, del genocidio, come frutto avvelenato dell’ideologia nazista, di milioni di persone; oppure la ricerca delle discordanze, delle contraddizioni fra persone, date, numeri, in modo da negare, insieme alla credibilita’ di alcuni particolari, la credibilita’ dell’intera tragedia.
Nel primo caso la conoscenza degli eventi, la simpatia per il popolo ebraico, la partecipazione alle sofferenze dei suoi membri; il sentirsi coinvolti come esseri umani, come europei, in un senso di colpa per lo sterminio – per “quello” sterminio – di una parte di noi ad opera di un’altra parte di noi, dovrebbero spingerci a ripetere: “perche’ non avvenga mai piu'”.
Nel caso del rigetto dei crimini nazisti le radici si possono cercare nell’odio contro gli ebrei; nella critica dei rapporti fra stato di Israele e il popolo palestinese o gli stati arabi; nella aspirazione ad un mondo, disinquinato dalle “razze inferiori”, guidato in maniera autoritaria dai bianchi; nello spirito di “revisione” di qualsiasi verita’ “ufficiale” (dallo stalinismo, al Vietnam, all’assassinio di Kennedy, alle stragi) abilmente sfruttato dai neonazisti per sottoporre a “revisione” anche il genocidio perpetrato dalla Germania hitleriana.
Non c’e’ da meravigliarsi che il revisionismo neonazista, con le sue spiegazioni pseudo-“scientifiche”, riesca ad incantare molti appartenenti alle giovani generazioni che trovano, nella negazione delle atrocita’ naziste, un motivo per mettere in discussione l’antifascismo della generazione dei loro genitori; che sono attratti dal fascino di un progetto che in qualche modo giustifica la loro violenza.
L’epoca di una “nazione” forte, efficiente, organizzata – sostengono i neonazisti nella loro rozza propaganda, peraltro molto piu’ diffusa di quanto si possa immaginare – potrebbe tornare se venissero eliminati gli ebrei e i comunisti, se venissero rispediti ai loro paesi gli immigrati, se l’Europa e il mondo fossero governati da una generazione educata militarmente, disciplinata e, naturalmente, di “razza” bianca.
Il mettere in evidenza, percio’, le menzogne della propaganda revisionista che, sulla base di contraddizioni, secondarie o apparenti, nelle testimonianze e nei documenti, nega del tutto l’innegabile esistenza dei crimini nazisti contro l’umanita’, e’ importante non solo per ristabilire una verita’ storica, a sua volta in parte deformata da analisi affrettate, ma soprattutto per sradicare la perniciosa propaganda neonazista, comunque mascherata, che offende i principi dei diritti dei poveri, dei diversi, dei deboli, cioe’ i principi stessi di una democrazia.
Di tale revisionismo Leuchter (12) e’ stato uno dei “campioni” e un modello anche per i suoi epigoni italiani come Mattogno (13).
Il libro di Bastian offre percio’ un importante contributo alla conoscenze delle tecniche di uccisione di un gran numero (decine e centinaia per volta) di persone prigioniere dei nazisti, mediante l’uso di gas tossici; e delle tecniche di eliminazione, mediante forni crematori, dei cadaveri delle persone morte e uccise.
Il libro demolisce, puntualmente, le contestazioni pseudoscientifiche, le menzogne di Leuchter. Del resto l’esame dei documenti sui rapporti fra autorita’ naziste e imprese, numerosissimi gia’ nei documenti catturati ai nazisti ed emersi durante i processi ai criminali, e di recente aumentati di numero in seguito all’apertura degli archivi dell’ex-URSS, mostra senza ombra di dubbio che:
(a) Nello sterminio i nazisti hanno impiegato gas tossici, come l’ossido di carbonio o l’acido cianidrico, il primo in speciali carri o vagoni o locali in cui venivano fatti affluire i gas di combustione di motori a scoppio, il secondo sotto forma di un preparato come il Zyklon B, una polvere in cui l’acido cianidrico e’ adsorbito /// attenzione: e’ “adsorbito”, non “assobito” /// su un materiale inerte come farina fossile o bentonite, introdotto in “camere a gas” appositamente progettate e costruite (14) (15).
(b) Su richiesta delle autorita’ naziste numerose imprese hanno progettato, perfezionato, costruito e installato nei campi di sterminio, forni crematori per la rapida eliminazione dei cadaveri delle persone morte o uccise nelle camere a gas o in altri modi.
(c) Infine numerose imprese non hanno esitato ad assicurarsi profitti sfruttando mano d’opera schiava fornita dalle SS.
4. Uso di gas tossici
Numerose testimonianze indicano che uno dei primi sistemi utilizzati per l’eliminazione di persone catturate dai nazisti e’ stato basato sull’impiego dei gas di scappamento di autoveicoli, contenenti il velenoso ossido di carbonio.
Non c’e’ da meravigliarsi perche’ la tossicita’ dei gas di scappamento di motori a scoppio e’ ben nota: nei motore a scoppio, funzionanti col ciclo Otto alimentati a benzina o funzionanti con ciclo Diesel e alimentati con gasolio, la combustione ad alta velocita’ del combustibile risulta incompleta e da’ luogo alla formazione di quantita’ piu’ o meno grandi di ossido di carbonio, la cui concentrazione nei gas di combustione puo’ arrivare al 4 – 5 % e oltre.
La concentrazione nei gas di combustione dell’ossido di carbonio, il gas tossico, e’ minore se il motore funziona a pieno regime e a velocita’ sostenuta; e’ maggiore se il motore funziona a basso numero di giri.
L’uccisione di prigionieri con ossido di carbonio e’ stato effettuato facendo entrare i condannati sia entro il cassone chiuso di camion, sia in installazioni fisse, al cui interno venivano introdotti i gas di combustione.
