Fausto Sorini
Liberazione 5 giugno 1999
In quanto scritto nelle pagine precedenti abbiamo visto la tragedia del WTC ed abbiamo dato un’occhiata ad Osama bin Laden. Già praticamente da subito gli USA hanno individuato l’Afghanistan come centro motore dell’attacco alle Twin Towers, nonostante che i presunti terroristi fossero 15 su 19 di provenienza saudita. In ogni caso è sull’Afghanistan che si appuntano gli interessi Usa. Vediamone le motivazioni.
“La grande scacchiera” è il titolo di un recensissimo libro di Zbigniew Brzezinski, già consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Carter, una delle teste pensanti della politica estera degli Stati Uniti. Esso espone, con esemplare chiarezza e senza infingimenti “umanitari”, il quadro strategico globale entro cui collocare e comprendere le ragioni essenziali dell’aggressione della Nato alla Repubblica Federale Jugoslava, fortissimamente voluta dagli Stati Uniti.
“Il crollo dell’Unione Sovietica – scrive l’autore – ha fatto sì che gli Stati Uniti diventassero la prima e unica potenza veramente globale, con una egemonia mondiale senza precedenti e oggi incontrastata. Ma continuerà ad esserlo anche in futuro? Per gli Stati Uniti, il premio geopolitico più importante è rappresentato dall’Eurasia, il continente più grande del globo”, che “occupa, geopoliticamente parlando, una posizione assiale, dove vive circa il 75% della popolazione mondiale ed è concentrata gran parte della ricchezza del mondo, sia industriale che nel sottosuolo. Questo continente incide per circa il 60% sul PIL mondiale e per 3/4 sulle risorse energetiche conosciute … L’Eurasia – sintetizza Brzezinski – è quindi la scacchiera su cui si continua a giocare la partita per la supremazia globale”.
“Ma se la Russia – prosegue l’autore – dovesse respingere l’Occidente, diventare una singola entità aggressiva e stringere un’alleanza con il principale attore orientale (la Cina) “, e con l’India, “allora il primato americano in Eurasia si ridurrebbe sensibilmente”. E così pure se i partner euro-occidentali, soprattutto Francia e Germania, “dovessero spodestare gli Stati Uniti dal loro osservatorio nella periferia occidentale” (così viene definita l’area dell’Unione Europea), “la partecipazione americana alla partita nello scacchiere eurasiatico si concluderebbe automaticamente”.
Quindi, conclude Brzezinski, “la capacità degli Stati Uniti di esercitare un’effettiva supremazia mondiale dipenderà dal modo con cui sapranno affrontare i complessi equilibri di forza nell’Eurasia: e la priorità deve essere quella di tenere sotto controllo l’ascesa di altre potenze regionali (predominanti e antagoniste) in modo che non minaccino la supremazia mondiale degli Stati Uniti”.
“Per usare una terminologia che riecheggia l’epoca più brutale degli antichi imperi, tre sono i grandi imperativi della geo-strategia imperiale: impedire collusioni e mantenere tra i vassalli la dipendenza in termini di sicurezza, garantire la protezione e l’arrendevolezza dei tributari e impedire ai barbari di stringere alleanze”.
Gli Stati Uniti vogliono in primo luogo evitare che in Russia si affermi un potere politico influenzato dai comunisti, avverso al liberismo selvaggio che ha precipitato il Paese nella crisi più nera e volto a ristabilire una collocazione internazionale della Russia non subalterna all’Occidente. Per questo il deposto premier Primakov era ed è considerato un avversario temibile: è sostenuto da una Duma dominata dai comunisti, sorretto da un consenso popolare dell’80%, favorito alle elezioni presidenziali dell’anno prossimo, mentre il consenso degli uomini di fiducia degli Stati Uniti, come Eltsin e Cernomyrdin è precipitato al 5-10%. Anche per questo Eltsin lo ha destituito (rendendo ormai drammatico il fossato tra paese reale e paese “legale”, ai limiti di uno scontro interno che potrebbe precipitare in forme drammatiche), dopo avergli sottratto il dossier “guerra in Jugoslavia” per affidarlo a Cernomyrdin. In modo che l’eventuale successo di una mediazione diplomatica russa avvenga su una linea più docile alle volontà della Nato, e che sia il nucleo eltsiniano (e non Primakov e la sua squadra) a trarne i maggiori benefici di immagine, in vista delle prossime scadenze elettorali in Russia.
Gli Usa vogliono inoltre favorire una evoluzione della Cina per cui le forze espressione di una nuova borghesia interna legata al mercato internazionale (che auspica un legame preferenziale e docile con gli Stati Uniti) prendano gradualmente il sopravvento sulle forze sociali e politiche che restano legate a un progetto originale e inedito di lunga transizione al socialismo, con una economia mista in cui il pubblico resti comunque prevalente sul privato. Il bombardamento pianificato dell’ambasciata cinese a Belgrado, era certo un test per vedere fino a che punto la Cina era in grado di assumere sulla guerra in Jugoslavia un profilo forte e autonomo dagli Usa e la reazione degli studenti cinesi (da molti considerati ormai succubi del modello americano) è stato un segnale più che incoraggiante di tenuta di un orientamento antimperialista, di dignità nazionale, di autonomia di valori, che parla alle nuove generazioni del mondo intero. Ma quelle bombe si proponevano, da parte dei fautori della guerra totale contro la Jugoslavia, anche l’obbiettivo di inasprire le relazioni internazionali e rendere impossibile in sede Onu una risoluzione ragionevole e negoziata (non imposta dalla Nato) tra tutte le parti in causa del conflitto balcanico.
Anche sull’India, potenza nucleare, gli Usa premono per sottrarla alla sua storica collocazione di non allineamento, che conserva forti radici nel Paese, per imporle una linea di privatizzazioni selvagge e di smantellamento del ruolo dello Stato in economia (tuttora consistente) e omologarla al modello neo-liberale.
In Europa si cerca di impedire che si affermi un modello sociale diverso da quello neo-liberale ed un sistema di sicurezza alternativo alla Nato e alla tutela americana sull’Europa. Tanto più se ciò dovesse prefigurare un quadro di cooperazione economica, politica e militare di tutta l’Europa, dall’Atlantico agli Urali, passando per i Balcani. Il che configurerebbe una entità economica geopolitica e di sicurezza di prima grandezza nel panorama mondiale e scalzerebbe l’influenza predominante degli Usa sul vecchio continente. Proprio Primakov è stato e rimane uno dei più convinti assertori di questo asse Russia-Unione Europea ad Ovest, e di un altro asse Russia-Cina-India ad oriente, che marcherebbero una evoluzione multipolare degli assetti planetari e degli stessi rapporti in seno alle Nazioni Unite, minando il progetto americano di egemonia globale unipolare, che comporta invece l’affossamento dell’Onu e la trasformazione della nuova Nato a guida americana in regolatore supremo di ogni controversia internazionale.
Sul solo terreno della competizione economica l’imperialismo americano non è in grado oggi di dominare il mondo e di subordinare i suoi stessi alleati/concorrenti come Unione Europea e Giappone. Gli Usa incidevano nel dopoguerra per il 50% del PIL mondiale: oggi la percentuale si è dimezzata, ed è di poco inferiore a quella dell’Unione Europea. Spostare la competizione sul terreno militare, dove la potenza Usa è ancora di gran lunga preponderante, significa usare la guerra come strumento di egemonia economica e politica.
Anche contro l’Europa: costringendola a subire l’iniziativa e l’interventismo anglo-americano o ad entrare nel gioco della grande spartizione delle zone di influenza, ma in posizione subalterna. Come appunto è avvenuto con questa guerra.
Siamo partiti, in apparenza, da lontano, ma la conclusione è sintetica e ci tocca da vicino. Il controllo dei Balcani è strategico nella competizione per il controllo dell’Eurasia. I Balcani sono storicamente la porta per l’Oriente; da lì passano oggi oleodotti e gasdotti che trasportano le vitali risorse energetiche tra Europa e Asia. Nella contigua regione del Mar Caspio, del Mar Nero, del Caucaso gli scienziati stimano esservi giacimenti di petrolio e di gas naturale tra i maggiori del mondo. L’allargamento della Nato ad Est si propone di inglobare gradualmente tutti i paesi dell’Europa centro-orientale e dei Balcani, incluse le repubbliche europee dell’ex Unione Sovietica, per farne un grande protettorato atlantico: per controllarne le risorse e circondare una Russia non ancora “normalizzata” e dal futuro incerto. Mentre all’altro capo del continente eurasiatico, proprio in queste settimane, è andata strutturandosi una “Nato asiatica”, che comprende, in un sistema militare e di “sicurezza” integrato, gli Stati Uniti, il Giappone, la Corea del Sud e strizza l’occhio a Taiwan, cui si assicura “protezione”.
Che cosa accadrebbe domani se gli Stati Uniti decidessero di dare vita ad una nuova UCK in Cecenia, in Daghestan; in Tibet o magari a Taiwan?
La Jugoslavia rappresentava, agli inizi degli anni ’90, un ostacolo alla normalizzazione dei Balcani. Facendo leva su processi disgregativi interni e ataviche tensioni etniche e nazionali, alimentate dalla crisi dell’esperienza socialista jugoslava (che richiederebbe un discorso a parte), la Germania prima e gli Usa poi hanno spinto per la disintegrazione del paese (attizzare il fuoco, disgregare, per poi intervenire, assumere il controllo, colonizzare). Da qui la secessione della Slovenia, della Croazia, della Macedonia, della Bosnia, e la trasformazione dell’Albania in una grande base Nato nel Mediterraneo. Restava ancora da spappolare la Repubblica Federale Jugoslava, e soprattutto l’indocile Serbia. Così fu aperto il dossier Kossovo, dove certo non mancavano i presupposti per gettare benzina sul fuoco. E dove la parte più estrema del nazionalismo serbo, con forti appoggi nel governo di Belgrado, aveva colpevolmente contribuito ad esasperare i rapporti con la popolazione kossovara di origine albanese: a sua volta sospinta dall’UCK, armata dagli americani, a precipitare la regione nella guerra civile, per poi invocare l’intervento “liberatore” della Nato.. Ma questa è storia dei giorni nostri; anzi, cronaca.
Eurasia,
centro del potere mondiale
Zbigniew Brzezinski
Una delle figure chiave fra gli esperti della politica estera USA. Ex consigliere per la sicurezza nazionale per il presidente Carter; membro del Council on Foregn Relations; collabora al Center for Strategic and International Studies (CSIS); è professore alla Paul Nitze School for Advanced International Studies, Johns Hopkins University, Washington, DC. E’ autore di diversi libri sulla politica internazionale, fra cui Out of Control: Global Turmoil on the Eve of the 21st Century e The Grand Chessboard: American Primacy and its Geostrategic Imperatives.
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Da quando esiste un’interazione politica fra i continenti, da circa cinque secoli or sono, l’Eurasia è il centro del potere mondiale. Le sue popolazioni, in diverse epoche e in diversi modi, invasero e dominarono le altre regioni del modo; i singoli Stati dell’Eurasia si sono avvicendati al rango di prima potenza mondiale, godendone i privilegi connessi.
Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a veri e propri sconvolgimenti in politica internazionale. Per la prima volta nella storia, una potenza non Eurasiatica non soltanto ha assunto il ruolo di arbitro nell’equilibrio delle forze in questo continente, ma ha al contempo conquistato il dominio mondiale. Il collasso e il crollo dell’Unione Sovietica hanno rappresentato l’ultimo gradino nella rapida ascesa di una potenza Occidentale, gli Stati Uniti, al rango di prima ed unica potenza mondiale.
L’Eurasia conserva tuttavia la propria rilevanza geopolitica. Infatti, l’Europa – la sua zona occidentale – ha ancora in sé buona parte del potere economico e politico mondiale. Anche l’Asia orientale si è trasformata in un centro vitale di sviluppo economico e di crescente peso politico. La capacità degli USA di esercitare un’effettiva supremazia mondiale dipenderà quindi da come sapranno affrontare la complessità degli equilibri di forze in Eurasia, in primo luogo scongiurando l’emergenza di una potenza dominante e antagonista in questa regione.
Quindi, oltre alle questioni connesse con i nuovi strumenti di potere (tecnologici, mediatici, informatici, commerciali e finanziari), la politica estera Americana dovrà tenere conto della dimensione geopolitica. E dovrà far sentire la sua influenza sull’Eurasia per garantire un equilibrio continentale stabile, del quale gli USA siano l’arbitro politico.
L’Eurasia resta quindi la scacchiera sulla quale si giocherà la partita per la supremazia mondiale – e questo richiede un’intelligenza geostrategica, vale a dire l’essere in grado di elaborare una strategia funzionale ai propri interessi geopolitici. Ricordiamo che, ancora nel 1940, due uomini politici che aspiravano all’egemonia mondiale, Stalin e Hitler, concordarono esplicitamente sull’opportunità di escludere l’America dall’Eurasia (nei negoziati segreti del novembre ’40). Temevano infatti che la proiezione della potenza Americana su questa massa continentale avrebbe demolito i loro progetti di supremazia mondiale. Certi che l’Eurasia fosse il centro del mondo, pensavano che chi ne avesse avuto il controllo, avrebbe controllato il pianeta intero. A mezzo secolo di distanza, la questione si pone in termini diversi: durerà la supremazia USA in Eurasia? E a quali fini verrà esercitata?
Il fine ultimo della politica americana dovrebbe essere positivo e utopistico: creare una comunità internazionale fondata su una reale cooperazione, coerente con aspirazioni di vecchia data e capace di garantire gli interessi fondamentali dell’umanità.
Ma, per il momento, è assolutamente indispensabile che non emerga nessuna potenza capace di dominare l’Eurasia e quindi sfidare l’America.
Washington, aprile 1997
Perché Washington vuole l’Afghanistan
di Jared Israel, Rick Rozoff & Nico Varkevisser
Traduzione di Luca, Vicenza. [18 Settembre 2001]
Versione originale: http://emperors-clothes.com/analysis/afghan.htm
“Il mio Paese comprende realmente che questa è la Terza Guerra Mondiale? E se questo attacco è la Pearl Harbor della Terza Guerra Mondiale, significa che abbiamo davanti una lunga, lunga guerra”. (Thomas Friedman, ‘New York Times,’ 13 settembre 2001)
Gli uomini chiave del governo Usa e dei media hanno usato il bombardamento del World Trade Center e del Pentagono per creare uno stato internazionale di paura. Questo ha portato i più vicini alleati di Washington (in particolare Germania e Gran Bretagna, ma non l’Italia) ad accordare carta bianca per quanto riguarda la loro partecipazione alle rappresaglie Usa.
Ed è servito ad oscurare la domanda più importante: Washington nasconde altre intenzioni, una strategia che va oltre lo sganciare bombe? E se esiste, cos’è, e che conseguenze ha per il mondo?
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Alcuni titoli di prima pagina dei principali giornali statunitensi:
“Terza Guerra Mondiale” (‘New York Times,’ 13/9)
“Diamo una chance alla guerra” (‘Philadelphia Inquirer,’ 13/9)
“E’ il momento di usare l’opzione nucleare” (‘Washington Times,’ 14/9).
