Una cronologia
– 1822.
Nace en Inglaterra Sir Francis Galton, primo de Charles Darwin, y autor de “Familias Notorias” y “El Genio Hereditario” donde se bridel piso teórico a la purificación racial.
– 1866. Nace en Estados Unidos Charles Davemport, director la Oficina de Registros Eugenésicos. Abogó por aislar a los enfermos mentales del sexo opuesto hasta que hubiesen franqueado la edad reproductiva, o esterilizarlos. La llamada “Apendicectomía del Misissippi”, bajo la égida de Davemport, produjo para 1964 más de 64.000 procedimientos de esterilización.
– 1916. Castle : Genetics and Eugenetics in cui si sostiene che … incroci razziali nell’uomo sono indesiderabili perché portano a ibridi disarmonici…( la faccenda avrà degli strascichi e molto probabilmente non è ancora chiusa).
– 1933. Adolfo Hitler promulga la Ley Eugenésica de Esterilización y establece los Tribunales de Salud Hereditaria que dictaminan 400.000 esterilizaciones forzosas, seguido del decreto de Nuremberg y de la política eutanásica de “asesinatos misericordiosos”. Se exterminan 3.000 enfermos mentales de Polonia. Para 1941 la cifra supera las 90.000 víctimas.
– 1935. Ventisei Stati degli USA approvano la legge che stabilisce la sterilizzazione forzata di persone “socialmente indesiderabili”.
– 1939. Viene chiuso l’Eugenetics Record Office (meglio tardi che mai!)
– 1934/1976. En Suecia son esterilizadas de manera forzosa 62.000 personas con fines de depuración racial.
– 1956. Se le otorga el premios Nobel al físico estadounidense William Bradford Shockley, por descubrir el efecto transistor de los semiconductores. Bradford patrocinó la idea de tatuar un dibujo sobre la frente de aquellas mujeres con antecedentes genéticos “indeseables”, y que se les pagase mil dólares por esterilización a quienes estuvieran por debajo de 80 puntos del coeficiente intelectual.
– 1998. La abogada norteamericana M. Shaw propone que toda madre con antecedentes genéticos, sea juzgada como “criminal”.
http://www.kattoliko.it/leggendanera/bioetica/razza_pura.htm
Dietro i sì alla clonazione umana il vecchio spettro dell’eugenetica
Razza pura «Made in Usa»
di Maurizio Blondet
Nel ’32 New York ospitò gli studiosi che sostenevano la selezione delle nascite In America molti Stati praticavano la sterilizzazione dei “meno adatti alla vita” . Nell’agosto del 1932 (attenti alla data: un anno prima che Hitler andasse al potere a Berlino) si tenne a NewYork il terzo Congresso internazionale di Eugenetica. Sede dell’evento il Museo di storia naturale della metropoli, trasformato per l’occasione in una sfarzosa esposizione dei “progressi dell’eugenetica”. Numerose vetrine illuminate esibivano per lo più teschi di “razze inferiori” estinte o viventi, paragonate con l’ampia nobile scatola cranica dell’Uomo Bianco. Le relazioni scientifiche che vi furono presentate sono del più grande interesse anche oggi. Il presidente del Museo, lo zoologo Henry Fairfield Osborne, spiegò che la “crisi mondiale in corso” non era dovuta, come credeva il volgo, al crack di Wall Street del 1929 e alla selvaggia speculazione finanziaria degli anni precedenti, bensì alle seguenti cause: “Sovradistruzione delle risorse naturali; sovrameccanizzazione dell’industria; eccessiva produzione di mezzi di trasporto; sovrapproduzione di cibo e altri beni; e sovrappopolazione, con conseguente con conseguente disoccupazione dei meno adatti. Il solo rimedio permanente – concludeva lo zoologo – è la selezione delle nascite sostenuta da un umano controllo delle nascite”.
La “sovrapproduzione” era, in realtà, una conseguenza della deflazione seguita al crack della Borsa: le merci restavano invendute non perché erano troppe, ma perché milioni di potenziali consumatori, disoccupati, erano privi di reddito. Ma era già completa l’ideologia di quegli ambienti anglo-americani che anche oggi propugnano la crescita – zero economica e demografica, confezionandola in allarmi ecologici.
Dopo l’americano Osborne salì sul podio l’inglese sir Bernard Mallet, presidente della British Eugenics Society. Il titolo della sua relazione: “Riduzione della fecondità dei socialmente inadeguati”. Si trattava, spiegò l’aristocratico scienziato, dei “pazzi, epilettici, poveri, criminali specie se recidivi, non-impiegabili, barboni abituali, alcolizzati, prostitute”. Di cui occorreva “limitare la fertilità” attraverso “la sterilizzazione volontaria” (sic). Il demografo W. A. Pecker, commissario per le statistiche vitali in Virginia, riferì su “Lo sforzo dello Stato della Virginia per preservare la Purezza Razziale”. Pecker elogiò le leggi del suo Stato, e deplorò quelle vigenti in Germania “dove un negro può sposare senza ostacoli Tedesche dai capelli chiari e dagli occhi azzurri”. Solo in Usa la legislazione aveva pienamente accettato i progressi della scienza eugenetica. Dal 1924 era in vigore la legge federale (Immigration Restriction Act) che limitava l’immigrazione su basi razziali. Molti Stati Usa adottavano la sterilizzazione dei “meno adatti alla vita”. Nel 1935, il totale delle sterilizzazioni eseguite in America giunse a 21.539, di cui la metà in California, come ha scoperto l’epistemologo francese Pierre Thuillier (La Tentation de l’eugénisme, su La Recherche, maggio 1984).
Un anno dopo il Congresso di New York, il professor Pecker non aveva più motivi di deplorazione: la Germania s’era dotata della sua legge sulla sterilizzazione. In lieve ritardo. Ma Eugenics News, la rivista degli eugenetisti americani, pubblicò nel settembre del ’33 il testo della legge tedesca additandola a modello per gli Stati della Federazione. Un anno prima a New York, Charles Davenport (le cui ricerche scientifiche erano finanziate dai banchieri Harriman), aveva aperto il Congresso con una profezia: “Attraverso gli studi genetici, possiamo aprire la strada al superuomo e al superstato”. Ora la profezia si stava avviando a Berlino. Non senza il sostegno di precisi ambienti americani. Davenport, presidente uscente della Società Eugenetica, presentò a New York con lodi adeguate il professor Ernst Ruedin, suo successore. Psichiatra svizzero, Ruedin dirigeva allora l’Istituto Kaiser Wilhelm per l’Antropologia, l’Eugenetica e l’Eredità Umana di Monaco di Baviera. Generalmente si crede che questo centro sia stato il propulsore culturale della “scienza razziale” nazista. La nozione va integrata. In realtà, questo istituto tedesco stentò ad operare (con il nome di Istituto Kreapelin) fino al 1925, quando le sue ricerche ebbero nuovo impulso dalla munificenza di un finanziatore di vasti mezzi. Quell’anno la Fondazione Rockefeller fece all’Istituto di Monaco una donazione di 2,5 milioni di dollari. Nel 1928 sborsò altri 325 mila dollari per la costruzione di una nuova sede. L’impulso era dato.
Ernst Ruedin, succeduto a Davenport alla testa della Federazione Eugenetica Mondiale, sarà in seguito nominato presidente della Società per l’Igiene Razziale voluta dal Reich, e magna pars del “gruppo di studio sull’eredità” presieduto da Himmler, che elaborò i testi di legge nazisti sulla sterilizzazione. Ruedin contava su due promettenti collaboratori. Uno, Franz Kallmann, si illustrò durante il Congresso di Scienze della Popolazione tenutosi a Berlino nel ’35 nella sede del Ministero dell’Interno (Gestapo) perché propugnò la sterilizzazione non solo degli schizofrenici, ma anche dei loro familiari. Purtroppo, identificato come mezzo-ebreo, Kallmann dovette privare del suo apporto scientifico il terzo Reich: nel ’36 trovò lavoro (come dubitarne?) in Usa. L’altro collaboratore di Rubin, Otto Verschuer, diventò nel ’43 il direttore dell’Istituto di Monaco. Esiste una sua lettera alle autorità naziste in cui segnala “il mio collaboratore, antropologo e medico Joseph Mengele”, per agevolare le ricerche che costui stava conducendo “sui gruppi razziali concentrati ad Auschwitz”. Mengele è braccato da decenni dai cacciatori di nazisti. Verschuer, suo superiore, nel 1946 sarà accolto dal Bureau of Human Heredity di Londra, dove ha potuto continuare gli “importanti studi scientifici” iniziati sotto il Reich. Poco dopo si stabiliva in Danimarca, dove il Bureau trasferì la sua nuova sede grazie a una donazione della Fondazione Rockefeller. Insomma: il sì britannico e americano alla clonazione di embrioni umani per scopi scientifici ha profonde radici storiche. Non naziste, sia chiaro; perfettamente anglosassoni, ossia liberali e mercantili.
Nel ’32, all’entrata del Museo di New York dove si teneva il cruciale Congresso, furono posti i busti marmorei di Charles Darwin e di suo cugino Francis Galton, inventore del termine “eugenetica”. Darwin aveva scritto: “Mentre tra i selvaggi i deboli di corpo sono prontamente eliminati, noi civilizzati facciamo ogni sforzo per arrestare il processo di eliminazione: costruiamo ospedali per gli idioti e gli infermi, emaniamo leggi per soccorrere i poveri”. Galton (1822-1911), scienziato di poco talento, è passato alla storia soprattutto come un metrologo maniacale: passò la vita a misurare scatole craniche, e allineare statistiche sulla criminalità fra le “classi meno dotate” inglesi. Galton considerò apertamente l’eugenetica una scienza politica, volta a salvaguardare le “classi più dotate”. Il darwinismo sociale. La sopravvivenza del più ricco.
© Avvenire – 29 Settembre 2000
Sull’eugenetica negli Stati Uniti,
capitolo spesso dimenticato
e non del tutto concluso
(e se il progetto Genoma?…).
Soluzione Finale Americana: il Pioneer Fund
Questa volta a proposito di eugenetica. Raccapricciante. Evviva gli uomini
bianchi e intelligenti L’eugenetica negli Stati Uniti ha sostenitori fedeli
e rispettabili. Specialmente a destra. Hywel Probert rivela paralleli
sorprendenti tra Bush e Hitler. Hywel Probert “Sarebbe meglio per tutto il
mondo se, invece di aspettare che la prole dei degenerati sia giustiziata
per i suoi crimini, o che muoia di fame per la sua imbecillita’, la societa’
evitasse a coloro che sono manifestatamente malati di perpetuare la
specie… Tre generazioni di imbecilli bastano.” Nel commento finale del
giudice Holmes non c’erano parole di conforto per Carrie Buck, la ragazza
madre di vent’anni miserevolmente seduta davanti alla Corte Suprema degli
Stati Uniti. Tre anni prima, le autorita’ delle Colonia della Virginia erano
arrivate alla conclusione che Carrie e sua madre, a quel tempo ricoverata in
un maniconio, avevano in comune tratti ereditari di “debolezza mentale e
promiscuita’ sessuale”. In quanto tale, Carrie si adattava perfettamente
alla descrizione legale: “probabile genitrice di progenie socialmente
inadeguata”. I fatti la raccontavano diversamente: Carrie Buck era stata
violentata da un amico della famiglia che la aveva ricevuta in affidamento,
e Vivian, la figlia illeggitima, risultato di quella violenza, figurava
nell’elenco degli studenti piu’ meritevoli della sua scuola elementare.
Queste cose non avrebbero contato: la corte piu’ alta della nazione e la
Colonia della Virginia erano della stessa opinione, Carrie Buck andava
sterilizzata con la forza. Questa non e’ la descrizione del processo a una
strega di Salem, e’ l’America degli anni venti. L’agitazione industriale, la
depressione economica e la sovrapopolazione negli Stati Uniti del primo
novecento avevano acceso il risentimento nei confronti di chiunque fosse
stato percepito come un ostacolo al progresso sociale. Il progressismo in
voga quei tempi mirava a risolvere scientificamente i problemi sociali;
alcuni scienziati suggerirono che l’andamento generale sarebbe migliorato se
si fossero soppresse le nascite di coloro che in futuro avrebbero gravato
sullo stato. Nel 1907, la prima legge nel mondo che permetteva la
sterilizzazione forzata fu varata in Indiana. Tra il 1907 e il 1924, furono
forzatamente sterilizzate circa tremila persone nella convinzione paranoica
che le nazioni dell’Europa orientale e meridionale mandassero di proposito
negli Stati Uniti gli individui predisposti geneticamente alle malattie
mentali, alla condotta criminale e alla dipendenza sociale. E comincio’ un
capitolo della storia americana che la maggioranza vorrebbe dimenticare. Il
termine eugenetica fu coniato nel 1883 da Francis Galton, nipote di Charles
Darwin, il quale sentiva l’obbligo morale di incoraggiare coloro che erano
forti e sani a fare tanti figli con il fine di migliorare l’umanita’ – oggi
definita con disinvoltura eugenica “positiva”. La specie piu’ sinistra e
virulenta della filosofia, l’eugenetica “negativa”, fini’ per trovare la
piu’ calda accoglienza dall’altra parte dell’Atlantico. Per tanti anni, il
cuore del movimento eugenetico americano fu l’Eugenetics Record Office,
allestito nel 1910 a Cold Spring Harbour (lo stesso centro che oggi ospita
l’Human Genome Project, la ricerca sul genoma) su sovvenzione di Mary
Harriman. Charles Davenport, il fondatore, la descrisse come “la principale
benefattrice dell’ERO”. Mary era la moglie di Edward, il magnate delle
ferrovie, e la madre di Averell, l’industrialista che nel 1921 decise di
ripristinare il corridoio di navigazione tedesco Hamburg-Amerika Line, la
piu’ grandea linea di navigazione negli anni che precedettero la seconda
guerra mondiale. Nel 1926 Averell Harriman accolse nella sua ditta di Wall
Street (W A Harriman & Co) un socio dal cognome famoso – Prescott Bush,
padre di un presidente e nonno di un altro. La societa’ culmino’ in
ricchezza smodata e ignominia temporanea per entrambi. Nel 1942, in piena
guerra, il New York Herald Tribune riporto’ che la Union Banking Corporation
della quale Prescott Bush era il direttore e Roland Harriman il maggiore
azionista (con il 99% delle azioni), aveva il controllo di una discreta
somma di denaro su commissione del consulente finanziario di Hitler.
L’intero capitale della Union Banking Corporation fu confiscato su
esecuzione del Trading with the Enemy Act (la legge che proibisce il
commercio tra due nazioni nemiche). Con tutta probabilita’ l’americano che
dopo il 1933 ha maggiormente influenzato l’eugenetica tedesca e’ stato Harry
Laughlin, con il suo Modello di Legge per la Sterilizzazione Eugenetica
(Model Eugenic Sterilisation Law) del 1922, che condusse alla
sterilizzazione di 20,000 americani. La legge di Laughlin fu il modello
dello statuto secondo il quale la Germania nazista sterilizzo’ legalmente
oltre 350,000 “indesiderabili”. L’influenza di Laughlin sull’eugenetica
americana si e’ spinta oltre. Nel 1937 divenne il primo presidente del
Pioneer Fund, un’organizzazione che ancora oggi provvede i fondi per la
ricerca, ideologicamente motivata, della relazione tra intellingenza e
razza, al fine di “migliorare le razze”. Le descrizioni di verita’, logica e
responsibilita’ quali parti integranti “dell’ordine biologico” continua ad
essere la filosofia del Pioneer Fund. L’anello che che collega gli
eugenetisti del Pioneer Fund ai protagonisti della destra americana e’
sempre molto saldo. A William H Draper III, il co-presidente incaricato
della raccolta dei fondi per la campagna elettorale di George Bush nel 1980,
fu conferito l’incarico di presidente dell’Export-Import Bank of the United
States nei governi di Reagan e di Bush. Il padre, che era stato il direttore
della societa’ tedesca di prestiti per fondi d’investimento, la German
Credit and Investment Corporation, era un consanguineo di Wickliffe Draper,
il fondatore del Pioneer Fund. Questa associazione tra l’eugenetica e la
destra americana e’ stata estesa alla destra cristiana. Nel 1972 Jesse Helms
divenne senatore della Carolina del Nord grazie all’aiuto di un suo
collaboratore, Thomas Ellis. Helms divenne in seguito il portavoce del
fondamentalismo cristiano in America, e ad Ellis fu affidata la direzione
del Pioneer Fund dal 1973 al 1977. Questa coppia apparentemente insolita nel
1976 venne in contatto con un ambizioso attore che si era dedicato alla
politica, Ronald Reagan, che affido’ ad Ellis la presidenza della sua
campagna per ottenere la candidatura del partito repubblicano della Carolina
del Nord. Nel 1983 Reagan offri’ ad Ellis un posto nel suo governo ma Ellis
fu costretto a rifiutare l’offerta quando i media rivelarono il suo passato
alla Pioneer Fund. Purtroppo successe dopo la creazione dell’infausta
campagna pubblicitaria contro l’affirmative action (la legge che garantisce
a tutti la stessa opportunita’ d’impiego). Nella pubblicita’ le mani di un
bianco appallottolavano una lettera di rifiuto in risposta a una richiesta
d’impiego, mentre la voce di un narratore denunciava l’affirmative action
come la causa del mancato impiego dell’uomo bianco. Ellis continua a
mantenere la sua posizione che una razza puo’ essere geneticamente superiore
a un’altra e lamenta il fatto che “si frigna troppo sull’argomento, per cui
non si puo’ avere una discussione legittima e intelligente a riguardo”.
Nell’ultimo ventennio lo scettro della determinazione genetica e’ stato
sempre passato a persone degne del proprio predecessore, primo fra tutti
Charles Murray, scienziato e accademico. Il suo best-seller La Curva di Bell
(The Bell Curve) asserisce l’inferiorita’ intellettuale dei neri americani,
e sostiene che la disuguaglianza economica e’ semplicimente una
ratificazione della giustizia genetica. Murray fa ripetuti riferimenti alle
teorie di J Philippe Rushton, un accademico canadese (Ontario) che ha
ricevuto oltre 700.000 dollari dal Pioneer Fund. Rushton e’ convinto che
l’eugenetica potrebbe rallentare il pericolo che la fertilita’ nera
rappresenta per la civilizzazione dell’Europa settentionale. Murray si
avvale anche delle teorie di William Shockley, il tristemente famoso
ex-professore dell’Universita’ di Stanford che negli anni 70 propose il
“progetto gratifica”, secondo il quale tutti neri con un QI inferiore alla
norma che ricevevano sovvenzioni dal governo avrebbero ricevuto un premio se
si fossero lasciati sterilizzare. Il pensiero di Murray e’ politicamente
importante perche’ e’ condiviso da persone che sono molto vicine a George W.
Bush. Dick Cheney e Elaine Chao, rispettivamente vice presidente e ministro
del lavoro, hanno entrambi legami con le associazioni che accondiscendono
Murray, anche se nel governo di Bush, il sostenitore piu’ forte e importante
della filosofia eugenetica di Murray, e’ Tommy Thompson, il ministro della
sanita’. Thompson fu eletto governatore del Wisconsin nel 1986, e nel 1995
applico’ lo schema W-2 (Wisconsin Works), una riforma che alterava
radicalmente il programma di assistenza sociale. Charles Murrey fu il
consulente dello schema nel quale il 92% degli assistiti sociali persero le
sovvenzioni. Le casse dello stato si arricchirono, ma il costo umano di
questa operazione fu immenso: a Milwaukee (la citta’ piu’ grande del
Wisconsin, con una popolazione di 600,000) la mortalita’ infantile subi’ un
incremento totale del 17.6% – nella comunita’ afroamericana aumento’ del
37%. Dalle dichiarazioni di Frederick Osborne si estrae l’implicazione che
gli eugenetisti stanno prendendo in considerazione alternative di
sterilizzazione meno evidenti della stessa sterilizzazione. Osborn, un
ex-presidente della Societa’ Eugenetica Americana (American Eugenics
Society) e direttore del Pioneer Fund, e’ uno dei co-fondatori del Consiglio
Demografico (Population Council), una potente organizzazione mondiale che
nella sua ultima incarnazione studia la salute pubblica e porta avanti la
ricerca biomedica. In uno scambio di corrispondenza con John D. Rockefeller,
l’altro co-fondatore, Osborn scrive, “Gli anticoncezionali e l’aborto stanno
avendo un esito positivo nell’eugenetica, ma se fossero stati promossi for
ragioni eugenetiche … [quelle ragioni] ne avrebbero ritardato o fermato il
consenso”. Forse e’ ancora piu’ sorprendente la filosofia eugenetica
sostenuta dall’icona femminista Margaret Sanger, ispirazione delle Famiglie
Pianificate (Planned Parenthood). Sanger nel suo autorevole testo Il Perno
della Civilizzazione (Pivot of Civilization) chiedeva la sterilizzazione di
“tutte le razze geneticamente inferiori”. L’Istituto Sanger, che non ha mai
preso le distanze dalla filosofia di Margaret Sanger, e’ oggi il centro
della ricerca sul genoma (Human Genome Project). La filosofia
dell’eugenetica e’ diventata un sinonimo di Terzo Reich, eppure c’e’ tanta
evidenza che mostra quanto in America sia ancora oggi accettata – e
purtroppo finanziata – dagli individui e dalle organizzazioni piu’
influenti, inclusa la famiglia che ha prodotto due presidenti.
Purtroppo non riesco a ricostruirne la fonte. In ogni caso, in questo post
su Indymedia: http://italy.indymedia.org/news/2003/06/313663.php, vi è una
raccolta di dati, articoli e link sui legami tra Stati Uniti e nazismo
(Prescott Bush, l’operazione paperclip ecc. ecc.), alcuni riportano notizie
molto conosciute, altri meno (interessante la storia dell’impero finanziario
di questo fantomatico Thyssen).
Emiliano Panizon
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EUGENETICA
«Una domanda s’impone: perchè per definire il regime nazista il ricorso
alla dittatura del partito unico dovrebbe essere più caratterizzante che non
l’ideologia e la pratica razziale ed eugenetica?» (da «Per una critica della
categoria di totalitarismo», rivista “Hermeneutica”, 2002 paragrafo 7)
Sarebbe assai povera una definizione del Terzo Reich che si limitasse a
mettere in evidenza il suo carattere totalitario, rinviando in particolare
al fenomeno della dittatura del partito unico. In quanto leaders di una
dittatura a partito unico, non c’è difficoltà ad accostare Hitler a Stalin,
Mao, Deng, Ho Chi Minh, Nasser, Ataturk, Tito, Franco ecc., ma questo
esercizio scolastico è ben al di qua di una concreta analisi storica. Se
anche dai ‘totalitari’ Stalin e Hitler ci si preoccupa di distinguere l”
autoritario’ Mussolini, il cui potere è limitato dalla presenza del Vaticano
e della Chiesa, non si è fatta molta strada. In questo caso, più che ad un
percorso reale, assistiamo ad uno slittamento: dall’ideologia si è passati
inavvertitamente ad un ambito del tutto diverso, a realtà e dati di fatto
indipendenti e preesistenti rispetto alle scelte ideologiche e politiche del
fascismo.
Per quanto riguarda il Terzo Reich, è ben difficile dire qualcosa di
determinato e concreto su di esso senza far riferimento ai suoi programmi
razziali ed eugenetici. Ed essi ci conducono in una direzione ben diversa
rispetto a quella suggerita dalla categoria di totalitarismo.
Subito dopo la conquista del potere, Hitler si preoccupa di distinguere
nettamente, anche sul piano giuridico, la posizione degli ariani rispetto a
quella degli ebrei nonchè dei pochi mulatti viventi in Germania (a
conclusione della prima guerra mondiale, truppe di colore al seguito dell’
esercito francese avevano partecipato all’occupazione del paese). E cioè,
elemento centrale del programma nazista è la costruzione di uno Stato
razziale. Ebbene, quali erano in quel momento i possibili modelli di Stato
razziale? Più ancora che al Sud-Africa, il pensiero corre in primo luogo al
Sud degli USA. E, d’altro canto, in modo esplicito, ancora nel 1937,
Rosenberg si richiama certo al Sud-Africa: è bene che permanga saldamente
‘in mano nordica’ e bianca (grazie a opportune ‘leggi’ a carico, oltre che
degli ‘indiani’, anche di ‘neri, mulatti e ebrei’), e che costituisca un
‘solido bastione’ contro il pericolo rappresentato dal ‘risveglio nero’. Ma
il punto di riferimento principale è costituito dagli Stati Uniti, questo
‘splendido paese del futuro’ che ha avuto il merito di formulare la felice
‘nuova idea di uno Stato razziale’, idea che adesso si tratta di mettere in
pratica, ‘con forza giovanile’, mediante espulsione e deportazione di ‘negri
e gialli’. Basta dare uno sguardo alla legislazione di Norimberga per
rendersi conto delle analogie con la situazione in atto al di là dell’
Atlantico: ovviamente, in Germania sono in primo luogo i tedeschi di origine
ebraica ad occupare il posto degli afro-americani. ‘La questione negra’ –
scrive Rosenberg nel 1937 – ‘è negli Usa al vertice di tutte le questioni
decisive’; e una volta che l’assurdo principio dell’uguaglianza sia stato
cancellato per i neri, non si vede perchè non si debbano trarre ‘le
necessarie conseguenze anche per i gialli e gli ebrei’. Persino per quanto
riguarda il progetto a lui assai caro di costruzione di un impero
continentale tedesco, Hitler ha ben presente il modello degli Usa, di cui
celebra ‘l’inaudita forza interiore”: la Germania è chiamata a seguire
questo esempio, espandendosi in Europa orientale come in una sorta di Far
West e trattando gli ‘indigeni’ alla stregua dei pellerossa.