La concentrazione dell’ossido di carbonio nell’aria, mortale per gli esseri umani, e’ di circa 5 grammi/m3, per cui basta circa un metro cubo di gas di scappamento per uccidere le persone che occupano dieci metri cubi di spazio. La morte era più lenta se il guidatore del camion accelerava, mentre era piu’ rapida se il motore era tenuto al minimo.
Il sistema di uccisione con l’ossido di carbonio, applicato soprattutto nel campo di concentramento di Chelmo fra la fine del 1941 e l’inizio del 1943, si rivelò troppo lento e il numero di persone che potevano essere sterminate risultava ancora “troppo basso” rispetto ai programmi. E sto parlando di esseri umani, con le loro grida, col loro dolore, con la loro disperazione crescente a mano a mano che aumentava la concentrazione del gas mortale.
Per “migliorare” le condizioni di impiego furono costruite delle camere più grandi nelle quali veniva introdotto ossido di carbonio ottenuto ancora dai gas di scappamento di autoveicoli. Il fattore limitante era comunque costituito dalla lentezza dell’azione dell’ossido di carbonio e questa tecnica dopo qualche tempo fu abbandonata.
5. Uso dell’acido cianidrico
Per uccidere un maggior numero di persone, evitando le fucilazioni che venivano di regola usate, le SS decisero di utilizzare acido cianidrico, contenuto in forma stabilizzata nel prodotto chiamato Zyklon B che era già in commercio come agente per la disinfestazione e derattizzazione.
L’acido cianidrico è un liquido con temperatura di ebollizione di circa 25 gradi Celsius a pressione atmosferica ed è molto velenoso per gli esseri umani; la sua dose letale per il 50 % delle persone esposte (LD50) è di circa 1 mg per kg di peso corporeo. La concentrazione letale nell’aria per gli esseri umani e’ di circa 0,3 g/m3.
A parte un limitato uso come gas asfissiante durante la guerra mondiale 1914-1918, l’acido cianidrico, peraltro liberato per reazione di un cianuro con un acido, e’ stato usato per decenni negli Stati Uniti per l’uccisione dei condannati a morte.
Il Zyklon B era costituito da acido cianidrico adsorbito, come si e’ detto, su un supporto solido come farina fossile, e addizionato con una sostanza dall’odore pungente che aveva la funzione di rivelare la presenza di residui di acido agli operatori addetti alle disinfestazioni.
A questo proposito va detto che il Zyklon B, in vari scritti e in molte testimonianze, viene indicato talvolta come “un gas”, talvolta come “cristalli”, talvolta come “cristalli bleu” (come e’ noto il nome tedesco dell’acido cianidrico e’ Blausäure), talvolta come “una polvere”. Questa confusione ha avuto un suo ruolo nell’alimentare i dubbi sull’uso del Zyklon B nelle camere a gas naziste.
Il Zyklon B era stato brevettato nel 1922 e i diritti di fabbricazione appartenevano alla Deutschen Gold- und Silberscheideanstalt (Degussa); il preparato veniva fabbricato e distribuito dalla Degesch, una ditta fondata con il 50 % del capitale dalla I.G. nel primo dopoguerra. Alla fine si arrivo’ ad un accordo per cui la proprietà della Degesch (Deutsche Gesellschaft für Schädligsbekämpfung m.b.H, Weismüllerstrasse 32-40, Frankfurt am Main) era distribuita per il 42,5 % alla I.G. Farben, per il 42,5 % alla Degussa e per il 15 % alla Th. Goldschmidt AG.
Il Zyklon B era distribuito a ovest dell’Elba dalla ditta Heerdt-Linger GmbH, Hermann Go”ring-Ufer 3, Frankfurt am Main, e ad est dell’Elba dalla ditta Tesch und Stabenow (Testa), Messberghof, Hamburg 1, che fornì il preparato alle SS dal gennaio 1941 al marzo 1945.
Per l’uccisione di esseri umani, ad Auschwitz-Birkenau dall’autunno del 1941, ma anche in altri campi, la polvere di Zyklon B veniva introdotta in un locale chiuso pieno di condannati a morte; poiche’ la temperatura era ben presto superiore a 25 gradi C, l’acido cianidrico si liberava allo stato gassoso; avendo peso specifico un po’ inferiore a quello dell’aria, tendeva a salire verso l’alto avvelenando in breve tempo tutti gli occupanti della camera a gas.
Le contraddizioni che i negazionisti hanno voluto vedere nelle varie dichiarazioni relative alla durata dell’azione del gas, alla durata della ventilazione necessaria per allontanare dalla camera a gas l’aria contenente ancora acido cianidrico, ai controlli della concentrazione residua di acido cianidrico da parte di persone munite di maschera antigas, alla durata dell’azione dei Sonderkommando — le squadre di detenuti costretti a estrarre dalle camere a gas i cadaveri dei loro compagni avvelenati — sono dovute al fatto che i testimoni hanno parlato a distanza di tempo dagli eventi descritti, che poco e male comprendevano o che vedevano da lontano o conoscevano per sentito dire da altri.
La tecnica dei negazionisti e’ basata sull’affermazione che, se una contraddizione esiste, allora tutto l’evento è falso e il Zyklon B non è stato usato nelle camere a gas e quindi che le camere a gas non sono mai esistite. E’ invece tutto il contrario: proprio la coincidenza della sostanza dei racconti fatti da persone che non avevano comunicato fra loro, in epoche diverse, conferma questa tecnica di uccisione (16).
Le conferme sono numerose: alcune sono basate sui rapporti commerciali dei fornitori del Zyklon B con i comandi delle SS e sono emerse durante i processi ai responsabili delle societa’ Tesch e Degesch.