Inizialmente, una serie di stati è stato minacciato in quanto “sostenitori del terrorismo”, che non sono “con noi”, perciò sono “contro di noi”: Cuba, Iran, Iraq, Libia, Corea del Nord, Sudan e Siria.
Pur diversi per molti aspetti, essi hanno in comune tre cose: hanno affrontato decenni di ostilità degli Stati Uniti, i loro governi sono laici e non hanno connessioni con Osama bin Laden.
In “Diamo una chance alla guerra” (‘Philadelphia Inquirer’) David Perlmutter ha avvertito che, se questi paesi non ubbidiranno agli ordini di Washington, essi dovranno: “Prepararsi alla distruzione sistematica di tutte le centrali energetiche, tutte le raffinerie, tutti gli oleodotti, tutte le installazioni militari, tutti gli uffici governativi in tutta la nazione… il collasso totale della loro economia per una generazione.”
I paesi che collaborarono alla creazione del regime talebano, addestrando e finanziando le forze di Osama bin Laden, e che non hanno mai smesso di versare fondi ai Talebani – cioè il Pakistan, i fedeli alleati degli Usa Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, e gli Stati Uniti stessi – non sono stati messi nella lista dei “nemici”. Al contrario, sono tutti alleati nella Nuova Guerra Mondiale contro il terrorismo.
E solo ieri, tanto per alzare il tiro, il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld ha detto: “Gli Stati Uniti si impegneranno in uno sforzo multilaterale per colpire le organizzazioni terroristiche nei 60 paesi che le sostengono. Non abbiamo altra scelta”.
La minaccia di bombardare un terzo delle nazioni del mondo ha spaventato molta gente. E questa, secondo noi, ne era l’intenzione. Per due motivi.
Primo, se Washington limiterà i suoi attacchi, aggredendo principalmente l’Afghanistan, il mondo tirerà un sospiro di sollievo.
E noi pensiamo che Washington attaccherà fortemente l’Afghanistan – per primo. Altre violazioni di sovranità, oltre all’uso forzato del Pakistan come base per gli attacchi, seguiranno a sostegno dell’iniziativa principale. Potrebbe svilupparsi ad esempio altro terrorismo di stato, come un aumento dei bombardamenti non provocati sull’Iraq (come diversivo).
Ma al centro dell’attenzione nell’immediato, noi pensiamo ci sarà l’Afghanistan.
Secondo, questa tattica del terrore serve a distrarre dalla strategia principale di Washington, molto più pericolosa della minaccia di bombardare numerosi paesi.
Washington vuole impossessarsi dell’Afghanistan al fine di accelerare il completamento della frammentazione delle repubbliche ex sovietiche, così come ha distrutto la ex Jugoslavia.
E questo è il più grave dei rischi che corre l’umanità.
COSA VUOLE WASHINGTON DAL MISERO AFGHANISTAN?
Per rispondere a questa domanda bisogna prendere la carta geografica dell’Europa e dell’Asia. Considerate l’enorme estensione dell’ex Unione Sovietica, in particolare della Russia.
La Russia non è solo molto estesa, possiede ricchezze incalcolabili (la maggior parte non ancora sfruttate), ma è l’unica potenza nucleare mondiale oltre agli Usa.
A dispetto di ciò che crede l’opinione pubblica, la potenza militare russa non è stata distrutta; anzi, è decisamente più forte, in relazione agli Usa, che durante il primo periodo della Guerra Fredda.
Se gli Stati Uniti riusciranno a frantumare la Russia e le altre repubbliche ex sovietiche in entità deboli e controllate dalla Nato, Washington avrà le mani libere per sfruttare le immense ricchezze di quelle terre dove e come vorrà, senza temere reazioni.
E a dispetto delle chiacchiere che parlano di una collaborazione tra Russia e Stati Uniti, e nonostante i gravi danni provocati in Russia dal Fondo Monetario Internazionale, queste rimangono le intenzioni della politica Usa. (3)
L’Afghanistan ha una posizione strategica, non solo perché confina con Iran, India, e persino (con una piccola striscia) con la Cina, ma, molto più importante, condivide confini e religione con le repubbliche centro asiatiche dell’ex Unione Sovietica: Uzbekistan, Turkmenistan e Tajikistan. Le prime due confinano a loro volta con il Kazakhstan, che confina direttamente con la Russia.
L’Asia centrale è strategica non solo per i vasti giacimenti petroliferi, ma soprattutto per la sua posizione. Se Washington dovesse arrivare a controllare queste repubbliche, a quel punto avrebbe basi militari nelle aree seguenti: il Baltico, i Balcani, la Turchia, e le repubbliche in questione.
E questo sarebbe un cappio attorno al collo della Russia.
Si aggiunga che Washington già controlla le repubbliche dell’Azerbaijan e della Georgia, al sud, ed è facile capire come gli Usa sarebbero nella posizione ideale per lanciare istigazioni alla “ribellione” in tutta la Russia.
La Nato, la cui attuale dottrina permette di intervenire nei paesi confinanti con gli stati membri, potrebbe poi iniziare “guerre a bassa intensità” che prevedano l’uso di armi nucleari tattiche (come ufficialmente dichiarato nella dottrina ufficiale), in “risposta” alle innumerevoli “violazioni dei diritti umani”.
E c’è qualcosa di ironico nel fatto che Washington pretenda di ritornare in Afghanistan per combattere il terrorismo islamico, dal momento che per distruggere i sovietici gli Usa stessi crearono i quadri del terrorismo islamico negli anni ’80.
Non si trattò, come molti credono, di una sorta di aiuto ai ribelli che contrastavano l’espansionismo sovietico. Al contrario, l’intervento sovietico in Afghanistan fu concepito come un’azione difensiva per mantenere, e non alterare, l’equilibrio globale delle forze.
Accadde infatti che gli Stati Uniti misero in atto azioni segrete al fine di “incoraggiare” l’intervento dei russi, allo scopo di trasformare la società tribale rurale afgana in una forza militare che contribuisse a dissanguare l’Unione Sovietica.
Tutto questo è stato ammesso dallo stesso Zbigniew Brzezinski, a capo della Sicurezza Nazionale statunitense a quel tempo.
Prendiamo in considerazione i seguenti brani tratti da articoli giornalistici.
Il primo, dal ‘N.Y. Times’:
“La resistenza afgana fu sostenuta dai servizi di intelligence degli Stati Uniti ed Arabia Saudita attraverso la fornitura di circa 6 miliardi di dollari di armamenti. E la zona bombardata la settimana scorsa [l’articolo fu pubblicato dopo l’attacco missilistico dell’agosto 1998], un complesso di sei accampamenti attorno a Khost, dove l’esule saudita Osama bin Laden ha finanziato una sorta di “università del terrorismo”, è ben conosciuta alla Cia (secondo le parole di un ufficiale esperto dei servizi di intelligence).
… alcuni degli stessi combattenti che lottarono contro i sovietici con l’aiuto della Cia, stanno ora combattendo sotto la bandiera di Mr. bin Laden…” (‘NY Times,’ 24 agosto 1998, pagine A1 & A7 ).
E questo articolo dal londinese ‘Independent’:
“La guerra civile afgana è in corso, e l’America è presente fin dall’inizio – o prima dell’inizio, se dobbiamo credere alle parole di Brzezinski [Zbigniew, ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale ed ora stratega di politica internazionale].
‘Non abbiamo spinto i russi ad intervenire’, ha affermato in una intervista del 1998, ‘ma abbiamo consapevolmente aumentato le probabilità che lo facessero. Questa operazione segreta fu un’idea eccellente. Portò i russi nella trappola afgana. Vorreste che lo negassi?'[affermò Brzezinski].
Gli effetti a lungo termine dell’intervento americano secondo la prospettiva da guerra fredda di Brzezinski, misero, 10 anni dopo, l’Unione Sovietica in ginocchio. Ma ci furono anche altri effetti.
Per sostenere la guerra, la Cia, d’accordo con l’Arabia Saudita e l’intelligence militare pakistana ISI (Direttorio Integrato d’Intelligence), versò milioni e milioni di dollari ai Mujahedeen. Fu il più sicuro dei modi di condurre una guerra: gli Usa (e l’Arabia Saudita) fornirono i fondi, e gli Stati Uniti anche un limitato addestramento. Fornirono inoltre i missili antiaerei Stinger, che in definitiva furono quelli che cambiarono il corso della guerra.
L’ISI pakistano fece dell’altro: addestramento, equipaggiamento, indottrinamento e consulenza. E fecero il loro lavoro con ostentazione: il leader militare di allora, il generale Zia ul Haq, egli stesso di tendenza fondamentalista, si gettò nell’impresa con passione.” (‘The Independent’ (Londra) 17 settembre 2001. Sintesi.)
Per arrivare a tempi a noi vicini, va notato che gli Stati Uniti hanno aiutato i Talebani anche recentemente, a dispetto delle dichiarazioni di condanna per la violazione dei diritti umani:
“L’amministrazione Bush non si è lasciata intimidire. La settimana scorsa ha versato altri 43 milioni di dollari in assistenza all’Afghanistan, arrivando così ad un aiuto complessivo per quest’anno di 124 milioni [di dollari] e ponendo così gli Stati uniti come primo paese donatore umanitario.(‘The Washington Post,’ 25 maggio 2001)
Perché gli Usa e i loro alleati hanno continuato – fino ad oggi – a finanziare i Talebani? E perché, ciò nonostante, adesso attaccano la loro mostruosa creatura?
E’ nostra convinzione, così com’è quella di molti osservatori della regione, che Washington ordinò all’Arabia Saudita e al Pakistan di finanziare i Talebani affinché essi facessero un lavoro: consolidare il controllo sull’Afghanistan e da qui destabilizzare le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale sui loro confini.
Ma i Telebani hanno fallito. Non hanno smembrato l’alleanza dei paesi controllati dalla Russia. Invece di sovvertire l’Asia centrale, hanno iniziato a distruggere le statue di Buddha e a terrorizzare coloro che non seguivano l’interpretazione super repressiva dell’Islam che ha il regime.
Contemporaneamente, la Russia si è mossa nella direzione ‘sbagliata’, dal punto di vista di Washington. La pedina completamente controllabile Yeltsin è stato sostituito con il presidente Putin, che in parte resiste ai voleri degli Usa – per esempio contrastando il piano della Cia per impossessarsi della Cecenia attraverso l’uso di terroristi islamici legati all’Afghanistan. E ancora, Cina e Russia hanno siglato un patto di difesa reciproca. E a dispetto delle enormi pressioni Usa/Europa, Putin ha rifiutato di isolare il presidente bielorusso Lukashenko che, come l’incarcerato ma non spezzato presidente jugoslavo Milosevic, sostiene la necessità di opporsi alla Nato.(3a)
E’ questa sfavorevole sequenza di avvenimenti che ha convinto Washington ad affidarsi alla sua tattica preferita: spingersi, nell’azione politica, fin sull’orlo della guerra.
Un primo segno di questa tendenza è comparso due settimane fa, appena prima delle elezioni presidenziali nella repubblica ex sovietica della Bielorussia. La Bielorussia è situata nella regione baltica, vicino alla Lituania ed alla Polonia. Washington e l’Unione Europea detestano Lukashenko perché ha rifiutato di sottomettere il suo piccolo paese ai voleri del Fondo Monetario Internazionale, e di smantellare tutte le garanzie sociali dell’era sovietica. Inoltre prese posizione in difesa della Jugoslavia. E desidera persino l’unione di Bielorussia, Ucraina e Russia. Questo desiderio di rimettere assieme ex repubbliche sovietiche, lo mette nel mirino della politica di Washington, che mira invece a frantumare ulteriormente questi paesi.
Per mesi, Washington e gli europei si sono occupati delle elezioni bielorusse. Washington ha ammesso di aver costituito circa 300 ‘Organizzazioni non governative’. Ciò in un paese di circa 10 milione di anime. Inoltre, appena prima delle elezioni, l’ambasciatore degli Stati Uniti Michael Kozak ha scritto ad un giornale britannico:
“‘Obiettivo e metodologia degli Stati Uniti sono gli stessi in Bielorussia come in Nicaragua’, dove gli Stati Uniti hanno sostenuto i Contras contro il governo di sinistra dei Sandinisti in una guerra che ha provocato almeno 30.000 vittime.” (“The Times”, 3 Settembre 2001.) (4)
Come ricorderete, i Contras furono uno strumento terrorista che Washington finanziò negli anni ’80 per distruggere il governo nazionalista di sinistra Sandinista in Nicaragua.
I Contras erano specializzati negli attacchi ai villaggi contadini, dei quali massacravano gli abitanti; e questo quando non trafficavano con la droga. Tutto ciò emerse durante lo scandalo “Iran-Contras”.
Ora Washington sta cinicamente usando la strage del World Trade Center per dirigere le strutture della Nato, invocando l’articolo 5 del Trattato, secondo il quale tutti i membri dell’Alleanza devono rispondere ad un attacco rivolto ad uno di essi.
Questo allo scopo di: a) mettere insieme una “forza per la pace” per l’Afghanistan; b) lanciare attacchi aerei e, possibilmente, terrestri; c) eliminare l’ostinata ed incompetente leadership dei Talebani; d) assumere il controllo diretto nella creazione di una occupazione militare della Nato.
Alcuni sostengono che la Nato sarebbe folle se tentasse di pacificare l’Afghanistan. Sostengono che gli inglesi fallirono nell’800 ed i Russi negli anni ’80. Ma Washington non ha bisogno né intende pacificare l’ Afghanistan.
Ha bisogno d’una presenza militare sufficiente per organizzare e dirigere le forze indigene al fine di penetrare le repubbliche dell’Asia centrale ed istigare conflitti. Piuttosto che provare a sconfiggere i Talebani, Washington gli farà un’offerta che non potranno rifiutare: lavorare per gli Stati Uniti; saranno argomenti convincenti l’abbondanza di soldi e di armi, e le mani libere per dirigere il traffico di droga, così come hanno consentito all’Uck di fare una fortuna con la droga nei Balcani. (5)
Oppure potranno scegliere di opporsi agli Stati Uniti, e morire.
In questo modo, Washington spera di bissare ciò che ha fatto in Kosovo, dove la Nato ha preso i gangsters trafficanti di droga e i secessionisti anti-serbi, e ne ha fatto l’organizzazione terrorista “Esercito per la liberazione del Kosovo”, Uck.
In questo caso invece la materia prima sono i Talebani. Riorganizzati e posti sotto stretto controllo, rinasceranno come “Combattenti della Libertà”, e saranno diretti contro le repubbliche dell’Asia centrale.
Poiché le repubbliche asiatiche combatterebbero gli intrusi, la Nato potrebbe offrire loro assistenza militare, penetrando così nella regione da entrambi i lati, per mezzo d’un conflitto istigato dalla stessa Washington. Questa tattica simultaneamente di attacco e di difesa dell’Asia centrale – è stata impiegata con grande effetto contro la Macedonia. L’obiettivo è produrre nazioni dominate dalla Nato.