Alle medesime conclusioni giungiamo se rivolgiamo lo sguardo all’eugenetica.
E’ ormai noto il debito che il Terzo Reich contrae nei confronti degli Usa,
dove la nuova ‘scienza’, inventata nella seconda metà dell’Ottocento da
Francis Galton (un cugino di Darwin), conosce una grande fortuna. Ben prima
dell’avvento di Hitler al potere, alla vigilia dello scoppio della prima
guerra mondiale, vede la luce a Monaco un libro che, già nel titolo, addita
gli Stati Uniti come modello di ‘igiene razziale’. L’autore, vice-console
dell’Impero austro-ungarico a Chicago, celebra gli Usa per la ‘lucidità’ e
la ‘pura ragion pratica’ di cui danno prova nell’affrontare, e con la dovuta
energia, un problema così importante eppur così frequentemente rimosso:
violare le leggi che vietano i rapporti sessuali e matrimoniali misti può
comportare anche 10 anni di reclusione e, ad essere condannabili, oltre ai
protagonisti, sono anche i loro complici. Ancora dopo la conquista del
potere da parte del nazismo, gli ideologi e ‘scienziati’ della razza
continuano a ribadire: ‘Anche la Germania ha molto da imparare dalle misure
dei nord-americani: essi sanno il fatto loro’. E’ da aggiungere che non
siamo in presenza di un rapporto a senso unico. Dopo l’avvento di Hitler al
potere, sono i seguaci più radicali del movimento eugenetico americano a
guardare come ad un modello al Terzo Reich, dove non poche volte si recano
in viaggi di studio e di pellegrinaggio ideologico.
Una domanda s’impone: perchè per definire il regime nazista il ricorso alla
dittatura del partito unico dovrebbe essere più caratterizzante che non l’
ideologia e la pratica razziale ed eugenetica? E’ proprio da questo ambito
che derivano le categorie centrali e i termini-chiave del discorso nazista.
L’abbiamo visto per Rassenygiene, che è in fondo la traduzione tedesca di
eugenics, la nuova scienza inventata in Inghilterra e giunta al trionfo al
di là dell’Atlantico. Ma ci sono esempi ancora più clamorosi. Rosenberg
esprime la sua ammirazione per l’autore americano Lothrop Stoddard, cui
spetta il merito di aver per primo coniato il termine Untermensch, che già
nel 1925 campeggia come sottotitolo della traduzione tedesca di un libro
apparso a New York tre anni prima. Per quanto riguarda il significato del
termine da lui coniato, Stoddard chiarisce che esso sta ad indicare la massa
di ‘selvaggi e semiselvaggi’, esterni o interni alla metropoli capitalista,
comunque ‘incapaci di civiltà e suoi nemici incorreggibili’, coi quali
bisogna procedere ad una resa dei conti. Negli Usa come in tutto il mondo, è
necessario difendere la ‘supremazia bianca’ contro ‘la marea montante dei
popoli di colore’: ad aizzarli è il bolscevismo, ‘il rinnegato, il traditore
all’interno del nostro campo’ che, con la sua insidiosa propaganda, oltre
che le colonie, raggiunge ‘le stesse regioni nere degli Stati Uniti’.
Ben si comprende la straordinaria fortuna di queste tesi. Elogiato, prima
ancora che da Rosenberg, già da due presidenti statunitensi (Harding e
Hoover), l’autore americano è successivamente ricevuto con tutti gli onori a
Berlino, dove incontra non solo gli esponenti più illustri dell’eugenetica
nazista, ma anche i più alti gerarchi del regime compreso Adolf Hitler,
ormai lanciato nella sua campagna di decimazione e assoggettamento degli
Untermenschen.
Ancora su un altro termine conviene concentrare l’attenzione. Abbiamo visto
Hitler guardare come ad un modello all’espansione bianca nel Far West.
Subito dopo averla invasa, Hitler procede allo smembramento della Polonia:
una parte è direttamente incorporata nel Grande Reich (e da essa vengono
espulsi i polacchi); il resto costituisce il ‘Governatorato generale’ nell’
ambito del quale – dichiara il governatore generale Hans Frank – i polacchi
vivono come in ‘una sorta di riserva’ (sono ‘sottoposti alla giurisdizione
tedesca’ senza essere ‘cittadini tedeschi’). Il modello americano è qui
seguito persino in modo scolastico. Almeno nella sua fase iniziale, il Terzo
Reich si propone di istituire anche uno Judenreservat, una ‘riserva per gli
ebrei’, a somiglianza ancora una volta di quelle che avevano rinserrato i
pellerossa. Persino per quanto riguarda l’espressione ‘soluzione finale’, la
vediamo emergere prima ancora che in Germania già negli Usa, e sia pur
riferita alla ‘questione negra’ piuttosto che alla ‘questione ebraica’.
Come non è stupefacente che il ‘totalitarismo’ abbia trovato la sua
espressione più concentrata nei paesi al centro della Seconda guerra dei
Trent’Anni, così non è stupefacente che il tentativo nazista di costruire
uno Stato razziale abbia desunto motivi di ispirazione, categorie e
termini-chiave dall’esperienza storica più ricca che, a tale proposito,
aveva dinanzi a sè, quella accumulata dai bianchi americani nel loro
rapporto coi pellerossa e i neri.
Ovviamente, non devono essere perse di vista tutte le altre differenze, in
tema di governo della legge, di limitazione del potere statale (per quanto
riguarda la comunità bianca), ecc. Resta il fatto che il Terzo Reich si
presenta come il tentativo, portato avanti nelle condizioni della guerra
totale e della guerra civile internazionale, di realizzare un regime di
white supremacy su scala planetaria e sotto egemonia tedesca, facendo
ricorso a misure eugenetiche, politico-sociali e militari.
A costituire il cuore del nazismo è l’idea di Herrenvolk, che rinvia alla
teoria e alla pratica razziale del sud degli Stati Uniti e, più in generale,
alla tradizione coloniale dell’Occidente; e questa idea è il bersaglio
principale della rivoluzione d’Ottobre, che non a caso chiama gli ‘schiavi
delle colonie’ a spezzare le loro catene.
La consueta teoria del totalitarismo concentra l’attenzione esclusivamente
sui metodi simili attribuiti ai due antagonisti, facendoli per di più
discendere in modo univoco da una presunta affinità ideologica, senza alcun
riferimento alla situazione oggettiva e al contesto geopolitico.
Domenico Losurdo
La Responsabilità Sociale dello Scienziato
Jon Beckwith
American Cancer Society Research Professor
Department of Microbiology and Molecular Genetics
Harvard Medical School
200 Longwood Avenue
Boston, MA 02115
http://www.farescienza.it/documenti/docum/beckwith/beck1.htm
http://www.farescienza.it/documenti/docum/beckwith/beck2.htm
(Dagli Annali dell’Istituto Superiore di Sanità)
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Nel corso del XX secolo, la scienza e la tecnologia hanno progressivamentre dominato molti aspetti della nostra vita e hanno condizionato il corso stesso della storia. Uno fra gli argomenti di discussione all’interno della comunità scientifica ripetutamente sollevato è la responsabilità che gli scienziati devono assumersi per le ricadute sociali del loro lavoro, e per assicurarsi che questo non finisca per danneggiare altre persone. In alcune circostanze, gruppi di scienziati, allarmati dalle conseguenze del progresso scientifico, si sono sentiti in dovere di intervenire con azioni politiche per contrastare i potenziali effetti negativi del loro lavoro.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, e dopo le disastrose conseguenze della bomba atomica, i fisici sono stati, fra gli scienziati, il gruppo politicamente più impegnato. I fisici statunitensi si sono sentiti in dovere di riconoscere le conseguenze del loro lavoro nello sviluppo delle armi nucleari. Negli anni successivi alla bomba atomica sul Giappone, il terrore delle armi nucleari, anche per la tensione generata dalla Guerra Fredda, era rimasto costantemente vivo e i fisici – almeno quelli che avevano una coscienza sociale – ne sentivano il peso. Negli anni ‘50 e ‘60, si associarono nel Congresso degli Stati Uniti per avere un maggiore controllo sulle armi nucleari, e per chiedere pubblicamente un maggiore sostegno politico. Fondarono la diffusissima rivista “Bulletin of Atomic Scientists” in cui sostenevano la pace, la cessazione dei test nucleari e la riduzione delle armi atomiche. [1]. Furono determinnti nella formazione del gruppo Pugwash che organizzava incontri fra gli scienziati sovietici e statunitensi con lo scopo di ridurre le tensioni politiche.
La storia della genetica, che è poi il mio campo specifico, ha anch’essa la sua “bomba atomica”, ed è il movimento eugenetico, nella prima metà del XX° secolo. Tuttavia, a differenza dei fisici, pochi genetisti, fino a poco tempo fa, erano a conoscenza dell’esistenza stessa del movimento, presente negli Stati Uniti, in Canada e in Europa agli inizi del XX° secolo. Pochi riconoscevano il ruolo significativo dei genetisti nel movimento. [2]. A differenza dei fisici, che sentivano il peso del loro passato, i genetisti non avevano una memoria storica: i genetisti erano essenzialmente ignoranti rispetto alla loro storia “atomica” .
Gli eugenisti credevano che i tratti sociali e le attitudini nell’uomo erano ereditari. Negli Stati Uniti, il movimento sosteneva che la qualità dei geni della popolazione nel paese si stava deteriorando, e chiedevano interventi politici per incrementare il numero di individui dotati di “geni buoni” e ridurre il numero di individui dotati di “geni difettosi”. La riscoperta della legge di ereditarietà di Mendel agli inizi del XX° secolo aveva aperto la strada alla genetica che oggi conosciamo. Tuttavia, queste stesse basi scientifiche che indicavano le leggi di ereditarietà negli organismi viventi incluso gli esseri umani divennero presto un potente sostegno per il movimento eugenetico che leutilizzò per affermare l’inferiorità di alcuni gruppi etnici e classi sociali.
Molti genetisti affermati credevano nell’eugenetica ed ebbero un ruolo attivo nel movimento statunitense. Nella fase iniziale di questo movimento, intorno al 1906 e 1915, la maggior parte dei genetisti di punta si lasciò sedurre dal movimento e lo sostenne anche nella divulgazione, come fecero, per esempio, tutti i membri del primo comitato editoriale della principale rivista scientifica “Genetics”. I libri di testo di genetica, scritti da eminenti genetisti, includevano interi capitoli sull’ eugenetica e furono anche avviati corsi accademici in quasi tutte le università americane interamente dedicati all’eugenetica. In altri termini, l’eugenetica divenne una disciplina scientifica a tutti gli effetti. [2].
Gli scienziati cominciarono a scrivere sull’eugenetica anche in riviste di larga diffusione. Una delle più diffuse riviste dell’epoca, “Popular Science”, negli anni ’10 includeva molti di questi articoli [3]. Per esempio, in un rapporto sulle “psicopatologie degli ebrei” , un certo Dottor Wilson affermava che gli ebrei sono fra le razze più promiscue e predisposte alle psicopatologie e li collocava, fra quelli testati, al secondo posto nella lista degli immigrati per “inferiorità mentale”. David S. Jordan, biologo e presidente dell’Università di Standford, nel suo articolo “gli effetti biologici delle migrazioni razziali” parla delle “razze inferiori”, che dall’Europa e dall’Asia sono emigrate negli Stati Uniti provocando un deterioramento della razza. Un certo dott. Jordan, dall’Università della Virginia conclude che le tipiche caratteristiche della razza nera, come il temperamento gioviale e la fervida immaginazione, sono dovute a singoli geni.
Queste affermazioni provenivano da scienziati accreditati come Charles Davenport, un autorevole genetista dell’Università di Harvard, che ha saputo dare un enorme contributo alla scienza dimostrando che la malattia di Huntington viene ereditata geneticamente. Davenport, uno dei leader del movimento eugenetico, sosteneva però che fenomeni sociali come la criminalità, povertà, intelligenza, e perfino la tendenza di alcuni uomini ad evadere e diventare marinai, poteva essere attribuita a singoli geni. Le sue conclusioni si basavano su semplici studi di gruppi familiari o test di valutazione del quoziente intellettivo. Dichiarava inoltre, ma con ancor minore evidenza scientifica, che gli accoppiamenti fra razze diverse producevano individui “inferiori”.
Il movimento, che si fondava su un’apparente base scientifica, fniì per condizionare fortemente la politica sociale degli Stati Uniti. In molti Stati entrarono in vigore leggi che permettevano la sterilizzazione di criminali, di persone inferiori per intelligenza o con altre caratteristiche [4]. Queste leggi si basavano sulle convinzioni degli eugenisti e portarono alla sterilizzazione di decine di migliaia di persone. Altre leggi proibivano addirittura i matrimoni tra individui di razze diverse, sempre per le teorie di inferiorità di alcune razze “ibride”. L’atto del 1924, sul controllo dell’immigrazione, ridusse notevolmente la presenza di persone provenienti dall’Europa meridionale e orientale come Italia, Spagna, Grecia e da altre culture considerate inferiori. Gli eugenisti ebbero un ruolo determinante per queste leggi, da cui trassero ancora più forza.
Con l’avanzare degli studi sulla genetica, molti genetisti cominciarono a distaccarsi dal movimento. Gli studi, sempre più sofisticati, dimostravano quanto fosse più complessa la materia. Purtroppo, il mancato supporto dei genetisti arrivò troppo tardi, le leggi erano già passate. Ciononostante, coloro che avevano preso le distanze dal movimento, raramente o troppo tardi contrastarono pubblicamente le iniziative politiche degli eugenisti.
Thomas Hunt Morgan, uno dei più autorevoli genetisti dell’epoca, criticò il movimento, ma lo fece solo in privato. Spiegò la sua riluttanza a contrastare pubblicamente il movimento in una lettera del 1915: “se loro (gli eugenisti) vogliono percorrere questa strada è un problema loro, ma penso che per alcuni di noi sarebbe meglio mantenere livelli più alti invece di lasciarsi sedurre dai riflettori dello show, ma non voglio alzare polveroni su questo”. Dunque, ecco i genetisti dell’epoca, che senza rendersi conto del peso delle loro azioni, anche con il semplice silenzio, contribuivano allo sviluppo del movimento eugenetico. [3].
Dopo l’atto del 1924 il movimento negli Stati Uniti cominciò a pian piano a svanire, ma il suo impatto si era fatto orami sentire altrove. Nel 1923 Adolf Hitler tentò il suo famoso “Putsch”. Per sfuggire all’arresto si rifugiò a casa del suo amico editore Julius Lehmann. Hitler fu poi scoperto e arrestato un anno dopo e Lehmann gli inviò una copia di un libro pubblicato dalla sua casa editrice. In prigione Hitler lesse alcuni passi del libro come: “la frode e l’uso del turpiloquio è comune fra gli ebrei” ;“i negri in generale non sono inclini a lavorare sodo”; “i russi eccellono nella resistenza e nella sofferenza fisica”; “ per doti mentali la razza nordica rappresenta la massima espressione dell’umanità”. Gli autori del libro dichiaravano anche che “quello che gli storici considerano come il segnale del declino di una nazione è l’inversione al negativo della qualità razziale della sua popolazione”. Rileggendo questi passi oggi si può pensare alla voce isolata di un autore razzista, invece rispecchiavano le teorie dell’epoca, basate sulle conoscenze acquisite dalla genetica. Questo libro era un diffusissimo libro di testo di genetica umana dell’epoca. Gli autori sono due genetisti tedeschi di fama internazionale Erwin Bauer e Fritz Lenz ed il famoso antropologo tedesco Eugen Fisher. Fisher, dopo una illustre carriera come antropologo, era stato nominato Rettore dell’Università di Berlino. Questo testo usava la genetica per dare un valore scientifico alla descrizione dei tratti della personalità di alcune razze e gruppi etnici. Un genetista tedesco contemporaneo, Benno Muller-Hill, che ha denunciato il ruolo dei genetisti tedeschi nell’era nazista, commenta che interi passaggi del “Mein Kampf” di Hitler che trattano di genetica ed eugenetica, sono chiaramente stati influenzati da questo testo. [5].
Ciò che dovrebbe far riflettere in particolare i genetisti statunitensi è che il testo si basava molto poco sulle ricerche scientifiche in Germania. La fonte principale dei dati e delle conclusioni proveniva dagli Stati Uniti, da coloro che sostenevano gli eugenisti. Le stesse leggi che cominciarono a passare in Germania venivano presentate ufficialmente come basate sull’esperienza degli Stai Uniti. Il primo programma di sterilizzazione eugenetica in Germania fu modulato sull’esempio della legge sulla sterilizzazione del 1907 dello stato dell’Indiana.
Fra i testi che hanno descritto il ruolo dei genetisti tedeschi e dei medici nelle politiche eugenetiche della Germania nazista, quello del genetista Benno Muller-Hill è il più significativo. Nel 1988 Benno Muller-Hill pubblica il libro “Murderous Science” che per la prima volta mostra alla società tedesca l’enorme responsabilità degli scienziati e dei medici nell’aver sostenuto la programmazione gli interventi di sterilizzazione e lo sterminio di milioni di persone. [6]. La pubblicazione di questo libro è stato un atto coraggioso. Molti degli scienziati di quell’epoca erano ancora vivi ed avevano un ruolo prestigioso nelle università tedesche. L’autore del libro divenne “persona non gradita” nella comunità scientifica in Germania. Ia recensione del libro negli altri paesi non fu neanche presa in considerazione dalla stampa tedesca. Soltanto nel 1999 la comunità scientifica tedesca ha cominciato a rivedere il proprio ruolo prima e durante l’era nazista. [7].
Secondo il mio parere dobbiamo cogliere dalla storia una importante lezione e cioè che lo scienziato ha il dovere di intervenire su questioni di tale portata. Se soltanto la comunità scientifica avesse espresso il proprio disdegno per l’uso che veniva fatto della genetica, non ci sarebbe stato tanto orrore. Ma questo, ovviamente, nessuno lo può sapere.
Dopo l’uso che era stato fatto della genetica dagli scienziati tedeschi e dal Governo nazista, alcuni genetisti britannici e statunitensi cominciarono a fare sentire la loro voce più apertamente. Nel 1939, al VII congresso internazionale di genetica, i partecipanti stilarono un manifesto in cui si dichiararono contrari al movimento eugenetico. Tra i fautori c’erano molti accreditati genetisti. Purtroppo il loro intervento arrivò isolato e troppo tardi. Soltanto la repulsione, dopo la seconda guerra mondiale, nei confronti della politica nazista, riuscì a discreditare il movimento eugenetico. In particolare, il concetto di ereditarietà dei comportamenti sociali e della personalità, venne completamente rinnegato, affermando, esagerando forse nel senso opposto, che l’ambiente è l’unico elemento determinante per questi fattori. Alcune di queste posizioni sono riconoscibili nel documento dell’Unesco del 1950, che vede come autori alcuni degli scienziati protagonisti del manifesto del 1939. [3].
Prima di allora, i genetisti negli Stati Uniti si erano comportati come se questa storia non apparteneva a loro e alla loro cultura, l’ avevano essenzialmente cancellata dalla loro memoria. Poi, la guerra del Vietnam, il movimento per i diritti civili, le rivendicazioni sociali più o meno sentite in tutto il mondo, finirono per scuotere la comunità scientifica statunitense. I fisici, ancora una volta i primi a dare il loro contributo, cominciarono ad assumere posizioni sempre più critiche sull’impiego di determinate armi tecnologiche, ottenute grazie al contributo della stessa fisica, e utilizzate nella guerra in Vietnam. A loro si unirono i biologi, finché, anche altri scienziati, provenienti da ogni settore, cominciarono ad avere un ruolo sempre più attivo che ha portato poi alla fondazione del movimento “Science for the People” nel 1969.
Come biologi siamo stati coinvolti in molte controversie di natura genetica. Una sulle quali ancora ci confrontiamo riguarda gli studi sulla genetica comportamentale umana. Negli anni ’60 e ‘70 alcuni studi riportavano evidenze di correlazioni genetiche sull’intelligneza e sui comportamenti criminali. Un articolo dello psicologo Arthur Jensen dell’Università della California, sosteneva che “La razza nera è geneticamente inferiore alla razza bianca”. [8].Altri scienziati dichiaravano erroneamente che gli uomini dotati di un cromosoma Y extra (il maschio XYY) avevano la predisposizione a commettere atti criminali [3]. Storia più recente è la diffusione delle teorie della neosociobiologia che vede i comportamenti di un individuo fortemente determinati dall’ eredità genetica personale. [9]. Questi nuovi scienziati hanno anche proposto di utilizzare la socibiologia per indirizzare le politiche sociali. Le loro affermazioni, che hanno ricevuto ampia diffusione, ricordano il periodo eugenetico. Ciononostante, questo ritorno del pensiero determinista della biologia, non ha incontrato la dura critica dei genetisti. In parte questo mancato intervento trova la sua ragione nella assenza di una memoria sociale fra i genetisti della storia del movimento eugenetico. Molti genetisti fra quelli impegnati nella organizzazzione “Science for the People”, si sono dati da fare per esporre la misrappresentazione della loro scienza.
Nel 1973, con l’avvento delle tecniche di clonazione, un gruppo di autorevoli genetisti per la prima volta si è riunito con lo scopo di garantire la sicurezza: ha chiesto una moratoria sulla ricerca per la clonazione e poi ha stabilito le linee guida su come bisogna orientare la ricerca e prevenire possibili conseguenze negative per la salute dell’uomo. [10,11]. Questo impegno da parte di eminenti genetisti è probabilmente una conseguenza diretta del precedente periodo di attivismo da parte di un piccolo gruppo di giovani scienziati. Eminenti scienziati come Paul Berg e James Watson sono stati chiamati in causa dalla nuova generazione di colleghi e invitati personalmente a considerare i possibili pericoli derivanti dalle loro ricerche. Bisogna riconoscere che hanno subito risposto con un serio impegno in questo senso.
http://www.disinformazione.it/psichiatrimassoni.htm
III. Psichiatri e Massoni. L’ala britannica
Le unioni miste “del nero e del tipo caucasico danno luogo ad ogni sorta di organismi disarmonici. Mettendo un poco della mente dell’uomo bianco nel mulatto, non solo lo si rende più capace e ambizioso (non ci sono casi accertati di negri puri saliti a qualche eminenza), ma si accresce il suo scontento e si crea un’ovvia ingiustizia continuando a trattarlo come un africano purosangue. Il nero americano è turbolento a causa del sangue bianco americano che è in lui”. Queste righe – che implicano approvazione per la segregazione razziale – suscitarono a loro tempo qualche scalpore, perché a scriverle era un famoso liberal dell’estabhshment britannico: il biologo Julian Huxley. Nipote del primo editore di Darwin, e fratello dello scrittore (e sperimentatore di droghe) Aldous Huxley, Julian scriveva di ritorno da un viaggio in Usa compiuto nel 1924 (Julian Huxley, America Revisited – The Negro Problem, sullo Spectator del 29 novembre 1924). Lí aveva avuto occasione di approvare le teorie razziali di Charles Davenport, allora presidente della International Federation of Eugenics Organizations: l’ente angloamericano (era stato fondato nel 1925 presso la Royal Society di Londra) che nel 1932 avrebbe eletto suo nuovo presidente il genetista del Terzo Reich, Ernst Ruedin. Julian Huxley non rinnegò mai le sue idee eugenetiche. Il 6 settembre 1930, sulla Weekend Rewiew, prese le parti del Comitato per la Legalizzazione della Sterilizzazione: “La causa della sterilizzazione di certe classi di persone anormali o difettose mi sembra invincibile”. Nel 1929, secondo la Eugenics Society (Mental Deficiency Committec) di Londra, il numero di tali “difettosi”, nella sola Inghilterra, era valutabile a 300 mila, tutti candidati alla castrazione. Inutile dire che Julian Huxley era membro rilevante della Eugenics Society, di cui fu presidente ancora nel 1962.
ENTRA MONTAGU NORMAN
Difficile dire se “nonostante” le sue idee, o piuttosto grazie ad esse, Julian Huxley sia stato elevato alla carica di direttore generale dell’Unesco, che ricoprí dal 1946 al 1948. Fatto sta che proprio nel 1948 l’Unesco e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) diedero il loro patronato ad un eccezionale International Congress on Mental Health, che si tenne presso il Ministero della Sanità britannico. Il congresso diede vita alla Federazione Mondiale della Salute Mentale (World Federation for Mental Health); ma, come scrisse la coordinatrice della delegazione statunitense Nina Ridenour, “la World Federation for Mental Health è stata creata su raccomandazione dell’Oms e dell’Unesco, perché questi organi delle Nazioni Unite abbisognavano di un’organizzazione nongovernativa con cui cooperare”( “Poiché gode dello status consultivo presso le Nazioni Unite e diverse delle sue agenzie specializzate, la World Federation for mental Health è in grado di influire su alcune decisioni dell’Onu e su alcuni suoi programmi”: Nina Ridenour, Mental Health in the U.S.A Fifty Years History, citata da Anton Chaitkin, British Psychiatry… EIR, 7 ottobre 1994, p.34). Assistiamo qui alle motivazioni che fanno nascere le entità a cui l’Onu riconosce lo status di “Organizzazioni non-Governative” (Ong): si tratta di gruppi di pressione o lobbies, in apparenza nati dal basso per promuovere rivendicazioni ed esigenze che si pretendono “popolari” e “di massa”, ma che l’Onu, o gli oligarchi che le hanno create, sono ben lieti di accogliere. Ad esempio l’organizzazione ecologista Greenpeace, e il Population Council fondato dai Rockefeller, sono Ong; e in molti casi possono condurre le loro campagne a nome e sotto l’egida (e con i fondi) dell’Onu.