A Norimberga sono state prodotte le bollette di consegna da cui risulta che la Tesch & Stabenow forniva due tonnellate al mese di preparato mentre la Degesch ne forniva 750 kg al mese. Il primo dei due processi si tenne nel marzo 1946 davanti a un tribunale militare inglese ad Amburgo, e vide come imputati Bruno Tesch, Joachim Drösihn e Karl Weinbacher.
Gli imputati sostennero che non conoscevano l’uso che veniva fatto del loro prodotto, una affermazione smentita dalle relazioni dei frequenti viaggi fatti dai dipendenti della societa’ ad Auschwitz. Il proprietario Bruno Tesch e il direttore della societa’, Weinbacher, furono condannati a morte e impiccati (16).
Il processo alla societa’ Degesch si tenne davanti allo Schwurgericht des Landesgerichts di Frankfurt/M nel marzo 1949; il processo di appello si ebbe nel 1955 e fini’ con la condanna a cinque anni del direttore Gerhard Peters. Nel corso del processo, come ricorda Shirer (1), i rappresentanti della Degesch testimoniarono che, mella fornitura del Zyklon B alle SS, ebbero delle perplessita’ non certo di natura morale, ma dovute al fatto che nei primi anni 40 il brevetto della Degesch per il Zyklon B era scaduto, mentre la ditta aveva ancora il brevetto del “rivelatore”. La vendita del preparato senza rivelatore, come chiedevano le SS, avrebbe avuto delle conseguenze sulla posizione brevettuale della societa’: d’altra parte l’azionista IG Farben sapeva che avrebbe perso molti soldi se la Degesch non avesse fornito il preparato che le SS volevano, e subito, e i dubbi furono superati.
Un’ulteriore conferma che l’acido cianidrico era fornito per l’uccisione dei prigionieri e’ data da una corrispondenza, trovata negli archivi russi e pubblicata da Pressac (11), relativa alla fornitura di rivelatori della concentrazione di residui di acido cianidrico nelle camere a gas, indispensabili per sapere quando le camere potevano essere svuotate.
La richiesta dei rivelatori era stata fatta telegraficamente alla societa’ Topf, la stessa che forniva forni inceneritori al Bauleitung der SS di Auschwitz, la quale risponde con la massima sollecitudine:
“Erfurt, 5 marzo 1943.
“All’Ufficio centrale delle costruzioni delle SS e della Polizia
Auschwitz.
“Oggetto: Crematorio II, Rivelatore di gas.
“Accusiamo ricevuta del vostro telegramma [datato 26 febbraio 1943] cosi’ formulato:
‘Invio immediato di 10 rivelatori di gas come convenuto. Fare seguire fattura.’
“A questo proposito vi comunichiamo che, nelle ultime due settimane, abbiamo preso contatto con cinque differenti ditte per l’acquisto dell’apparecchio rivelatore di residui di acido cianidrico [Anseigegeraete fu”r Blausa”ure-Reste] che ci avete richiesto. Da tre ditte abbiamo ricevuto risposte negative e attendiamo ancora la risposta delle altre due.
“Quando avremo ricevuto notizie ve lo faremo sapere immediatamente in modo che possiate mettervi direttamente in contatto con la ditta che fabbrica questo apparecchio.
“Heil Hitler !”
E c’era certamente fretta perche’ altri documenti indicano che, dopo le opportune prove di ventilazione a vuoto nella camera a gas l (Leichenkeller 1) del forno crematorio II di Auschwitz, la camera fu usata il 13 marzo per uccidere, con 6 kg di Zyklon B, circa 1500 ebrei provenienti dal ghetto di Cracovia.
Non essendo ancora arrivati i rivelatori di acido cianidrico, il controllo della concentrazione residua del gas nell’aria, dopo ventilazione, fu effettuato per via chimica.
6. Forni crematori.
Nei campi di concentramento nazisti l’eliminazione dei cadaveri delle persone morte per malattia o per debolezza o uccise intenzionalmente, in fosse comuni era troppo laborioso e lento e fin dai primi anni di attivita’ dei campi di concentramento le SS decisero di acquistare dei forni crematori, per la cui fornitura vi fu, fra le imprese tedesche, una vivace concorrenza.
Particolare successo ebbe la ditta I.A. Topf und Söhne di Erfurt, fabbricante di impianti termici, che vinse il concorso per la fornitura dei cinque forni crematori di Auschwitz, a partire dall’agosto 1942 (5).
Ci è pervenuta una voluminosa corrispondenza fra la ditta e il Bauleitung der SS. Un esempio e’ offerto dalla seguente lettera, datata 12 febbraio 1943 (1) (6; ediz.ingl. vol. VII, p. 584).
“All’Ufficio centrale delle costruzioni
delle SS e della Polizia,
Auschwitz.
“Oggetto: Crematori 2 e 3 per il campo.
“Accusiamo ricevuta della vostra ordinazione di cinque forni tripli, compresi due ascensori elettrici per portare su i cadaveri e un ascensore di emergenza. L’ordinazione comprende un’installazione pratica per la riserva del carbone e un’altra per il trasporto delle ceneri.”
Fra i concorrenti della Topf si puo’ ricordare la societa’ delle officine Didier-Werke AG, Westfa”lische Strasse 90, Berlin-Wimersdorf, che, alla fine di agosto del 1973, sollecitava l’ordine per due forni alimentati a coke, da installare in un campo nazista di Belgrado, affermando di poter offrire un dispositivo di buona qualita’ (1)
(6; ediz.ingl. vol. VII, p. 585).
“Per mettere i corpi nel forno proponiamo una semplice forca di metallo montata su cilindri.