Non più Uzbekistan, Turkmenistan e Tajikistan. (6) Poi il Kazakhstan ed infine la Russia.
Questa strategia non può essere venduta al popolo americano.
Ripetiamo: non può essere venduta.
E’ per queste ragioni che l’amministrazione Bush sta usando il tragico incubo della strage di New York, che sua volta è accaduto con modalità tali da suggerire la complicità di poteri governativi americani occulti, per creare un’isteria internazionale sufficiente a trascinare la Nato nell’occupazione dell’Afghanistan e ad intensificare l’attacco all’ex Unione Sovietica.(7)
Prima che qualcuno dica con un sospiro “Ringrazio Dio, perché ce la siamo cavata con poco”, si consideri che, a parte la violazione della sovranità nazionale ed i molti altri aspetti negativi dei piani di Washington, l’attacco all’Afghanistan porta la Nato sulla soglia di casa della Russia in Asia centrale. Ciò rappresenta un’escalation strategica del conflitto, che ci avvicina di molto – anche se nessuno può dire di quanto, né la velocità con cui avverrà – ad un conflitto nucleare.
Washington vuole evitarlo? Washington, ed i potentati capitalisti che la controllano, pensano che la Russia si lascerà distruggere. Ma sappiamo che, come dicono i Greci, “l’orgoglio è seguito dall’ autodistruzione.”
I Russi sono molto strani. Provano ad evitare la lotta. Ma come scoprì il sig. Hitler , quando sono messi con le spalle al muro, combattono con la forza dei leoni. E possiedono decine di migliaia di armi nucleari.
E così Washington sta giocando con la possibilità di una guerra che ripeterebbe l’orrore dell’11 settembre al World Trade Center, o persino il massacro su larga scala come i bombardamenti terroristici sulla Jugoslavia.
E tutto ciò sembra essere solo l’anticamera dell’inferno. (8)
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1) Like a man with a guilty conscience, the U.S. government and its NATO allies constantly denounce terror while routinely employing it in international affairs. See for example:
- ‘WASHINGTON: PARENT OF THE TALIBAN AND COLOMBIAN ‘DEATH SQUADS’ at http://emperors-clothes.com/articles/jared/mis.htm
- ‘WHAT NATO OCCUPATION WOULD MEAN FOR MACEDONIANS’
First-hand report of the state of terror instituted when NATO took over Kosovo. Can be read at http://emperors-clothes.com/misc/savethe-a.htm - ‘‘Five Years On & the Lies Continue.’ Discussion of the use by the U.S.-sponsored Islamist regime in Sarajevo of systematic terror against Serbian villagers in Bosnia. Can be read at http://emperors-clothes.com/articles/jared/texts.htm
- ‘Meet Mr. Massacre‘ – Concerning U.S. Balkans envoy William Walker’s death squad activities in Latin American. Can be read at http://emperors-clothes.com/analysis/meetmr.htm
2) ‘Criminal Negligence or Treason‘ Can be read at http://emperors-clothes.com/articles/jared/treason.htm
3)’Why is NATO Decimating the Balkans and Trying to Force Milosevic to Surrender?‘ by Jared Israel and Nico Varkevisser. Can be read at http://emperors-clothes.com/analysis/whyisn.htm
3A)’What The Hague Tribunal [sic!] Wouldn’t Let Milosevic Say‘ This is the statement which Milosevic tried to give. To prevent it ‘Judge’ May cut off his mike. It can be read at http://www.icdsm.org/more/aug30.htm
4) ‘Tough Measures Justified in Belarus‘ by Jared Israel at http://emperors-clothes.com/news/tough.htm
5) ‘WASHINGTON: PARENT OF THE TALIBAN AND COLOMBIAN DEATH SQUADS’ by Jared Israel. Can be read at http://emperors-clothes.com/articles/jared/mis.htm#a
6) ‘SORRY VIRGINIA BUT THEY ARE NATO TROOPS, NOT ‘REBELS‘ Can be read at http://emperors-clothes.com/mac/times.htm
7) – Click here please.
8) ‘Yugoslav Auto Workers Appealed to NATO’s Humanity…‘ Can be read at http://emperors-clothes.com/misc/car.htm
9) Rick Rozoff takes a critical look at Washington’s response to Tuesday’s tragedies in ‘Bush’s Press Conference: Into the Abyss‘ at http://emperors-clothes.com/articles/rozoff/abyss.htm
10) While Washington points to Osama bin Laden as “suspect # 1” in yesterday’s horrific violence, the truth is not being told to the American people: ‘Washington Created Osama bin Laden‘ by Jared Israel can be read at http://emperors-clothes.com/articles/jared/sudan.html#w
11) If one looks carefully, one can find in the Western media evidence that bin Laden has been involved – on the U.S.-backed side – in Kosovo, Bosnia and now Macedonia. Can be read at http://emperors-clothes.com/articles/jared/mis.htm
12) Bin Laden was propelled into power as part of the U.S. drive to create an Islamist terrorist movement to crush the former Soviet Union. See, the truly amazing account from the ‘Washington Post,’ ‘Washington’s Backing of Afghan Terrorists: Deliberate Policy.’ at http://emperors-clothes.com/docs/anatomy.htm
13) Head of Russian Airforce says official scenario couldn’t have happened. See ‘Russian Airforce Chief Says Official 9-11 Story Impossible’ at http://emperors-clothes.com/news/airf.htm
14) Emperor’s Clothes has interviewed Rudi Dekkers from the Huffman Aviation facility, at which two of the hijack suspects were students a year ago. Though Mr. Dekkers’ told the interviewer he had received many calls, the media has not published his comments. The interview was taped and the text on Emperor’s Clothes is a verbatim transcript, including the grammatical errors common in daily speech. See “Interview With Huffman Aviation Casts Doubt on Official Story” at http://emperors-clothes.com/interviews/dekkers.htm
Gas e petrolio
grandi affari oltre la guerra
Il petrolio centroasiatico, vera chiave del conflitto
di Domenico Walter Rizzo

nella cartina, il percorso dell’oleodotto mai costruito
Le indagini sul terrorismo fondamentalista bloccate e il vice direttore dell’FBI che, da buon irlandese, sbatte la porta e si dimette. Gli emissari dei Talebani, accolti amichevolmente a Washington, con la mediazione della nipote dell’ex direttore della Cia; e ancora il vicepresidente di una grande compagnia petrolifera che disegna in un audizione al Congresso la strategia Usa per l’Asia centrale e l’Afghanistan in particolare; un plenipotenziario statunitense che dice, chiaro e tondo, ai Talebani di scegliere tra l’oro e il piombo. Sono solo alcune delle mosse giocate negli ultimi anni sulla grande ed impervia scacchiera dell’Asia centrale. La chiave per il petrolio dell’Asia centrale documenti Al centro della partita ci sono due lunghi serpenti d’acciaio. Per adesso ancora solo sulla carta, ma dovrebbero tagliare in due l’Afghanistan. In uno, viaggeranno ogni giorno un milione di barili di greggio proveniente dai giacimenti dell’ex URSS, nel secondo correrà il gas che sgorga dai giacimenti di Dauletabad in Turkmenistan. Due arterie strategiche per rendere accessibile alle grandi compagnie petrolifere americane le immense riserve di idrocarburi dell’Asia centrale.
Il 65% delle riserve mondiali Per dare solo un’idea della proporzione della posta in gioco, basta ricordare che la stima delle riserve del Caspio è di circa 263mila miliardi di piedi cubici di gas naturale e di 60 miliardi di barili di petrolio, pari al 65% delle riserve mondiali. Un tesoro immenso che ha un solo handicap: la distanza dai mercati. La soluzione? Ecco cosa propone John J. Maresca, vicepresidente delle relazioni internazionali di Unocal Corporation, una delle principali compagnie mondiali nel campo delle risorse energetiche e dei progetti. La Unocal farà parte del consorzio Cent-Gas, fino alla fine del 1998, quando sarà costretta, dalle pressioni dell’opinione pubblica americana, ad uscire ufficialemente dalla struttura che mediava con il regime dei Talebani, salvo poi a mostrare un forte interesse a rientrare a pieno titolo nel progetto nel marzo del 2000, pochi mesi prima delle elezioni nelle quali era favorito il candidato repubblicano.
Al progetto la Unocal aveva lavorato sin dal 1994. Lo riferisce Ahmed Rachid, in uno studio pubblicato nel marzo scorso dalla Yale University. “C’erano altre compagnie in campo – scrive Rachid – come l’argentina Bridas. Ma Washington e Riad si sono impegnate per convincere tutti i diretti interessati ad escludere Bridas. All’epoca Unocal aveva aperto i suoi uffici di rappresentanza nelle zone controllate dai Talebani”
L’audizione al Congresso documenti John J. Maresca si presenta il12 febbraio 1998 davanti al sottocomitato del Congresso degli Stati Uniti pere l’Asia e il Pacifico per parlare proprio dei progetti della Unocal e delle altre compagnie petrolifere sugli idrocarburi dell’Asia centrale. Il problema come abbiamo detto è il trasporto. Maresca spiega nella sua audizione – che RaiNews24 è in grado di documentare – lo stato dell’arte e i progetti. Al memento gli unici sbocchi possibili sono il Mar Nero e il Mediterraneo, con delle linee di oleodotti che attraversano le ex repubbliche sovietiche e la Turchia. Se tutti questi progetti fossero pero’ realizzati – spiega il vicepresidente della Unocal – non potrebbero garantire tutta la distribuzione e soprattutto puntano verso mercati che non potrebbero assorbire questa produzione. Sentiamolo.
“Noi dell’Unocal – afferma Maresca – riteniamo che il fattore centrale nella progettazione di questi oleodotti dovrebbe essere la posizione dei futuri mercati energetici che verosimilmente assorbiranno questa nuova produzione.
L’Europa occidentale, l’Europa centrale e orientale e gli stati ora indipendenti dell’ex Unione sovietica sono tutti mercati a crescita lenta, in cui la domanda crescerà solo dallo 0,5% all’1,2% all’anno nel periodo 1995-2010″.
L’Asia sarà il grande cliente del futuro “L’Asia è tutto un altro discorso – sostiene Maresca – Il suo bisogno di consumo energetico crescerà rapidamente. Prima della recente turbolenza nelle economie dell’Asia orientale, noi dell’Unocal avevamo previsto che la domanda di petrolio in questa regione si sarebbe quasi raddoppiata entro il 2010. Sebbene l’aumento a breve termine della domanda probabilmente non rispetterà queste previsioni, noi riteniamo valide le nostre stime a lungo termine.
Devo osservare che è nell’interesse di tutti che vi siano forniture adeguate per le crescenti richieste energetiche dell’Asia. Se i bisogni energetici dell’Asia non saranno soddisfatti, essi opereranno una
pressione su tutti i mercati mondiali, facendo salire i prezzi dappertutto.”
Come portare gas e petrolio ai clienti asiatici? “La questione chiave è dunque come le risorse energetiche dell’Asia centrale possano essere rese disponibili per i vicini mercati asiatici. Ci sono due soluzioni possibili, con parecchie varianti. Un’opzione è dirigersi a est attraversando la Cina, ma questo significherebbe costruire un oleodotto di oltre 3.000 chilometri solo per raggiungere la Cina centrale. Inoltre, servirebbe una bretella di 2.000 chilometri per raggiungere i principali centri abitati lungo la costa. La questione dunque è quanto costerà trasportare il greggio attraverso questo oleodotto, e quale sarebbe il netback che andrebbe ai produttori. (…)
La seconda opzione è costruire un oleodotto diretto a sud, che vada dall’Asia centrale all’Oceano Indiano. Un itinerario ovvio verso sud attraverserebbe l’Iran, ma questo è precluso alle compagnie americane a causa delle sanzioni.
Afghanistan scelta obbligata “L’unico altro itinerario possibile è attraverso l’Afghanistan – dice il vicepresidente di Unocal – e ha naturalmente anch’esso i suoi rischi. Il paese è coinvolto in aspri scontri da quasi due decenni, ed è ancora diviso dalla guerra civile. Fin dall’inizio abbiamo messo in chiaro che la costruzione dell’oleodotto attraverso l’Afghanistan che abbiamo proposto non potrà cominciare finché non si sarà insediato un governo riconosciuto che goda della fiducia dei governi, dei finanziatori e della nostra compagnia.
Abbiamo lavorato in stretta collaborazione con l’Università del Nebraska a Omaha allo sviluppo di un programma di formazione per l’Afghanistan che sarà aperto a uomini e donne, e che opererà in entrambe le parti del paese, il nord e il sud.”
Un gigante di oltre mille miglia “La Unocal ha in mente un oleodotto che diventerebbe parte di un sistema regionale che raccoglierà il petrolio dagli oleodotti esistenti in Turkmenistan, Uzbekistan, Kazakhstan e Russia. L’oleodotto lungo 1.040 miglia si estenderebbe a sud attraverso l’Afghanistan fino a un terminal per l’export che verrebbe costruito sulla costa del Pakistan. Questo oleodotto dal diametro di 42 pollici (poco più di un metro, ndt) avrà una capacità di trasporto di un milione di barili di greggio al giorno. Il costo stimato del progetto, che è simile per ampiezza all’oleodotto trans-Alaska, è di circa 2,5 miliardi di dollari.” Ecco il nostro progetto Poi Maresca spiega quali sono in dettaglio i progetti sull’Afghanistan.”Lo scorso ottobre è stato creato il Central Asia Gas Pipeline Consortium, chiamato CentGas, e in cui la Unocal ha una cointeressenza, per sviluppare un gasdotto che collegherà il grande giacimento di gas di Dauletabad in Turkmenistan con i mercati in Pakistan e forse in India. Il prospettato gasdotto lungo 790 miglia aprirà nuovi mercati per questo gas, viaggiando dal Turkmenistan attraverso l’Afghanistan fino a Multan in Pakistan. Il prolungamento proposto porterebbe il gas fino a New Delhi, dove si collegherebbe a un gasdotto esistente. Per quanto riguarda il proposto oleodotto in Asia centrale, CentGas non può cominciare la costruzione finché non si sarà insediato un governo afghano riconosciuto internazionalmente.” Le le nostre richieste E avanza le richieste delle Compagnie all’Amministrazione e al Congresso.