Di fatto, la World Federation for Mental Health era emanazione diretta di un’associazione britannica dal nome simile, la National Association for Mental Health. E questa era stata fondata da un personaggio in cui non si sospetterebbero interessi per la psichiatria, se non forse perché era egli stesso uno psicolabile: Norman Montagu, governatore della Banca d’Inghilterra. Ciclotimico, occultista, teosofo e massone (Sui riti “muratori” di Montagu Norman, cfr. Geminello Alvi, Dell’estremo Occidente, M.Nardi, Firenze, 1993, p.161), Norman Montagu era stato protagonista delle svolte cruciali del secolo, dalla crisi del 1929 (aggravata dall’ostinazione di tener sopravvalutata la sterlina da parte della Banca Centrale britannica) fino ai conciliaboli dei supercapitalisti angloamericani con Hjalmar Schacht, governatore della Reichsbank e autore del “miracolo economico” nazista, grazie anche ai finanziamento della City e di Wall Street. Nel 1929 i responsabili della Federal Reserve, più i rappresentanti della Guaranty Trust, Royal Dutch Shell, J.D.Rockefelier e altri banchieri privati s’incontrarono con Schacht a New York, dove decisero investimenti e finanziamento nella Germania sfiancata dai debiti di guerra. Un altro incontro, nel 1931, vide la partecipazione di Montagu Norman. In seguito, anche dopo la salita al potere di Hitler, Schacht rivide Norman nella residenza londinese di quest’ultimo, Thorpe Lodge. Ma nel 1944, in piena guerra, Sir Norman si dimise dalla Banca d’Inghilterra; nello stesso anno fondò la Associazione Nazionale per la Salute Mentale. Come tesoriere, Montagu Norman scelse Otto Niemeyer, che era stato suo assistente alla Banca; come segretario generale Mary Appleby, sua nuora, che aveva lavorato nella sezione tedesca del Foreign Office; come presidenti scelse Richard A. Butler, che era stato vice di Lord Halifax, il ministro britannico degli Esteri nel governo di Neville Chamberlain, notorio per la sua aperta simpatia verso il Terzo Reich. E come chairman dell’Associazione, insediò il genero di lord Halifax, il conte di Feversham. Strana “Associazione per la Salute Mentale” davvero, quella a cui si dedicarono alcuni dei massimi esponenti della finanza e della politica estera britannica, tutti più o meno catalogabili come filo-nazisti. Ma qui, forse, si sfiora un lato fra i più occultati della recente storia inglese. Il Rito Scozzese Antico e Accettato (la Massoneria Azzurra o britannica) ha tradizionalmente come Gran Maestro – riconosciuto dagli adepti di tutto il mondo – un fratello della regina d’Inghilterra. Oggi, è il Duca di Kent. Nel 1934, quando il Rito Scozzese americano cominciò a finanziare le sue strane ricerche sulla schizofrenia, “Gran Maestro della Gran Loggia Madre dei Massoni del Mondo” era il duca di Connaught, fratello del principe Alberto, marito della regina Vittoria. Tedesco d’origine (della famiglia Coburgo), il duca di Connaught aveva ospitato nella sua casa un adolescente di nome Joachim Von Ribbentrop, con cui mantenne strettissimi rapporti anche quando Ribbentrop divenne ambasciatore nazista nel Regno Unito e poi ministro degli Esteri di Hitler. E attorno al duca di Connaught si radunò quel gruppo di aristocratici che nell’anteguerra propugnavano un’alleanza con il Terzo Reich, di cui furono esponenti di spicco il principe Edoardo (il futuro Edoardo VIII, zio della regina Elisabetta, costretto all’abdicazione per le sue tendenze nazisteggianti) e il famigerato lord Halifax.
SPIE IN CAMICE BIANCO
Nel 1948, la National Association for Mental Health di Montagu Norman indisse dunque a Londra il grande Congresso Internazionale sulla Salute Mentale. Sotto l’alto patronato della Duchessa di Kent, vedova del Gran Maestro del Rito Scozzese (carica che tenne dal 1939 al 1942) e madre del futuro Gran Maestro (dal 1967 ad oggi), il Congresso vide la partecipazione di personaggi famosi: Julian Huxley; l’antropologa americana Margaret Mead, che fu la relatrice d’apertura; Carl Gustav Jung. Vi intervenne Winfred Overholser, capo della delegazione americana e alto esponente del Rito Scozzese statunitense, direttore a Washington della clinica psichiatrica St. Elizabeth. Non mancarono lord Thomas J. Horder, medico di Edoardo VIII, presidente della Eugenics Society e della Anglo-Soviet Public Relations Association; il dottor Alfred E.Tredgold, membro del Committee for Sterilization presso il Ministero della Sanità; gli psichiatri Cyril Burt e Hugh Crichton-Miller, esperto di ricerche sul paranormale il primo, vicepresidente dell’Istituto “C.G.Jung” a Zurigo il secondo, entrambi fondatori dell’Istituto Tavistock di Londra. Ecco un nome interessante. Come ho avuto altrove l’occasione di scrivere, l’Istituto Tavistock, “formalmente clinica di ricerca psichiatrica è stato il laboratorio della guerra psicologica per l’armata britannica durante la seconda guerra mondiale” (Cfr. il mio In Bosnia come in Libano: guerre programmate dagli psichiatri su Studi Cattolici n.391, settembre 1993, p.545.). L’oggetto degli studi più accaniti del Tavistock in questi ultimi anni è la creazione di “salti di paradigma” (paradigm shifts), ossia del mezzo per indurre nelle società valori “nuovi”, attraverso eventi traumatici collettivi (turbulent environments). Ad esempio, un ciclo di conferenze tenute al Tavistock nel 1989 aveva come tema il seguente: Il ruolo delle Organizzazioni non Governative nell’indebolire gli Stati Nazionali. Ebbene, fra i partecipanti al congresso sulla Salute Mentale che Montagu Norman volle a Londra nel 1948, spiccano personaggi le cui ricerche psichiatriche (o sul funzionamento della mente) si svolgono in gran parte nell’ambito di programmi militari, o politico-militari. A cominciare dall’uomo che nel1948 fu eletto presidente della World Federation for Mental Health: lo psichiatra – e generale di brigata britannico in servizio – John Rawlings Rees. Che è stato anche direttore dell’Istituto Tavistock. Ma anche il dottor Overholser, il massone a capo della delegazione statunitense, aveva un curriculum militare di tutto rispetto. Nel 1943 presiedeva, all’interno dell’Office for Strategic Services (OSS, che nel dopoguerra diventerà la Cia) un comitato per la ricerca di “sieri della verità”, ossia di sostanze psicotrope in grado di annullare i freni inibitori, da usare negli interrogatori dei prigionieri: Overholser somministrò l’allucinogeno mescalina a vari soggetti-cavia; e nella sua clinica St. Elizabeth cominciò dagli anni’50 a provare la marijuana come mezzo per “sciogliere la lingua” a reclute della U.S. Army, probabilmente allo scopo di identificare soggetti sovversivi. Quanto a Margaret Mead – succeduta al generale Rees alla presidenza della World Federation of mental Health nel 1956 – ebbe una parte poco chiara nel colossale programma della CIA denominato MK Ultra.
Nel 1943, la Rockefeller Foundation aveva creato in Canada (dunque in territorio britannico) una clinica, lo “Allen Memorial Institute”, collegata alla McGill University di Montreal: a capo del servizio psichiatrico fu posto Donald E. Cameron, uno psichiatra scozzese che divenne notorio, e non in senso positivo, quando agghiaccianti particolari sugli esperimenti MK Ultra cominciarono a trapelare, provocando una rivolta dell’opinione pubblica americana: Cameron era specialista nell’indurre nei suoi pazienti (o vittime) il sonno per mezzo di droghe, per poi svegliare con l’elettroshock. Lo stesso Cameron provò il curaro nell’ambito delle ricerche che interessavano la Cia. Lo Army Chemical Center invece finanziò, sempre nel quadro del MK Ultra, le ricerche con l’LSD di Paul Hoch, uno psichiatra – e alto grado del Rito Scozzese – che aveva collaborato con l’eugenista tedesco filonazista Franz Kallmann negli studi sulla schizofrenia sponsorizzati dal Rito Scozzese americano (Franz J.Kallmann,The Genetics of Schizophrenia: a Study of Heredity and Reproduction in the Families of 1087 Schizophrenics, New York, 1938.Kallmann aveva cominciato le sue ricerche in Germania sotto l’eugenista del Terzo Reich Ernst Ruedin, ma nel 1935, identificato come “mezzo ebreo”, aveva dovuto emigrare negli USA.Trpvò impiego al New Yprk Psychiatric Institute,il cui direttore, Nolan D.C.Lewis,era un adepto del rito scozzese). Anche Robert hanna felix, il “33°” fondatore (per conto del Rito Scozzese) del National Institute of mental Health, fu coinvolto nello scandalo MK Ultra per esperimenti di “lavaggio del cervello”, insieme al suo allievo Harris Isbell, che per la Cia aveva condotto sperimentazioni illegali con droghe su tossicomani negli nel suo Addiction Research Center di Lexington (Kentucky).
L’ESPERIMENTO MK ULTRA
Infine, al principio degli anni’60, le rivelazioni di stampa sulle vittime del MK Ultra costrinsero ad interrompere il programma. Fu condotta un’inchiesta, che non portò a nulla. Non a caso: a capo dell’apposita Commissione senatoriale era stato messo Nelson Rockefeller. La Commissione Rockefeller chiuse i suoi lavori nel 1975. Ma già dal 1961 il “33°” Robert H. Felix aveva radunato i principali ricercatori del MK Ultra sotto l’ombrello di una nuova istituzione dal nome rispettabile: l’American College of NeuroPsycopharmacology.
Nel 1967 – albeggiava già la contestazione permanente, il culto giovanile delle droghe, l’età dei “figli dei fiori” – il College tenne un congresso (“Effetti dei farmaci psicotropi sugli umani normali”), la cui relazione introduttiva spettò a due ex attori del MK Ultra: Wayne O.Evans, psichiatra militare, direttore dell’U. S. Army Stress Laboratory di Natik (Massachusetts), e Nathan Kline, un eugenista della Columbia University, studioso del voodoo haitiano. L’incipit della loro relazione rivela, con una chiarezza abbagliante, il vero motivo per cui le oligarchie finanziarie hanno per tanto tempo finanziato le ricerche psichiatriche: “L’ attuale ventaglio di psicofarmaci sembrerà quasi banale quando lo paragoniamo al possibile numero di sostanze chimiche che saranno disponibili per il controllo di aspetti selettivi della vita umana nel Duemila. La cultura americana muove verso una “società sensata”. L’accento vien posto sempre più sull’esperienza sensoriale e sempre meno su filosofie razionaliste o orientate al lavoro. Tale visione filosofica, unita ai mezzi per separare il comportamento sessuale dalla riproduzione, intensificherà senza dubbio la libertà sessuale.
“Sembra ovvio che la gioventù di oggi non ha più paura delle droghe o del sesso. Ancora, i filosofi e gli opinionisti d’avanguardia propugnano l’esperienza sensoriale personale come la raison d’etre della prossima generazione. Stiamo andando verso un’era, in cui un lavoro significante sarà possibile solo per una minoranza: in quell’era, afrodisiaci chimici saranno accettati come un mezzo comune di occupare il tempo.
“Se noi accettiamo la posizione che l’umore dell’uomo, le sue motivazioni ed emozioni, sono riflessi dello stato neurochimico del cervello, allora i farmaci possono fornire il mezzo semplice, rapido e pratico di produrre qualunque stato neurochimico desideriamo.
“Più presto smetteremo di confondere le affermazioni scientifiche e quelle morali sull’uso delle droghe, e più presto potremo razionalmente considerare i tipi di stati neurochimici che vogliamo diventar capaci di fornire alla gente”.
http://www.sissco.it/attivita/sem-set-2003/relazioni/padovan.rtf
Bio-politica, razzismo e disciplinamento sociale durante il fascismo
Dario Padovan, Dipartimento di Sociologia dell’Università di Padova
1. L’avvento della bio-politica
Con le categorie di bio-potere e di bio-politica Michel Foucault sottolineava una trasformazione delle politiche sociali degli stati che, esordendo alla fine del diciottesimo secolo, si protraeva con successo fino, ed oltre, la seconda guerra mondiale. Mutando nel senso della bio-politica, il potere politico iniziava a prendere in carico la vita biologica della totalità sociale, manifestando un nuovo principio giuridico che non cancellava quello precedente ma lo trasformava dall’interno. Se nel vecchio diritto “la sovranità faceva morire e lasciava vivere”, con il nuovo diritto appariva invece “un potere di regolazione, il quale consiste[va] proprio nel far vivere e nel lasciar morire” (Foucault 1990:160).
La trasformazione del potere politico, che segnò tanto gli stati liberali quanto i regimi autoritari, comportò una metamorfosi anche delle tecniche disciplinari. A fianco delle tecniche di controllo esercitate sul corpo individuale apparve una tecnica bio-politica, che non sopprimeva quella precedente ma la integrava, la incorporava, la modificava. Essa si pose su un altro piano, ricorse ad altri strumenti e a nuovi saperi, esercitò un’influenza per così dire meta-individuale, rivolgendosi alla moltitudine massificata dei corpi o all’uomo medio che la rappresentava statisticamente. Alle tecnologie disciplinari incentrate sul corpo individualizzato, sul corpo come organismo da addestrare, si associarono delle tecnologie di regolazione dell’organismo sociale massificato, delle tecniche di sicurezza che assicuravano l’insieme sociale dai suoi pericoli interni(Foucault 1990:158-159)[1].
Questi due meccanismi, l’uno di disciplinamento l’altro di regolazione, non erano in opposizione ma si situavano su piani operativi e cognitivi differenti, impedendo quindi la loro vicendevole esclusione. La dislocazione su differenti livelli operativi dei due meccanismi di potere si rese possibile in virtù dell’egemonia delle scienze organiciste nell’interpretazione della società. L’idea di una continuità evolutiva tra corpo individuale e corpo sociale, di un’analogia sostanziale tra organismo individuale e organismo sociale, permise una concreta dialogica ricorsiva tra saperi anatomo-biologici applicati al corpo individuale e saperi bio-sociologici applicati al corpo sociale.
Non era estranea a questa eziologia combinata del corpo individuale e del corpo sociale lo sforzo che gli igienisti, i biologi e i medici profusero negli ultimi anni dell’ottocento per combattere i “microbi”, questo attore invisibile che si insinuava tra i rapporti sociali impedendone il libero progredire. La battaglia contro i microbi comportò l’introduzione di nuove professioni, laboratori, saperi e “saper fare”, che letteralmente “spostarono” le scienze sociali verso lo studio del contagio sociale e dei comportamenti sociali che lo favorivano (Latour 1991). La lotta contro i microbi, i parassiti, gli agenti patogeni portò a una nuova interpretazione della società, alla ridefinizione dell’attore sociale e dell’attore-scienziato, trasferendo alle scienze sociali sia la responsabilità di definire i parametri di consonanza dei comportamenti sociali da ottemperare per la salute pubblica, sia la costituzione di una moltitudine di agenzie di regolazione.
Le bio-politiche degli stati totalitari tra le due guerre, implicarono un crescente investimento di sapere scientifico sulla massa dei corpi per renderli docili ed efficienti. Nel mutamento delle tecnologie politiche, i corpi individuali e collettivi divennero materiale grezzo da manipolare, mezzi di produzione da adattare alle nuove tecniche e configurazioni produttive (Hewitt 1983:67-84).
2. Saperi bio-sociali e igiene della popolazione
Scienze quali la medicina, l’igiene, la psichiatria, la biologia si occuparono del disagio e delle patologie urbane, del lavoro, familiari, assoggettando i corpi a trattamenti sanitari per assicurare il loro adattamento ai cambiamenti socio-ambientali. Esse non furono discipline separate da una visione sociologica e sociocentrica della realtà; anzi, spesso profusero consigli, decaloghi, informazioni ad uso e consumo delle scienze sociali. Fin dai tempi più antichi, la medicina era considerata un ramo delle più generali scienze dell’uomo, un’importante disciplina per lo studio delle patologie individuali. Questa professione liberale, che strettamente cuciva il ruolo del medico e la difesa della libertà individuale del malato, subì una radicale torsione durante il positivismo, quando si trattò di migliorare la salute pubblica. Da confidente del paziente, il medico si convertì in agente delegato della salute pubblica. Non si trattava più di mantenere l’anonimato del malato contagioso: esso doveva essere denunciato, isolato, disinfettato, messo in condizione di non nuocere. La malattia non era più una sciagura privata, ma un attentato all’ordine pubblico (Latour 1991:159-160). Da professione liberale la medicina diveniva una tecnica di controllo sociale della salute che doveva la sua esistenza a un preciso contratto con lo stato.
In Italia più che altrove, la figura del medico-sociologo, stereotipata dal positivismo, si impegnò in analisi e ricerche sulla salute pubblica e l’igiene collettiva o nel mettere in luce le relazioni tra condizioni sanitarie ed economiche della popolazione. La medicina sociale, quale si delineava nei primi anni del secolo, era il risultato, come auspicava il giovane Edoardo Agostino Gemelli, dell’intima unione tra le conquiste delle scienze sperimentali, che stavano alla base della medicina, e le dottrine sociologiche. Oggetto di questa “benefica ed armonica unione” tra medicina e sociologia erano le malattie sociali: qui si dovevano “incontrare medici e igienisti e giuristi ed economisti” (Gemelli 1909:497-530). In effetti, la nuova disciplina seppe coinvolgere sia i medici clinici, ostetrici e ginecologi, i quali furono convinti a non rinchiudersi nei laboratori ma di occuparsi con scrupolo e sentimento di questioni sociali, sia i sociologi, gli psicologi, gli economisti, i demografi, i giuristi, lasciando loro uno spazio in cui operare autonomamente[2]. Tuttavia, essa era ancora carente dal lato del riconoscimento politico.
Più che scoraggiarli, l’arrivo al potere del fascismo diede agli scienziati nuove speranze per un concreto e radicale impegno statale per fronteggiare le morbosità sociali. Essi denunciarono le insufficienze delle politiche sociali dei governi liberali e chiamarono “il nuovo Governo della nuova Italia” a varare un programma per diminuire “l’entità dei mali che diminuiscono le energie della nostra Stirpe” e per avviare una radicale azione di risanamento sociale. Solo affrontando il problema delle sofferenza e delle malattie del corpo sociale era possibile realizzare l’opera di ricostruzione economica e di pacificazione sociale che il paese chiedeva a gran voce (Levi 1923:1-4).
Nella nuova temperie, gli studiosi delle patologie sociali si riproposero di superare i tradizionali concetti di igiene, previdenza, assistenza. Non si trattava solo di lottare contro gli agenti infettivi, di risanare gli ambienti di vita e di lavoro, di curare le ferite inferte dagli insidiosi e temibili nemici interni che si annidavano nelle più degradate realtà sociali (Levi 1922:7). La medicina sociale e le discipline in essa coinvolte dovevano abbandonare l’atteggiamento repressivo per passare a quello preventivo, occupandosi del capitale umano su più fronti quali la “selezione umana”, l’orientamento educativo, l’orientamento professionale. Spinta dai nuovi ambiziosi obiettivi, la medicina sociale iniziò a premere nella direzione di un riconoscimento ufficiale da parte dello stato, con appelli che erano allo stesso tempo rigorosi e seducenti:
«E’ intuitivo infatti che allo Stato, alle classi dirigenti, ai Rappresentanti del Capitale e del Lavoro compete la responsabilità:
1) che in base a ricerche scientifiche e ad un meditato e prudente indirizzo legislativo, si limiti la indiscriminata attuale produzione di elementi disgenici, che sono fatalmente a carico della Nazione, e si favorisca la produzione degli elementi di buona stirpe.
2-3) che le masse dei fanciulli destinate a divenire i lavoratori di domani, che le falangi dei lavoratori di oggi, siano edotte dell’importanza di difendere le loro energie fisiche e psichiche dalle malattie e dagli infortuni evitabili; ciò che si otterrà così:
scegliere l’uomo adatto alla macchina, non esaurire le possibilità giovanili di attività inadeguate, significa risparmiare malattie e morti inevitabili; significa risparmiare cure domiciliari e ricoveri ospitalieri, indennizzi per infortuni, fluttuazione operaia e scioperi, vagabondaggio e criminalità; significa cioè valorizzare l’insostituibile macchina umana, fonte unica e prima di ogni ricchezza» (Anonimo 1925:137).
Curando e migliorando l’efficienza biologica e psichica del capitale umano, si potevano risolvere contemporaneamente problemi di natura economica, politica, organizzativa, sicuritaria. Il fascismo non poté fare a meno di subire il fascino della potente politica di profilassi sociale avanzata dalle scienze medico-sociali, facendone il cardine della sua strategia di controllo totale della società. Politica sociale che prevedeva più che una rigenerazione morale dell’individuo normativamente orientata, una peculiare statalizzazione del biologico, investendo di pratiche disciplinari e regolatrici non tanto l’individuo al dettaglio quanto l’uomo-specie massificato.
La cultura sociologica del fascismo separò i concetti di “popolo” e “popolazione”. Sarebbe invero interessante analizzare questo spostamento di categorie, che segnava l’abbandono dell’interpretazione filosofica e politica della società per approdare a una visione bio-sociologica del “sociale”. La nozione di popolo rimandava a qualcosa di intenzionale, di soggettivo, a un’entità dotata di volontà politica e di diritti inalienabili, a “un’unità politica costituita per ragioni di intelligenza e volontà che obbedisce all’ordinamento giuridico” (Bortolotto 1933:43). La popolazione costituiva invece un oggetto, un corpo senza testa, un organismo regolato da leggi biologiche e sociali prevedibili,
«uno dei fattori della produzione, ed i suoi consumi […] lo scopo della produzione stessa. […] Chi muore prima dell’inizio del periodo produttivo non lascia alcun risparmio, ma costituisce per la collettività una perdita rappresentata dal suo costo di allevamento» (Vergottini 1930:171-173)[3].
La categoria di popolazione indicava la moltitudine, la massa organica, sociologica e biologica, la totalità degli individui privi di una particolare qualificazione (Bortolotto 1933:25), la prioritaria rinnovabile risorsa dello stato e dell’economia. Essa connetteva funzionalmente fenomeni demografici e sviluppo economico, la cui interdipendenza venne segnalata da demografi, economisti e sociologi, individuando nella diminuzione della popolazione e nella conseguente contrazione dei consumi le cause della crisi occupazionale.
La comparsa della popolazione, di questa nuova entità corporata ma biologica, e quindi priva di intenzionalità, spostò il fondamento dell’ordine sociale dal contratto tra individuo e società alla regolarità, economica e politica, nel tempo e nello spazio, dell’evoluzione dei fenomeni sociali a livello della massa. Controllare la densità e le qualità fisiche, psicologiche e morali del corpo sociale, le cui regolarità di sviluppo e decadenza erano inferite sulla base di stime statistiche e misure globali, significava rinforzare l’equilibrio omeostatico della società generale. Combinando utilitarismo e atavismo, la demografia, scienza del demos, poteva quindi assumere un aperto carattere sociologico, evolvendo in
«scienza dell’ordine sociale dei fatti biologici della popolazione, intendendo per ordine sociale quei nessi che esistono e che sono stati fatti da forze che si trovano nell’uomo, dallo spirito di tornaconto e dalle forze di conservazione» (Coletti 1928:156).
Il fascismo si propose di ricomporre le forze sociali e produttive in un nuovo ordinamento, suscitando
«un processo biologico nel quale tutti gli elementi, pur essendo separati, individuati e distinti, concorrono alla giusta e proporzionata formazione del tutto, che deve presentare, contenere, ed allo stesso tempo superare, le caratteristiche dei singoli elementi» (Bortolotto 1931:383).
Anticipando molte delle teorie funzionaliste e sistemiche, gli scienziati sociali del fascismo individuarono nella “massa dei governati” l’oggetto della propria azione, sulla quale intervenire disciplinandola e gerarchizzandola.
Quattro furono in sostanza i grandi campi di applicazione della bio-politica che richiesero i saperi delle scienze bio-sociali:
• le politiche eugenetiche, popolazioniste, familiari e sanitarie basate su saperi demografici, medici, igienici, biologici, sociologici;
• le politiche dell’organizzazione scientifica del lavoro che si avvalsero delle elaborazioni delle incipienti scienze dell’organizzazione, della psicologia del lavoro, della psicofisiologia;
• le politiche rurali e anti-urbane coadiuvate dai cultori di sociologia ed economia agraria, dagli urbanisti, dai demografi, dagli esperti di alimentazione, dagli studiosi dei fenomeni migratori;
• le politiche coloniali illuminate dalle discipline economiche, antropologiche, geografiche, sociologiche.