“Ogni forno avra’ un fornello di cm. 60 x 75 sufficiente, dato che non vengono usate bare. Per il trasporto dei cadaveri dal luogo di raccolta al forno proponiamo carrelli leggeri su ruote, di cui accludiamo i disegni in scala ridotta.”
Non si sa se questo forno e’ stato costruito.
Altra diretta concorrente della Topf era la ditta Heinrich Kori GmbH, Dennewitzstrasse 35, Berlin W 35, che poteva offrire e fornire diversi tipi di forni crematori. Un tipo mobile era scaldato a olio combustibile; un tipo mobile era scaldato a coke; erano scaldati a coke due forni di tipo fisso, uno denominato TI e un altro (modello TII) denominato “Reform”.
Dai dati disponibili la ditta Kori ha venduto dieci forni mobili a olio combustibile, quattro forni mobili a coke, 2 forni del tipo TI e 18 del tipo TII. Di questi ultimi quattro erano stati installati a Dachau, 4 a Sachsenhausen, 5 a Maidanek, eccetera. Anche la Kori concorse (1)(6; ediz.ingl. vol. VII, p. 585) alla gara per la fornitura del forno inceneritore da installare a Belgrado mettendo in evidenza che, nelle forniture precedenti, i suoi forni “nella pratica si sono dimostrati del tutto soddisfacenti”.
“In seguito al nostro colloquio circa la fornitura di impianti di semplice costruzione per la cremazione di cadaveri, vi sottoponiamo i progetti dei nostri forni perfezionati che funzionano a carbone, e risultati finora del tutto soddisfacenti.
“Per l’edificio progettato vi proponiamo due forni crematori, ma vi consigliamo di fare altri accertamenti per essere sicuri che due forni siano sufficienti alle vostre necessita’.
“Vi garantiamo l’efficienza dei forni di cremazione, nonche’ la loro lunga durata, l’uso del migliore materiale e la nostra mano d’opera ineccepibile.
“In attesa di un’ulteriore vostra comunicazione restiamo ai vostri ordini.
“Heil Hitler !”
I forni crematori venduti dalla Topf al Bauleitung der SS di Auschwitz si rivelarono poco soddisfacenti, sia come progettazione, sia come materiali impiegati: il numero di cadaveri che essi riuscivano a bruciare risultava molto inferiore a quello indicato nei preventivi.
Ci sono pervenuti (2a) (11), per gli anni 1942, 1943 e 1944, i documenti relativi al via-vai di tecnici e riparatori inviati dalla soc. Topf al campo di Auschwitz, e le proteste dei committenti, le giustificazioni, le proteste della Topf per i ritardi nei pagamenti.
Un forno costava circa 30.000 euro attuali a cui andavano aggiunti i costi delle opere murarie appaltate a numerose ditte tedesche e polacche. Nel momento di far soldi con i nazisti non si tirava indietro nessuno.
Nel frattempo i forni crematori risultavano spesso insufficienti, anche considerando che il campo di Auschwitz fu colpito da varie epidemie di tifo (una delle quali nell’estate del 1942). Ad Auschwitz, come del resto in altri campi, i cadaveri che non potevano essere bruciati negli appositi forni venivano gettati in discariche dove venivano bruciati e poi ricoperti di terra, una pratica di cui ci sono pervenute testimonianze fotografiche e cinematografiche quando l’arrivo delle forze armate alleate ha costretto le SS a lasciarle incomplete.
Il cinismo delle corrispondenze fra fornitori di strumenti, di macchinari e loro committenti, i resoconti delle visite dei tecnici e gli elenchi delle giornate lavorative prestate dai dipendenti civili nei campi, rappresentano, al di la’ del giudizio sul genocidio, una delle piu’ drammatiche dimostrazioni dell’effetto di corruzione delle coscienze che il nazismo ha praticato.
Sotto questa luce si “spiegano” anche gli atteggiamenti degli imprenditori, degli industriali, dei banchieri durante i processi a cui sono stati sottoposti, il ritornello che nessuno sapeva che la mano d’opera venduta dalle SS, che le persone uccise nei campi dai loro macchinari o prodotti, erano esseri umani.
A proposito della ditta Topf, apprezzata fornitrice di impianti per la cremazione di cadaveri, si puo’ ricordare che il 30 maggio 1945 la polizia militare alleata arrestò l’ing. Prüfer, il dirigente che era stato piu’ attivo nei rapporti con il comando delle SS; temendo che il suo collaboratore potesse parlare, uno dei titolari della ditta, Ludwig Topf, si suicido’ nella notta fra il 30 e il 31 maggio.
Suicidio inutile perché il 13 giugno Prüfer fu liberato, e anzi approfitto’ della prigionia per vendere un forno crematorio agli americani. Dal 14 al 20 giugno 1945 Prüfer e l’altro titolare, Ernst-Wolfgang Topf, distrussero tutti i contratti intercorsi fra la ditta e le SS di Auschwitz. Occupata Erfurt dai russi, Ernst-Wolfgang Topf cerco’ di ricostituire la sua ditta a Wiesbaden ma gli affari andarono male e la ditta fu sciolta nel 1963.
Questa fine sarebbe passata sotto silenzio se il suo unico ingegnere, Martin Klettner, non avesse pensato di non lasciar disperdere l’esperienza industriale raccolta e non avesse depositato, il 24 giugno 1950, una domanda di brevetto tedesco (n. 861.731, Cl.24d, gr.1) per un forno di incenerimento di cadaveri. Questa imprudenza fece un certo rumore e ad essa si e’ ispirato il commediografo inglese Wim van Leer per un dramma teatrale, intitolato “Patent pending”, rappresentato a Londra nel 1965.