“Noi chiediamo all’Amministrazione e al Congresso di sostenere con forza il processo di pace in Afghanistan condotto dagli Stati Uniti. Il governo Usa dovrebbe usare la sua influenza per contribuire a trovare delle soluzioni per tutti i conflitti nella regione. L’assistenza Usa nello sviluppare queste nuove economie sarà cruciale per il successo degli affari”. Orecchie attente sulle rive del Potomac Le parole di Maresca trovano orecchie attente nei circoli della politica americana e soprattutto nella nuova Amministrazione guidata da Bush, dove non mancano gli uomini e le donne che con il petrolio hanno una certa dimestichezza a cominciare proprio dal Presidente e dal vicepresidente Cheney, presidente e azionista quest’ultimo della Oil Supply Company. Ma non solo il ruolo di Consigliere per la Sicurezza nazionale è ricoperto da Condoleeza Rice, un’affascinante signora che prima di entrare nello staff presidenziale era stata dirigente della Chevron sin dal 1991. Inutile dire che la Chevron è una delle grandi compagnie petrolifere interessate allo sfruttamento dei giacimenti del Caspio. Solo per citare i soggetti di maggiore rilievo. I Talebani sono i benvenuti in Usa Nel 1995 – spiega lo scrittore pakistano Ahmed Rashid nel suo recente libro “Talebani, Islam Petrolio e il grande scontro in Asia centrale” – dopo che i Talebani hanno conquistato Herat e cacciato dalle scuole migliaia di ragazze, non c’è stata una sola parola di critica da parte degli Stati Uniti. In realtà gli Usa, insieme all’ISI, consideravano la caduta di Herat un aiuto ad Unocal e un ulteriore stretta al cappio intorno all’Iran”. I dirigenti Talebani dopo la presa del potere vengono accolti con favore negli Usa e loro rappresentanti – racconta John Pilger – volano in Texas dall’allora governatore Bush, dove incontrano i dirigenti dell’Unocal che fanno loro un’offerta precisa riguardo all’oleodotto: una fetta dei profitti pari al 15%. Ma ci sono alcune condizioni da rispettare.
Il racconto di una trattativa finita male Il racconto di quella mediazione lo si trova in un libro (Ben Laden, la vérité interdite) uscito pochi giorni fa in Francia. Gli autori sono Jean Charles Brisard e Guillaume Dasquieré. Brisard è l’autore, per conto del DST francese del dossier sulle strutture economiche di Osama bin Laden, che il presidente Chirac ha consegnato a Bush nella sua visita dopo gli attentati alle Torri. Dasquieré dirige il prestigioso bollettino Intelligence online. Insomma due esperti autorevoli. Una brillante quarantenne A reggere le fila dei contatti è Laila Helms, la nipote dell’ex direttore della Cia ed ex ambasciatore Usa in Iran, Richard Helms. Laila, è una brillante quarantenne, che da sempre ha mantenuto contatti privilegiati con gli Afghani. Ma soprattutto ha ottimi rapporti negli ambienti dei servizi segreti e del Dipartimento di Stato. Negli ultimi sei anni – spiegano Brisard e Dasquieré nel loro libro – si è dedicata alla supervisione di alcune azioni di influenza a nome dei Talebani soprattutto preso le Nazioni Unite: La sua azione non si attenua neppure dopo il 1996, quando il Mullah Omar diventa ufficialmente meno frequentabile agli occhi degli americani e neppure quando i capi Talebani accolgono bin Laden che sarà poi ritenuto responsabile degli attentati contro le ambasciate americane. Arriva persino a realizzare un documentario sulle donne afghane, talmente filo talebano da esser rifiutato da tutte le reti televisive americane.
Per Laila le cose si mettono bene con il ritorno dei Repubblicani al potere che rimette molti suoi amici funzionari nei posti chiave della Cia e del Dipartimento di Stato. I risultati non si fanno attendere.
Il viaggio del consigliere di Omar Tra il 18 e il 23 marzo di quest’anno Laila organizza un viaggio negli Stati Uniti per Sayed Rahmatullah Hascimi. Ha solo 24 anni, ma è già l’ambasciatore itinerante dei Talebani e consigliere personale del Mullah Omar. Non si tratta ovviamente di un giro turistico o culturale. Si parla di petrolio e di oleodotti. Gli interlocutori sono alti funzionari delal Cia e del Dipartimento di Stato. Laila riesce ad ottenere per il consiglire del Mullah un’intervista televisiva alla ABC e alla Radio pubblica. Il tutto con la benedizione dei coircoli politici vicini all’Amministrazione, che punta ad un miglioramento dell’immagine dei Talebani, in relazione al negoziato per “normalizzare” l’Afghanistan. Le indagini bloccate A dare nuovo impulso al negoziato è lo stesso Presidente Bush che promuove la nascita del cosiddetto gruppo dei 6+2 (i paesi confinati con l’Afghanistan piu’ Usa e Russia).
Ma non solo. Brisard e Dasquieré raccontano che John O’Neill, il vicedirettore dell’FBI si era dimesso improvvisamente. Dietro l’abbandono di O’Neill, spiegano i due analisti francesi, c’era un duro scontro tra il Bureau e il Dipartimento di Stato. L’amministrazione avrebbe infatti stoppato le indagini, condotte proprio da O’Neill sul terrorismo fondamentalista ed in particolare sugli attentati contro le ambasciate Usa a Nairobi e Dar El Salaam e contro la nave Cole. Questo per favorire un accordo con i Talebani. Uno stop che porto’ – secondo il racconto fatto ai due analisti farncesi che dedicano il loro libro alla sua memoria – alle dimissioni dal Bureau. O’Neill accetterà l’incarico di capo delle sicurezza del WTC e morirà insieme ad altre 5000 persone nell’attacco terroristico dell’11 settembre. Il gruppo dei 6+2
A coordinare il gruppo dei 6+2 è chiamato Francesc Verdell, rappresentante di Kofi Annan, che incontra a Roma anche l’ex re Zahir Sha, per verificare un suo possibile coinvolgimento in un governo di coalizione. Il “gruppo” si riunisce piu’ volte, senza grandi risultati. La proposta che arriva ai Talebani (siamo assai prima dell’11 settembre) è la seguente: mollare bin Laden, creazione di un governo di coalizione che comprenda i Talibani (la stessa proposta avanzata in piena guerra dagli Usa) in cambio di aiuti economici e riconoscimento internazionale. Quel riconoscimento internazionale e quella stabilità chiesta da più di due anni dalle compagnie interessate alla costruzione degli oleodotti.
Scegliete: Oro o piombo? Gli americani – raccontano Brisard e Dasquieré – non esitano ad usare anche le maniere forti. A raccontare come è l’ex ministro degli esteri del Pakistan il signor Naif Naik che, in un’intervista televisiva trasmessa in Francia, racconta che nel corso della riunione del “Gruppo” a Berlino, tra il 17 e il 20 luglio, l’ambasciatore statunitense Thomas Simons avrebbe detto, riferendosi all’Afghanistan, che dopo la costituzione del “governo allargato ci saranno aiuti internazionali – poi potrebbe arrivare l’oleodotto”. L’ambasciatore, racconta l’ex ministro, spiega quale potrebbe esser l’alternativa: se i Talebani non si comportano come si deve, e il Pakistan fallisse nel suo intento di farli comportare come si deve, Washington potrebbe ricorre ad un’altra opzione: quella militare. Brisard e Dasquieré riferiscono una battuta assai esplicita. “Ad un certo punto i rappresentati americani dissero ai Talebani: o accettate la nostra offerta di un tappeto d’oro, o sarete sepolti da un tappeto di bombe”. L’ultimo incontro Usa-Talebani L’ultimo incontro tra emissari Usa e Talebani avviene lo scorso 2 agosto, 39 giorni prima dell’attacco alle Torri. È Cristina Rocca, direttrice degli affari asiatici del Dipartimento di Stato ad incontre a Islamabad l’ambasciatore Talebano in Pakistan. Kabul respinge definitivamente la proposta americana. La parola passa alle armi. Il fiume dei petrodollari
Tra la Cecenia e l’Afghanistan scorre un oceano nero. Sotterraneo. Fatto di 200 miliardi di barili di petrolio. Un fiume d’oro senza il quale non è possibile immaginare lo sviluppo mondiale nei prossimi 25 anni.
Il braccio orientale di questo oceano può arrivare sui mercati con gasdotti che partono dall’Uzbekistan, attraversano l’Afghanistan, per sfociare a Karachi, sulla costa del Pakistan. Questo è il percorso più breve tra le steppe dell’ex Urss e l’oceano Indiano.
Il Tagikistan non ha sue risorse petrolifere, ma ha specialisti usciti dalle università di Mosca che seguono da vicino quello che succede al di là del confine.
”Tutti i protagonisti della crisi afghana hanno a che fare con il mondo del petrolio – spiega un alto funzionario del ministero tagiko per lo sviluppo economico, che vuole mantenere l’anonimato – Prendiamo Osama bin Laden: senza i petrodollari suo padre non sarebbe diventato miliardario e senza i petrodollari il Califfo non avrebbe potuto gettare le basi del suo regno. Per non parlare poi di George Bush, del vicepresidente Dick Cheney e di altri quattro o cinque alti esponenti dell’amministrazione americana: sono tutti ‘oilmen’ che sanno perfettamente cosa c’e’ sotto il suolo dell’Asia centrale. E anche Vladimir Putin si muove a suo agio nel mondo del petrolio”.
“Apparentemente il presidente russo non ha una storia personale legata al petrolio, dato che viene dai servizi segreti. Ma solo apparentemente. La riscossa russa – spiega la fonte – dopo il crack del 1998, è avvenuta proprio grazie al petrolio. La candidatura di Putin nell’autunno 1999 è stata sostenuta proprio dagli oligarchi del petrolio”.
”Il primo dei grandi oligarchi a manifestare entusiastico appoggio a Putin fu Rem Viakhirev – prosegue il funzionario – l’ex padrone di Gazprom, il colosso mondiale del gas. E il giovane Roman Abramovich, di professione esploratore di giacimenti, ha comprato con i soldi del petrolio siberiano un paio di televisioni e le ha messe a disposizione del Cremlino”. Il grande accordo russo-americano-asiatico sull’Afghanistan, secondo lui, ha come base proprio l’oro nero.
”L’allargamento della Nato e la creazione di oleodotti e gasdotti per sottrarre il Caucaso e l’Asia centrale a Mosca sono progetti degli anni Novanta. Figli dell’amministrazione Clinton. Bush e Putin stanno trovando intese che rovesciano completamente l’impostazione precedente”, aggiunge l’esperto.
Iter e Lukoil sono due colossi russi del petrolio, Lukoil ha comprato alcuni segmenti della distribuzione di carburanti negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei.
”Nei giorni scorsi, dopo gli attentati dell’11 settembre, i dirigenti di Iter e Lukoil sono andati a Tashkent dove hanno raggiunto accordi preliminari per la vendita a terzi di gas e petrolio di Uzbekistan e Turkmenistan che dovrebbe essere convogliato attraverso condotte in Afghanistan”, aggiunge.
Il Turkmenistan – confinante con l’Afghanistan – detiene il quarto posto mondiale nelle riserve di gas naturale con 3 miliardi di metri cubi. Il Kazakhstan è secondo, per riserve di petrolio, solo ai paesi del Golfo. Il presidente Nursultan Nazarbayev, in eccellenti rapporti con Vladimir Putin, ha dato la più ampia disponibilità di aiuto agli Stati Uniti nella lotta al terrorismo internazionale.
Osama bin Laden e i Taleban permetteranno mai il passaggio delle condotte nelle loro terre? è la domanda. ”Osama bin Laden e i Taleban hanno i giorni contati – risponde – Putin sta fornendo ogni aiuto all’Alleanza del Nord e dall’altra parte stanno gia’ sbarcando i reparti speciali americani. Siamo già al finale di partita”.
Chi ha armato i talebani?
Da Washington all’Arabia Saudita, dall’Arabia al Pakistan e da qui in Afghanistan. Milioni di dollari di forniture militari in cambio del controllo sui giacimenti di petrolio e gas. Ecco come gli intricati equilibri dell’Asia centrale hanno portato i Talebani al potere.
di Francesco Terreri
Prima notizia: “Dal distretto di Sialkot grossi flussi di merce sono diretti al porto di Karachi per l’esportazione. Ma sui camion, guidati da afgani per pochi soldi, non viaggiano solo articoli sportivi, strumenti chirurgici o capi di abbigliamento. Su quei camion viaggiano armi e pasta di oppio. È la via della droga che proviene dall’Asia centrale e che, dal porto di Karachi, approda in Africa e in Europa meridionale. La polizia pakistana ferma molti camion per controlli, ma non arresta nessuno. Ufficialmente non è mai stato trovato niente”.
Seconda notizia: “Nel 1997 l’Afghanistan ha ricevuto dagli Stati Uniti 45,6 milioni di dollari di aiuti, di cui 5,9 milioni di cooperazione allo sviluppo, 39,4 milioni di interventi post-conflitto (aiuti alimentari, assistenza ai rifugiati ecc.) e 275 mila dollari di “security assistance”, che comprende sostegno economico a paesi strategici, programmi antidroga, antiterrorismo e antiproliferazione nucleare. Nel caso dell’Afghanistan i 275 mila dollari facevano parte di programmi contro il narcotraffico”.
La prima denuncia viene dalle suore di San Paolo che operano in Pakistan, dall’organizzazione non governativa pakistana Geophile e da TransFair, l’organizzazione del commercio equo impegnata nella lotta al lavoro minorile nel Punjab, ed è stata raccolta da AltrEconomia, la rivista dell’economia solidale, nell’aprile scorso. I dati sugli aiuti Usa a Kabul, cioè di fatto al regime dei Talebani, sono invece stati resi pubblici dal “Progetto sui trasferimenti di armi convenzionali” del Council for a Livable World Education Fund, un’organizzazione non profit statunitense (e pubblicati nel rapporto, uscito nel luglio di quest’anno, “Foreign Aid and the Arms Trade: A Look at the Numbers”).Scontro tra civiltà?
Le due notizie, che cioè il regime afgano in combutta con alte sfere in Pakistan copra ingenti traffici di droga e che ciò nonostante riceva fondi per la lotta alla droga dagli Stati Uniti (e recentemente abbia concluso un accordo in tal senso con l’Agenzia Onu per il controllo degli stupefacenti), sono solo in apparenza in contrasto. Perché la partita geostrategica che si sta giocando in Asia Centrale attorno al tormentato Afghanistan e alle repubbliche ex sovietiche prevede questi ed altri colpi bassi. Secondo la suggestiva, ma equivoca, interpretazione dello “scontro tra civiltà” (dal titolo del libro di Samuel P. Huntington, il decano dei politologi statunitensi), in Afghanistan e dintorni ci troveremmo su una “faglia”, su una linea di frattura tra diverse “civilizzazioni” , in particolare tra Islam e civiltà “cristiano-ortodossa”. I conflitti del presente e del futuro sono e sempre più saranno, secondo questa impostazione, conflitti tra civiltà diverse. La guerra afgana dell’Armata Rossa, vista di solito come episodio del conflitto Est-Ovest, sarebbe stata invece in questo quadro un’anticipazione dei conflitti di civiltà. E la sconfitta dell’Urss, che per gli occidentali fu una vittoria del “mondo libero”, per i musulmani fu una vittoria del mondo islamico.