In questo saggio mi occuperò delle politiche eugenetiche e dei saperi ad esse corrispondenti.
3. Eugenetica: una religione per la stirpe
Sorto tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo nei principali paesi industrializzati, il movimento eugenetico aveva come fine la messa a punto di una serie di saperi e di strumenti per il controllo delle nascite e per un generico social improvement. Esso si occupava, come sottolineò Roberto Michels, del soggetto principale della società umana, il proletariato, per le “tristi condizioni biologiche” in cui si trovava, per la sua “spiccata inferiorità antropologica” (Michels 1919:2-3). L’eugenetica si diffuse inizialmente in Inghilterra con il nome di “stirpicoltura”, per poi espandersi rapidamente negli Stati Uniti, in Germania, in Francia e da ultimo in Italia[4]. In Inghilterra, dove Francis Galton aveva fondato la disciplina in seguito alla pubblicazione del suo saggio Hereditary Genius del 1869, essa prese inizialmente il nome di “stirpicoltura”.
In tutti i paesi, l’eugenetica si manifestò come un misto di protezione sociale, di coercizione e di retorica, caratterizzando dispoticamente le risposte al bisogno di istituzionalizzare la profilassi sociale. Gli studi pioneristici di Francis Galton, cugino di primo grado di Charles Darwin, nel campo della genetica e della psicologia differenziale erano inizialmente influenzati dall’individualismo democratico liberale. Il fine di Galton era lo sviluppo totale ed armonico dell’individuo, ma questo andò sfocando mentre si affermava un collettivismo totalitario incorporato dallo stato. L’eugenetica, da strumento scientifico per la liberazione individuale dal bisogno e dalla sofferenza, si trasformò in un potente fattore di controllo sociale. La stessa sorte subirono le politiche di controllo delle nascite che erano state permesse negli Stati Uniti sotto la pressione dei movimenti femministi e socialisti. Negli anni del primo dopoguerra, sotto la direzione di un’élite bianca maschile, permeata di nativismo, razzismo, darwinismo sociale ed etnocentrismo, il movimento per il controllo delle nascite statunitense venne ricondotto a pratiche eugenetiche e alla tradizionale difesa della famiglia e della moralità sociale (Buss 1976, Gordon 1974).
La distruzione del patrimonio biologico nazionale causata dall’evento bellico favorì la diffusione di progetti eugenetici per la rigenerazione della stirpe. Queste strategie di bonifica si giovarono di programmi a tutela delle fonti della vita, di quella maternità e infanzia rientranti nel dominio sociale che lo stato doveva prendere sotto la sua protezione. Le relazioni intersoggettive, la sessualità, il matrimonio, la procreazione, l’educazione dei figli, passavano sotto il dominio dello stato. L’individuo perdeva i suoi diritti naturali e sociali, divenendo un semplice ingranaggio del grande meccanismo bio-sociale da ripristinare nella sua integrità.
L’eugenetica si affiancava alla medicina sociale e all’igiene nella grande opera di bonifica sociale. Come le discipline consorelle, essa presentava i caratteri propri di un sapere non ancora scientifico che tuttavia costruiva il suo proprio oggetto e le sue procedure discorsive e di intervento chiamando a raccolta le scienze già preesistenti, in primo luogo la biologia e l’economia politica, per scandagliare il fondo naturale e il fondo tecnico-economico della società.
Alla pari dei loro colleghi occidentali, gli scienziati sociali italiani furono sedotti dall’eugenetica, ritenendola uno strumento di purificazione razziale e di individuazione dei fattori di controselezione che minacciavano lo sviluppo della civiltà[5]. In un saggio del 1912, Corrado Gini annunciava che uno dei fattori più dannosi per la razza era la “decrescente riproduttività delle classi elette”, fenomeno preoccupante poiché i caratteri migliori o degenerativi si trasmettono per via ereditaria, come avevano già messo in luce le ricerche biometriche di Lombroso sul genio della pazzia (Gini 1912:68-69). L’altro fattore di controselezione dimorava nella diffusione della “compassione” verso gli esseri deboli e degenerati della società, i quali erano “sottratti all’azione eliminatrice della selezione naturale e posti in condizione di vivere e di riprodursi”. In conseguenza dei progressi dell’ostetricia, della medicina e dell’igiene, associati ai provvedimenti pubblici, gli elementi meno sani e robusti della popolazione (tisici, pazzi, suicidi) si trovavano a fornire una parte crescente dei geni ereditari delle generazioni future (Gini 1912:56-59).
Dalle prime riflessioni degli eugenisti italiani emergeva una certa diffidenza verso l’azione statale di protezione sociale verso i perdenti della lotta per l’esistenza e dei costituzionalmente deboli e degenerati. L’azione dello stato non poteva essere improntata a quel “buonismo” paternalista verso il quale era spinta dall’umanitarismo socialista. Non si trattava di garantire a tutti un posto al sole, l’opera di profilassi e di purificazione del corpo sociale doveva rispettare i bilanci economici e i principi di efficienza amministrativa. L’azione bio-politica dello stato era ritenuta indispensabile per migliorare la qualità e la coesione sociale in una prospettiva di accumulo di potenza biologica ed economica, non per mantenere in vita gli individui degerogeni e patogeni ai quali non si poteva che riservare il minimo del bilancio statale. Per i “perdenti della lotta per la sopravvivenza” si delineava quindi un destino di segregazione o un lungo percorso di riadattamento alla vita sociale.
Il timore suscitato dagli inequivocabili segnali di degradazione morale di alcune caste e di talune collettività spinse tuttavia gli scienziati sociali italiani, così come quelli degli altri paesi europei, verso la rivalutazione dell’azione statale. Troppe e molteplici erano le cause della selezione regressiva della razza per non pensare a una “viricultura razionale” che fosse opera dello stato (Consiglio 1914:444-466). L’eugenica appariva alle classi dirigenti indispensabile per risanare l’ambiente morale e la struttura organica della società, irrinunciabile «per potersi difendere e proteggere meglio da ogni sorta di epidemie, infettive o psichiche». Epidemie che più facilmente dilagavano negli strati più bassi della società, inquinando poi rapidamente le stratificazioni sociali più elevate, per inevitabile contagio diretto e indiretto.
Per scongiurare il manifestarsi di epidemie psicofisiologiche collettive non era più sufficiente il meneur de foules, il duce che agglutina la massa e la conduce come un esercito verso le più alte conquiste morali e sanitarie. A limitare l’assestamento dell’organismo sociale alle nuove condizioni erano le carenti qualità del complesso energetico-organico, la sua limitata capacità di svolgere “lavoro socialmente utile”, l’impossibilità psichica di disciplinare il lavoro verso il più intelligente degli adattamenti. Il processo di lotta, selezione e adattamento nei nuovi contesti della civiltà, richiedeva tali e complessi sforzi da ingenerare interazioni sociali crescentemente molteplici e tensive (Consiglio 1914, La Torre1915). Solo lo stato poteva governare tale complessità.
Verso gli anni venti l’eugenica aveva ampliato il suo raggio d’azione e chiarito i suoi obiettivi scientifici e pratici. Agli eugenisti non bastava consigliare il normale e saggio accoppiamento degli elementi migliori. Essi intendevano piuttosto valorizzare
«quelle tali influenze che pongono le razze migliori o i migliori individui in condizione di vivere e svilupparsi con spiccata superiorità sulle razze inferiori. […] La società deve sforzarsi, modificando la sua legislazione e la sua amministrazione, ad ostacolare la moltiplicazione degli elementi inferiori, provvedendo così ad un avvenire in cui si avrà la prevalenza di una razza superiore» (Anonimo 1925:301).
In quegli anni, il governo fascista non si era ancora impegnato in una precisa politica razzista, eppure gli scienziati divulgavano prescrizioni e teorie tese ad affermare la superiorità di una razza sulle altre. La candidatura degli scienziati sociali alla conduzione del piano di bonifica dell’organismo sociale non poteva essere più chiara e politicamente schierata. La bio-politica del fascismo aveva in effetti bisogno di sacerdoti, chiese e vangeli. Con il famoso “discorso dell’Ascensione” del 26 maggio 1927, Mussolini e il fascismo aprirono il periodo delle politiche igieniste, popolazioniste ed eugenetiche. In quel discorso il duce affermava:
«[…] qualcuno, in altri tempi, ha affermato che lo Stato non doveva preoccuparsi della salute fisica del popolo. Anche qui doveva valere il manchesteriano “lasciar fare, lasciar correre”. Questa è una teoria suicida. E’ evidente che, in uno Stato bene ordinato, la cura della salute fisica del popolo, deve essere al primo posto. […] Bisogna quindi vigilare seriamente sul destino della razza, bisogna curare la razza, a cominciare dalla maternità e dall’infanzia. […] Se si diminuisce, signori, non si fa l’Impero, si diventa una colonia!» (Mussolini 1934:39-42)[6].
Qualche anno più tardi, Mussolini investiva i medici della nuova missione razionalizzatrice delle disfunzioni bio-politiche dell’organismo sociale. Nel Discorso ai medici del 28 gennaio 1932, il duce celebrava il loro insostituibile compito politico-sociale:
«i medici debbono insistere perché la vita si svolga in forma più razionale. […] Tutto quello che voi farete nel vostro campo per abituare gli italiani al moto, all’aria libera, alla ginnastica ed anche allo sport, sarà ottimo non solo dal punto di vista fisico, ma dal punto di vista morale, perché gli uomini che sono forti, sono anche saggi e sono indotti a non mai abusare delle loro forze come lo sono invece i deboli, i vinti, quelli che qualche volta hanno la crudeltà della loro debolezza».
L’impegno pubblico per il miglioramento della razza del regime fascista era in parte dipeso, come ho già accennato, dalla pressione politica esercitata da medici, igienisti, sociologi, antropologici, psicologi. Questi gruppi di pressione promossero, con ritmo crescente, la fondazione di riviste, istituti di ricerca, istituzioni di prevenzione che funzionarono da potenti organi di informazione, diffusione e implementazione di politiche sociali di taglio bio-politico. Nel 1913 si costituiva in seno alla Società romana di Antropologia un Comitato italiano per gli studi di eugenica di cui facevano parte Corrado Gini, Giuseppe Sergi, Sante De Sanctis, Luigi Mangiagalli, Alfredo Niceforo, Cesare Artom. Nel 1919, l’igienista e malariologo Giuseppe Tropeano rilanciava la rivista “La Medicina sociale”, omonima di una disciplina scientifica adatta a bonificare il materiale umano rovinato dalla guerra. Nel 1921, Ettore Levi, libero docente in neuropatologia, fondava l’Istituto italiano di igiene, previdenza ed assistenza sociale. Nel 1922 l’Istituto si dotò di un mensile di divulgazione, “Difesa sociale”, iniziando una collaborazione con la Società italiana di genetica ed eugenica fondata nel 1919, al tempo presieduta da Achille Loria, Cesare Artom, Corrado Gini. Si arrovellava sul significato economico della vita umana anche Pietro Capasso, animatore della rivista “Pensiero sanitario”, secondo cui l’Italia, così povera di materie prime, doveva investire sulla risorsa lavoro per portarla al massimo rendimento. Nel 1924, Giulio Cesare Ferrari, direttore della “Rivista di psicologia”, lo psichiatra Leonardo Bianchi ed Ettore Levi fondarono a Bologna la Lega italiana di igiene e profilassi mentale, che si propose l’istituzione di dispensari gratuiti e l’avvio di interventi di tipo psico-igienico nella scuola e nelle famiglie. Nello stesso anno, ebbe luogo a Milano dal 20 al 23 settembre il I Congresso italiano di eugenetica sociale, promosso dalla Società italiana di genetica e di eugenica e dalla Reale società italiana d’igiene. Vi parteciparono cinquecento convegnisti e vi aderirono quasi tutte le società di eugenica europee, sudamericane e nordamericane.
Nel 1927 veniva fondata da Umberto Gabbi, Edoardo Maragliano e Rinaldo Pellegrini la rivista “Archivio fascista di medicina politica”, dedicata allo studio delle cause e dei rimedi della morbilità della popolazione. La “medicina politica” si accostava alle altre già esistenti analoghe discipline quali la “medicina sociale” e la “medicina del lavoro”, formando una potente triade scientifica per la profilassi sociale. Le scienze della società del fascismo, combinando discipline mediche, psicologiche e sociologiche, acquisivano un fondamentale statuto politico, facendosi funzione regolatrice di governo e di disciplina sociale, commistione di «imperio di leggi e autorità dei tecnici» (Gabbi 1927).
Tra il 7 e il 9 settembre 1929 si tenne a Roma il Congresso internazionale per gli studi della popolazione, organizzato e coordinato sempre da Corrado Gini, al quale parteciparono studiosi di tutto il mondo. Tra il 30 settembre e il 2 di ottobre sempre del 1929 si tenne il Secondo congresso italiano di genetica ed eugenica promosso dalla Società italiana di genetica ed eugenica. Due anni dopo, nei giorni 7-10 settembre 1931, si svolse un secondo Congresso internazionale per gli studi della popolazione, durante il quale veniva ribadita la revisione del corpo dottrinario delle scienze eugenetiche.
I concetti elementari della genetica ereditaria, dell’eugenetica, della medicina sociale, furono oggetto di una capillare opera di divulgazione sociale. La rivista “Politica Sociale” diretta da Renato Trevisani e vicina alle posizioni di Giuseppe Bottai, iniziò pure ad assumere l’arsenale linguistico biologista che proveniva dalla sociologia popolazionista e dall’eugenetica. Nel 1932 essa dedicò un intero fascicolo ai “molti, sani e belli” che il regime voleva riprodurre e proteggere con l’aiuto di una medicina sociale a volte estetizzante, in plauso ai caratteri ideali voluti per l’uomo medio italiano. Qualche anno più tardi, “L’economia italiana. Rassegna fascista mensile di politica ed economia”, dedicava il numero dell’aprile 1934 al tema “Popolazione e Fascismo”. In quel numero venivano presentati ventiquattro articoli, divisi in sei sezioni, scritti da studiosi di differenti discipline[7].
Nel 1934 vedevano la luce il Comitato italiano per lo studio dei problemi della popolazione e la sua rivista “Genus”, edita sotto il patrocinio del Consiglio Nazionale delle Ricerche e collegata alla Società italiana di Genetica ed Eugenetica. Ancora nel 1934, a riprova dell’incitamento che le scienze eugenetiche avevano ricevuto, venne fondato il Comitato internazionale per l’unificazione dei metodi e per la sintesi in antropologia, eugenica e biologia, che tenne nello stesso anno, presso l’Istituto antropologico di Bologna, il suo primo congresso. L’idea del comitato era venuta a Charles Davenport, direttore del Dipartimento di genetica del Carnegie Institute di Washington, nel corso del III Congresso internazionale di Eugenica svoltosi a New York nel 1932, invitando l’antropologo Fabio Frassetto a costituire detto comitato. Il comitato si dotò anche di un bollettino internazionale dal titolo iperscientifico di “S.A.S.- Standardisation Anthropologique Synthetique”, del cui comitato di redazione facevano parte, oltre al direttore Frassetto, gli antropologi Eugen Fischer, Georges Montandon, Josef Weninger, coadiuvati da Charles Davenport, Alfredo Niceforo, Felice Usuelli, Felice Vinci e Giacinto Viola.
5. Ortogenesi: l’arte di raddrizzare il corpo e l’anima
La “biotipologia umana” od “ortogenesi” costituì durante il periodo fascista l’alternativa cattolica dell’eugenetica. Fondata da Nicola Pende nel 1922 a partire dalla tradizione costituzionalista di Cesare Lombroso, importata nella patologia medica da Achille De Giovanni (Pende 1922), essa era la “scienza dell’architettura e dell’ingegneria del corpo umano individuale”, una sorta di teoria bio-psico-sociologica dell’attore sociale. Per spiegare quella definizione, Pende ricorreva alla metafora del motore degli autoveicoli: «come ogni autoveicolo è caratterizzato dal tipo strutturale-dinamico del motore e degli accessori dell’apparato meccanico, così ogni umana individualità ha il suo tipo di motore umano, da cui dipende il dinamismo speciale della persona» (Pende 1939a:1). L’individuo era in questo modo equiparato a una “fabbrica corporea”, concepito come un
«fenotipo umano individuale che nasconde però in sè quella parte del genotipo che non è ancora per così dire germogliata sul terreno misterioso dell’eredità biologica, nelle sue oscure interazioni colle influenze cosmiche e sociali, che agiscono sull’organismo vivente come stimoli rivelatori dei caratteri e delle attitudini dinamiche e psichiche» (Pende 1939a:48).
La sintesi del biotipo individuale era rappresentata da una piramide quadrangolare la cui base racchiudeva la genetica del biotipo, ovvero il patrimonio ereditario individuale, familiare e razziale, e i quattro lati gli aspetti fenomenici dell’individualità vivente: morfologici, fisiologici, etici ed affettivo-volitivi, intellettivi (Pende 1939:52). In quella piramide era racchiuso il “modello” della teoria, che mediava tra aspetti teorici e aspetti operazionali.
La biotipologia intendeva donare una spiegazione totale dell’agire dell’individuo, ossia dell’attore sociale. Essa era ovviamente molto lontana dalle attuali teorie dell’attore sociale. Tuttavia, negando il collettivismo e il sistemismo sociologico a favore di un individualismo bio-psico-sociologico, la biotipologia si presentava come una teoria in grado di spiegare e prevedere, e se necessario di riorientare, i modi in cui un individuo agiva o avrebbe agito in certe situazioni. Combinando osservazioni di tipo genetico, morfologico, fisiologico, etico, affettivo, intellettivo, socio-ambientale, i biotipologi affrontavano i problemi dei valori individuali, delle disposizioni morbose e della loro profilassi, dei devianti e dei criminali, della valutazione vitale degli individui per le assicurazioni statali contro le malattie. Analogamente alla medicina sociale e all’eugenetica, la biotipologia si occupava delle patologie in un ottica transdisciplinare, chiamando alla cooperazione i saperi medici, psicologici e psicopatologici, educativi, sociologici, criminologici, per creare “Istituti di biologia e psicologia dell’individualità” nei quali insegnamento, ricerca scientifica, attività di bonifica trovassero una sintesi equilibrata (Pende 1923:53).
Il modello biotipologico unificava nello studio dell’attore fattori genetici ereditari e fattori ambientali, sviluppando un approccio di tipo genealogico. I caratteri razziali dei genitori del soggetto, uniti alle influenze geografiche e sociali e alle abitudini di vita dei genitori e del singolo, fornivano i primi dati per l’accertamento delle patologie, delle disfunzioni, delle degenerazioni del soggetto. Ereditarietà e ambiente, come nella più classica delle teorie positiviste dell’azione sociale, assurgevano a sistema di influenze plasmatrici dell’architettura fisico-psichica individuale. Solo la conoscenza dei modi e degli effetti con cui questi fattori esercitano un’influenza esterna sul comportamento individuale, permetteva allo scienziato di avviare procedure di controllo e di trasformazione delle degenerazioni soggettive. Per applicare gli studi biotipologici e la scienza ortogenetica Pende aveva fondato presso la Clinica medica dell’Università di Genova l’Istituto biotipologico ortogenetico, nel quale venivano testati ed esplorati gli aspetti psichici della personalità e del carattere, gli istinti e le reazioni, il grado di intelligenza e il subcosciente di fanciulli e soggetti adulti (Banissoni, Nardi 1939:625-665).
L’applicazione scientifica della dottrina biotipologica si concretizzò nella “scienza dell’ortogenesi” ovvero nella scienza per la “formazione regolare, sana ed armonica degli uomini”. Essa si preoccupava di correggere e normalizzare tutte le “possibili deviazioni del corpo e dello spirito sotto l’influsso di fattori ereditari ed ambientali”. Fin dalla nascita, il futuro cittadino doveva venire tutelato dallo stato. Dalla qualità e dal numero dei figli del popolo dipendeva, secondo Pende, «il benessere economico, la potenza militare, la potenza spirituale, la potenza riproduttiva della razza» (Pende 1939b:7). Nella prospettiva bio-politica dell’ortogenesi il rafforzamento della razza era visto come un processo di miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie della popolazione e degli individui. Si trattava quindi di organizzare e perfezionare un’assistenza preventiva e curativa per i figli tarati. Profilassi preventiva e curativa che aveva portato, alla fine degli anni trenta, a mettere sotto assistenza medico-pedagogica quasi tremila soggetti ritenuti portatori, in latenza, del gene di un’eredità patologica[8].
La prospettiva ortogenetica negava radicalmente la “famigerata eugenica”, perché tesa quest’ultima a migliorare o purificare la razza, operando incroci razziali, o peggio ancora sterilizzando gli individui geneticamente inferiori. Alla selezione dei migliori e dei più adatti e all’esclusione dei meno adatti, l’ortogenesi opponeva “la pratica di prendere l’essere umano sotto il controllo scientifico sin dal momento del concepimento”, mettendo a punto politiche di gestione dell’utero femminile e considerando le donne semplici portatrici della stirpe futura. La bonifica non riguardava solamente i fattori fisici e le proporzioni del corpo, ma comprendeva anche gli aspetti intellettivi, morali e di coscienza della personalità. Per questo, secondo il Pende, l’ortogenesi «non solo è individualizzata ma è unitaria, totalitaria, rivolta nel tempo stesso al corpo, nella sua struttura e nella sua composizione umorale, soprattutto glandolare ed ormonica, e poi al carattere e all’intelligenza» (Pende 1939b:8-9).
La scienza dell’ortogenesi si proponeva, in sostanza, di guidare, fin dalla nascita, la formazione pedagogica dell’individuo fascista, di rappresentare l’arte di fare gli uomini totali ed armonici. Nelle intenzioni del suo creatore, l’ortogenesi diventava
«l’arte di migliorare continuamente il bilancio biologico della nazione, liberandolo più che è possibile dalla massa dei mediocri e degli improduttivi e degli invalidi precoci, dei mediocri della salute fisica, dei mediocri morali, dei mediocri intellettuali, mediocri che sottraggono ogni anno miliardi alla ricchezza nazionale; l’arte di preparare lavoratori del braccio e dell’intelletto bene orientati e selezionati per i vari posti di lavoro, di preparare soldati fisicamente e moralmente forti, di preparare madri feconde sorvegliando accuratamente il loro sviluppo sessuale e il loro sviluppo morale» (Pende 1939b:10).
In una parola, era all’ortogenesi che spettava la soluzione dei quattro grandi problemi, quello della scuola, quello del lavoratore, quello della donna, quello della razza.
6. Politiche di bonifica sociale
Il controllo eugenetico della riproduzione biologica della popolazione trovò concretezza in provvedimenti legislativi e in un drastico aumento dei ricoverati negli ospedali psichiatrici. Il nuovo Codice penale, varato il 1 luglio 1931, unificando provvedimenti eugenetici e di difesa della prolificità, prevedeva dure sanzioni per i reati contro la stirpe, ovvero per le pratiche abortive e l’istigazione all’aborto, la procurata impotenza, l’incitamento alla contraccezione e il contagio venereo.
Le politiche di controllo si esercitarono in modo più sistematico con l’internamento e la cura dei degenerati. Sulla base dei dati forniti dall’Ufficio statistico per le malattie mentali, fondato nel 1926 dalla Società italiana di psichiatria presso il manicomio di Ancona, si viene a sapere che gli istituti di assistenza preposti all’accoglimento degli infermi di mente erano, al 31 dicembre 1927, 144, tra i quali 61 ospedali psichiatrici pubblici, 5 manicomi giudiziari, 36 ricoveri per cronici, 6 istituti per deficienti, 36 case di salute mentale per abbienti. Tra il 1926 e il 1928 entrarono per la prima volta negli istituti di assistenza 50.183 individui malati, così suddivisi:
tab 1. Ricoverati per la prima volta in ospedale psichiatrico
1926 | 1927 | 1928 | |
maschi | 9.565 | 9.340 | 9.588 |
femmine | 7.210 | 7.104 | 7.376 |
totale | 16.775 | 16.444 | 16.964 |
Sommando i riammessi, il totale saliva a 70.697. Aggiungendo infine i ricoverati presenti all’inizio dell’anno, la cifra totale dei ricoverati nel triennio saliva a 257.398, circa 85.000 per anno. Sottraendo i dimessi e i morti, alla fine del triennio risultavano ricoverati 192.687 malati mentali. L’aumento dei malati, commentava il Modena, non era dovuto a una maggiore morbosità, cioè a maggiori entrate, ma alla maggior durata della degenza. La diminuzione dei congedi era a sua volta inerente alla crisi e alla disoccupazione, più che alla diminuzione della mortalità, che si aggirava sempre attorno al 7% dei ricoveri, circa 6.000 all’anno. Il movimento dei ricoverati negli ospedali psichiatrici tra il 1926 e il 1946 è riassunto nella seguente tabella:
Tab. 2. Movimento dei ricoverati negli ospedali psichiatrici
presenti al 1 gen. | entrati | dimessi | trasf. altri istit | morti | presenti al 31 dic. | totale assistiti | |
1926 | 60.306 | 26.057 | 15.399 | 2.575 | 6.282 | 62.127 | |
1927 | 62.127 | 27.467 | 15.013 | 4.334 | 5.979 | 64.268 | |
1928 | 64.268 | 27.785 | 15.585 | 3.703 | 6.473 | 66.292 | |
1929 | 66.439 | 28.607 | 16.468 | 3.441 | 6.466 | 68.671 | |
1930 | 68.777 | 30.424 | 16.899 | 4.641 | 5.643 | 72.018 | |
1931 | 72.269 | 29.460 | 17.065 | 4.047 | 5.837 | 74.780 | |
1932 | 74.780 | 30.866 | 17.294 | 4.439 | 6.189 | 77.724 | 101.207 |
1933 | 77.724 | 32.481 | 17.505 | 5.490 | 6.201 | 81.009 | 104.715 |
1934 | 81.009 | 31.447 | 18.786 | 4.359 | 5.917 | 83.394 | 108.097 |
1935 | 83.541 | 31.413 | 19.321 | 3.981 | 6.243 | 85.409 | 110.973 |
1936 | 86.449 | 33.680 | 19.687 | 4.368 | 6.683 | 89.391 | 115.761 |
1937 | 89.393 | 34.715 | 20.707 | 4.628 | 7.093 | 91.760 | 119.560 |
1938 | 93.019 | 35.209 | 20.968 | 5.152 | 7.292 | 94.816 | 123.076 |
1939 | 94.946 | 37.813 | 22.251 | 7.352 | 7.177 | 95.979 | 125.407 |
1940 | 95.984 | 37.440 | 21.675 | 7.690 | 7.636 | 96.423 | 125.735 |
1944 | 73.222 | 26.900 | 16.883 | 4.708 | 13.517 | 65.014 | 95.414 |
1945 | 65.014 | 29.760 | 20.598 | 3.799 | 8.680 | 61.697 | 90.975 |
1946 | 61.886 | 33.262 | 21.266 | 5.861 | 4.489 | 63.352 | 93.407 |
Fonte: Istat, Annali statistici italiani.