Il libro di Pressac (11), da cui e’ tratto questo episodio, informa anche sulla sorte dei vari collaboratori della ditta Topf coinvolti nelle trattative con le SS.
7. Rapporti fra nazismo e industrie
Ma le complicita’ fra nazismo e industrie non si limitarono alla costruzione dei campi e alla fornitura degli strumenti di sterminio.
Tali complicita’ avevano radici ben piu’ profonde che si possono comprendere soltanto ricordando che il nazionalsocialismo hitleriano era una forma di capitalismo ben organizzato, nel quale gli imprenditori si assicuravano profitti “grazie” sia alle protezioni accordate dal governo ad una produzione, principalmente di carattere militare, ben remunerata, sia, negli anni quaranta, alla disponibilita’ di mano d’opera schiava a prezzo zero, costituita dai “nemici”: comunisti, deportati, ebrei, prigionieri di guerra, abitanti dei territori occupati.
La macchina economica e militare nazista era basata sulla disponibilita’ di grandi risorse naturali. Prima di tutto una terra vasta e fertile, sfruttata da aristocratici e proprietari terrieri da cui provenivano anche i quadri della burocrazia statale e dell’esercito.
La seconda importante fonte di ricchezza era rappresentata dalle risorse minerarie, soprattutto di carbone, minerali di ferro, minerali potassici; una delle zone minerarie importanti, la Saar, era stata assegnata alla Francia con il trattato di pace dopo la I guerra mondiale (1914-1918), ma era tornata alla Germania nel 1935, poco dopo l’avvento di Hitler al potere (1933).
La lunga tradizione della chimica industriale tedesca aveva dimostrato che il carbone non solo rappresentava una fonte di energia abbondante e sicura, ma poteva essere usato per la trasformazione dei minerali di ferro in acciaio, per la produzione di ammoniaca sintetica, coloranti, materie plastiche, gomma sintetica, perfino petrolio e benzina.
Quando Hitler sali’ al potere con l’obiettivo di disporre in breve tempo di acciaio, autoveicoli, carri armati, cannoni, aerei, carburanti per la conquista “del mondo”, trovo’ una struttura industriale ferita dalla crisi, ma perfettamente in grado di fornire i macchinari e le merci richieste dal regime nazionalsocialista.
Soprattutto Hitler pote’ contare su una struttura scientifica e di ricerca avanzata e su quel “modernismo reazionario” di cui da qualche tempo viene messo in luce il volto (18).
8. L’industria chimica al servizio del nazismo.
La storia del cartello della chimica offre uno dei piu’ significativi esempi di complicita’ fra industriali e regime nazionalsocialista e di sfruttamento della mano d’opera schiava (13).
L’industria chimica tedesca aveva gia’ dato il suo contributo alla guerra mettendo a punto, nel 1910, un processo per la fabbricazione sintetica dell’acido nitrico (occorrente per gli esplosivi e i concimi), che liberava la Germania dalla necessita’ di importare nitrati dal Cile.
Durante la I guerra mondiale l’industria chimica aveva fornito alla Germania esplosivi, gomma sintetica, carburanti, gas asfissianti, materiali da costruzione.
Alle soglie della prima guerra mondiale esistevano tre importanti compagnie chimiche: la Bayer, la Hoechst e la BASF (Badische Anilin und Soda-Fabrik). Il presidente della Bayer, Carl Duisberg, fin dal 1904 aveva suggerito di riunuire le tre societa’ in un unico cartello, come aveva fatto Rockefeller negli Stati Uniti creando la Standard Oil.
Un primo accordo nel campo dei coloranti fu realizzato fra due delle compagnie tedesche gia’ fin dal 1916, ma soltanto il 9 dicembre 1925 fu creato ufficialmente, dalla fusione delle sette grandi industrie chimiche tedesche – fra cui BASF, Bayer, Hoechst – un grande cartello denominato “comunita’ di interessi” (Interessengemeinschaft, o, piu’ brevemente, I.G. Farben o I.G.).
Il primo presidente fu il chimico Karl Bosch, della BASF, l’inventore, nel 1910, del processo di sintesi dell’ammoniaca e dell’acido nitrico.
La I.G. aveva l’obiettivo di operare sui mercati internazionali come monopolio e di perfezionare nuovi processi per la fabbricazione di gomma sintetica, fibre sintetiche, materie plastiche, benzina dal carbone.
L’industria chimica tedesca era pronta a servire il nuovo padrone, tanto piu’ che Hitler prometteva agli industriali sovvenzioni e protezione e un mercato sicuro, rappresentato dal governo stesso. La I.G. comprese quindi il vantaggio (per se’) della salita al potere di Hitler e contribui’ con 400.000 marchi alle sovvenzioni, in tutto due milioni di marchi, date il 20 febbraio 1933 dagli industriali tedeschi al partito nazista. Soldi ben investiti, che furono largamente ripagati; il capitale della I.G. passo’ da poco piu’ di un miliardo di marchi, nel 1926, a oltre tre miliardi di marchi nel 1943.
Per seguire bene i propri affari Krauch, uno dei consiglieri di amministrazione della I.G., entro’ nella organizzazione del piano economico quadriennale diretta dal gerarca nazista Göring.
I risultati si fecero ben presto sentire: con i soldi del governo nazista furono costruite fabbriche per la produzione di benzina sintetica per idrogenazione del carbone e di gomma sintetica col processo butadiene-sodio, la Buna.
I rapporti fra dirigenti della I.G. Farben e il partito nazista non furono sempre idilliaci. In un certo periodo la I.G. fu accusata di essere una industria ebraica e i dirigenti della societa’ ebrei o sospetti al nazismo furono espulsi.