La guerra lasciò dietro di sé – è ancora Huntington che scrive – “una complessa coalizione di organizzazioni islamiste votate alla promozione dell’Islam contro tutte le forze non musulmane. Ha lasciato in eredità anche un’ampia congerie di unità di guerriglia, accampamenti, campi d’addestramento e strutture logistiche, complesse reti interislamiche di rapporti e una notevole quantità di apparecchiatura militari, tra cui dai trecento ai cinquecento missili Stinger (mai pagati)”. Secondo un funzionario Usa, citato dal New York Times Magazine del 13 marzo 1994, i combattenti afgani “hanno già abbattuto una delle due superpotenze mondiali, e adesso stanno lavorando sull’altra”. Al fondo di questa strada c’è, naturalmente, l’appoggio di Kabul al terrorismo di matrice islamica, l’ospitalità a Bin Laden, e il bombardamento statunitense con missili Cruise dell’agosto scorso.La via del Pakistan
I conti tornano meno, però, se si segue la catena di relazioni che legano le fazioni afgane, e in particolare i Talebani al potere a Kabul dal settembre 1996, ad altri paesi musulmani, e oltre. Tra le poche informazioni disponibili, spiccano quelle fornite da fonti, diciamo così, “insospettabili”: le pubblicazioni legate al mondo dei mercanti d’armi e dei mercenari. Come “Raids”, che nel settembre 1995 scrive che i Talebani hanno ricevuto armi leggere, mezzi blindati e velivoli dal Pakistan, con il sostegno finanziario dell’Arabia Saudita, e l’approvazione di Washington. Del resto, al di fuori delle Foreign military sales cioè le vendite di armi da governo a governo sotto forma di “vendite commerciali”, armi leggere sono arrivate anche direttamente dagli Stati Uniti, almeno per 30 mila dollari nel 1994, come indicano le statistiche Ocse del commercio con l’estero. L’equivoco alimentato dall’interpretazione dello “scontro tra civiltà” è che l’appoggio statunitense all’Arabia Saudita, quindi al Pakistan e infine ai Talebani sia semplicemente un calcolo tattico per dividere il mondo islamico, sostenendo le fazioni sunnite che si oppongono all’Iran sciita, percepito a Washington come la minaccia principale.Dalle armi al petrolio
E invece sono in ballo anche calcoli strategici: in primo luogo su chi controlla le risorse, e le vie dell’approvvigionamento energetico. Nelle repubbliche dell’Asia centrale vi sono nuove, gigantesche riserve di gas e petrolio, soprattutto attorno al Mar Caspio. Forse già l’intervento sovietico a Kabul aveva a che fare anche con il tentativo di allargare le disponibilità sovietiche di materie prime energetiche esportabili, il principale tipo di prodotti con cui l’Urss si procurava valuta pregiata. Sicuramente oggi sono in corso grandi manovre in questo campo. Il Kazakhstan, la più grande delle repubbliche ex sovietiche dell’Asia, produce 540 mila barili di petrolio al giorno, e con la Russia, l’Oman e un consorzio di compagnie petrolifere dominato dagli statunitensi dovrebbe avviare la costruzione del nuovo oleodotto dai campi di Tengiz, sul Caspio a Novorossijsk (Russia), sul Mar Nero. Da Baku, Azerbaigian, sempre sulle rive del Mar Caspio, è in costruzione l’oleodotto per Supsa, sul Mar Nero, ma in Georgia, cosa che ha fatto infuriare Mosca, tagliata fuori da questo progetto. Il Turkmenistan, grande produttore di gas naturale, ha invece annunciato la sua intenzione di concedere alla compagnia iraniana del petrolio lo sfruttamento di tre dei suoi campi sul Caspio.
Viceversa, Pakistan e Stati Uniti corteggiano il regime al potere in Afghanistan per sviluppare il progetto di nuovi oleodotti dal Caspio all’Oceano Indiano, che forniscano uno sbocco indipendente dall’Iran (e dalla Russia) al petrolio dell’Asia centrale. Ecco perché Washington non può abbandonare il Pakistan, nonostante rimbrotti e contrasti sul riarmo nucleare di Islamabad, e per questa via la connessione con i Talebani. Che sono già arrivati ai ferri corti con Teheran, sfiorando la guerra aperta un paio di mesi fa.Il mercato Usa-Pakistan
Nel solo 1997, nonostante i periodici embarghi decisi contro la politica militare del Pakistan, gli Stati Uniti hanno venduto armi al paese asiatico per 4 milioni e mezzo di dollari, quasi tutte “vendite commerciali dirette”, e hanno fornito altri 3 milioni di dollari di aiuti militari e per la sicurezza. Ma attorno al Pakistan si giocano gli equilibri dell’area. Il principale fornitore di armi a Islamabad è la Cina, che ormai non vende più solo sistemi d’arma completi, ma anche licenze di produzione e accordi di coproduzione. Ad esempio, l’anno scorso, per l’aereo addestratore “Karakorum-8”. La Cina vende anche all’Iran, in concorrenza con la Russia. La Francia, invece, si è fatta avanti con il Pakistan. E l’Italia, violando lo spirito, anche se non la lettera, della legge 185 sul commercio delle anni, nel 1997 ha avuto il Pakistan come terzo cliente in assoluto della propria industria militare: 131 miliardi di lire di nuove autorizzazioni all’export, la metà delle quali per la vendita di radar Grifo della Fiat da installare sui caccia pakistani Mirage IIIE di produzione francese. Aerei che, secondo gli esperti, sono in grado di trasportare anche una bomba nucleare.
Volontari per lo sviluppo – Novembre 1998
© ASPEm – CCM – CISV – CELIM – CMSR – MLAL
Poiché abbiamo introdotto la vicenda dell’oleodotto e gasdotto, è utile vedere altre testimonianze in proposito.
Un panorama degli interessi e delle multinazionali che muovono nazioni ed eserciti.
Oil games
di Simone Santini
L’attenta lettura e il confronto fra due documenti di recente pubblicazione può illuminare magistralmente le strategie e le connessioni fra i recenti avvenimenti della politica estera e gli interessi economici che ad essi sono legati.
Il primo è un documento redatto e reso pubblico dal CFR (Council of Foreign Relations) e dal James A. Baker Institute for Public Policy nel 2001. Il CFR è una delle lobby politico-economiche più potenti negli Stati Uniti d’America, di cui fanno parte politici e diplomatici ancora in attività o a riposo, ed industriali (tanto per citarne alcuni: l’attuale vice-presidente Dick Cheney, l’ex presidente e recente premio Nobel per la pace Jimmy Carter, gli ex consiglieri presidenziali Zbigniew Brzezinski e Henry Kissinger, e poi Frank Carlucci presidente del gruppo industriale Carlyle, e molti altri: insomma alcuni fra gli uomini più potenti ed influenti del pianeta).
In tale documento, intitolato “Strategic Energy Policy Challanges for the 21st Century”, vengono studiati, analizzati, e commentati senza ambiguità, i termini della sfida energetica che gli Stati Uniti devono affrontare per il ventunesimo secolo.
L’analisi che si propone della situazione attuale è estremamente allarmante: senza un intervento deciso che ribalti la situazione, gli Stati Uniti andrebbero incontro nel termine di pochi anni ad una crisi energetica causata da un incontrollato aumento dei costi del petrolio dovuti essenzialmente a crisi internazionali che renderebbero estremamente insicuri gli approvvigionamenti. La strada da percorrere è dunque quella di creare, con ogni mezzo, nel termine di tre-cinque anni, condizioni politiche e di infrastrutture che limitino tali impatti.
Nel concreto, le strade da percorrere sono quelle di rendere gli Usa sempre meno dipendenti dal petrolio mediorientale e rendere invece accessibili le risorse dell’Asia centrale, ossia uno spostamento epocale degli interessi geopolitici degli Stati Uniti. Infatti, si dice, la dipendenza petrolifera verso il medioriente rende l’America estremamente vulnerabile e ricattabile.
Le conseguenze previste dai redattori del rapporto potrebbero essere, se tali soluzioni non venissero adottate, drammatiche: si fa espresso riferimento a problemi di sicurezza nazionale, ad una pesante recessione economica, a scontri sociali interni. Per illustrare la situazione viene usata una efficacissima metafora: gli Stati Uniti sarebbero come una macchina lanciata a 140 km/h, ma con una sospensione rotta. Finchè la strada rimane liscia tutto sembra procedere al meglio, ma alla prima buca si rischia di finire fuori strada. Dopo l’analisi, nel rapporto si incarica il governo americano di divulgare presso l’opinione pubblica queste “dolorose verità” e si dettano linee guida e proposte che l’attuale amministrazione dovrebbe adottare: fra le opzioni utilizzabili per il raggiungimento degli obiettivi, quella militare è vista come la più efficace.
Il secondo documento da prendere in considerazione è il rapporto dell’Aie (Agenzia internazionale per l’energia) divulgato in seno alla conferenza dell’Opec di Osaka. Contenuto del documento sono le prospettive energetiche mondiali da qui al 2030, come dire un’analisi dello sviluppo economico (e dunque politico) del futuro.
Le linee guida del documento dimostrano come allo stato attuale non esistano scenari credibili per una crescita di risorse energetiche alternative (rappresenteranno il 4% nel 2030): nel prossimo trentennio, infatti, le risorse fondamentali rimarranno il petrolio e il gas naturale, la domanda di derivati del carbon fossile è destinata ad aumentare e consolidarsi (il peso delle richieste nel computo del commercio mondiale passerà dal 45% attuale al 58% per il petrolio, dal 16% al 28% per il gas), e le scorte per questo lasso di tempo rimangono ampie. I problemi che preoccupano l’Aie sono piuttosto gli stessi prospettati nel documento del CFR, e cioè rendere “sicuri e stabili” gli approvvigionamenti e controllare la politica dei prezzi. Infatti, secondo le stime che si fanno nel documento, se la media attuale di un barile di petrolio è di 20 dollari (aldilà delle congiunture che possono fare fluttuare i costi, ma solo in maniera temporanea), nel 2030 il prezzo, secondo il trend prospettato, sarà aumentato di oltre il 30%.
Dal punto di vista geopolitico due sono i dati fondamentali: l’Opec è e sarà il perno della futura produzione energetica (a meno che lo scenario politico internazionale, evidentemente, non cambi) e al suo interno il peso della produzione mediorientale resterà maggioritario; l’aumento di domanda di combustibili fossili e il relativo aumento dei prezzi sarà provocato dallo sviluppo di paesi asiatici a grande intensità demografica, come India e Cina, che punteranno su queste risorse energetiche per avere una crescita rapida anche se dolorosa per costi ambientali.
I due documenti dunque, anche se da prospettive diverse, forniscono un quadro omogeneo: il “grande gioco” per l’egemonia mondiale viene intrapreso sullo scenario delle risorse energetiche. Per gli Stati Uniti questo ha una doppia valenza: sul piano interno significa scongiurare problemi di recessione economica e di pace sociale, sul piano esterno significa mantenere quel vantaggio che ne fa l’unico riferimerimento per la globalizzazione economica e culturale. Le domande a cui si deve rispondere a questo punto sono: perché e di quali crisi regionali hanno paura gli Stati Uniti? Quali sono gli avversari che a livello regionale o globale possono contrastare gli interessi “imperiali” americani?
Nel 1945, su una portaerei al largo del mar Rosso, l’allora presidente americano Roosevelt e il monarca saudita Ibn Saud, siglavano un accordo che avrebbe segnato gli scenari mondiali dal dopo guerra fino ad oggi. Gli Stati Uniti erano pronti a candidarsi come i “guardiani” della monarchia di Riyad, in cambio avrebbero stipulato vantaggiosi accordi petroliferi che li ponevano al riparo da qualsiasi “guerra energetica”.
Tale comunione di intenti è proseguita, con alti e bassi, ma con sostanziale reciproca soddisfazione, fino agli scenari attuali: secondo molti consiglieri americani essa sarebbe però giunta ad esaurimento.
L’attuale monarca, re Fahad, è gravemente malato, e di fatto la politica saudita è già nelle mani del principe ereditario Abdullah. Ma la lotta per la successione, in realtà, sembra appena cominciata e si preannuncia lunga e con esiti incerti. Se infatti il principe Abdullah è fautore di una politica moderata e di continuità nei rapporti con l’alleato americano, l’aristocrazia e la società civile saudita è sempre più percorsa da fermenti anti-occidentali. Evidentemente settori ampi del potere di Riyad soffrono dell’ingombrante presenza occidentale che soffoca l’identità islamica dell’Arabia Saudita, senza tenere conto dei risvolti economici. Se molti infatti si sono grandemente arricchiti con i cosiddetti petro-dollari, ampia parte della società ha visto la ricchezza di una risorsa strategica mondiale come quella del petrolio, orientarsi verso altri lidi che non erano il medio oriente. Lo sceicco bin Laden (un saudita, appunto) non è altri che il frutto di questo misto di istanze nazionalistiche, di revanscismo arabo, di orgogliosa rivendicazione culturale e religiosa, di sofferenza per risorse economiche usurpate da stranieri (oltre tutto “infedeli”). Non a caso i servizi segreti americani hanno individuato nell’area dell’aristocrazia araba i grandi sponsor occulti del terrorismo islamico, non a caso la maggior parte dei terroristi dell’ 11 settembre erano sauditi.
Se queste istanze diventassero prevalenti, o se il principe Abdullah fosse costretto a far loro concessioni in chiave anti-americana pur di mantenere il potere, lo scenario che si aprirebbe per gli Stati Uniti sarebbe estremamente pericoloso.
Quando alla fine degli anni ’70 lo scià di Persia Reza Palevi venne cacciato da una rivolta popolare, il mondo venne percorso da un brivido. L’occidente fu colto di sorpresa da questa rivoluzione asiatica che rischiava di mutare molti scenari. In piena guerra fredda, infatti, lo spostamento di uno stato come quello persiano (un produttore petrolifero) dal campo filo-occidentale a quello filo-comunista poteva significare dare ad una parte o all’altra un vantaggio decisivo. Ma ben presto ci si accorse che nella neonata Repubblica dell’Iran sarebbero prevalse le istanze confessionali degli ayatollah guidati da Khomeini, mentre a soccombere sarebbero stati i tentativi progressisti della leadership laica guidata dal primo presidente dell’Iran liberato, Bani Sadr. In realtà, una Repubblica islamica faceva molto meno paura all’occidente: essa considerava sia gli Stati Uniti che l’Unione Sovietica come diverse espressioni di uno stessa entità satanica, e allo stesso modo dovevano essere combattuti. Con un’Iran equidistante, magari contenuto da un fedele alleato (si ricordi la quasi decennale guerra Iran-Irak), gli Stati Uniti potevano tutto sommato convivere, e magari sottobanco continuare a flirtare o fare affari (si ricordi lo scandalo Irangate che lambì l’amministrazione Reagan-Bush sr.).
Nei suoi oltre venti anni di vita, la Repubblica islamica dell’Iran ha già attraversato molte fasi: è uscita moralmente vincitrice dalla dolorosissima guerra con l’Irak (un milione di morti e gravi danni economici), ha retto l’urto della morte del padre della rivoluzione Khomeini, può contare su sfere di influenza che oltrepassano i confini nazionali (in Afghanistan è vicina ai signori della guerra Ismail Khan e Gulbuddin Hekmatyar che controllano il confine orientale, in Irak è vicina ai gruppi sciiti anti-Saddam che sono maggioritari al sud, in Libano finanzia il gruppo Hezbollah): può ben dirsi che l’Iran è una potenza regionale in ascesa. Ma nel quadro non mancano le ombre.