Come si nota, durante il ventennio il numero dei ricoverati e degli assistiti continuò a crescere con una certa frequenza, aumentando del cinquanta per cento in circa quindici anni. La maggior parte degli ammessi era costituita da individui compresi fra i 20 e 40 anni, con prevalenza dei maschi sulle femmine. Per quanto riguardava lo stato civile vi era una prevalenza dei celibi e delle nubili rispetto ai vedovi e ai coniugati, confermando una convinzione da tempo espressa dagli statistici secondo la quale i non sposati erano più soggetti a malattie e mortalità[9]. Prevalevano tra i ricoverati i letterati con istruzione elementare inferiore e, per quanto riguardava le professioni, di gran lunga le più rappresentate erano le casalinghe e i lavoratori rurali, seguiti dagli operai, dai meccanici elettricisti e dai manovali.
La durata della degenza è utile per inquadrare il tipo di profilassi psichiatrica. In alcuni casi, la durata della degenza era particolarmente breve: il 20 per cento delle psicosi tossiche endogene erano curate in meno di un mese, così per il 30 per cento delle psicosi tossiche esogene e per le psicosi affettive (queste ultime erano le più diffuse tra la popolazione, soprattutto femminile, con 9 malati ogni 100.000 abitanti presenti, comprendendo stati depressivi, stati maniacali, psicosi maniaco-depressive). Per la maggioranza dei malati, la degenza era invece molto più lunga: il 72.5 per cento delle frenastenie venivano tenute sotto osservazione per un periodo compreso tra un anno e oltre due anni; così per il 50 per cento delle psicodegenerazioni, il 62.6 per cento delle epilessie, il 40.4 per cento delle psicosi affettive, il 63.5 per cento delle schizofrenie, il 27 per cento delle psicosi tossiche endogene, il 36 per cento delle psicosi alcooliche. Infine, su 100 dimessi, solo il 17.6 per cento era considerato guarito, mentre il 44.3 per cento era ritenuto in esperimento e il 21.4 per cento affidato alle famiglie (Modena 1933:14-47).
Una statistica compilata da Franco Savorgnan nel 1934 comparava il numero dei letti d’ospedale nei diversi settori sanitari del 1932 con gli stessi dati del 1907, anno dell’ultima rilevazione sullo stesso argomento. Scontata la rilevazione di significativi incrementi nel campo generale dell’assistenza sanitaria ospedaliera, dovuta all’opera svolta dal governo fascista, interessanti sono i dati per il settore psichiatrico. Nel 1932 gli ospedali psichiatrici erano saliti a 154, affiancati da tre cliniche specializzate nella cura delle malattie veneree; gli assistiti globali furono 105.O65, il 9.6 del totale degli assistiti in tutti gli ospedali, più dei tubercolotici e dei ricoverati nei reparti di chirurgia. Nel 1907 c’erano negli ospedali psichiatrici 48.026 letti, che diventavano 78.043 nel 1932, con un 62.5 per cento di aumento; gli infermi assistiti furono 64.029 nel 1907, numero che salì nel 1932 a 105.O65, 64.1 per cento di aumento; le giornate di presenza consumate furono 16.289.616 nel 1907, 27.198.924 nel 1932, 66.9 per cento in più.
L’incremento del grado di medicalizzazione psichiatrica della società risalta più precisamente se si raffrontano i dati degli assistiti nelle istituzioni psichiatriche con gli altri settori ospedalieri: per gli ospedali pediatrici l’aumento era stato del 70.9 per il numero dei letti, del 40.7 per gli infermi assistiti e del 35.2 per le giornate di presenza consumate; per gli ospedali ortopedici e per rachitici l’aumento era stato rispettivamente del 113.8, del 148, ma solo del 22.9 per le presenze/giornata consumate (Savorgnan 1934:13), indicatore quest’ultimo significativo per valutare l’effettiva portata delle politiche di segregazione dei malati mentali e l’impatto dell’istituzione psichiatrica sulla società. Nella seguente tabella quel dato viene ampiamente verificato:
tab. 3. Confronto tra ospedali comuni e psichiatrici nel 1932
numero istituti | numero letti | numero assistiti | giorni presenza | |
ospedali psichiatrici | 154 | 78.043 | 105.065 | 27.198.924 |
ospedali comuni | 1.319 | 106.960 | 822.983 | 24.843.476 |
Fonte: Istat, Annali statistici italiani, 1932
Era inoltre diffusa tra i medici psichiatri la convinzione che la massa dei degenerati debordasse abbondantemente il numero rilevato statisticamente, che il numero oscuro fosse più ampio di quello conosciuto. Alla popolazione degli alienati ricoverati andava infatti aggiunta la parte forse preponderante di “deficienti mentali, anormali psichici, nevropatici, ecc., che non sono ricoverati nè ricoverabili”(Cesari 1940:79). La preoccupazione per la presunta diffusione delle degenerazioni e delle infermità mentali ossessionava medici, psichiatri, statistici, sociologi: di qui l’auto-responsabilizzazione degli scienziati per il controllo della capacità generativa degli individui, individui definitivamente senza diritti, soggetti incapaci di agire. Le leggi razziali avevano ormai sollevato qualsiasi dubbio in merito al duplice movimento di differenziazione e purificazione razziale. I disgenetici e i malati mentali, aumentando la loro frequenza, minacciavano la biologia della collettività e deterioravano progressivamente la razza bianca. Era cognizione comune che
«la percentuale di malati mentali, quali i deficienti, gli epilettici con manifestazioni psichiche, gli schizofrenici, i maniaci e i malinconici rispetto alla popolazione di una Nazione, salgono a cifre impressionanti e preoccupanti per il presente e per l’avvenire […]. Damaye, trova che il gran numero degli anormali mentali e dei deliranti, è, in libertà, nel mondo, ed essi non sono che un campionario di quelli internati in manicomio. La vita libera abbonda di gente che presenta vaghe, piccole anomalie mentali o sessuali che, sopra certi aspetti dell’esistenza fanno di essi un pericolo ancora sconosciuto ed insospettato» (Cesari 1940:79)[10].
7. Politiche popolazioniste
Se le politiche eugenetiche intendevano migliorare la qualità della razza, le politiche demografiche si diressero a sostenerne la proliferazione. Qualità e quantità dei fenomeni sociali trovarono nelle politiche popolazioniste una sintesi di tipo funzionale. La crescita demografica aveva un senso solo se la qualità della popolazione fosse stata mediamente buona. Tra il 1927 e il 1928 il regime aveva arguito di trovarsi di fronte a una diminuzione delle nascite, soprattutto nelle regioni più industrializzate e urbanizzate, generando una diffusa inquietudine politica. La scelta di combattere la natalità decrescente avvicinò il regime alle posizioni della chiesa cattolica. Dopo lo storico discorso dell’Ascensione, il 19 settembre 1928 compariva su “Il Popolo d’Italia”, sulla rivista “Gerarchia” e come prefazione alla traduzione italiana del libro Regresso delle nascite, morte dei popoli di Richard Korherr un articolo del capo del fascismo dal titolo Il numero come forza. In quello scritto il duce, chiosando la sociologia giniana, sosteneva che «le leggi demografiche e le negative e le positive possono annullare o comunque ritardare il fenomeno se l’organismo sociale al quale si applicano è ancora capace di reazione. In questo caso più che le leggi formali, vale il costume morale e soprattutto la coscienza religiosa».
Per compensare la caduta della natalità, il fascismo avviò un’intensa azione demografica solo nelle campagne. Il rafforzamento della potenza riproduttiva delle masse rurali rispondeva a diverse esigenze. Tra quelle economiche, una maggiore pressione demografica sulle campagne favoriva soprattutto i grandi proprietari agrari del sud sia dal lato della vendita delle terre sia dal lato dei salari agricoli. Inizialmente il fascismo imboccò la strada delle elargizioni benefiche, lontana da una programmazione effettiva, per far fronte agli effetti della crisi economica che dal 1928 iniziava a colpire i salariati dell’industria e dell’agricoltura.
Nelle menti del regime, la difesa della razza occupava un’ampia congerie di problemi e provvedimenti. Sullo sfondo della sua limitata razionalità, la politica della razza connetteva mutualmente direttive logiche di tipo negativo e positivo: negativo nel senso che mirava a eliminare cause e fattori di “deterioramento” della razza; positivo nel senso che intendeva creare provvidenze per un suo “miglioramento”. Sempre Mussolini aveva reso, in un suo scritto, la complessità degli interventi pubblici nel campo razziale:
«la potenza militare dello Stato, l’avvenire e la sicurezza della nazione sono legati al problema demografico, assillante in tutti i paesi di razza bianca e anche nel nostro. Bisogna riaffermare ancora una volta e nella maniera più perentoria e non sarà l’ultima, che condizione insostituibile del primato è il numero. Senza di questo tutto decade e crolla e muore. La giornata della Madre e del Fanciullo, la tassa sul celibato e la sua condanna morale, salvo i casi nei quali è giustificato, lo sfollamento delle città, la bonifica rurale, l’Opera della Maternità e Infanzia, le colonie marine e montane, l’educazione fisica, le organizzazioni giovanili, le leggi sull’igiene, tutto concorre alla difesa della razza» (Mussolini 1935:40).
L’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, istituita nel 1925 e regolamentata nel successivo, aveva indubbiamente un posto preminente nella politica della razza, dovendo proteggerne i germogli nel “loro sorgere e nel loro sbocciare”. L’Onmi. prevedeva l’istituzione in tutto il paese di consultori ostetrici e pediatrici, atti alla sorveglianza igienica delle donne gestanti e puerpere specie per le malattie sociali, alla cura delle anomalie della gravidanza, all’accertamento delle predisposizioni o alterazioni dello stato fisiologico dei genitori, alla sorveglianza igienica e dietetica del bambino (Bergamaschi 1940:91-97). L’obiettivo ultimo era la bonifica attiva della razza e la messa sotto monitoraggio dei comportamenti sociali dei genitori, giudicati sulla base di criteri medici e morali.
Le campagne demografiche e le politiche di proliferazione fecero leva sugli stereotipi femminili di madre e di genitrice per trovare il soggetto adatto al progetto fascista di miglioramento della razza (Krause 1994). Tuttavia, il processo di industrializzazione favorì il lavoro fuori casa delle donne, soprattutto nel settore tessile, consentendo alla forza-lavoro femminile di assumere, forse per la prima volta, un ruolo sociale, sottraendosi in parte alle politiche patriarcali perseguite dal regime e dai demografi (Corner 1993). Ciò nonostante la lotta contro ogni comportamento trasgressivo di parte femminile fu continua e feroce. La difesa della ruralità fu una delle principali politiche per tenere sotto controllo una crescente ostilità delle donne verso il regime, che si manifestava con una certa frequenza soprattutto nelle zone rurali nel corso delle manifestazioni popolari contro il carovita e la disoccupazione (Tranfaglia 1996:470-480).
8. Bio-politica e razzismo
Per Mussolini e il fascismo, il “discorso dell’Ascensione” non comportava solo un impegno per l’incremento quantitativo della popolazione. Quel pronunciamento lasciava trasparire un sostanziale accordo con le strategie scientifiche e politiche che chiedevano il miglioramento qualitativo della popolazione, della stirpe, della razza. La radicalizzazione bio-politica dei regimi totalitari, consentì l’iscrizione del discorso sulla razza e del razzismo, che già esisteva, all’interno dei meccanismi dello stato, proprio perché il razzismo è, secondo Foucault, “il modo in cui, nell’ambito di quella vita che il potere ha preso in gestione, viene introdotta una separazione, quella tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire”. A partire dal continuum biologico della specie umana, l’apparizione delle razze, la distinzione delle razze, la gerarchia delle razze, la qualificazione di alcune razze come buone e di altre come inferiori costituirono “un modo per frammentare il campo del biologico che il potere ha preso a carico, diventerà una maniera per introdurre uno squilibrio tra i gruppi costituenti la popolazione” (Foucault 1990:166).
Il razzismo fascista portò alle estreme conseguenze il potenziale regolativo della bio-politica applicandolo al disciplinamento del corpo sociale nazionale. Il processo in base al quale si individuavano le razze e la loro gerarchia, venne mutuato in parte dalle tecniche con le quali si isolavano i gruppi degenerati e pericolosi della popolazione. Con il razzismo fascista, le razze inferiori, le classi pericolose, i gruppi devianti divennero i soggetti da sacrificare per la purezza della razza superiore. Solo la segregazione dell’altro “degenerato”, “impuro”, “indisciplinato” comportava il miglioramento e l’irrobustimento biologico e genetico dell’individuo-specie: meno degenerati popolavano questo spazio biosociale, più vigorosa e prolifica diventava la razza.
A partire dalla conquista dell’Etiopia e con leggi razziali del 1938, la politica razziale si volse in attività persecutoria, mentre l’interesse verso la categoria socio-biologica di razza italiana cresceva rapidamente. Si opinava, sotto l’influenza del mendelismo, che la razza italiana avesse discendenze genetiche rimaste immutate fin dai tempi dell’Impero romano. Il mendelismo e il galtonismo vennero ritenuti una sicura conquista scientifica, poiché stabilivano l’immutabilità dei caratteri genetici ereditati dai discendenti di un ceppo familiare, di una stirpe o di un cespite razziale. La razza non poteva punto mutare, nemmeno nel contesto della lotta per l’esistenza: essa doveva perdurare così come era stata creata, essa permaneva al di là del tempo.
L’eugenetica diveniva una potentissima arma di elevazione civile e di tirocinio imperialista. Nel clima creato dal fascismo, con il rinnovato orgoglio di razza e con i doveri che quello comportava, l’eugenetica era una “scienza feconda” che «può andare oggi tra il popolo e dare anche essa il suo alto contributo per le nuove e sempre più valide vite attese dall’Italia imperiale» (Businco 1938:37-39)[11]. L’associazione di eugenetica razziale e scienze della trasmissione ereditaria dei caratteri risultava fondamentale proprio per dare un senso a questa grande costruzione metafisica che stava diventando la razza. La conoscenza delle leggi che regolano la trasmissione ereditaria dei caratteri diventava necessaria per poter comprendere l’origine e la finalità del razzismo. Di conseguenza le caratteristiche psicologiche e somatiche di una razza diventavano
«il retaggio di più o meno lontani progenitori, pervenuto ai discendenti attraverso l’eredità biologica. Il raggiungimento delle finalità del razzismo, il potenziamento cioè e il miglioramento della razza è condizionato dalla pratica applicazione delle leggi delle eredità» (Ricci 1938b: 16-17)[12].
Il concetto di razza tese a spiegare ogni evento e fenomeno bio-sociale: si iniziò a mettere in relazione, come da tempo affermavano i biotipologi costituzionalisti, l’attitudine verso determinate malattie e la costituzione biologica della razza. Si sosteneva, per esempio, che se per molte malattie infettive il fattore razza non era invocabile e per altre aveva solo un valore relativo, tuttavia, per un gruppo non indifferente di infezioni la razza era con certezza da ritenersi fattore di assoluta predisposizione o di immunità organica (Imbasciati 1939:16).
L’eugenetica razziale elaborata dagli eugenisti del regime prese in altri casi una interessante connotazione geopolitica e imperiale. Plaudendo alla regolamentazione giuridica dei matrimoni misti varata dal regime, Edmondo Vercellesi notava che «se i matrimoni tra italiani e stranieri non venissero regolati da un sano criterio discriminante, si verificherebbero ben presto incroci mostruosi, con conseguente imbastardimento ed impoverimento dell’elemento etnico indigeno». Per tale motivo l’eugenetica familiare doveva garantire incroci appropriati e l’eugenetica razziale l’eliminazione dei “genidi” estranei alla razza, precisando che andavano messi la bando gli incroci con le “razze di colore” e con alcune razze ariane che “hanno subito una snaturalizzazione” (Vercellesi 1939:12-13).
Conclusioni
Con questa rassegna sulle scienze sociali e sulle bio-politiche degli stati totalitari ho posto in rilievo alcuni dei percorsi che condussero alla genesi del razzismo di stato durante il fascismo. Esso fu l’esito dell’azione combinata di alcuni attori sociali: dei medici, degli igienisti, dei sociologi, che si proposero come convinti e laboriosi artefici delle pratiche di profilassi sociale; delle politiche statali decise da policy makers che reagivano alle pressioni e suggestioni delle corporazioni scientifiche, trovando in quei saperi gli strumenti e le tecniche per pianificare il “sociale”; delle teorie, che al modo paretiano assumiano come agenti di ordine sociale, che fornirono le argomentazioni per egemonizzare in senso razziale lo spazio pubblico dell’epoca.
Il fascismo riuscì, più dei governi che l’avevano preceduto, a cooperare con le scienze sociali dell’epoca per costruire un modello di governo della scoietà. Il discorso scientifico sulla razza, che condizionò fin dall’inizio le politiche sociali del fascismo, fino a trasformarle in politiche razziali, venne costruendosi a partire dalle discipline che avevano trovato legittimità durante il controverso periodo del dopoguerra, quando l’appello all’ordine sociale proveniente dalla borghesia intellettuale si fece più forte e limpido. Non furono estranei a questa febbre igienista e purificatrice nemmeno quegli intellettuali che si ritenevano socialmente schierati. Il tempo in cui le scienze sociali trovarono ascolto alle loro porpensioni normative fu senz’altro quello del fascismo. Si realizzò allora una convergenza unica tra politiche statali, scienze della soceità, ideologie politiche, una convergenza che non trovò più un’unità di tal fatta.
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[1] Per un approccio di tipo sociologico vedi (Stella 1996:152-173).
[2] Vedi le dichiarazioni di Vittorio Ascoli, professore di clinica medica all’Università di Roma, del 19 dicembre 1917 (Patellani 1925:11-12).
[3] Cfr. anche (Tagliacarne 1934); (Vinci 1934:257-263).
[4] Per alcuni cenni storici sul movimento eugenetico in Inghilterra vedi (Buss 1976); (Macnicol 1992); sugli Stati Uniti vedi (Carey C. A. 1998).
[5] A differenza dei paesi anglosassoni, dove si è sviluppato un notevole interesse storiografico e sociologico per il movimento eugenetico a cavallo dei due secoli, in Italia non esiste una storiografia e una sociologia delle teorie e politiche eugenetiche, discusse e in parte realizzate prima e durante il fascismo. Tra i pochi studiosi di queste campo delle scienze sociali va ricordato per il lavoro pionieristico Claudio Pogliano (Pogliano 1984).
[6] . Vedi anche Orano 1937:31-61. Il discorso venne pronunciato alla Camera il 26 maggio 1927, ed è interessante notare come, in prossimità di quel discorso, il duce si fosse rivolto per “consigli tecnici” proprio a Corrado Gini. Cfr. (Lyttleton 1974).
[7] Tra gli autori possiamo ricordare: Luigi Amoroso, Filippo Virgilii, Giorgio Mortara, Luigi Galvani, Filippo Carli, Vincenzo Consiglio, Roberto Michels, Marcello Boldrini, Arrigo Solmi, Nicola Pende, Agostino Gemelli, Sergio Panunzio, Paolo Medolaghi
[8] Il numero di tremila assistiti è difficilmente verificabile. Noi l’abbiamo ripreso da (Cesari 1940:75-82).
[9] Quanta propaganda fosse cristallizzata in questa asserzione è superfluo dire, sufficiente peraltro a varare la legge che stabiliva l’imposta progressiva personale sui celibi, istituita con R.D.L. 19 dicembre 1926, n. 2132 e resa effettiva con R.D.L. del 13 febbraio 1927, n. 124.
[10] Vedi anche (De Lisi 1938).
[11] Allo stesso modo si esprimeva (Ricci 1939b:22-23).
[12] Vedi anche (Franzì 1938: 29, Ricci 1939a: 29-31, Ricci 1938a:19, Franzì 1942).
http://www.valis.it/albemuth/artifizi/menzogne/bnw.htm
Menzogne:
quale mondo nuovo?
Almeno di nome, tutti conoscono Brave New World, la distopia di Aldous Huxley. E’ meno noto che il fratelo Julian nel 1931 ha scritto un libro sull’eugenetica (Ciò che oso pensare, tradotto in Italia da Hoepli nel 1935).
Vi si trovano suggerite tutte le idee sul controllo genetico e sul miglioramento della specie (anche umana) che Aldous tratterà nel suo famoso libro, uscito l’anno successivo. A pensarci, forse Brave New World non è un incubo come 1984. Pare quasi che l’autore si auspicasse quel futuro, del resto incredibilmente simile all’oggi. Si, con Ritorno al Mondo Nuovo (1946) Huxley sembra prendere una posizione nettamente contraria, ma forse si è trattato di un ripensamento.
A quanto pare il fratello invece non cambiò idea. Leggo qui che Julian “approvava le teorie razziali di Charles Davenport, allora presidente della International Federation of Eugenics Organizations: l’ente angloamericano (era stato fondato nel 1925 presso la Royal Society di Londra) che nel 1932 avrebbe eletto suo nuovo presidente il genetista del Terzo Reich, Ernst Ruedin. Julian Huxley non rinnegò mai le sue idee eugenetiche. Il 6 settembre 1930, sulla Weekend Rewiew, prese le parti del Comitato per la Legalizzazione della Sterilizzazione: “La causa della sterilizzazione di certe classi di persone anormali o difettose mi sembra invincibile”. Nel 1929, secondo la Eugenics Society (Mental Deficiency Committec) di Londra, il numero di tali “difettosi”, nella sola Inghilterra, era valutabile a 300 mila, tutti candidati alla castrazione. Inutile dire che Julian Huxley era membro rilevante della Eugenics Society, di cui fu presidente ancora nel 1962.”
Il sito di chiama “disinformazione” e parla anche di alieni e altre cazzate, ma queste notizie sembrano vere. Bisogna anche dire che Julian non era razzista, almeno in senso normale. Anzi, proprio dai suoi libri parte la confutazione scientifica della teoria della superiorità della razza bianca. E mi pare giusto. Il pool di bestie da selezionare va studiato seriamente.
Comunque, provate a rileggere BNW, anche se è noioso. Magari vi accorgerete che è un’Utopia, non l’opposto.
Noterella per gli amanti delle relazioni intricate: nel 1930 Julian Huxley scrive Science of life, quattro volumi sulla nuova biologia, insieme ad H.G.Wells. La copia autografata costa solo 900 dollari. Wells è quel wells, quello che 35 anni prima aveva scritto L’isola del dottor Moreau e che è considerato un padre della “futurologia” (oltre che un gran narratore). E a questo punto anche un nazistello, se quel che ho letto è vero… indubbiamente i due se la facevano con la stessa cricca. Per voi gdristi: Wells è anche l’autore di Piccole Guerre, il nonno del wargame e quindi uno dei bisnonni del gdr.
http://www.pasti.org/losurdo7.htm
Stato razziale e eugenetica:
gli Usa e il Terzo Reich
«Una domanda s’impone: perchè per definire il regime nazista il ricorso alla dittatura del partito unico dovrebbe essere più caratterizzante che non l’ideologia e la pratica razziale ed eugenetica?» di Domenico Losurdo
Sarebbe assai povera una definizione del Terzo Reich che si limitasse a mettere in evidenza il suo carattere totalitario, rinviando in particolare al fenomeno della dittatura del partito unico. In quanto leaders di una dittatura a partito unico, non c’è difficoltà ad accostare Hitler a Stalin, Mao, Deng, Ho Chi Minh, Nasser, Ataturk, Tito, Franco ecc., ma questo esercizio scolastico è ben al di qua di una concreta analisi storica. Se anche dai ‘totalitari’ Stalin e Hitler ci si preoccupa di distinguere l’’autoritario’ Mussolini, il cui potere è limitato dalla presenza del Vaticano e della Chiesa, non si è fatta molta strada. In questo caso, più che ad un percorso reale, assistiamo ad uno slittamento: dall’ideologia si è passati inavvertitamente ad un ambito del tutto diverso, a realtà e dati di fatto indipendenti e preesistenti rispetto alle scelte ideologiche e politiche del fascismo.