Ironicamente Fritz Haber, il supernazionalista che aveva dato, durante la prima guerra mondiale, alla Germania esplosivi, concimi, gas asfissianti, fu, in quanto ebreo, il primo a dover andare in Svizzera dove mori’ amareggiato, nel 1934. In Germania ne fu vietata la commemorazione (19).
Nonostante i rapporti col nazismo, la I.G. ha continuato ad avare stretti rapporti tecnici e commerciali con le industrie chimiche internazionali e anche americane; la Standard Oil acquisto’ i brevetti per la produzione di benzina sintetica dal carbone, secondo una tecnica messa a punto da Bergius, e la Standard a sua volta mise a disposizione della I.G. la tecnica per la produzione di gomma sintetica Buna, che si rivelo’ utilissima per il funzionamento dei carri armati impiegati poco dopo contro i soldati americani.
La Ethyl Corporation americana (di proprieta’ per il 50 % della Standard Oil e per il 50 % della General Motors), praticamente l’unica industria capace di produrre negli anni trenta il piombo tetraetile, l’antidetonante per le benzine ad alto numero di ottano, importanti specialmente per l’aviazione, mando’ 500 tonnellate di piombo tetraetile in Germania alla vigilia dell’occupazione della Cecoslovacchia (20).
Fondamentale, per la preparazione della guerra, era la produzione su larga scala della benzina sintetica dal carbone e della gomma sintetica dall’acetilene, anch’esso ottenuto dal carbone.
Il governo finanzio’ la costruzione di alcuni grandi stabilimenti la cui localizzazione fu decisa vicino ai campi di prigionia e di concentramento (21) sulla base di accordi, presi fra i dirigenti della I.G. con le SS, che prevedevano l’utilizzazione, come lavoratori schiavi, di ebrei e altri deportati, almeno fino a quando erano in condizione di lavorare; dopo venivano eliminati.
9. Nel nome del profitto
Il piu’ grande stabilimento di gomma sintetica fu insediato a Monowitz, accanto al campo di concentramento di Auschwitz. Primo Levi, il grande scrittore ebreo catturato dai tedeschi nel 1943, fu deportato nel campo di Auschwitz e lavoro’ nella fabbrica di Buna, di cui ha lasciato molte testimonianze nel bellissimo libro: “Se questo e’ un uomo” (22).
“La Buna e’ grande come una citta’; vi lavorano – scrisse Levi (cap. VII: “Una buona giornata”) – oltre ai dirigenti e ai tecnici tedeschi, quarantamila stranieri, e vi si parlano quindici o venti linguaggi. Tutti gli stranieri abitano in vari Lager che alla Buna fanno corona: il Lager dei prigionieri di guerra inglesi, il Lager delle donne ucraine, il Lager dei francesi volontari, e altri che noi non conosciamo.
“Il nostro Lager fornisce da solo diecimila lavoratori che vengono da tutte le Nazioni d’Europa; e noi siamo gli schiavi degli schiavi, a cui tutti possono comandare, e il nostro nome e’ il numero che portiamo tatuato sul braccio e cucito sul petto.”
Molte altre industrie utilizzavano gli internati e i prigionieri dei campi di concentramento come mano d’opera schiava. Uno dei casi piu’ clamorosi fu quello degli stabilimenti Krupp (23). Ma lavoratori schiavi furono ceduti dalle SS, per soldi, anche alle industrie aeronautiche e alle fabbriche di missili (24), alla societa’ Siemens, a cementifici, miniere di carbone, acciaierie, calzaturifici, eccetera.
Tutti coloro che furono catturati nei vari paesi d’Europa e che non potevano essere utilizzati come mano d’opera, o che non erano “degni” di partecipare al grande sforzo bellico del terzo Reich erano destinati all’eliminazione.
All’ingegneria della guerra e dello sterminio contribuirono non solo gli imprenditori e i capitalisti tedeschi, ma anche imprese di vari paesi, Italia compresa.
Nel marzo 1942 a Roma i dirigenti della I.G. Farben firmarono un accordo con un consorzio di imprese edili italiane, il “Gruppo italiano”, per la costruzione degli edifici della nuova fabbrica; le imprese fornivano anche la mano d’opera.
Lo storico Brunello Mantelli (25) ha ricostruito la vicenda ed ha ritrovato anche una copia del contratto, pubblicato nel 1942 a cura della “Federazione nazionale fascista costruttori edili, Raggruppamenti Germania”, con il nome delle aziende che vinsero l’appalto.
Ascoltiamo ancora le parole di Primo Levi (22) (capitolo VII: Una buona giornata).
“La Torre del Carburo [il carburo di calcio era la materia da cui si otteneva l’acetilene che veniva poi trasformato in butadiene, l’ingrediente di base della gomma sintetica], che sorge in mezzo alla Buna e la cui sommita’ e’ raramente visibile in mezzo alla nebbia, siamo noi che l’abbiamo costruita. I suoi mattoni sono chiamati Ziegel, briques, tegula, cegli, kamenny, bricks, teglak, e l’odio li ha cementati: l’odio e la discordia, come la Torre di Babele, e cosi’ noi la chiamiamo Babelturm, Bobelturm; e odiamo in essa il sogno demente dei nostri padroni, il loro disprezzo di Dio e degli uomini, di noi uomini.”
E’ questo sogno che stanno rincorrendo le giovani teste rasate che sbandierano le croci uncinate e i simboli del nazismo negli stadi e nelle strade ? che ripetono, sugli ebrei, sui turchi, sui neri, le prodezze dei loro modelli ideali ?