Quella che fu l’arma vincente della guerra contro l’Irak, rischia ora di trasformarsi in un boomerang: il grande sviluppo demografico consentì infatti all’Iran di reggere l’urto del dopoguerra, quando solo grazie al sacrificio umano di intere generazioni di giovani, il paese non venne sopraffatto. Le difficoltà socio-economiche stanno però venendo al pettine: quella iraniana è una società giovane e in espansione, ma questa massa umana deve fare i conti con una economia fragile che non è riuscita (soprattutto a causa della guerra e dell’embargo economico a cui, nel silenzio dei media, è sottoposta) a diversificare le proprie fonti di ricchezza che si reggono unicamente sul petrolio, e il problema della disoccupazione è oggi tanto grave in Iran quanto in qualsiasi altra società industriale, senza però averne i vantaggi. Le nuove generazioni soffrono infatti la condizione di una società chiusa nei suoi dogmi religiosi, esse non sentono più il fervore rivoluzionario che aveva consentito di cacciare lo scià, la mancanza di reale democrazia e libertà di espressione sono avvertiti come soffocanti. Questo stato di cose ha condotto anche a sommosse popolari nate nelle università iraniane.
La situazione attuale è quanto mai in evoluzione: le istanze riformistiche della società iraniana sono state raccolte in questi ultimi anni dallo stimato presidente politico Khatami. Ma essere il presidente politico (cioè eletto dal popolo a suffragio universale) non significa in Iran avere in mano le redini del potere, esso infatti deve essere condiviso con gli ayatollah che sono i garanti dell’ortodossia religiosa (nella Repubblica islamica iraniana non esiste una effettiva distinzione tra stato laico e stato religioso). Questi ultimi, rappresentati dall’erede di Khomeini, l’ayatollah Khamenei, vogliono mantenere rigidamente le strutture sociali dell’Iran. Lo scontro tra “riformisti” e “conservatori” ha assunto profili anche drammatici, non si è esitato ad arrivare all’uso del terrorismo interno e dell’omicidio politico. La situazione attuale, dopo la recente rielezione a grande maggioranza del presidente Khatami, sembra potersi avviare a soluzione pacifica se non interverranno fattori esterni a destabilizzarla. Certo è che la maggior parte della popolazione è favorevole alle riforme e non sembra disposta ad aspettare all’infinito, Khatami ha assoluto bisogno dell’appoggio internazionale per ottenere spazi di manovra sul campo interno.
Ma pur con queste difficoltà, le prospettive di crescita dell’Iran sono notevoli, di nuovo grazie alle risorse energetiche. La scoperta di importanti giacimenti di petrolio e gas nel bacino del Caspio potrebbe essere il volano in grado di rivitalizzare tutta la regione. Non si hanno ancora dati precisi, ma secondo stime non ufficiali, quando l’estrazione di petrolio sarà giunta a regime, dal Caspio potrebbe arrivare oltre la metà delle riserve mondiali. La politica estera iraniana è stata quella di muoversi finora con cautela, ma l’obiettivo finale è ben definito: queste nuove straordinarie risorse dovranno appartenere ai popoli sui cui territori si trovano.
Durante più colloqui promossi dall’Iran fra i paesi rivieraschi del Mar Caspio, si è tentato di accordarsi su uno status giuridico del bacino che soddisfacesse equamente le parti in causa. Anche l’ultimo round, però, che vedeva partecipare Russia, Kazakistan, Turkmenistan, Iran ed Azerbaigian, è fallito. Evidentemente accordarsi sul caviale (un trattato sulla pesca dello storione del Caspio esiste) è molto più facile che accordarsi sul petrolio. Soprattutto per Kazakistan, Turkmenistan e Azerbaigian, l’idea di un consorzio che sfrutti in maniera indipendente dalle potenze e dalle multinazionali occidentali queste risorse, risulta non percorribile. Questi paesi, giovani e politicamente fragili, sono infatti usciti dall’orbita sovietica per entrare direttamente in quella delle logiche di mercato, e per loro sottrarsi all’influenza delle compagnie petrolifere occidentali appare molto difficile.
Questo stato di cose potrebbe però favorire l’Iran su un contesto più ampio, la Repubblica degli ayatollah potrebbe spendere la moneta della sua indipendenza sul mercato orientale.
La Cina sta infatti cercando di intraprendere la sua partita “globale” e per riuscirci ha lo stesso bisogno degli Stati Uniti: ottenere un accesso sicuro, stabile, economico, alle risorse energetiche. La naturale linea di penetrazione verso il Mar Caspio sarebbe rappresentato dal Kazakistan, con cui la Cina condivide un lungo confine e in cui vive una minoranza etnica di origine cinese. La situazione politica però non lo permette. Le compagnie occidentali (fra tutte si possono citare Texaco, Shell, British Gas, Eni) sono arrivate in Kazakistan fin dall’inizio degli anni ’90 e qui si sono radicate mutando anche gli aspetti sociali di questo paese. Inoltre la dirigenza politica è entrata subito in simbiosi con la nuova realtà: il Kazakistan è una sorta di “democrazia dittatoriale”, una di quelle formule di governo che piacciono tanto ai consigli di amministrazione delle multinazionali. Il presidente Nazarbayev controlla rigidamente gli apparati burocratici e di sicurezza, i media, il potere giudiziario. Vistosi in difficoltà dopo le prime elezioni vinte, ha pensato bene di cambiare la costituzione per prolungare automaticamente il proprio mandato senza dover passare di nuovo attraverso il voto popolare. Con lui le multinazionali energetiche possono fare affari in assoluta tranquillità, allo stesso tempo, se qualche mira personalistica dovesse incrinare l’idillio, un regime come quello di Nazarbayev è ampiamente ricattabile (anche il Kazakistan potrebbe diventare uno “stato canaglia”).
Ecco dunque aprirsi uno spiraglio per una inconsueta partnership strategico-commerciale fra Iran e Cina. Da un lato potrebbe aprirsi un mercato energetico amplissimo e in forte crescita, dall’altro potrebbe concretizzarsi la possibilità di accedere alle sponde (iraniane) del Mar Caspio.
Dopo queste premesse e questi scenari, appare facile illustrare le motivazioni che spingono gli Stati Uniti all’intervento in Irak. Infatti, con una sola robusta spallata militare al regime di Baghdad, gli americani (anche se sarebbe più corretto dire gli anglo-americani) sono pronti a raccogliere tutta una serie di vantaggi, ognuno dei quali, individualmente considerato, potrebbe valere la posta in gioco.
Dal punto di vista strategico-militare, l’insediamento di basi in Irak consentirebbe lo sganciamento dall’Arabia Saudita con un duplice scopo: da un lato permetterebbe una normalizzazione dei rapporti interni a quel paese (una delle ragioni di attrito tra la monarchia saudita e i suoi oppositori è appunto la presenza dei soldati americani sul suolo sacro dell’Islam), ma questo avverrebbe senza un significativo allentamento del controllo, anche militare, su Ryad.
Dal punto di vista geopolitico regionale, permetterebbe di spezzare proprio al centro quel “cuscino” anti-israeliano e anti-occidentale che va da Teheran a Damasco passando per Baghdad. Tale cuscino è allo stato solo geograficamente ostile, in quanto sia l’Iran che la Siria sono estremamente diffidenti nei confronti del regime di Saddam Hussein, ma se la necessità di difesa da un nemico comune portasse ad una sua saldatura politica, ciò si tramuterebbe in un pericolo mortale per Israele e per gli interessi occidentali nell’area. È necessario intervenire prima che ciò avvenga.
Dal punto di vista economico-energetico porterebbe a vantaggi di breve, medio e lungo termine. L’Irak è il secondo produttore mondiale di greggio dopo l’Arabia Saudita ma le sue risorse sono attualmente congelate per l’embargo economico decretato dall’Onu dopo la guerra nel Golfo, e mantenuto per il fermo volere di Stati Uniti e Gran Bretagna. Il dopo Saddam è già stato pianificato: la produzione ed esportazione dovrebbe tornare a pieno regime ma questa volta sotto il diretto controllo di un consorzio a guida anglosassone in cui l’americana Exxon e anglo-americana Bp Amoco sarebbero i partner principali. I pozzi irakeni hanno bisogno di ingenti investimenti dato il loro stato precario a causa della guerra e dell’embargo, tali investimenti sarebbero molto remunerativi ma queste compagnie non potrebbero rischiare ingenti capitali senza la sicurezza di avere le spalle ben protette dalla presenza militare americana. Lo sfruttamento diretto dei pozzi irakeni consentirebbe nell’ordine di: stabilizzare i mercati finanziari visto che storicamente gli introiti petroliferi dal medio oriente vengono reinvestiti sulle borse di Londra e Wall Street; stabilizzare e controllare definitivamente il prezzo del greggio visto che la commercializzazione di quello irakeno avverrebbe fuori dal controllo Opec: questo rassicurerebbe il mercato interno statunitense e permetterebbe di detenere una formidabile arma ricattatoria da usare per la destabilizzazione economica dei paesi nemici. Questo punto ci porta ad illustrare direttamente i vantaggi geopolitici generali.
Con il famoso ultimo discorso sullo stato dell’Unione pronunciato da George Bush jr., la politica estera americana ha fatto un salto di qualità. Nel delineare la forma del “nuovo ordine mondiale” (espressione coniata da suo padre, Bush sr.) il presidente statunitense ha inserito tra gli “stati canaglia”, cioè tra coloro che sono i principali ostacoli di questa visione globale, l’Irak, l’Iran e la Corea del Nord. Se l’inserimento della Corea ha destato qualche sorpresa negli ambienti diplomatici (e può essere letto come una sorta di messaggio allusivo in chiave anti-cinese) non altrettanto può dirsi per le minacce rivolte agli altri due stati asiatici. La sorpresa è arrivata quando Bush ha voluto specificare i termini per i quali considerava l’Iran uno stato canaglia.
Dice Bush: “Se al popolo iraniano venisse concesso il diritto di scegliere, sicuramente sceglierebbe la libertà e non troverebbe un amico migliore degli Stati Uniti nel suo cammino verso la democrazia” e poi riferendosi agli uomini che incarnano l’attuale tendenza riformista della presidenza iraniana, li definisce “troppo deboli, inefficienti, e non abbastanza seri nel mantenere le promesse”. Un attacco talmente diretto che non lascia spazio a possibili fraintendimenti. Qual’ è però il suo significato politico profondo?
Nell’accomunare in un unico bersaglio riformisti e conservatori, col suo appello rivolto direttamente al popolo iraniano, Bush comincia una politica di largo respiro per la destabilizzazione e la eventuale caduta del regime degli ayatollah. Il bersaglio principale delle sue parole è chiaramente il presidente Khatami, limpido il tentativo di sua delegittimazione politica ed esposizione agli attacchi dei nemici interni. Per le mire americane, infatti, la figura di Khatami è molto più pericolosa di quella di Khamenei: una leadership che nel contempo riuscisse a modernizzare socialmente il paese ed all’esterno riuscisse a coagulare una politica regionale indipendente , ad esempio, per lo sfruttamento delle risorse energetiche del Caspio, realizzerebbe una ascesa fenomenale per la potenza regionale dell’Iran ed automaticamente intralcerebbe enormemente la penetrazione americana nell’area. Anche per l’immediato futuro non ci sarebbe nessuna sorpresa in mosse dell’amministrazione americana che tendessero (in maniera assolutamente tattica) a rafforzare l’ala religiosa in modo da radicalizzare il conflitto fra Teheran e l’Occidente.
L’occupazione militare dell’Irak non farebbe poi che accelerare la definizione del quadro. Prima di tutto l’Iran verrebbe così a trovarsi fisicamente circondato dagli eserciti anglo americani chiudendo la morsa iniziata con l’invasione dell’Afghanistan, secondariamente (ma non per importanza) la capacità di controllo diretto delle risorse irakene e il conseguente abbassamento del prezzo del petrolio, consentirebbe di strangolare la già fragile economia iraniana che ha proprio dall’oro nero l’unica fonte di ricchezza. A questo punto ben si capisce cosa intendesse Bush quando, invitando il popolo iraniano verso la conquista della libertà, lo rassicurava sul fatto che su quella strada avrebbero trovato gli Stati Uniti come loro migliori amici. Se poi ciò non bastasse, il casus belli che porterebbe allo scontro diretto è già stato individuato: la presenza di Hezbollah (o Hizbullah come taluni preferiscono scrivere) cioè del “partito di Dio” filo-iraniano nel sud del Libano, una spina nel fianco per Israele che vive uno stato di perenne tensione guerreggiata con questa organizzazione e che gli americani non hanno esitato ad inserire tra le minacce terroristiche più gravi (per alcuni superiore ad al-Qaeda). Molti pacifisti paventano l’intervento in Irak pensando che potrebbe infiammare l’intera regione: non vedono che la destabilizzazione della regione potrebbe proprio essere uno dei motivi ricercati dai fautori dell’intervento visto che permetterebbe ad Israele una resa dei conti definitiva in Palestina e Libano, e per gli Stati Uniti accelerare le dinamiche dello scontro con Teheran.
La “normalizzazione” politica dell’Iran permetterebbe dunque di chiudere quella che attualmente è l’unica falla nei progetti americani per il bacino del Caspio (dell’incapacità della Russia di svolgere un ruolo autonomo cercheremo di dire nel prossimo paragrafo), e questo consentirebbe tra l’altro di aprire dei rapporti commerciali con la Cina da una posizione di privilegio. Avere per gli Stati Uniti la mano sul rubinetto delle fonti energetiche consentirebbe di regolare il grado di sviluppo dell’immenso paese asiatico: se il grande mercato cinese è assolutamente appetibile per i capitali mondiali, una sua crescita autonoma non è auspicabile. L’Impero vuole soci di minoranza, non competitori.
Quali altri attori si muovono sulla scena della politica internazionale? Un ruolo da comprimario di lusso è sicuramente quello della Russia di Putin. Dalla disgregazione dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni ’90, l’ex “impero del male” ha perso gran parte della sua influenza politica soprattutto in quelle zone che appaiono attualmente nevralgiche, come il Caucaso e l’Asia centrale. Dal grembo sovietico sono nati una serie di stati nazionali che ben presto, in modo più o meno diretto e palese, si sono sganciati da Mosca e sono entrati nell’orbita del mercato capitalistico, come dire (per quanto riguarda la loro politica energetica ad esempio) aver consentito l’ingresso a massicci interessi di multinazionali straniere. Si è già detto della situazione in Kazakistan, ma con diverse condizioni quella stessa può valere per molti altri.