Per quanto riguarda il Terzo Reich, è ben difficile dire qualcosa di determinato e concreto su di esso senza far riferimento ai suoi programmi razziali ed eugenetici. Ed essi ci conducono in una direzione ben diversa rispetto a quella suggerita dalla categoria di totalitarismo.
Subito dopo la conquista del potere, Hitler si preoccupa di distinguere nettamente, anche sul piano giuridico, la posizione degli ariani rispetto a quella degli ebrei nonchè dei pochi mulatti viventi in Germania (a conclusione della prima guerra mondiale, truppe di colore al seguito dell’esercito francese avevano partecipato all’occupazione del paese). E cioè, elemento centrale del programma nazista è la costruzione di uno Stato razziale. Ebbene, quali erano in quel momento i possibili modelli di Stato razziale? Più ancora che al Sud-Africa, il pensiero corre in primo luogo al Sud degli USA. E, d’altro canto, in modo esplicito, ancora nel 1937, Rosenberg si richiama certo al Sud-Africa: è bene che permanga saldamente ‘in mano nordica’ e bianca (grazie a opportune ‘leggi’ a carico, oltre che degli ‘indiani’, anche di ‘neri, mulatti e ebrei’), e che costituisca un ‘solido bastione’ contro il pericolo rappresentato dal ‘risveglio nero’. Ma il punto di riferimento principale è costituito dagli Stati Uniti, questo ‘splendido paese del futuro’ che ha avuto il merito di formulare la felice ‘nuova idea di uno Stato razziale’, idea che adesso si tratta di mettere in pratica, ‘con forza giovanile’, mediante espulsione e deportazione di ‘negri e gialli’. Basta dare uno sguardo alla legislazione di Norimberga per rendersi conto delle analogie con la situazione in atto al di là dell’Atlantico: ovviamente, in Germania sono in primo luogo i tedeschi di origine ebraica ad occupare il posto degli afro-americani. ‘La questione negra’ – scrive Rosenberg nel 1937 – ‘è negli Usa al vertice di tutte le questioni decisive’; e una volta che l’assurdo principio dell’uguaglianza sia stato cancellato per i neri, non si vede perchè non si debbano trarre ‘le necessarie conseguenze anche per i gialli e gli ebrei’. Persino per quanto riguarda il progetto a lui assai caro di costruzione di un impero continentale tedesco, Hitler ha ben presente il modello degli Usa, di cui celebra ‘l’inaudita forza interiore’’: la Germania è chiamata a seguire questo esempio, espandendosi in Europa orientale come in una sorta di Far West e trattando gli ‘indigeni’ alla stregua dei pellerossa.
Alle medesime conclusioni giungiamo se rivolgiamo lo sguardo all’eugenetica. E’ ormai noto il debito che il Terzo Reich contrae nei confronti degli Usa, dove la nuova ‘scienza’, inventata nella seconda metà dell’Ottocento da Francis Galton (un cugino di Darwin), conosce una grande fortuna. Ben prima dell’avvento di Hitler al potere, alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale, vede la luce a Monaco un libro che, già nel titolo, addita gli Stati Uniti come modello di ‘igiene razziale’. L’autore, vice-console dell’Impero austro-ungarico a Chicago, celebra gli Usa per la ‘lucidità’ e la ‘pura ragion pratica’ di cui danno prova nell’affrontare, e con la dovuta energia, un problema così importante eppur così frequentemente rimosso: violare le leggi che vietano i rapporti sessuali e matrimoniali misti può comportare anche 10 anni di reclusione e, ad essere condannabili, oltre ai protagonisti, sono anche i loro complici. Ancora dopo la conquista del potere da parte del nazismo, gli ideologi e ‘scienziati’ della razza continuano a ribadire: ‘Anche la Germania ha molto da imparare dalle misure dei nord-americani: essi sanno il fatto loro’. E’ da aggiungere che non siamo in presenza di un rapporto a senso unico. Dopo l’avvento di Hitler al potere, sono i seguaci più radicali del movimento eugenetico americano a guardare come ad un modello al Terzo Reich, dove non poche volte si recano in viaggi di studio e di pellegrinaggio ideologico.
Una domanda s’impone: perchè per definire il regime nazista il ricorso alla dittatura del partito unico dovrebbe essere più caratterizzante che non l’ideologia e la pratica razziale ed eugenetica? E’ proprio da questo ambito che derivano le categorie centrali e i termini-chiave del discorso nazista. L’abbiamo visto per Rassenygiene, che è in fondo la traduzione tedesca di eugenics, la nuova scienza inventata in Inghilterra e giunta al trionfo al di là dell’Atlantico. Ma ci sono esempi ancora più clamorosi. Rosenberg esprime la sua ammirazione per l’autore americano Lothrop Stoddard, cui spetta il merito di aver per primo coniato il termine Untermensch, che già nel 1925 campeggia come sottotitolo della traduzione tedesca di un libro apparso a New York tre anni prima. Per quanto riguarda il significato del termine da lui coniato, Stoddard chiarisce che esso sta ad indicare la massa di ‘selvaggi e semiselvaggi’, esterni o interni alla metropoli capitalista, comunque ‘incapaci di civiltà e suoi nemici incorreggibili’, coi quali bisogna procedere ad una resa dei conti. Negli Usa come in tutto il mondo, è necessario difendere la ‘supremazia bianca’ contro ‘la marea montante dei popoli di colore’: ad aizzarli è il bolscevismo, ‘il rinnegato, il traditore all’interno del nostro campo’ che, con la sua insidiosa propaganda, oltre che le colonie, raggiunge ‘le stesse regioni nere degli Stati Uniti’.
Ben si comprende la straordinaria fortuna di queste tesi. Elogiato, prima ancora che da Rosenberg, già da due presidenti statunitensi (Harding e Hoover), l’autore americano è successivamente ricevuto con tutti gli onori a Berlino, dove incontra non solo gli esponenti più illustri dell’eugenetica nazista, ma anche i più alti gerarchi del regime compreso Adolf Hitler, ormai lanciato nella sua campagna di decimazione e assoggettamento degli Untermenschen.
Ancora su un altro termine conviene concentrare l’attenzione. Abbiamo visto Hitler guardare come ad un modello all’espansione bianca nel Far West. Subito dopo averla invasa, Hitler procede allo smembramento della Polonia: una parte è direttamente incorporata nel Grande Reich (e da essa vengono espulsi i polacchi); il resto costituisce il ‘Governatorato generale’ nell’ambito del quale – dichiara il governatore generale Hans Frank – i polacchi vivono come in ‘una sorta di riserva’ (sono ‘sottoposti alla giurisdizione tedesca’ senza essere ‘cittadini tedeschi’). Il modello americano è qui seguito persino in modo scolastico. Almeno nella sua fase iniziale, il Terzo Reich si propone di istituire anche uno Judenreservat, una ‘riserva per gli ebrei’, a somiglianza ancora una volta di quelle che avevano rinserrato i pellerossa. Persino per quanto riguarda l’espressione ‘soluzione finale’, la vediamo emergere prima ancora che in Germania già negli Usa, e sia pur riferita alla ‘questione negra’ piuttosto che alla ‘questione ebraica’.
Come non è stupefacente che il ‘totalitarismo’ abbia trovato la sua espressione più concentrata nei paesi al centro della Seconda guerra dei Trent’Anni, così non è stupefacente che il tentativo nazista di costruire uno Stato razziale abbia desunto motivi di ispirazione, categorie e termini-chiave dall’esperienza storica più ricca che, a tale proposito, aveva dinanzi a sè, quella accumulata dai bianchi americani nel loro rapporto coi pellerossa e i neri.
Ovviamente, non devono essere perse di vista tutte le altre differenze, in tema di governo della legge, di limitazione del potere statale (per quanto riguarda la comunità bianca), ecc. Resta il fatto che il Terzo Reich si presenta come il tentativo, portato avanti nelle condizioni della guerra totale e della guerra civile internazionale, di realizzare un regime di white supremacy su scala planetaria e sotto egemonia tedesca, facendo ricorso a misure eugenetiche, politico-sociali e militari.
A costituire il cuore del nazismo è l’idea di Herrenvolk, che rinvia alla teoria e alla pratica razziale del sud degli Stati Uniti e, più in generale, alla tradizione coloniale dell’Occidente; e questa idea è il bersaglio principale della rivoluzione d’Ottobre, che non a caso chiama gli ‘schiavi delle colonie’ a spezzare le loro catene.
La consueta teoria del totalitarismo concentra l’attenzione esclusivamente sui metodi simili attribuiti ai due antagonisti, facendoli per di più discendere in modo univoco da una presunta affinità ideologica, senza alcun riferimento alla situazione oggettiva e al contesto geopolitico.
Domenico Losurdo
(da «Per una critica della categoria di totalitarismo», rivista “Hermeneutica”, 2002 paragrafo 7)
ELOGIO DELL’ANTIAMERICANISMO
di Domenico Losurdo
ringraziamo Critica Marxista e Domenico Losurdo per averci autorizzato a pubblicare questo importante saggio
1. Mito e realtà dell’antiamericanismo di sinistra
L’ultima guerra contro l’Irak è stata accompagnata da un singolare fenomeno ideologico; si è cercato di mettere a tacere il movimento di protesta di un’ampiezza senza precedenti, che in tale occasione si è sviluppato, lanciando contro di esso l’accusa di antiamericanismo. E questo, più ancora che come un atteggiamento politico errato, è stato dipinto e viene tuttora dipinto, in previsione delle nuove guerre che si profilano all’orizzonte, come un morbo, come un sintomo di disadattamento rispetto alla modernità e di sordità alle ragioni della democrazia. Tale morbo – si afferma – accomuna antiamericani di sinistra e di destra e caratterizza le pagine peggiori della storia europea; e dunque – si conclude – criticare Washington e la guerra preventiva non promette nulla di buono. Sarebbe facile replicare richiamando l’attenzione sull’antieuropeismo che sta montando dall’altra parte dell’Atlantico e che ha una lunga tradizione alle spalle. Dà soprattutto da pensare che in questo clima ideologico e politico, nessuno ricorda più il terrore scatenato dal Ku Klux Klan, in nome della difesa del «puro americanismo» ovvero dell’«americanismo al cento per cento», contro i neri e i bianchi colpevoli di mettere in discussione la white supremacy (in MacLean 1994, 4-5, 14). Dileguata dalla memoria è anche la caccia maccartista alle streghe sospettate di nutrire idee o sentimenti un-american . Ma interroghiamoci sulla questione principale. Ha un qualche fondamento storico la tesi della convergenza, in chiave antidemocratica, dell’antiamericanismo di sinistra e di destra? In realtà, il giovane Marx definisce gli Stati Uniti come il «paese dell’emancipazione politica compiuta», ovvero come «l’esempio più perfetto di Stato moderno», il quale assicura il dominio della borghesia senza escludere a priori alcuna classe sociale dal godimento dei diritti politici (cfr. Losurdo 1993, 21-2). Già qui si può notare una certa indulgenza: più che essere assente, negli Stati Uniti la discriminazione censitaria assume una forma «razziale». Ancora più sbilanciato in senso filo-americano è l’atteggiamento di Engels. Dopo aver distinto tra «abolizione dello Stato» in senso comunista, in senso feudale, o in senso borghese, egli aggiunge: «Nei paesi borghesi l’abolizione dello Stato significa la riduzione del potere statale al livello del Nord-America. Qui i conflitti di classe sono sviluppati solo in modo incompleto; le collisioni di classe vengono di volta in volta camuffate mediante l’emigrazione all’Ovest della sovrappopolazione proletaria. L’intervento del potere statale, ridotto ad un minimo ad Est, non esiste affatto ad Ovest» (Marx-Engels 1955, VII, 288). Oltre che di abolizione dello Stato (sia pure in senso borghese), l’Ovest sembra essere sinonimo di ampliamento della sfera della libertà: non c’è cenno alla sorte riservata ai pellerossa, così come si tace della schiavitù dei neri. Analogo è l’orientamento dell’ Origine della famiglia , della proprietà privata e dello Stato : gli Stati Uniti vengono indicati come il paese in cui, almeno per certi periodi della sua storia e certe parti del suo territorio, l’apparato politico e militare separato dalla società tende a ridursi a zero (Marx-Engels 1955, XXI, 166). Siamo nel 1884: in questo momento, i neri non solo vengono privati dei diritti politici conquistati immediatamente dopo la guerra di Secessione, ma sono costretti ad un regime di apartheid e sottoposti ad una violenza che giunge sino alle forme più efferate di linciaggio. Nel Sud degli USA, era forse debole lo Stato, ma era tanto più forte il Ku Klux Klan, espressione certo della società civile, la quale, però, può essere essa stessa il luogo dell’esercizio del potere, e di un potere anche brutale. Proprio l’anno prima della pubblicazione del libro di Engels, la Corte Suprema aveva dichiarato incostituzionale una legge federale che pretendeva di vietare la segregazione dei neri sui luoghi di lavoro o sui servizi (le ferrovie) gestiti da compagnie private, per definizione sottratti ad ogni interferenza statale. E’ soprattutto importante notare che, sul piano della politica internazionale, Engels sembra riecheggiare l’ideologia del Manifest Destiny , come emerge dalla celebrazione della guerra contro il Messico: grazie anche al «valore dei volontari americani», «la splendida California è stata strappata agli indolenti messicani, i quali non sapevano cosa farsene»; mettendo a profitto le nuove gigantesche conquiste, «gli energici Yankees» danno nuovo impulso alla produzione e alla circolazione della ricchezza, al «commercio mondiale», alla diffusione della «civiltà» ( Zivilisation ) (Marx-Engels 1955, VI, 273-5). A Engels sfugge un fatto denunciato invece con forza, in quello stesso periodo di tempo, dai circoli abolizionisti statunitensi: l’espansione degli Stati Uniti aveva significato un’espansione dell’istituto della schiavitù. Per quanto riguarda la storia del movimento comunista propriamente detto, è noto il fascino che taylorismo e fordismo esercitano su Lenin e Gramsci. Ancora oltre va Bucharin nel 1923: «Abbiamo bisogno di sommare l’americanismo al marxismo» (in Figes 2003, 24). Un anno dopo, al paese che pure ha partecipato all’intervento contro la Russia sovietica Stalin sembra guardare con tanta simpatia da rivolgere un significativo appello ai quadri bolscevichi: se vogliono essere realmente all’altezza dei «principi del leninismo», devono saper assimilare «lo spirito pratico americano». «Americanismo» e «spirito pratico» stanno qui a significare non solo concretezza ma anche insofferenza per i pregiudizi, rinviano in ultima analisi alla democrazia. Come Stalin chiarisce nel 1932: gli Stati Uniti sono certo un paese capitalistico; tuttavia, «le tradizioni nell’industria e nella prassi produttiva hanno qualcosa del democratismo, ciò che non si può dire dei vecchi paesi capitalistici dell’Europa, dove è ancora vivo lo spirito signorile dell’aristocrazia feudale» (cfr. Losurdo 1997, 81-6). A suo modo Heidegger ha ragione allorché rimprovera a Stati Uniti e Unione Sovietica di rappresentare da un punto di vista metafisico, il medesimo principio, consistente nello scatenamento della tecnica e nella «massificazione dell’uomo» (Losurdo 1991 a, 90). Non c’è dubbio che i bolscevichi si sentono fortemente attratti dall’America del melting pot e del self made man . Altri aspetti, invece, risultano ai loro occhi decisamente ripugnanti. Nel 1924, Correspondance Internationale (la versione francese dell’organo dell’Internazionale Comunista) pubblica l’articolo di un giovane indocinese approdato negli USA, il quale, mentre nutre ammirazione per la rivoluzione americana, prova orrore per la pratica del linciaggio che nel Sud colpisce i neri. Uno di questi spettacoli di massa viene descritto in modo impietoso: «Il nero viene messo a cuocere, è abbrustolito, bruciato. Ma egli merita di morire due volte piuttosto che una sola volta. Pertanto egli viene impiccato, più esattmente è sottoposto a impiccagione ciò che resta del suo cadavere… Quando tutti sono sazi, il cadavere viene tirato giù. La corda è tagliata in piccoli pezzi, venduti da tre a cinque dollari l’uno». E, tuttavia, lo sdegno per il regime di white supremacy non sfocia affatto in una condanna indiscriminata degli Stati Uniti: sì, il Ku Klux Klan rivela tutta «la brutalià del fascismo», ma esso finirà con l’essere sconfitto, oltre che dai neri, ebrei e cattolici (le vittime a vario livello di questa brutalità), da «tutti gli americani decenti» (in Wade, 1997, 203-4). Non siamo certo in presenza di un antiamericanismo indifferenziato.
2. Uno «splendido Stato del futuro»
Sì, il giovane indocinese assimila il Ku Klux Klan al fascismo. Epperò, le somiglianze tra i due movimenti non sfuggono ai testimoni americani del tempo. Non poche volte, con giudizio di valore positivo o negativo, essi paragonano gli uomini in divisa bianca del sud degli Stati Uniti alle «camice nere» italiane e alle «camice brune» tedesche. Dopo aver richiamato l’attenzione sui tratti comuni al Ku Klux Klan e al movimento nazista, una studiosa statunitense dei giorni nostri ritiene di poter giungere a questa conclusione: «Se la Grande depressione non avesse colpito la Germania con tutta la forza con cui in effetti la colpì, il nazionalsocialismo potrebbe essere trattato come talvolta viene trattato il Ku Klux Klan: come una curiosità storica, il cui destino era già segnato» (MacLean 1994, 184). E cioè, più che la diversa storia ideologica e politica, a spiegare il fallimento dell’Invisible Empire negli Stati Uniti e l’avvento del Terzo Reich in Germania sarebbe il diverso contesto economico. Può darsi che questa affermazione sia eccessiva. Epperò, quando, per mettere a tacere le critiche contro la politica di Washington, si ricorda il contributo essenziale che gli Stati Uniti, assieme ad altri paesi (a cominciare dall’Unione Sovietica) hanno dato alla lotta contro la Germania hitleriana e i suoi alleati, si dice solo una parte della verità; l’altra parte è costituita dal ruolo notevole che i movimenti reazionari e razzisti americani hanno svolto nell’ispirare e alimentare in Germania l’agitazione da ultimo sfociata nel trionfo di Hitler. Già negli anni ’20, tra il Ku Klux Klan e i circoli tedeschi di estrema destra si stabiliscono rapporti di scambio e di collaborazione all’insegna del razzimo anti-nero e antiebraico. Ancora nel 1937, Rosenberg celebra gli Stati Uniti come uno «splendido paese del futuro»: esso ha avuto il merito di formulare la felice «nuova idea di uno Stato razziale», idea che adesso si tratta di mettere in pratica, «con forza giovanile», mediante espulsione e deportazione di «negri e gialli» (Rosenberg 1937, 673). Basta dare uno sguardo alla legislazione varata subito dopo l’avvento del Terzo Reich, per rendersi conto delle analogie con la situazione esistente nel Sud degli Stati Uniti: ovviamente, in Germania sono in primo luogo i tedeschi di origine ebraica ad occupare il posto degli afro-americani. Hitler si preoccupa di distinguere nettamente, anche sul piano giuridico, la posizione degli ariani rispetto a quella degli ebrei nonché dei pochi mulatti viventi in Germania (a conclusione della prima guerra mondiale, truppe di colore al seguito dell’esercito francese avevano partecipato all’occupazione del paese). «La questione negra» – scrive sempre Rosenberg – «è negli Usa al vertice di tutte le questioni decisive»; e una volta che l’assurdo principio dell’uguaglianza sia stato cancellato per i neri, non si vede perché non si debbano trarre «le necessarie conseguenze anche per i gialli e gli ebrei» (Rosenberg 1937, 668-9). Tutto ciò non deve stupire. Elemento centrale del programma nazista è la costruzione di uno Stato razziale. Ebbene, quali erano in quel momento i possibili modelli? Certo, Rosenberg fa riferimento anche al Sud-Africa: è bene che permanga saldamente «in mano nordica» e bianca (grazie a opportune «leggi» a carico, oltre che degli «indiani», anche di «neri, mulatti e ebrei»), e che costituisca un «solido bastione» contro il pericolo rappresentato dal «risveglio nero» (Rosenberg 1937, 666). Ma l’ideologo nazista sa in qualche modo che la legislazione segregazionista del Sud-Africa è stata largamente ispirata dal regime di white supremacy , messo in atto nel sud degli Stati Uniti dopo la fine della Ricostruzione (Noer 1978, 106-7, 115, 125). E, dunque, rivolge il suo sguardo in primo luogo a questa realtà. D’altro canto, è anche per un’altra ragione che la repubblica d’oltre Atlantico costituisce un motivo di ispirazione per il Terzo Reich. Hitler mira non ad un espansionismo coloniale generico bensì alla costruzione di un Impero continentale, mediante l’annessione e la germanizzazione dei territori orientali immediatamente contigui al Reich. La Germania è chiamata a espandersi in Europa orientale come in una sorta di Far West, trattando gli «indigeni» alla stregua dei pellerossa (Losurdo 1996, 212-6) e senza mai perdere di vista il modello americano, di cui il Führer celebra «l’inaudita forza interiore» (Hitler 1939, 153-4). Subito dopo averla invasa, Hitler procede allo smembramento della Polonia: una parte è direttamente incorporata nel Grande Reich (e da essa vengono espulsi i polacchi); il resto costituisce il «Governatorato generale» nell’ambito del quale – dichiara il governatore generale Hans Frank – i polacchi vivono come in «una sorta di riserva»: sono «sottoposti alla giurisdizione tedesca» senza essere «cittadini tedeschi» (in Ruge-Schumann 1977, 36). Il modello americano è qui seguito persino in modo scolastico: non possiamo non pensare alla condizione dei pellerossa.
3. Lo Stato razziale tra Stati Uniti e Germania
E’ un modello che lascia traccia profonde anche a livello categoriale e linguistico. Il termine Untermensch , che un ruolo così centrale e così nefasto svolge nella teoria e nella pratica del Terzo Reich, non è altro che la traduzione di Under Man . Lo riconosce Rosenberg, il quale esprime la sua ammirazione per l’autore statunitense Lothrop Stoddard: a lui spetta il merito di aver per primo coniato il termine in questione, che campeggia come sottotitolo ( The Menace of the Under Man ) di un libro pubblicato a New York nel 1922 e della sua versione tedesca ( Die Drohung des Untermenschen ) apparsa tre anni dopo. Per quanto riguarda il suo significato, Stoddard chiarisce che esso sta ad indicare la massa di «selvaggi e barbari», «essenzialmente incapaci di civiltà e suoi nemici incorreggibili», coi quali bisogna procedere ad una radicale resa dei conti, se si vuole sventare il pericolo che incombe di crollo della civiltà. Elogiato, prima ancora che da Rosenberg, già da due presidenti statunitensi (Harding e Hoover), l’autore americano è successivamente ricevuto con tutti gli onori a Berlino, dove incontra non solo gli esponenti più illustri dell’eugenetica nazista, ma anche i più alti gerarchi del regime compreso Adolf Hitler , ormai lanciato nella sua campagna di decimazione e schiavizzazione degli Untermenschen , ovvero degli «indigeni» dell’Europa orientale. Negli Stati Uniti della white supremacy così come nella Germania in cui prende sempre più piede il movimento sfociato poi nel nazismo, il programma di ristabilimento delle gerarchie razziali si salda strettamente col progetto eugenetico. Si tratta in primo luogo di incoraggiare la procreazione dei migliori, in modo da sventare il pericolo di «suicidio razziale» ( Rasseselbstmord ) che incombe sui bianchi: a suonare l’allarme è, nel 1918, Oswald Spengler, il quale però, a tale proposito, si richiama all’insegnamento di Theodore Roosevelt (Spengler 1980, 683). E, in effetti, nello statista americano, l’evocazione dello spettro del «suicidio razziale» ( race suicide ) ovvero della «umiliazione razziale» ( race humiliation ) va di pari passo con la denuncia della «diminuzione delle nascite tra le razze superiori», ovvero «nell’ambito dell’antico ceppo dei nativi americani»: ovviamente, il riferimento è qui non ai «selvaggi» pellerossa ma ai Wasp (cfr. Roosevelt 1951, I, 487 nota 4, 647, 1113; Roosevelt 1951, II, 1053). Si tratta, altresì, di scavare un abisso incolmabile tra razza dei servi e razza dei signori, depurando quest’ultima degli elementi di scarto e mettendola in condizione di affrontare e stroncare la rivolta servile che, sull’onda della rivoluzione bolscevica, si sta delineando a livello planetario. Anche in questo caso, una ricerca storica spregiudicata conduce a risultati sorprendenti. Erbgesundheitslehre ovvero Rassenhygiene , un’altra parola-chiave dell’ideologia nazista, non è altro, in ultima analisi, che la traduzione tedesca di eugenics , la nuova scienza inventata in Inghilterra nella seconda metà dell’Ottocento da Francis Galton e che, non a caso, conosce i suoi massimi trionfi negli Stati Uniti: qui è più che mai acuto il problema del rapporto tra le «tre razze» e tra «nativi» da un lato e massa crescente di immigrati poveri dall’altro. Ben prima dell’avvento di Hitler al potere, alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale, vede la luce a Monaco un libro che, già nel titolo, addita gli Stati Uniti come modello di «igiene razziale». L’autore, vice-console dell’Impero austro-ungarico a Chicago, celebra gli Stati Uniti per la «lucidità» e la «pura ragion pratica» di cui danno prova nell’affrontare, e con la dovuta energia, un problema così importante eppur così frequentemente rimosso: violare le leggi che vietano i rapporti sessuali e matrimoniali inter-razziali può comportare anche 10 anni di reclusione e, ad essere condannabili, oltre ai protagonisti , sono anche i loro complici (Hoffmann 1913, IX, 67-8). Dieci anni dopo, nel 1923, un medico tedesco, Fritz Lenz, si lamenta del fatto che, per quanto riguarda l’«igiene razziale», la Germania è ben addietro rispetto agli USA (Lifton 1986, 29). Ancora dopo la conquista del potere da parte del nazismo, gli ideologi e “scienziati” della razza continuano a ribadire: «Anche la Germania ha molto da imparare dalle misure dei nord-americani: essi sanno il fatto loro» (Günther 1934, 465). Le misure eugenetiche varate subito dopo la Machtergreifung mirano a sventare il pericolo della «Volkstod» (Lifton 1986, 30), della «morte del popolo» o della razza. E di nuovo siamo ricondotto al tema del «suicidio razziale». Per sventare il pericolo del suicidio della razza bianca, che sarebbe poi il suicidio della civiltà, non bisogna esitare alle misure più energiche, alle soluzioni più radicali, nei confronti delle «razze inferiori» ( inferior races ): se una di esse – tuona Theodore Roosevelt – dovesse aggredire la razza «superiore» ( superior ), questa reagirebbe con «una guerra di sterminio» ( a war of extermination ), chiamata «mettere a morte uomini, donne e bambini, esattamente come se si trattasse di una Crociata» (Roosevelt 1951, II, 377). Significativamente, ad una vaga «ultimate solution» della questione nera accenna un libro apparso a Boston nel 1913 (Fredrickson, 1987, 258 nota); più tardi, invece, i nazisti teorizzeranno e cercheranno di mettere in pratica la «soluzione finale» ( Endlösung ) della questione ebraica.