10. I semi perversi dell’oblio
Ciascuno di noi, purtroppo, ha parlato e scritto, in questi anni, troppo poco di questo terribile passato. Anche i vincitori della seconda guerra mondiale hanno delle responsabilita’ nell’aver lasciato sopravvivere i germi della violenza nazista.
I dirigenti e i responsabili della I.G. Farben furono processati, dal marzo 1947 al luglio 1948; tutti dichiararono di non sapere niente del genocidio e di avere svolto solo il loro mestiere di industriali (26) (27) (28).
I dirigenti Durrfeld, Ambros, ter Meer, Buetefisch, Krauch e Schmitz furono riconosciuti colpevoli di sterminio di massa e di esercizio della schiavitu’, ma, al posto della pena di morte richiesta dal pubblico ministero, ebbero lievi condanne, rispettivamente a otto, otto, sette, sei, sei e quattro anni di carcere.
Ma i tempi stavano rapidamente cambiando. La guerra fredda, il blocco di Berlino dal giugno 1948 al marzo 1949, l’inizio della guerra di Corea nell’estate 1950 indicavano che l’occidente aveva bisogno di tutte le risorse tecniche e industriali della Germania, che il perdono e l’oblio sarebbero stati opportuni, che anche i criminali di guerra e i complici del regime nazista potevano servire contro il comunismo.
Nel gennaio 1951 l’alto commissario americano in Germania John McCloy concesse a centinaia di criminali di guerra l’amnistia generale.
Nel 1951 tutti gli imputati – di sfruttamento di mano d’opera schiava, di complicita’ nel genocidio – erano in liberta’ e alcuni tornarono in posizioni di responabilita’ nell’industria tedesca e internazionale. Otto Ambros della ex-I.G.Farben ebbe incarichi di consulenza da alcune industrie americane.
Analoga sorte ebbero i Krupp: Alfried, il proprietario della grande azienda metallurgica, principale fornitrice di armi alla guerra nazista, spietata sfruttatrice di mano d’opera schiava, fu condannato nel luglio 1948 a dodici anni di prigione, ma anche lui nel 1951 ritornò libero e in possesso delle sue ricchezze e recuperò grande prestigio come apprezzato imprenditore europeo.
Un malinteso senso del perdono e dell’oblio ha offerto il terreno di coltura della estesa pubblicistica negazionista.
Al di là delle contraddizioni che la filologia negazionista cerca di mettere in evidenza nei documenti e nelle testimonianze di ormai mezzo secolo fa, appare innegabile che la ventata di nazismo che ha spazzato l’Europa dalla fine degli anni trenta al 1945, ha lasciato dietro di se un’incancellabile scia di vittime rese possibili da una spietata organizzazione politico-militare. Essa però non avrebbe potuto svolgere “cosi’ bene” i suoi compiti se non vi fosse stato un ampio coinvolgimento di imprese che hanno operato secondo le leggi del profitto, senza alcuna morale.
Ebbene l’albero dell’oblio, dopo anni di incubazione, ha ripreso a dare frutti e questi sono i prodotti del negazionismo ammantato di pseudo-scienza, questi frutti sono sotto i nostri occhi oggi, e portano ancora lugubri svastiche e teschi.
NOTE
(1) Sul “nuovo ordine” nazista si veda, fra l’altro, il capitolo: “Il nuovo ordine”, in W.L. Shirer, “Storia del terzo Reich”, traduzione italiana, Torino, Einaudi, 2 volumi, p. 1427-1508.
(2) Per una interessante analisi delle radici del negazionismo si possono vedere i libri di P. Vidal-Naquet, “Assassins of memory. Essays on the denial of the Holocaust”, New York, Columbia University Press, 1992 (traduzione italiana, Milano, Feltrinelli, 1993), e, con speciale attenzione per la situazione anglo-americana, di D. Lipstadt, “The growing assault on truth and memory”, New York, The Free Press, 1993.
(2a) T. Bastian, “Auschwitz und die ‘Auschwitz-Luge’. Massenmord und Geschichtsfalschung”, Munchen, C.H.Beck, 1994; traduzione italiana col titolo: “Auschwitz e ‘la menzogna di Auschwitz'”, Torino, Bollati Boringhieri, 1995.
(3) G. Nebbia, “L’ingegneria del genocidio”, Ecole (Como), 5, (16), 31-35 (ottobre 1993); Il Calendario del Popolo, 50, (573), 4-8 (febbraio 1994); Relazione al seminario; “Il nazismo oggi: sterminio e negazionismo”, Fondazione Micheletti, Brescia, 10 dicembre 1993, in corso di stampa. Si veda anche il fascicolo monografico di “Il Calendario del popolo, vol. 50, n. 580, ottobre 1994, a cura di Davide Sorani: “Lager. Tecnologia di uno sterminio”.
(4) S. Graffard e L. Tristan (Michel Reynaud), “Les Bibelforscher et le nazisme”; trad.ital.: “I Bibelforscher e il nazismo (1933-1945)’, Paris, Ed. Tiresias-Michel Reynaud, 1994.
(5) La conferenza segreta di Wannsee, durante la quale fu decisa la “soluzione finale del problema ebraico”, si era tenuta il 20 gennaio 1942, poco dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor.
(6) International Military Tribunal, “The trial of the major war criminals before the International Military Tribunal”, 42 volumi, Nuremberg, 1947-1949 (abbreviato TMWC), esiste anche una versione francese.
(7) Office of the United States Chief of Counsel for Prosecution of Axis criminality, “Nazi conspiracy and aggression”, 10 volumi, Washington, 1946.
(8) “Trials of war criminals before the Nuremberg military tribunals under Control Council Law No. 10”, 15 volumi, Washington, D.C., 1949-1952 (abbreviato TWC). Il processo n. 6 fu contro i dirigenti della I.G. Farben; quello n. 10 contro i Krupp.