La commercializzazione del petrolio e del gas del Caspio è già cominciata attraverso quelle linee commerciali “alternative” che consentono di eludere il controllo russo. La campagna militare afghana è stata, sotto questo aspetto, illuminante. Se per anni le multinazionali avevano ingaggiato una lotta nel tentativo di assicurarsi la concessione delle pipelines che dovevano attraversare il paese, con la conclusione della guerra la situazione si è rapidamente sbloccata: lo scorso 16 settembre, quindi a meno di un anno dall’inzio della guerra, i governi di Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan hanno presentando alla Banca dello sviluppo asiatico un progetto di fattibilità per un gasdotto dalla capacità annua di 15 milioni di metri cubi. Sarebbe superfluo dire che tale gasdotto è frutto di un consorzio commerciale guidato dalla compagnia americana Unocal (sarà poi un caso che il nuovo presidente afghano Karzai fosse proprio consigliere per la Unocal?).
Se in questo caso siamo ancora allo stadio di progettazione, per un’altra linea commerciale (dal Caspio verso occidente) si è giunti recentemente alla fase di messa in opera: lo scorso 18 settembre si sono inaugurati i lavori per il gasdotto Azerbaigian-Georgia-Turchia che attraverso il Caucaso dovrebbe portare la risorsa da Baku, sul Caspio, al porto turco di Ceyan sul Mediterraneo. Alla presenza dei tre presidenti interessati, il segretario Usa per l’energia Spencer Abraham, è stato latore di un messaggio di George Bush che ha definito il progetto come “componente essenziale del corridoio energetico Est-Ovest”. Anche in questo caso siamo alla presenza di un consorzio commerciale internazionale ma a guida anglo americana: il partner principale è la Bp Amoco, seguono di nuovo la Unocal e l’altra americana Amerada Hess, la norvegese Statoil e via di seguito compagnie azere, francesi, italiane, giapponesi. Nessuna russa.
Anche per la linea commerciale che dal Caspio porta a nord-ovest, i russi stanno incontrando notevoli difficoltà a causa del conflitto ceceno. Lo stato di guerriglia fra l’esercito di Mosca e gli indipendentisti ceceni ha più volte portato ad attacchi e danneggiamenti del gasdotto di Grozny (capitale della Cecenia) inducendo i russi a trovare altre vie (più lunghe e dunque più costose) per oltrepassare la piccola regione caucasica. La recrudescenza degli scontri (l’atto terroristico contro il teatro di Mosca è solo l’ultimo di una catena di violenza e conflitti che hanno provocato centomila vittime solo fra i civili) non lascia comunque i russi guardare con ottimismo al pacifico sfruttamento economico della regione. La possibilità di un allargamento del conflitto è sempre presente: a più riprese Mosca ha minacciato la Georgia di non dare asilo ai “terroristi” ceceni, i quali farebbero base nella valle di Pankisi, in territorio georgiano appunto, e da lì muoverebbero per rapide incursioni in territorio russo. Se, finora, alle minacce non sono seguiti i fatti è solo perché gli Usa, legati dagli accordi commerciali con la Georgia di cui si diceva, non lo permetterebbero.
L’unico apparente successo commerciale colto dai russi negli ultimi anni sembrava essere l’accordo tra la compagnia petrolifera Lukoil e il governo di Baghdad per la gestione e ammodernamento degli impianti di estrazione irakeni, e in seguito per il loro sfruttamento in vista di una possibile fine dell’embargo decretato dall’Onu. Tale accordo si collocava in una più ampia relazione economico-commerciale per un ammontare di 40 miliardi di dollari. In definitiva, dalla fine degli anni ’90 ad ora, le uniche compagnie petrolifere attive in Irak erano quelle russe e quelle francesi con il colosso Total-Elf-Fina. Bisogna dunque ammettere che il pacifismo e la prudenza russa e francese nella crisi irakena, nascono in realtà da interessi economici ben precisi e determinanti. Tale situazione è però in aperta evoluzione: in una recente conferenza svoltasi negli Stati Uniti, gli oppositori anti-Saddam in esilio hanno chiaramente detto che dopo la destituzione del dittatore di Baghdad, tali accordi commerciali dovranno essere interamente ridiscussi. Le compagnie americane, come si diceva, stanno già scaldando i motori.
Viene da chiedersi come mai Mosca non abbia opposto nessun tipo di resistenza fattiva a questo inesorabile sgretolamento delle proprie sfere di influenza. La risposta ci può venire da una conferenza bilaterale russo-statunitense sull’energia che si è svolta a Houston ai primi di ottobre, durante la quale il ministro dell’energia russo Igor Yusufov ha dichiarato che il suo paese avrebbe bisogno di investimenti nel settore petrolifero pari a 50 miliardi di dollari, somma che solo gli Usa (o forse l’Europa se fosse un’entità politica capace di muoversi unitariamente) potrebbe garantire. Il progetto di partnership fra Usa e Russia prevederebbe questo genere di scambio: da qui al 2010 gli Stati Uniti diverrebbero il grande importatore del petrolio russo attraverso la linea commerciale siberiana e pacifica, i russi rinuncerebbero alle linee commerciali centro-europee e questi approvvigionamenti sarebbero garantiti attraverso il corridoio 8 caucasico e sub-balcanico controllato dagli americani. I soli perdenti sarebbero in questo caso i grandi porti commerciali del nord Europa come Amburgo ed Anversa che rimarrebbero, al contrario di adesso, tagliati fuori da tutte le rotte fondamentali. Di questo sembra essersi accorta solo la Germania che sembra voler propugnare infatti (e decretando così un gelo storico nei rapporti tra Berlino e Washington) una sorta di german way che non sia sempre e soltanto di semplice accondiscendenza agli interessi americani.
La nuova divisione del mondo sulle rotte del petrolio sembra definita, e così stando le cose, l’Impero gioca una partita fondamentale e da vincere a tutti i costi. L’Europa resterà a guardare? L’ex generale Carlo Jean, attualmente analista strategico e docente per la Luiss, ha così intitolato un breve saggio pubblicato sulla rivista Limes: “Per servire a noi stessi dobbiamo servire agli americani”. L’articolo contiene anche spunti di analisi condivisibili, ma basterebbe osservare una cartina geografica per capire che l’Europa, e, a maggior ragione, l’Italia, debbano avere una vocazione mediterranea e non atlantica. Ma forse Carlo Jean intendeva dire soltanto che si debba semplicemente servire gli americani.
Ottobre 2002
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Per la stesura di questo articolo si sono utilizzate le seguenti fonti:
www.inventati.org/internattiva
ed inoltre la rivista “Limes” e la trasmissione Rai “C’era una volta”.
L’ASIA CENTRALE VAL BENE UNA (O PIÙ) GUERRE?
Collettivo di Fisica dell’Università La Sapienza (Roma)
Centro italiano Studi per la Pace – http://www.studiperlapace.it – centro@studiperlapace.it (dal 1999)
Che fine ha fatto la Russia?
L’8 dicembre 1991 l’URSS cessa di esistere. Al suo posto nasce la Comunità di Stati Indipendenti (CIS) formata dalla Russia e dalle ex-repubbliche sovietiche.
Da quel momento è veramente finita la guerra fredda e con essa il lungo periodo di tensione internazionale?
Secondo il generale USA W.E. Odom “la scomparsa della minaccia sovietica non ha reso obsoleto il sistema di sicurezza guidato dagli USA e creato per contenerla; l’idea diffusa che la fine della guerra fredda abbia rimosso il bisogno di una leadership degli USA nelle tre aree strategiche (Europa, Giappone-Corea, Golfo Persico-Asia Centrale ndr) è pericolosamente sbagliata”, “anzi è divenuta più importante proprio per il collasso dell’URSS. Questo è certamente vero nel Transcaucaso e nell’Asia Centrale “.
La caduta della Russia rende appetibili le ex-repubbliche sovietiche, ora accessibili al mercato occidentale, sostanzialmente per due ragioni: una, di carattere prettamente economico, scaturisce dal bisogno dell’Occidente di espandere il suo mercato, ormai stagnante, in nuove aree e di impossessarsi delle notevoli risorse naturali, ancora inesplorate, presenti in alcuni di questi Paesi; l’altra, di natura strategica, nasce dal desiderio di accerchiare la Russia, pur sempre potenza nucleare, attraverso una strategia a tenaglia.
A nord la Nato comincia ad allargarsi, senza incontrare troppi ostacoli, verso l’Europa Orientale e i Paesi baltici, mentre a sud procede la penetrazione statunitense nel Caucaso e nell’Asia Centrale.
E’ soprattutto qui, in Asia Centrale, che si apre il cosiddetto “Grande Gioco”, sia in quanto si tratta di una zona ancora da spartire, sia perché essa è ricca di risorse naturali.
Che cosa c’è di tanto “speciale” in Asia Centrale?
Soffermiamo la nostra attenzione sulla zona del Turkestan occidentale, che comprende Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan, Turkmenistan e Kirghizistan.
Si tratta dei 5 Paesi ex-sovietici meno evoluti, trovatisi, all’atto dell’indipendenza dall’URSS, alle prese con i problemi di una confusa transizione economica dovuta all’obsolescenza del preesistente apparato industriale.
La prima risorsa di questi Paesi è l’agricoltura, sebbene pessime politiche agricole, quali la monocoltura del cotone e l’eccessivo sfruttamento agricolo, abbiano causato veri e propri disastri ambientali. Tuttavia questa parte del Turkestan riveste un forte interesse per il Grande Gioco asiatico, che si riassume così: vi è abbondanza di fonti energetiche e materie prime ancora da sfruttare, si tratta di zone di transito per gasdotti e oleodotti; inoltre questi Paesi sono grandi produttori di oppio e vie di passaggio per le droghe orientali. La politica di questi Paesi è un giochino ben noto: hanno bisogno di riforme strutturali, ma non hanno i soldi per realizzarle; con riforme fittizie che migliorano alcuni indicatori economici, ma non il reddito pro-capite, cercano disperatamente di attirare i capitali stranieri.
Tutte queste repubbliche sono zeppe di idrocarburi e di materie prime: in particolare si segnalano Uzbekistan per gas e oro, Kirghizistan per i metalli, mentre per il gas soprattutto il Turkmenistan.
Quest’ultimo nel 1998 è stato il 4° produttore mondiale di gas, che al 95% viene esportato. Ecco qualche dato circa gli investimenti stranieri, considerando che spesso insediamento economico ha significato anche penetrazione militare; è il caso di Uzbekistan pieno di basi USA, e del Tagikistan, che ospita 10000 soldati russi.
Alcuni di questi Paesi hanno goduto di aiuti del FMI e si stima che fino al 1998 investitori occidentali e orientali abbiano speso 5 miliardi di dollari e ancor più ne spenderanno in futuro. Vediamo qualche nome: Newmont Mining (industria estrattiva), Technip (raffinerie), Daewoo, Siemens, Stet, Deutsche Telekom, Coca Cola. Il settore trainante è però quello dell’estrazione e trasporto di gas e petrolio, che vede a far la parte del leone Russia (Gasprom), USA (Unocal e Chevron), Turchia e Cina, settore ancor più importante in quanto chi controlla le vie del petrolio detiene il potere.
Al momento dell’indipendenza queste repubbliche del Turkestan, tutte desiderose di entrare in contatto con l’area del dollaro, ma prive di sbocchi marittimi, si vedevano ancora costrette ad appoggiarsi alla rete di trasporto dell’ex-URSS, (peraltro inadeguata ai nuovi giacimenti) in mano ad una Russia allora senza futuro e che spesso appariva più che altro come una rivale nella “corsa all’ovest”. Molto più conveniente sarebbe stato per loro puntare direttamente verso l’Oceano Indiano.
E’ illuminante il caso del Turkmenistan, che, come vedremo, ci riporterà all’attuale guerra. A metà degli anni ’90 la Gasprom, che detiene il monopolio dell’esportazione, si rifiuta di vendere all’Occidente il gas turkmeno, tenendolo per sé. Il Turkmenistan guarda allora all’Iran, che offre il suo porto di Bandar-Abbas sul Persico; questo progetto trova l’opposizione USA che contropropone un gasdotto Caspio-Turchia (Baku-Ceyan) e soprattutto appoggia un progetto del Pakistan che propone un gasdotto Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan ( porto di Gwadar). Questo progetto prevedeva un ruolo di primo piano della statunitense Unocal e della saudita Delta-Oil. Siamo negli anni in cui il regime talebano è in buoni rapporti con gli USA e la via di passaggio rappresentata dall’Afghanistan è aperta.
Torniamo adesso agli anni nostri e leggiamo dalla “Rivista ENI”:
Le riserve di] gas (Turkmenistan, Uzbekistan, Kazakhstan) sono dell’ordine di 15-20 trilioni di mc. Altri quantitativi si potrebbero aggiungere a seguito di nuove attività esplorative.
Inoltre:
La distanza dai mercati potenziali, la mancanza di gasdotti per le esportazioni proiettano lo sfruttamento delle riserve di gas in una prospettiva temporale di lungo termine. Le alternative di trasporto al sistema russo verso i mercati europei, verso l’Oceano Indiano o verso la Cina hanno il problema dei transiti attraverso l’Iran (sottoposto ad embargo americano) o l’Afghanistan (la cui situazione interna è sempre fluida – eufemismo sostitutivo di ” condizione perenne di guerra civile”- ndr), oppure comportano investimenti che rendono, ad oggi, il gas centroasiatico meno competitivo rispetto a quello proveniente da altre aree.
Il nuovo Grande Gioco
Cerchiamo ora di disegnare una mappa delle strategie effettive messe in atto dai governo USA, in completo accordo con gli interessi delle multinazionali.
Esaminiamo ora un documento di A.W. Burke della Logistica del corpo dei marines scritto per l’ultimo numero del ’99 su “Strategic Review”, dello U.S. Strategic Institute di Boston, in commento del documento presidenziale ” National Security Strategy” del 30/10/1998: ” L’insieme dei campi energetici della regione Asia centrale-Medio Oriente contiene la più grande concentrazione mondiale di riserve di idrocarburi e merita l’attenzione statunitense. Assicurare alle compagnie USA la leadership nello sviluppo delle risorse nella regione e azzerare l’influenza russa e iraniana sull’esplorazione e sviluppo dei campi energetici, nonché sulle direttrici delle pipelines per l’esportazione costituisce la base di quella politica.”
Seguono raccomandazioni che così riassumiamo:
- Pieno supporto alla realizzazione delle condotte transcaspiche ( tra cui la Baku-Ceyan) che avrebbero il pregio di mettere fuori gioco le vie controllate da Iran e Russia
- Limitare la penetrazione russa nella regione
- Sostenere la Turchia in quanto fedele alleato contro Russia ed Iran
- Controllare l’Iran
- Coltivare il Pakistan in chiave anti-Iran; “Il Pakistan è già un possibile punto di passaggio per l’esportazione del gas (pur di passare per l’Afghanistan, ndr)”
- Aumentare la presenza militare americana in Asia Centrale istituendo rapporti di cooperazione con i vari governi locali.
Come agiscono in questo nuovo contesto strategico le altre potenze? Abbiamo ragione di ritenere che la condotta perseguita sia la stessa degli USA.
L’Iran va accrescendo il suo potenziale militare da tempo e ha di recente siglato un accordo con Mosca per rifornimenti bellici per oltre 300 milioni di dollari all’anno.