4. Il nazismo come progetto di white supremacy a livello planetario
Nel corso di tutta la loro storia, gli Stati Uniti hanno dovuto affrontare in modo diretto i problemi derivanti dall’incontro con “razze” diverse e con la massa di immigrati provenienti da ogni angolo del mondo. D’altro canto, il furibondo movimento razzista che si sviluppa alla fine dell’Ottocento è la risposta alla grande rivoluzione rappresentata dalla guerra di Secessione e dal periodo di Ricostruzione radicale. Mentre gli ex-proprietari schiavisti sono momentaneamente privati dei diritti politici in quanto ribelli, i neri passano dalla condizione di schiavitù alla piena cittadinanza politica; non poche volte, entrano a far parte degli organismi rappresentativi, divenendo così in qualche modo legislatori e dirigenti dei loro ex-padroni. Diamo ora uno sguardo alle esperienze e alle emozioni, che sono alle spalle dell’agitazione sfociata poi nel nazismo. Se tra Otto e Novecento il Ku Klux Klan e i teorici della white supremacy bollano gli Stati Uniti scaturiti dall’abolizione della schiavitù e dalla massiccia ondata di immigrati provenienti ora anche dall’Oriente o da paesi ai margini dell’Europa come una «civiltà bastarda» (MacLean 1994, 133) o come una «cloaca gentium» (Grant 1917, 81) , l’Austria nella quale il futuro leader nazista si forma, gli appare, nel Mein Kampf , come un caotico «conglomerato di popoli», come una «babilonia di popoli» ovvero un «regno babilonico», lacerato da un «conflitto razziale» (Hitler 1939, 74, 79, 39, 80), che sembra doversi concludere con una catastrofe: avanza il processo di «slavizzazione» e di «cancellazione dell’elemento tedesco» ( Entdeutschung ), col tramonto quindi della superiore razza che aveva colonizzato l’Oriente e vi aveva apportato la civiltà (Hitler 1939, 82). La Germania dove poi Hitler approda conosce, in seguito alla disfatta della prima guerra mondiale, sconvolgimenti senza precedenti, paragonabili in qualche modo a quelli verificatisi nel Sud degli Stati Uniti dopo la guerra di Secessione: ben al di là della perdita delle loro colonie, i tedeschi sono costretti a subire l’occupazione militare delle truppe di colore al seguito delle potenze vincitrici. Ora, a giudicare sempre dal Mein Kampf , anche la Germania si è trasformata in un «miscuglio razziale» (Hitler 1939, 439). Ad acuire la sensazione del pericolo di un definitivo tramonto della civiltà provvede poi la rivoluzione d’Ottobre che, rivolgendo ai popoli coloniali l’appello a ribellarsi, sembra sancire ideologicamente l’«orrore» dell’occupazione militare nera; per di più essa scoppia e giunge al potere in un’area abitata da popoli tradizionalmente considerati ai margini della civiltà. Come nel Sud degli Stati Uniti gli abolizionisti vengono bollati come rinnegati della propria razza ovvero quali negro-lovers , così traditori della razza germanica e occidentale appaiono agli occhi di Hitler prima i socialdemocratici e poi, a maggior ragione, i comunisti. In ultima analisi, il Terzo Reich si presenta come il tentativo, portato avanti nelle condizioni della guerra totale e della guerra civile internazionale, di reagire al pericolo del tramonto e del suicidio razziale dell’Occidente e della razza superiore, realizzando un regime di white supremacy su scala planetaria e sotto egemonia tedesca.
5. Antisemitismo e antiamericanismo? Spengler e Ford
La campagna in corso contro coloro che osano criticare la politica di guerra preventiva di Washington ama associare l’antiamericanismo all’antisemitismo.
E di nuovo si rimane stupiti per il dileguare della memoria storica. Chi ricorda ancora la celebrazione del «genuino americanismo di Henry Ford» ad opera del Ku Klux Klan (in MacLean 1994, 90)? Ad essere qui oggetto di ammirazione è il magnate dell’industria automobilistica, che si impegna a denunciare la rivoluzione bolscevica come il risultato in primo luogo del complotto ebraico e che a tale scopo fonda una rivista di larga tiratura, il Dearborn Indipendent : gli articoli qui pubblicati vengono raccolti nel novembre 1920 in un volume, L’ebreo internazionale che subito diventa un punto di riferimento dell’antisemitismo internazionale, tanto da poter esser considerato il libro che più di ogni altro ha contribuito alla celebrità dei famigerati Protocolli dei Savi di Sion . E’ vero, dopo qualche tempo Ford è costretto a rinunciare alla sua campagna, ma intanto è stato tradotto in Germania e ha incontrato grande fortuna. Più tardi diranno di essersi ispirati a lui o di aver da lui preso le mosse gerarchi nazisti di primo piano come von Schirach e persino Himmler. Il secondo in particolare racconta di aver compreso «la pericolosità dell’ebraismo» solo a partire dalla lettura del libro di Ford: «per i nazionalsocialisti fu una rivelazione». Seguì poi la lettura dei Protocolli dei Savi di Sion : «Questi due libri ci indicarono la via da percorrere per liberare l’umanità afflitta dal più grande nemico di tutti i tempi, l’ebreo internazionale»; com è chiaro, Himmler fa uso di una formula che riecheggia il titolo del libro di Henry Ford. Potrebbe trattarsi di testimonianze in parte interessate e strumentali. E’ un dato di fatto però che nei colloqui di Hitler con Dietrich Eckart, la personalità che ha avuto su di lui la maggior influenza, lo Henry Ford antisemita è tra gli autori più frequentemente e positivamente citati. E, d’altra parte, secondo Himmler, il libro di Ford assieme ai Protocolli , avrebbe svolto un ruolo «decisivo» (ausschlaggebend ) oltre che sulla sua formazione, anche su quella del Führer . Anche in questo caso, risulta evidente la superficialità della contrapposizione schematica tra Europa e Stati Uniti, come se la tragica vicenda dell’antisemitismo non avesse coinvolto entrambi. Nel 1933 Spengler sente il bisogno di fare questa precisazione: la giudeofobia da lui apertamente professata non va confusa col razzismo «materialistico» caro agli «antisemiti in Europa e in America» (Spengler 1933, 157). L’antisemitismo biologico che soffia impetuoso anche al di là dell’Atlantico viene considerato eccessivo persino da un autore pure impegnato in una requisitoria contro la cultura e la storia ebraica in tutto l’arco della sua evoluzione. E’ anche per questo che Spengler appare pavido e inconseguente agli occhi dei nazisti. I loro entusiasmi si rivolgono altrove: L’ebreo internazionale continua ad essere pubblicato con grande onore nel Terzo Reich con prefazioni che sottolineano il decisivo merito storico dell’autore e industriale americano (nell’aver fatto luce sulla «questione ebraica») e evidenziano una sorta di linea di continuità da Henry Ford a Adolf Hitler! (cfr. Losurdo 1991 b, 84-5). La polemica in corso su antiamericanismo e antieuropeismo pecca di ingenuità: essa sembra ignorare gli scambi culturali e le influenze reciproche tra America e Europa. Nel primo dopoguerra, Croce non aveva avuto difficoltà a sottolineare l’influenza che Theodore Roosevelt aveva esercitato su Enrico Corradini, il capo nazionalista poi confluito nel partito fascista (Croce, 1967, 251). Agli inizi del Novecento, lo statista americano aveva compiuto un viaggio trionfale in Europa, nel corso del quale aveva ricevuto una laurea honoris causa a Berlino e aveva conquistato – a notarlo questa volta è Pareto – numerosi «adulatori» (Pareto 1988, 1241-2, § 1436). La rappresentazione secondo cui gli Stati Uniti costituirebbero una sorta di spazio sacro, immune dai morbi e dagli orrori dell’Europa, è un prodotto soprattutto della guerra fredda. Non bisogna mai perdere di vista la circolazione del pensiero tra le due rive dell’Atlantico: sì, l’americano Stoddard inventa la categoria-chiave del discorso ideologico nazista ( Untermensch ), ma nel far ciò egli ha alle spalle un soggiorno di studio in Germania e la lettura della teoria cara a Nietzsche del superuomo (Losurdo 2002, 886-7). D’altro canto, mentre guarda con ammirazione al mondo della white supremacy, la reazione tedesca avverte ripugnanza e disprezzo nei confronti del melting pot . Rosenberg riferisce sdegnato che a Chicago una «grande cattedrale« cattolica «appartiene ai nigger». C’è persino un «vescovo nero» che vi celebra la messa: è l’«allevamento» di «fenomeni bastardi» (Rosenberg 1937, 471). A sua volta, Hitler sentenzia e denuncia che «sangue ebraico» scorre nelle vene di Franklin Delano Roosevelt, la cui moglie ha comunque un «aspetto negroide» (Hitler 1952-54, II, 182, conversazione del 1 luglio 1942).
6. Gli Stati Uniti, l’Occidente e la Herrenvolk democracy
A questo punto, chiaramente ideologica o mitologica si rivela la tesi della convergenza tra antiamericanismo di destra e di sinistra. In realtà, sono proprio gli aspetti messi in stato d’accusa dalla tradizione che dall’abolizionismo giunge sino al movimento comunista a suscitare simpatia e entusiasmo sul versante opposto. Quel che è amato dagli uni è odiato dagli altri, e viceversa. Ma gli uni e gli altri si trovano dinanzi al paradosso che caratterizza la storia degli Stati Uniti sin dalla sua fonadzione e che è stato così formulato, nel Settecento, dallo scrittore inglese Samuel Johnson: «Come spiegare che ad acclamare più rumorosamente la libertà sono coloro i quali sono impegnati nella caccia ai neri?» (in Foner 1998, 32). E’ un fatto: la democrazia nell’ambito della comunità bianca si è sviluppata contemporaneamente ai rapporti di schiavizzazione dei neri e di deportazione degli indios. Per trentadue dei primi trentasei anni di vita degli USA, a detenere la presidenza sono proprietari di schiavi, e proprietari di schiavi sono anche coloro che elaborano la Dichiarazione di Indipendenza e la Costituzione. Senza la schiavitù (e la successiva segregazione razziale) non si può comprendere nulla della «libertà americana»: esse crescono assieme, l’una sostenendo l’altra (Morgan 1975). Se la «peculiar institution» (la schiavitù) assicura il ferreo controllo delle classi «pericolose» già sui luoghi di produzione, la mobile frontiera e la progressiva espansione ad Ovest disinnescano il conflitto sociale trasformando un potenziale proletariato in una classe di proprietari terrieri, a spese però di popolazioni condannate ad essere rimosse o spazzate via. Dopo il battesimo della guerra d’indipendenza, la democrazia americana conosce un ulteriore sviluppo, negli anni ‘30 dell’Ottocento, con la presidenza Jackson: la cancellazione, in larga parte, delle discriminazioni censitarie all’interno della comunità bianca va di pari passo col vigoroso impulso impresso alla deportazione degli indios e col montare di un clima di risentimento e di violenza a danno dei neri. Una considerazione analoga può essere fatta anche per la cosiddetta «età progressista» che, partendo dalla fine del secolo scorso, abbraccia i primi tre lustri del Novecento: essa è caratterizzata certo da numerose riforme democratiche (che assicurano l’elezione diretta del Senato, la segretezza del voto, l’introduzione delle primarie e dell’istituto del referendum ecc.), ma costituisce al tempo stesso un periodo particolarmente tragico per neri (bersaglio del terrore squadristico del Ku Klux Klan) e indios (spogliati delle terre residue e sottoposti ad un processo di spietata omologazione che intende privarli persino della loro identità culturale). A proposito di questo paradosso che caratterizza la storia del loro paese, autorevoli studiosi statunitensi hanno parlato di Herrenvolk democracy , cioè di democrazia che vale solo per il «popolo dei signori» (per usare il linguaggio caro poi a Hitler) (Berghe 1967; Fredrickson 1987). La netta linea di demarcazione, tra bianchi da una parte e neri e pellerossa dall’altra, favorisce lo sviluppo di rapporti di uguaglianza all’interno della comunità bianca. I membri di un’aristocrazia di classe o di colore tendono ad autocelebrarsi come i “pari”; la netta disuguaglianza imposta agli esclusi è l’altra faccia del rapporto di parità che s’instaura tra coloro che godono del potere di escludere gli «inferiori». Dobbiamo allora contrapporre positivamente l’Europa agli Stati Uniti? Sarebbe una conclusione precipitosa e errata. In realtà, la categoria di Herrenvolk democracy può essere utile anche per spiegare la storia dell’Occidente nel suo complesso. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, l’estensione del suffragio in Europa va di pari passo col processo di colonizzazione e con l’imposizione di rapporti di lavoro servili o semiservili alle popolazioni assoggettate; il governo della legge nella metropoli s’intreccia strettamente con la violenza e l’arbitrio burocratico e poliziesco e con lo stato d’assedio nelle colonie. E’ in ultima analisi lo stesso fenomeno che si verifica nella storia degli Stati Uniti, solo che nel caso dell’Europa esso risulta meno evidente per il fatto che le popolazioni coloniali, invece di risiedere nella metropoli, sono da questa separati dall’oceano.
7. Missione imperiale e fondamentalismo cristiano nella storia degli USA
E’ su un piano diverso che possiamo cogliere le reali differenze nello sviluppo politico e ideologico tra le due rive dell’Atlantico. Dopo essere stata profondamente segnata dalla grande stagione dell’illuminismo, alla fine dell’Ottocento l’Europa conosce un processo ancora più radicale di secolarizzazione: a ritenere ormai ineluttabile la «morte di Dio» sono sia i seguaci di Marx sia i seguaci di Nietzsche. Ben diverso è il quadro che presentano gli Stati Uniti. Nel 1899, la rivista Christian Oracle spiega così la decisione di cambiare il suo nome in Christian Century : «Crediamo che il prossimo secolo sarà testimone, per la cristianità, dei più grandi trionfi di tutti i secoli e che esso sarà più autenticamente cristiano di tutti quelli precedenti» (in Olasky 1992, 135). In questo momento è in corso la guerra contro la Spagna, accusata dai dirigenti USA di privare ingiustamente Cuba del suo diritto alla libertà e all’indipendenza, per di più ricorrendo, in un’isola «così vicina ai nostri confini», a misure che ripugnano al «senso morale del popolo degli Stati Uniti» e che rappresentano una «disgrazia per la civiltà cristiana» (in Commager 1963, II, 5). Richiamo indiretto alla dottrina Monroe e appello alla crociata in nome al tempo stesso della democrazia, della morale e della religione s’intrecciano strettamente per scomunicare per così dire un paese cattolicissimo e conferire il carattere di guerra santa a tutti gli effetti ad un conflitto che avrebbe consacrato il ruolo di grande potenza imperiale degli USA. Più tardi, il presidente McKinley spiega la decisione di annettere le Filippine con un’illuminazione di «Dio Onnipotente» che, dopo prolungate preghiere in ginocchio, finalmente, in una notte sino a quel momento particolarmente angosciosa, lo libera da ogni dubbio e indecisione. Non era lecito, lasciare nelle mani della Spagna la colonia o cederla «alla Francia o alla Germania, i nostri rivali commerciali in Oriente»; e neppure era lecito affidarla agli stessi filippini che, «inadatti all’autogoverno», avrebbero fatto piombare il loro paese in una condizione di «anarchia e malgoverno» ancora peggiori di quelli prodotti dal dominio spagnolo: «Non ci restava null’altro che mantenere le Filippine, che educare i filippini, innalzandoli, civilizzandoli e cristianizzandoli, e, con l’aiuto di Dio, fare il nostro meglio per loro, come nostri fratelli, per i quali, anche, Cristo è morto. E allora andai a letto, mi addormentai e dormii profondamente» (in Millis 1989, 384). Oggi sappiamo degli orrori che ha comportato la repressione del movimento indipendentista nelle Filippine: la guerriglia da esso scatenata fu fronteggiata con la distruzione sistematica dei raccolti e del bestiame, rinchiudendo in massa la popolazione in campi di concentramento dove era falcidiata da inedia e malattie e in certi casi ricorrendo persino all’uccisione di tutti i maschi al di sopra dei dieci anni (McAllister Linn 1989, 27, 23). E, tuttavia, nonostante l’ampiezza dei «danni collaterali», la marcia dell’ideologia della guerra imperial-religiosa conosce una nuova trionfale tappa col primo conflitto mondiale. Subito dopo l’intervento, in una lettera al colonnello House, così Wilson si esprime a proposito dei suoi «alleati»: «Quando la guerra sarà finita, li potremo sottoporre al nostro modo di pensare per il fatto che essi, tra le altre cose, saranno finanziariamente nelle nostre mani» (in Kissinger 1994, 224). Indipendentemente da ciò, non ci sono dubbi sul fatto che «agiva un forte elemento di Realpolitik» (Heckscher 1991, 298) nell’atteggiamento da Wilson assunto sia nei confronti dell’America Latina che del resto del mondo. E, tuttavia, ciò non gli impedisce di condurre la guerra come una Crociata nel senso persino letterale del termine: i soldati americani sono «crociati» protagonisti di una «trascendente impresa» (Wilson 1927, II, 45, 414) di una «guerra santa, la più santa di tutte le guerre», destinata a far trionfare nel mondo la causa della pace, della democrazia e dei valori cristiani. E di nuovo, interessi materiali e geopolitici, ambizioni egemoniche e imperiali e buona coscienza missionaria e democratica si fondono in un’unità indissolubile e irresistibile. Con questa medesima piattaforma ideologica, gli USA affrontano gli ulteriori conflitti del Novecento. Particolarmente significativa è la vicenda della guerra fredda. Uno dei suoi protagonisti, Foster Dulles, è, secondo la definizione di Churchill, «un puritano rigoroso». Egli è orgoglioso del fatto che «nel dipartimento di Stato nessuno conosce la Bibbia meglio di me». Il fervore religioso non è un affare privato: «Sono convinto che abbiamo bisogno di far sì che i nostri pensieri e pratiche politiche riflettano in modo più fedele la fede religiosa secondo cui l’uomo ha la sua origine e i suo destino in Dio» (in Kissinger 1994, 534-5.). Assieme alla fede, altre fondamentali categorie della teologia irrompono nella lotta politica a livello internazionale: i paesi neutrali che si rifiutano di prender parte alla Crociata contro l’Unione Sovietica si macchiano di «peccato», mentre gli USA che si pongono alla testa di tale Crociata sono il «popolo morale» per eccellenza (in Freiberger 1992, 42-3). A guidare questo popolo che si distingue da tutti gli altri per la sua moralità e la sua vicinanza a Dio è, nel 1983, Ronald Reagan. Questi dà impulso alla fase culminante della guerra fredda, destinata a sancire la disfatta del nemico ateo, con un linguaggio esplicitamente e squillantemente teologico «Nel mondo c’è peccato e male e dalla Scrittura e da Gesù Nostro Signore siamo obbligati ad opporci ad essi con tutte le nostre forze» (in Draper 1994, 33). Veniamo infine ai giorni nostri. Nel discorso che inaugura il suo primo mandato presidenziale, Clinton non è meno religiosamente ispirato dei suoi predecessori e del suo successore: «Oggi celebriamo il mistero del rinnovamento americano». Dopo aver ricordato il patto intercorso tra «i nostri padri fondatori» e «l’Onnipotente», Clinton sottolinea: «La nostra missione è senza tempo» (Lott 1994, 366). Riallacciandosi a questa tradizione e radicalizzandola ulteriormente, George W. Bush ha condotto la sua campagna elettorale proclamando un vero e proprio dogma: «La nostra nazione è eletta da Dio e ha il mandato della storia per essere un modello per il mondo» (Cohen 2000). Come si vede, nella storia degli Stati Uniti la religione è chiamata a svolgere a livello internazionale una funzione politica di primo piano. Siamo in presenza di una tradizione politica americana che si esprime con un linguaggio esplicitamente teologico. Più che alle dichiarazioni rilasciate dai capi di Stato europei, le «dottrine» di volta in volta enunciate dai presidenti statunitensi fanno pensare alle encicliche e ai dogmi diffuse o proclamati dai pontefici della Chiesa cattolica. I discorsi inaugurali dei presidenti sono delle vere e proprie cerimonie sacre. Mi limito a due esempi. Nel 1953, dopo aver invitato i suoi ascoltatori ad inchinare il capo dinanzi a «Dio onnipotente», rivolgendosi direttamente a Lui, Eisenhower esprime questo auspicio : « che tutto possa svolgersi per il bene del nostro amato paese e per la Tua gloria. Amen» (Lott 1994, 302). In questo caso balza agli occhi con particolare evidenza l’identità che c’è tra Dio e America. A quasi mezzo secolo di distanza il quadro non cambia. Abbiamo visto in che modo si apre il discorso inaugurale di Clinton. Ma vediamo in che modo si conclude. Dopo aver citato la sacra «Scrittura», il neo-presidente termina così: «Da questa vetta della celebrazione noi udiamo una chiamata al servizio nella valle. Abbiamo sentito le trombe. Abbiamo fatto il cambio della guardia. Ed ora, ciascuno a suo modo e con l’aiuto di Dio, dobbiamo rispondere alla chiamata. Grazie e che Dio vi benedica tutti» (Lott 1994, 369). E di nuovo, gli Stati Uniti sono celebrati come la città sulla collina, la città benedetta da Dio. Nel discorso pronunciato subito dopo la sua rielezione, Clinton sente il bisogno di ringraziare Dio di averlo fatto nascere americano. Dinanzi a questa ideologia, anzi a questa teologia della missione l’Europa si è sempre trovata a disagio. E’ nota l’ironia di Clemenceau a proposito dei quattordici punti di Wilson: il buon Dio aveva avuto la modestia di limitarsi a dieci comandamenti! Nel 1919, in una lettera privata, John Maynard Keynes definisce Wilson «il più grande impostore della terra» (In Skidelsky, 1989, p. 444). In termini forse ancora più aspri si esprime Freud, a proposito della tendenza dello statista americano a ritenersi investito di una missione divina: siamo in presenza di «spiccatissima insincerità, ambiguità e inclinazione a rinnegare la verità»; d’altro canto, già Guglielmo II riteneva di essere «un uomo prediletto della Provvidenza» (Freud, 1995, 35-6). Ma qui Freud si sbaglia; egli rischia di accostare due tradizioni ideologiche assai diverse. E’ vero, anche l’Imperatore tedesco non disdegna di abbellire con motivi religiosi le sue ambizioni espansionistiche: rivolgendosi alle truppe in partenza per la Cina, egli invoca la «benedizione di Do» su un’impresa chiamata a stroncare nel sangue la rivolta dei Boxers e a diffondere il «cristianesimo» (Röhl 2001, 1157); è incline a considerare i tedeschi come «il popolo eletto di Dio» (Röhl 1993, 412). Lo stesso Hitler dichiara di sentirsi chiamato a svolgere «l’opera del Signore» e di voler obbedire alla volontà dell’«Onnipotente» (Hitler 1939, 70, 439), tanto più che i tedeschi sono «il popolo di Dio» (in Rauschning 1940, 227). D’altro canto, è noto e famigerato il motto Gott mit uns (Dio con noi)… E, tuttavia, non bisogna sopravvalutare il peso di queste dichiarazioni e di questi motivi ideologici. In Germania (la patria di Marx e di Nietzsche) il processo di secolarizzazione è assai avanzato. L’invocazione della «benedizione di Dio» da parte di Guglielmo II non viene presa sul serio neppure nei circoli sciovinisti: almeno agli occhi dei loro esponenti più avveduti (Maximilian Harden), ridicoli appaiono il ritorno ai «giorni delle Crociate» e la pretesa di «conquistare il mondo al Vangelo»; «così gironzolano attorno al Signore i visionari e gli speculatori furbi» (in Röhl 2001, 1157). Sì, prima ancora di ascendere al trono, il futuro imperatore celebra i tedeschi come «il popolo eletto di Dio», ma a prenderlo in giro è già la madre, figlia della regina Vittoria e incline, semmai, a rivendicare il primato dell’Inghilterra (Röhl 1993, 412). E’ un punto, quest’ultimo, su cui conviene riflettere ulteriormente. In Europa i miti genealogici imperiali si sono in una certa misura neutralizzati a vicenda; le famiglie reali erano tutte imparentate tra di loro sicché, nell’ambito di ognuna di esse, si affrontavano idee di missione e miti genealogici imperiali tra loro diversi e contrastanti. A screditare ulteriormente queste idee e queste genealogie ha inoltre provveduto l’esperienza catastrofica di due guerre mondiali; d’altro canto, nonostante la sua finale sconfitta, qualche traccia ha pur lasciato nella coscienza europea la decennale agitazione comunista condotta in nome della lotta contro l’imperialismo e in nome del principio dell’uguaglianza delle nazioni. Il risultato di tutto ciò è chiaro: in Europa risulta priva di credibilità ogni idea di missione imperiale e di elezione divina agitata da questa o quella nazione; non c’è più spazio per l’ideologia imperial-religiosa che un ruolo così centrale occupa negli Stati Uniti. Per quanto riguarda in particolare la Germania, la storia che va dal Secondo al Terzo Reich presenta un’oscillazione tra la nostalgia di un paganesimo guerresco e incentrato attorno al culto di Wotan e l’aspirazione a trasformare il cristianesimo in una religione nazionale, chiamata a legittimare la missione imperiale del popolo tedesco. Questo secondo tentativo trova la sua espressione più compiuta nel movimento dei Deutsche Christen , i «cristiani tedeschi». Poco credibile a causa già del processo di secolarizzazione che, oltre alla società nel suo complesso, aveva investito la stessa teologia protestante (si pensi a Karl Barth e a Dietrich Bonhoeffer) e poco credibile altresì a causa delle simpatie paganeggianti dei dirigenti del Terzo Reich, questo tentativo non poteva avere che scarso seguito. La storia degli Stati Uniti è, invece, attraversata in profondità dalla tendenziale trasformazione della tradizione ebraico-cristiana in quanto tale in una sorta di religione nazionale che consacra l’ exceptionalism del popolo americano e la missione salvifica a lui affidata. Ma questo intreccio di religione e politica non è sinonimo di fondamentalismo? Non è un caso che il termine fondamentalismo compare per la prima volta in ambito statunitense e protestante e come auto-designazione positiva e orgogliosa di sé. Possiamo ora comprendere i limiti dell’approccio di Freud e Keynes: ovviamente, nelle amministrazioni americane che via via si succedono non mancano gli ipocriti, i calcolatori, i cinici, ma non c’è motivo per dubitare della sincerità ieri di Wilson oggi di Bush jr. Non bisogna perdere di vista il fatto che siamo in presenza di una società scarsamente secolarizzata, nell’ambito della quale il 70 per cento degli abitanti crede nel diavolo e più di un terzo degli adulti pretende che Dio parli loro direttamente (Gray 1998, 126; Schlesinger jr., 1997). Ma questo è un elemento di forza, non già di debolezza. La tranquilla certezza di rappresentare una causa santa e divina facilita non solo la mobilitazione corale nei momenti di crisi, ma anche la rimozione o bagatellizzazione delle pagine più nere della storia degli Usa. Sì, nel corso della guerra fredda Washington ha inscenato in America Latina sanguinosi colpi di Stato e imposto feroce dittature militari, mentre in Indonesia, nel 1965, ha promosso il massacro di alcune centinaia di migliaia di comunisti o di filo-comunisti; ma, per spiacevoli che possano essere, questi dettagli non sono in grado di offuscare la santità della causa incarnata dall’«Impero del Bene». E’ più vicino alla verità Weber allorché, nel corso della prima guerra mondiale, denuncia il «cant» americano (Weber 1971, 144). Il «cant» non è la menzogna e neppure, propriamente, l’ipocrisia cosciente; è l’ipocrisia di chi riesce a mentire anche a se stesso; è un po’ la falsa coscienza di cui parla Engels. Sia in Keynes sia in Freud si manifestano al tempo stesso la forza e la debolezza dell’illuminismo. Largamente immunizzata dall’ideologia imperial-religiosa che imperversa al di là dell’Atlantico, l’Europa si rivela tuttavia incapace di comprendere adeguatamente questo intreccio tra fervore morale e religioso da un lato e lucido e spregiudicato perseguimento dell’egemonia politica, economica e militare a livello mondiale dall’altro. Ma è questo intreccio, anzi questa miscela esplosiva, è questo peculiare fondamentalismo a costituire oggi il pericolo principale per la pace mondiale. Più che ad una nazione determinata, il fondamentalismo islamico fa riferimento ad una comunità di popoli, i quali, non senza ragione, ritengono di essere il bersaglio di una politica di aggressione e di occupazione militare. Il fondamentalismo statunitense, invece, trasfigura e inebria un paese ben determinato che, forte della sua consacrazione divina, considera irrilevante l’ordinamento internazionale vigente, le leggi puramente umane. E’ in questo quadro che va collocata la delegittimazione dell’Onu, la sostanziale messa fuori gioco della Convenzione di Ginevra, le minacce rivolte non solo ai nemici ma persino agli «alleati» della Nato.