(9) “Law Reports of Trials of War Criminals”, London, 1947-1949, vol. I, p. 28. E’ un riassunto dei dodici processi “successivi”.
(10) H. Arendt, “Eichmann in Jerusalem. A report on the banality of evil”, New York, Viking, 1963; trad. ital.: “La banalita’ del male. Eichmann a Gerusalemme”. Milano, Feltrinelli, 1964, ristampa, 1992, 1993.
(11) Sull’origine e dimensione del materiale nazista sul campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, presente in tali archivi, si veda il recente libro di Jean-Claude Pressac, “Les crematoires d’Auschwitz. La machinerie du meurtre de masse”, Paris, CNRS Editions, 1993, trad.ital.: “Le macchine dello sterminio. Auschwitz 1941-1945”, Milano, Feltrinelli, 1994.
(12) Del “rapporto Leuchter”, oltre alle edizioni citate da Bastian, si possono ricordare quella pubblicata nel Journal of Historical Review, Summer 1989 (il JHR e’ la nota rivista pubblicata dall’Institute for Historical Review di Costa Mesa, California, base dei negazionisti americani); l’edizione francese pubblicata negli Annales d’Histoire Revionniste, n. 5, Ete-Automne 1988; la traduzione italiana col titolo; “Rapporto Leuchter”, Parma, Edizioni all’insegna del veltro, 1993.
(13) Carlo Mattogno e’ forse il piu’ prolifico rappresentante del negazionismo italiano. Si possono vedere, fra le sue molte opere pubblicate dalle case editrici dell’estrema destra italiana: “Il mito dello sterminio ebraico. Introduzione storico-bibliografica alla storiografia revisionista”, Monfalcone, Edizioni sentinella d’Italia, 1985; “Auschwitz: un caso di plagio”, Parma, La sfinge, 1986; “La soluzione finale. Problemi e polemiche”, Padova, Edizioni ar, 1991.
(14) W.B. Smith, “Chemistry and the Holocaust”, Journal of Chemical Education, 59, (10), 836-838 (ottobre 1982).
(15) Molti dati sono contenuti nel libro: E. Kogon, H. Langbein e A. Ru”ckerl, “Nationalsozialistische Massento”tungen durch Giftgas. Eine Dokumentation”, Frankfurt/M, S. Fischer Verlag, 1983.
(16) Importanti testimonianze sull’uso del Zyklon B sono state rese durante il processo a 22 ufficiali delle SS in servizio ad Auschwitz, svoltosi a Francoforte nel 1964. Si puo’ vedere a questo proposito il libro di O. Friedrich, “The kingdom of Auschwitz 1940-45”, 1982; trad.ital.: “Auschwitz. Storia del lager 1940-1945”, Milano, Baldini & Castoldi, 1992.
(18) J. Herf, “Reactionary modernism, Technology, culture and politics in Weimar and the Third Reich”, Cambridge, Cambridge University Press, 1984; trad.ital.: “Il modernismo reazionario. Tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich”, Bologna, il Mulino, 1988.
(19) Sui proprietari e dirigenti della I.G. Farben e sulle complicita’ col nazismo e’ stato fatto un telefilm in sei puntate, “Padri e figli fra due guerre”, scritto e diretto da Bernhard Sinkel, interpretato da Burt Lancaster, coproduzione Bayerische/RAI, trasmesso dalla RAI nell’ottobre 1987.
(20) Su questi episodi della logica perversa che gli affari stanno sopra tutto, si veda: C. Higham, “Trading with the enemy. An expose’ of the Nazi-American money plot 1933-1939”, New York, 1983.
(21) A. Krammer, “Fueling the Third Reich”, Technology and culture, 19, (3), 394-422 (luglio 1978).
(22) P. Levi, “Se questo e’ un uomo”, Torino, Einaudi, 1958 e varie edizioni successive.
(23) Sulle complicità fra nazismo e industria dell’acciaio si veda: William Manchester, “The arms of Krupp, 1587-1968″, 1964; trad.ital.:”I cannoni dei Krupp. Storia di una dinastia 1587-1968”, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1969.
(24) Cfr. M. Renneberg e M. Walker (editors), “Science, technology and National Socialism”, Cambridge, Cambridge University Press, 1994.
(25) B. Mantelli, “Il cantiere di Babele”, Storia e Dossier, 5, (44), 12-17 (ottobre 1990); “I lavoratori italiani in Germania 1938-1943; uno specchio delle relazioni fra le potenze dell’Asse”, Rivista di storia contemporanea , 4, 1989.
(26) J. DuBois, “The Devil’s chemists. 24 conspirators of the I.G. Farben cartel who manufacture war”, Boston, Beacon Press, 1952. Josiah DuBois fu il pubblico ministero nel processo contro la I.G. Farben.
(27) J. Borkin, “The crime and punishment of I.G. Farben”, New York, The Free Press, 1978; trad.ted.: “Die unheilig Allianz der I.G. Farben”, Frankfurt a.Main, 1981.
(28) Si vedano gli atti del “sesto” dei processi successivi a quello principale di Norimberga. Si tratta del processo ai dirigenti della I.G. Farben, “Gli Stati Uniti d’America contro Carl Kraus e altri”, svoltosi dall’8 maggio 1947 al 30 luglio 1948. Hans Radant (a cura di), “Fall 6. Ausgewälte Dokumente und Urteil des IG-Farben-Prozesses”, Berlin, VEB Deutscher Verlag der Wissenschaften, Berlin, 1970. Cfr. anche la voce: “I.G.Farben”, in: I. Gutman (editor), “Encyclopedia of the Holocaust”, New York, Macmillan, vol. 2, 711-714.
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