8. Dalla campagna contro la «drapetomania» alla campagna contro l’antiamericanismo
Oltre che a combattere il «male» e a diffondere i valori cristiani e americani, la guerra contro l’Irak, e le altre che si profilano all’orizzonte, hanno il compito di espandere la democrazia nel mondo. Quale credibilità ha quest’ultima pretesa? Ritorniamo al giovane indocinese che abbiamo visto denunciare, nel 1924, l’orrore dei linciaggi contro i neri. Dieci anni più tardi, egli ritorna nella sua terra d’origine per assumere il nome, divenuto poi celebre in tutto il mondo, di Ho Chi Minh. Nel momento dei feroci bombardamenti scatenati da Washington avrà pensato il dirigente vietnamita all’orrore della violenza anti-nera scatenata dai campioni della white supremacy ? In altre parole, l’emancipazione degli afro-americani e la conquista da parte loro dei diritti civili e politici ha realmente significato una svolta oppure gli Stati Uniti continuano in sostanza ad essere una Herrenvolk democracy , anche se gli esclusi non sono più da ricercare sul territorio metropolitano ma al di fuori di esso, come d’altro canto a lungo si è verificato nell’ambito della storia della «democrazia» europea? Possiamo esaminare il problema da una diversa prospettiva, a partire da una riflessione di Kant: «Cos’è un monarca assoluto ? E’ colui che quando comanda -la guerra deve essere,- la guerra segue». Ad essere qui presi di mira non sono gli Stati dell’Antico regime, bensì l’Inghilterra, che pure aveva alle sue spalle un secolo di sviluppo liberale (Kant 1900, 90 nota). Dal punto di vista del grande filosofo, il presidente degli Stati Uniti dovrebbe essere considerato dispotico due volte. In primo luogo, a causa dell’emergere negli ultimi decenni di una «imperial presidency» che, nell’intraprendere azioni militari, mette spesso il Congresso dinanzi al fatto compiuto. In questa sede, ci interessa soprattutto il secondo aspetto: la Casa Bianca decide in modo sovrano quando le risoluzioni dell’Onu sono vincolanti e quando non lo sono; decide in modo sovrano chi sono i rogue States , contro i quali è lecito imporre l’embargo, affamando un intero popolo, ovvero è lecito scatenare l’inferno di fuoco, compresi i proiettili ad uranio impoverito e le cluster bombs che continuano ad infierire sulla popolazione civile ben al di là della fine del conflitto. Sempre in modo sovrano, la Casa Bianca decide l’occupazione militare di questi paesi per tutto il tempo che essa ritiene necessario, condannando all’ergastolo o incarcerando i loro dirigenti e i loro «complici». Contro di loro e contro i «terroristi» è lecito ricorrere anche al targeted killing , ovvero ad un killing tutt’altro che targeted , ad esempio il bombardamento di un normale ristorante dove si ritiene che possa trovarsi Saddam Hussein… E’ chiaro che le garanzie giuridiche non valgono per i «barbari». Anzi, a ben guardare, come dimostra il Patriot Act , la rule of law non si applica neppure per coloro che, pur non essendo« barbari» nel senso stretto del termine, sono tuttavia sospettabili di fare il loro gioco. E’ interessante esaminare la storia alle spalle dell’espressione « rogue States ». A lungo, tra Sei e Settecento, in Virginia i semi-schiavi, gli schiavi a tempo di pelle bianca, allorché venivano catturati dopo la fuga cui spesso cercavano di far ricorso, erano marchiati a fuoco con la lettera R (che stava per « Rogue »): resi così immediatamente riconoscibili, non avevano più via di scampo. Più tardi, il problema dell’identificazione veniva risolto definitivamente sostituendo ai semi-schiavi bianchi gli schiavi neri: il colore della pelle rendeva superflua la marchiatura a fuoco, il nero era già di per sé sinonimo di Rogue . Ora ad essere marchiati come «Rogue» sono interi Stati. La Herrenvolk democracy è dura a morire… Ma questa è una storia vecchia. Nuova è invece l’insofferenza crescente che Washington mostra nei confronti degli «alleati». Anche loro sono chiamati a inchinarsi, senza troppe tergiversazioni, al volere della nazione eletta da Dio. Ben si comprendono le perplessità e le reazioni negative che provoca l’atteggiarsi da parte del presidente degli Stati Uniti a sovrano planetario non vincolato e non limitato da nessun organismo internazionale. Ed ecco che gli ideologi della guerra gridano allo scandalo per il diffondersi di questo morbo terribile che, come sappiamo, è l’antiamericanismo. Per singolare che sia tale reazione, essa non è priva di analogie storiche. Alla metà dell’Ottocento, nel sud degli Stati Uniti il regime schiavista è vivo e vitale. E’, tuttavia, già si diffondono i primi dubbi e le prime inquietudini: aumenta il numero degli schiavi fuggitivi. Questo fenomeno non solo allarma ma stupisce gli ideologi della schiavitù e della white supremacy : com’è possibile che persone “normali” si sottraggano ad una società così bene ordinata e alla gerarchia della natura? Deve senza dubbio trattarsi di un morbo, di una turba psichica. Ma di cosa propriamente si tratta? Nel 1851, Samuel Cartwright, chirurgo e psicologo della Louisiana, ritiene finalmente di poter giungere ad una spiegazione che egli comunica ai suoi lettori dalle colonne di un’autorevole rivista scientifica, il «New Orleans Medical and Surgical Journal». Prendendo le mosse dal fatto che nel greco classico drapeths è lo schiavo fuggitivo, lo scienziato conclude trionfalmente che la turba psichica, il morbo che spinge gli schiavi neri alla fuga è per l’appunto la «drapetomania» (in Eakin, 2000). La campagna ai giorni nostri in corso contro l’antiamericanismo ha molti punti di contatto con la campagna scatenata oltre un secolo e mezzo fa contro la drapetomania!
Riferimenti bibliografici
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Sull’eugenetica tra Stati Uniti e Germania cfr. Kühl 1994, 61; il lusinghiero giudizio del presidente Harding è riportato ad apertura della versione francese di Stoddard 1925 ( Le flot montant des peuples de couleur contre la suprematie mondiale des Blancs , tr. fr. dall’americano di Abel Doysié, Paris, Payot). Si veda la testimonianza di Felix Kersten, il massaggiatore finlandese di Himmler, nel Centre de documentation Juive contemporaine di Parigi (Das Buch von Henry Ford, 22 December, 1940, n. CCX-31); su ciò cfr. Poliakov 1977, 278, e Losurdo 1991 b, 83-85.
EUGENETICA
Nell’America dei figli della cicogna nera
il manifesto 2 agosto 2005
Per oltre 50 anni medici e burocrati del servizio sanitario Usa hanno applicato ai bambini problematici principi dell’allevamento del bestiame: isolare ed eliminare i ceppi di qualità inferiore. Dunque, marchiati e rinchiusi in istituti «speciali». Michael D’Antonio in «La rivolta dei figli dello Stato», Fandango, ricostruisce la storia di un gruppo di questi ragazzi
MANFRED
Sulle colline prospicienti Boston alla metà degli anni Cinquanta si distendono due agglomerati per la cura delle malattie mentali. Il primo è composto dagli edifici simil-vittoriani del McLean Hospital. Qui, pazienti di estrazione aristocratica o altoborghese e celebrità del mondo artistico (poeti come Robert Lowell e Sylvia Plath) trascorrono le estati giocando a cricket o a tennis e gli inverni pattinando o sciando, immersi in un parco vasto e lucente che si dirama a perdita d’occhio senza che guardie, custodi, recinti o cancelli ne sanciscano la matrice manicomiale. Matrice che emerge, per contrappasso, nelle stanze adibite alla cura neuropsicologica, in cui si procede non solo all’idroterapia e alla cura del sonno, ma anche all’induzione dell’attacco epilettico attraverso metazol per «dinamizzare» gli stati psicotici, all’elettroshock e alla lobotomia sperimentale praticata secondo i dettami, a dir poco discutibili, del neuroanatomista portoghese Egas Moniz. A poche miglia dal McLean, sulla collina di Waltham, si erge invece l’ircocervo architettonico – metà castello, metà magione a mattoni rossi – della Scuola Statale Fernald per bambini «deboli di mente» (vedi ora il libro di Michael D’Antonio, La rivolta dei figli dello Stato, fondato su documenti inediti e numerose testimonianze). A differenza che al McLean, qui le stesse procedure terapeutiche estreme non godono di alcuna emulsione ambientale.
Alla Fernald non si accede per scelta, ma per una coazione conseguente a dilettantesche valutazioni di quozienti d’intelligenza; non vi si arriva su carrozze o berline d’ordinanza, ma su volanti della polizia o su auto scalcinate di assistenti sociali; non ci sono infermiere che assecondano i capricci del paziente servendo aragosta al posto dell’agnello, ma «sorveglianti» che instradano ogni momento dei «residenti» nello spazio-tempo chiuso e compressivo della più classica delle istituzioni totali.
Il bambino o il ragazzo recluso ne conosce in successione – in tempi scanditi dal suo adattamento più o meno problematico – le diverse sezioni: il Reparto 1, con camerate grandi come campi da tennis riempite da trentasei letti staccati di mezzo metro (alla lunga, il sovraffollamento porterà a cinquanta letti incastrati come mattoni di un lego); il punitivo Reparto 22, con celle d’isolamento e strutture adibite alla sperimentazione neurochirurgica e all’elettroshock; l’Edificio Nord o «fossa dei serpenti» (come nell’omonimo film di Anatole Litvak), plesso dal pavimento incurvato con un centinaio di degenti nudi – anziani gravemente disabili – usato occasionalmente come alternativa al Reparto 22 per piegare gli indisciplinati, costringendoli a pulire le feci e l’urina dai muri o dalle piastrelle; e infine la Stanza Blu, vano di docce per lavare quei corpi dalle loro emissioni incontrollate.
Nello stesso tempo, il «residente» della Fernald – un bambino come il nero Freddie Boyce, entrato a sette anni nel `49 e uscito nel `60, ed eletto da Michael D’Antonio a sotterraneo io narrante del libro – deve addomesticare lo shock plurimo della nuova situazione. Una volta incapsulato nella divisa con camicia, pantaloni di tessuto grezzo e scarpe nere, deve cioè affrontare, per un verso, l’aggressione di quello che un grande psichiatra come Harold F. Searles ha definito «l’ambiente non umano», rispondendo a un accerchiamento polisensoriale che passa per impatti visivi (il «verde pallido» delle camerate), olfattivi (il «cibo cotto» della mensa, causa di frequenti blocchi anoressici) e soprattutto auditivi, con il giorno e la notte tramati da «cacofonie assordanti», dai grugniti dei bambini più compromessi, dai «lamenti ritmici» e dai gemiti dell’Edificio Nord, e da un silenzio ancora più esasperante dei suoni che lo violano. Per un altro verso – anche se i due livelli, come è ovvio, non si possono disgiungere -, deve venire a patti con il personale della scuola e con i compagni.
I «sorveglianti» sono per la maggior parte cerberi sadici, inclini a un inventivo ventaglio di punizioni: James McGinn – il loro prototipo – alterna colpi di mestolo sul cranio, strattoni ai testicoli, costrizioni di positura (quella in equilibrio sulla rete del letto colla pressione sui tendini rotulei); mentre la più metodica Phyllis l’Antiqua si avvicina in silenzio alle vittime colpendole con schiaffi improvvisi o con percussioni simmetriche alle orecchie. Quanto ai compagni, nel gruppo vige una gerarchia col vertice occupato dai «Capi» – spesso i ragazzi più problematici sul piano psicosociale – e il fondo occupato dai «Tonti», quelli più inerti sul piano cerebrale.
E non sorprende che tra personale e internati si instauri una complicità opaca soprattutto a livello di ritualità sessuale. Essendo infatti episodici i rapporti con le donne – qualche bacio occulto o uno sfioramento di seno nelle sortite clandestine al Dormitorio Femminile – tutto si risolve in una promiscuità multipla: perché agli abusi dei «sorveglianti» sui «residenti» (dalle fellatio attive e passive alle masturbazioni alle sodomie) si assommano quelli dei «Capi» sui novizi, con tanto di protezione annessa, secondo schema carcerario. Così come, ancora secondo schema carcerario, i «sorveglianti» tollerano spesso le sopraffazioni dei «Capi».
Buona parte dell’aggressività e della tensione nella Fernald non è riconducibile però solo ai limiti costitutivi dell’istituzione di controllo (al «sorvegliare e punire»), alla chiusure delle prospettive psicologiche (coi cattivi puniti e i buoni mai premiati), alla scissione tra un «dentro» sociale alienante e un «fuori» inattingibile (e l’irruzione della televisione che accentua il fenomeno); è dovuta soprattutto all’alta percentuale di bambini «sani» che il carattere pseudoscientifico del test QI – poggiandosi sulla equivoca nozione di borderline – fagocita all’interno della scuola.
Nella sola Fernald si parla di un terzo del totale, ma la stessa percentuale è probabilmente estendibile a tutta l’ottantina di centri sparsi per il Paese, ospitanti, nell’insieme, centocinquantamila persone. Non è un caso che la progressiva revisione del test, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, arrivi a dimostrare l’infondatezza di quell’assurdo proclama deterministico, e l’incidenza profonda della componente «ambientale» nell’articolazione psichica. Gli stessi bambini della Fernald, d’altronde, incarnano la smentita dell’assunto che li condanna, con la loro impressionante capacità di apprendimento e di rendimento nelle attività agricole e artigianali svolte all’interno dell’istituto.
Come si è potuti arrivare a forgiare un simile freak, clinico-cognitivo prima e sociale poi, con tanti percorsi di vita soppressi o deviati pesantemente? D’Antonio, giustamente, ripercorre alcuni passaggi-chiave lungo la parabola dell’eugenetica americana, distante anni luce – va precisato – da quella anglosassone fondata da Sir Francis Galton, cugino di Darwin e coniatore del termine. Ricorda così in sequenza l’applicazione acritica ed equivoca dello stesso darwinismo e del mendelismo da parte di scienziati «autodidatti» come R.L. Dugdale o Alfred Binet, l’inventore del QI poi applicato; l’attivazione di un programma eugenetico americano «per la purezza della razza», giuridicamente ratificato da una sentenza atroce come quella del Presidente della Corte Suprema Oliver Wendell Holmes jr. sulla chiusura delle trombe di Falloppio della giovane Carrie Buck (1924); la conseguente castrazione-sterilizzazione di sessantaseimila persone in trenta stati (per lo più ebrei, italiani, indios, arabi) e il vanto statistico – a tutto il 1949 – sui diciannovemila bambini non-nati e il relativo risparmio sociale di 117 milioni di dollari. Così come ricorda l’entusiasmo di Theodore Roosevelt per la selezione razziale e il foraggiamento dei grandi magnati (Rockefeller, Carnegie, Harriman) allo Eugenics Record Office (Ero).
La ricostruzione, però, pecca di alcune omissioni non trascurabili. Per completare il percorso bisogna risalire a un film del 1917, da D’Antonio appena citato: The Black Stork (La cicogna nera), opera dei fratelli Leopold e Theodor Wharton e annunciato, all’uscita, da un battage di locandine in cui l’uccello del titolo vede respinti i fagotti coi neonati da comignoli e porte con scritte discriminanti. Il film mostra un medico (il famoso Harry J. Heiselden, nella parte di se stesso) che convince la madre di un bambino afflitto da sifilide congenita a sopprimerlo, prefigurandole uno scenario – qui il film ha tratti da incubo espressionista – in cui il figlio criminale produce una intera «covata» di criminali, arrivando poi a uccidere i due medici che l’hanno messo al mondo. Terrorizzata dalla visione, la madre accetta di sopprimere il neonato, vedendone l’anima innocente – nelle ultime sequenze del film – prelevata da un Cristo più simile a Rasputin.
Ora, il punto, che è anche il correlativo ideologico del film, è condiviso da influenti pensatori del tempo come Clarence Darrow e Helen Keller e, di conseguenza, da larghi settori dell’opinione pubblica. Ma non è tutto. D’Antonio omette anche alcuni nomi dirimenti di scienziati. Il primo è quello di Alfred Ploetz, il medico tedesco attivo in Iowa e nel Connecticut e primo teorizzatore della «igiene razziale». Gli altri due sono quelli di Charles Davenport e di Harry Laughlin, fondatori dello Eugenics Record Office e di quel Cold Spring Harbour che tiene a battesimo nel 1933 il piano delle sterilizzazioni naziste (quattrocentomila) stilato dallo stesso Ploetz, nel frattempo tornato in Germania. Se si aggiunge la cattedra ottenuta da Laughlin ad Heidelberg nel 1936 e la sua operatività nella diffusione di testi tedeschi sulla selezione razziale in tutti gli Stati Uniti, si potrà comprendere meglio la natura di questo mutuo feedback.
Il delirante test sul QI e la sua funzionalità ideologica a certa America wasp (non dimentichiamo le retate poliziesche nelle bidonvilles di tante metropoli contro la «spazzatura biologica») sono dunque tasselli ricorrenti in un percorso ben connotato di pseudoscienza (pseudo-eugenetica) criminosa. E che sia proprio la burocratizzazione acefala di tale ideologia pseudoscientifica ad aver prodotto il monstrum della Fernald e di altre scuole consimili, lo afferma lo stesso Freddie Boyce una volta restituito alla vita del «fuori».
Quel Freddie Boyce che ha cercato di fuggire infinite volte dalla scuola e che è stato il capofila non tanto della pur decisiva rivolta «materiale» del 4 novembre 1957 (ispirata ai ragazzi dal movimento antirazziale di Little Rock), quanto della lenta rivolta «culturale» che porterà nel tempo all’esplosione del caso-Fernald con le foto di Fred Kaplan, alle scuse ufficiali di Clinton per le sperimentazioni del controverso psichiatra Clemens E. Benda sui ragazzi del Club della Scienza (costretti, Freddie incluso, ad assumere cibo radioattivo) e al relativo risarcimento. Quel Freddie Boyce che ha sempre saputo vedere tra le pieghe della Fernald non solo le tante figure non ordinarie del personale (sorveglianti incapaci di violenza come il signor Settipane, psichiatri aperti come Kenneth Bilodeau, assistenti sociali coraggiose come Abigail Bacon) ma anche l’opacità-ottusità dei carnefici, spesso provenienti da famiglie disadattate come quelle delle loro vittime e in ogni caso plasmati da un contesto intrinsecamente più crudele della loro crudeltà individuale.
Certo, la parte finale del libro – col racconto delle tante drammatiche riemersioni degli ex residenti, stritolati dalla paura di vivere più che da quella di morire – mostra come la Fernald abbia impresso su di loro uno stigma indelebile. Sia a livello sociale, negandogli quella formazione che li avrebbe facilitati nell’inserimento professionale; sia nelle profondità affettivo-emotive, tiranneggiandoli, come una casa-madre o matrigna, in una ambivalenza insolubile tra desiderio di rimozione e rimpianto patologico, al punto che molti di loro tornano compulsivamente a contemplarla. Ma la lucidità disincantata di Freddie è la sola vera uscita possibile: perché contenendo, nella sua visione d’insieme, la ristrettezza di quella dei suoi persecutori, tratteggia in controluce – e in un colpo solo – l’ incoscienza infelice e la cattiva coscienza di un intero Paese.
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