La Cina stessa ha raggiunto un importante accordo per l’acquisto di armi dalla Russia, con la quale ha anche firmato un accordo sulla riduzione delle truppe di frontiera, chiudendo in tal modo un conflitto sul riconoscimento di alcuni confini che si trascinava da anni.
GIOCHI DI POTERE IN AFGHANISTAN (PARTE PRIMA)
Prima fase: 1979-1989, la sporca guerra Urss-Afghanistan
Dal ’79 al ’89 si svolge la guerra Urss-Afghanistan. Vediamo quali sono i retroscena di questa guerra e che conseguenze ha avuto nello scenario del mondo islamico.
Un passo indietro: il 1973 è l’anno in cui, con un colpo di stato ortganizzato dal principe Mohammed Daud che detronizza il re Zahir Shah, l’Afghanistan viene proclamato una repubblica; nel ’78 il Partito Democratico del Popolo afghano (PDPA), filo-sovietico, dà il via alla “rivoluzione d’aprile” che porta alla nascita della Repubblica Democratica dell’Afghanistan, sotto la guida di Mohammad Taraki.
Tuttavia le riforme del nuovo regime, volte alla sovietizzazione e alla laicizzazione del paese, alimentano il malcontento di larghi strati della popolazione.
E’ questo il contesto in cui comincia a organizzarsi la resistenza islamica armata.
A metà del ’79 le formazioni della guerriglia islamica riunite in un unico fronte di resistenza sostenuto da Iran Pakistan ,Cina, controllano quasi l’80% del territoro afghano. Taraki viene ucciso e il PDPA si spacca definitivamente. L’URSS,
di fronte alla minaccia dell’estansione della ribellione islamica alle vicine repubbliche di Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan, decide di invadere l’Afghanistan oltrepassando il confine nel dicembre ’79.
Nel gennaio ’80 gli Usa offrono al Pakistan un piano di aiuti economici e militari per arrestare l’avanzata dell’Urss in Afghanistan, ma era già da tempo che la Cia tendeva la sua longa manus verso l’area in questione. Da un’intervista a Zbigniew Brzezinsky,ex consigliere per la Sicurezza Nazionale Statunitense, da Le Nouvel Observateur (Francia) 15 Gennaio 1998 :
Brzezinsky: Secondo la versione ufficiale della faccenda, gli aiuti ai Mujaheddin da parte della CIA sono cominciati durante il 1980, ovvero, dopo che l’armata rossa aveva cominciato l’invasione dell’Afghanistan il 24 Dicembre 1979. La realta’, rimasta fino ad oggi strettamente celata, è completamente diversa: è stato il 3 luglio 1979 che il presidente Carter ha firmato la prima direttiva per aiutare segretamente gli oppositori del regime filo sovietico di Kabul.
Quello stesso giorno ho scritto una nota al presidente nella quale si spiegava che a mio parere quell’aiuto avrebbe determinato un intervento armato dell’unione sovietica in Afghanistan.
Domanda: nonostante questo rischio lei ha sostenuto questa azione segreta. Ma lei stesso desiderava questo intervento sovietico ed ha cercato di provocarlo?
Brzezinsky: non e’ proprio cosi?. Non abbiamo spinto i russi ad intervenire, ma abbiamo consapevolmente aumentato le probabilita’ di un loro intervento.
Come si attua la strategia USA in questo contesto?
Il ruolo fondamentale è svolto dai servizi segreti pakistani (ISI) che ricevono intelligence e finanziamenti da USA e Arabia Saudita ( sono questi gli anni dell’alleanza economica tra la famiglia Bush e la famiglia saudita dei bin Laden, al cui proposito torneremo in seguito). L’ISI gestisce autonomamente i fondi americani e la guerra contro la Russia non viene presentata al popolo afghano e ai volontari stranieri (che d’ora in poi chiameremo arabi-afghani) come una guerra pro-America, ma come una jihad islamica contro gli infedeli comunisti. I pochi ufficiali, che in realtà erano a conoscenza del vero ruolo americano, lo hanno silenziosamente accettato, pur di abbattere l’allora principale nemico russo.
Citiamo qualche dato: al 1987 si stima che l’America avesse fornito alle forze della guerriglia 65000 tonnellate di armi, fra cui i micidiali missili Stinger, e aiuti economici fino a 470 milioni di dollari. Con l’appoggio della Cia l’ISI arrivò ad avere uno staff segreto di ben 150000 persone, a tutti gli effetti una vera e propria struttura parallela di governo.
Agli inizi dell’89 è definitivo il ritiro delle truppe sovietiche e la sconfitta russa (13310 morti e 35478 feriti ) contribuisce in modo determinante alla dissoluzione dell’Urss, come ben previsto dagli strateghi americani.
Seconda fase ’89’ 92- ascesa dei mujhaeddin
Al di là dell’alleanza con gli usa il pakistan ha interesse a installare un governo islamico a Kabul subalterno ai suoi scopi. Infatti,Islamabad , vuole “disinnescare”, la questione del Pashtunistan (la “Linea Durand” divideva in due i territoti dell’etnia pashtun tra Afghanistan e Pakistan) in senso favorevole al suo paese, così da potersi dedicare alla ancor più delicata questione del Kasmhir ( ove c’è l’uranio) dove erano in corso guerre sanguinose con l’ India.
Inoltre un governo estremista di stampo islamico-sunnita in Afghanistan avrebbe esercitato una pressione contro il vicino Iran islamico-sciita (“bestia nera” degli Usa ), e contemporaneamente avrebbe costituito un freno per un eventuale ritorno russo nell’area.
Questi calcoli hanno convinti gli Usa a sforzarsi per sostenere la Jihad finchè con la definitiva scomparsa dell’Urss ( dic.’91), l’America si chiama fuori da un’area ormai scomoda a causa della presenza di un pericoloso integralismo islamico da lei stessa precedentemente armato e si dedica prevalentemente ad altre aree ( per esempio il golfo persico dove nel 91 scoppia la guerra ).
L’alleanza dei partiti di Peshawar, che sembrava ormai chiaramente forzata e imposta dall’esterno per interessi economici, i quali peraltro andavano cambiando la loro direzione, si sciolse e scoppiò la guerra civile tra le diverse fazioni della resistenza islamica. Nel 1992 i mujaheddin tagiki sostenuti dall’Iran e fedeli a Rabbani e Massud, si impossessano di Kabul, sottraendola all’uzbeko Dostum e ad Hekmatjar, leader degli afghani-arabi, appoggiato dal Pakistan.
Gli scontri proseguono a fasi alterne fino al 1994, nel momento in cui compaiono i talebani ( che nel 1996 prenderanno Kabul) e Russia e USA tornano ad interessarsi dell’area.
E’ importante capire come la guerra contro la Russia prima e la successiva guerra civile siano state il brodo di coltura di un acceso fanatismo islamico ( di impronta wahabita-saudita). Basti pensare che con soldi sauditi e soprattutto pakistani tra il ’92 e l’82 ben 35000 musulmani provenienti da tutto il mondo hanno infoltito le fila dei combattenti afghani. Il Pakistan in primo luogo ha creato centinaia di madrassas e campi militari in Afghanistan, più volte usate in seguito come centri di reclutamento e addestramento per i soldati da spedire in Kashmir, Kossovo e Cecenia.
Fra l’altro molti combattenti hanno preso a ragionare sul fatto che, se si era riusciti a sconfiggere l’URSS, perché non si poteva fare lo stesso con gli Stati Uniti?
Emblematico è il ragionamento di Brzezinsky.
D: E nessuno di voi e’ pentito di avere supportato l’integralismo ed il terrorismo islamico con armi ed addestramento?
Brzezinsky: Cosa e’ più importante per la storia del mondo? I talebani od il collasso dell’impero sovietico? Qualche musulmano esaltato o la liberazione dell’Europa centrale e la fine della guerra fredda?
L’errore (o forse la dimenticanza ) degli Stati Uniti appare ora in tutta la sua evidente drammaticità.
GIOCHI DI POTERE IN AFGHANISTAN (PARTE SECONDA)
Il nuovo grande ruolo dell’Afghanistan nella partita globale
Mentre all’interno del Paese i capi guerrieri si scontrano massacrando la popolazione civile, all’esterno non è visibile alcuna ricerca di soluzioni politiche per l’Afghanistan. Il mondo intero sembra voler “dimenticare” l’esistenza di questo Paese, per cancellare i misfatti e gli errori di valutazione commessi in questa regione.
Nel 1993 cambia il contesto strategico e l’Afghanistan, ormai completamente disintegrato, torna a farsi importante per i grandi manovratori delle trame del potere mondiale. La sparizione dell’URSS è ormai irreversibile; le ex-repubbliche sovietiche vogliono divenire luogo di approdo dei capitali americani. Teheran si offre ora come via alternativa a i traffici dell’Asia Centrale. Consentire all’Iran di controllare i traffici nell’area avrebbe significato ridurre l’influenza degli Usa da un lato e dell’Arabia Saudita dall’altro sugli stati della CIS dove venivano emergendo nuove riserve di petrolio e di gas. Era infatti sul petrolio del Caspio che l’Iran voleva mettere le mani. In questo momento dunque Usa e Arabia Saudita si ritrovano alleati. Il Pakistan , maggior produttore mondiale di oppio, voleva dal canto suo il controllo delle vie della droga. Con la guerra afghana fu possibile per il Pakistan agire indisturbato su questo territori segnato dagli scontri e bisognoso di finanziare i mujaheddin senza gravare sui bilanci interni, decise di trasferire le piantagioni di oppio in Afghanistan .Con la piena legittimazione della Cia e dell’Isi ebbe inizi un enorme commercio di narcotici che portò l’Afghanistan a produrre, tra il ’92 e il ’95, ben 240 tonn. di oppio annue.
Il 91,5 % del ricavato totale andava ai grandi centri della criminalità organizzata sparsi nel mondo civilizzato per un valore di 9,15 miliardi di dollari all’anno; i restanti 850 milioni di dollari criminali i fermavano in Pakistan, consentendogli di affermarsi come potenza nucleare.
I talebani e la strategia Pakistana di controllo dell’Afghanistan
Il 4 novembre del ’94 un gruppo di guerriglieri assalta nei pressi di Kandahar un convoglio di 30 camion pakistani diretto in Asia Centrale. I taliban, (letteralmente , “studenti di teologia coranica”) compaiono per la prima volta sulla scena come gruppo armato che dichiara di voler proteggere la libertà di traffico e di transito in Afghanistan. Il giorno dopo Kandahar viene presa dai talebani. Agli inizi del ’95 i talebani controllano sette province afghane su 28 e nel febbraio ’95 arrivano a Kabul sconfiggendo in pochi mesi i partiti dei mujaheddin e il governo, sempre più debole e diviso di Rabbani.
E’ chiaro che il convoglio nascondesse dietro la facciata di aiuti umanitari merci scottanti quali armi e droga.
I talebani appartengono alla setta sunnita dell’Islam (inizialmente erano pasthun durani) e vogliono costruire una vera società islamica, sebbene sin dall’inizio non siano chiare le loro concezioni statuali e le loro idee costituzionali.
Tra fasi stagnanti e momenti di rapidissime avanzate militari, sostenuti economicamente e militarmente dal Pakistan, i talebani arrivano nel ’98 a conquistare Mazar-i-Sharif e a controllare il 90% del territorio afghano. Nella prima tappa di questa ascesa un governo talebano filopakistano era la carta che il Pakistan poteva giocare per soddisfare l’alleato americano, che sosteneva fortemente il progetto Unocal di un gasdotto attraverso l’Afghanistan. Nel 1998 tuttavia qualche ingranaggio in questo complesso marchingegno si rompe.
Facciamo ora un passo indietro.
Bin Laden, gli americani e i talebani
La storia degli affari tra la famiglia Bush e la famiglia Bin Laden comincia negli anni ’60 in Texas. Mohammad Bin Laden, sceicco saudita diventato miliardario con commesse edili provenienti direttamente dalla famiglia reale comincia a fare investimenti in America.
Dopo la morte di Mohammad (incidente aereo) il testimone passa al figlio Salem Bin Laden, fratello maggiore di Osama, che “sbarca” in Texas nel ’73, fondando una compagnia aerea. Compagno di avventure imprenditoriale di Salem è il cognato Khalid bin Mafhouz, proprietario della più grande banca privata del mondo e banchiere della casa reale saudita. L’obiettivo dei due è entrare nei circoli finanziari americani che contano per poter poi condizionare la politica americana agli interessi della dinastia saudita. L’uomo giusto da agganciare per questo progetto è in quegli anni G. Bush senior, petroliere, influente uomo politico, direttore della Cia dal ’76.
C’è anche il contatto giusto: si tratta di J.Bath, imprenditore, amico personale di G.Bush junior, agente Cia per i contatti con l’Arabia Saudita , alle dipendenze di Bush senior. L’anno di svolta è il ’78. Bush jr. fonda la Arbusto Energy e i due sauditi, tramite Bath, prestanome di Salem, contribuiscono al capitale iniziale. In seguito Bath procurerà molti affari importanti ai due che entreranno pesantemente nei giri giusti. Gli anni ’80 vedono l’ascesa di tutti questi personaggi. Bush sr. diventa vice presidente nell’81 e presidente nell’88; Bush jr. si da sempre più alla finanza e nonostante le sue società sembrassero sempre a un passo dal fallimento guadagna milioni di dollari , usufruendo di finanziamenti dagli arabie da tutto l’entourage di papà Bush. Salem e Mafhouz si radicano nel tessuto economico americano. Tra l’86 e il ’90 Mafhouz acquisisce il 20% delle azioni Bcci, banca usata come copertura dalla Cia per il riciclaggio del denaro della droga, denaro usato tra le altre cose per finanziare i mujaheddin afghani nella loro guerra contro l’URSS. Tra i consiglieri di tale banca siede tra l’altro Khalifa , sceicco del Bharein.
Sempre Mafhouz è tra i finanzatori della “Blessed Relief”, Ong musulmana recentemente accusata di finanziare Osama Bin laden (di cui Mafhouf è cognato).Tutte queste attività portano Mafhouz al 125° posto nella classifica degli uomini più ricchi del mondo secondo Forbes. Nell’87 Mafhouz acquisisce il 17% delle azioni Harken Energy compagnia di Bush Jr.; subito dopo la Harken ottiene una commessa multimiliardaria dal Barhein ( guarda caso) e le azioni volano alle stelle.Nell’88 però Salem muore come il padre in un incidente aereo e nel ’90 il sodalizio Bush _Mafhouz si rompe.
Bush jr., prevedendo la crisi del petrolio kuwaitiano e la conseguente guerra del golfo ( fatta dal padre) vende tutte le azioni della Harken finchè il prezzo è ancora alto; quando la Harken fallisce Mafhouz è l’unico che ne paga le conseguenze e lo scandalo travolge anche la Bcci che fallisce. Mafhouz dunque scompare di scena e ripara in Irlanda. Attualmente è ricercato come braccio destro di Osama Bin Laden.
Durante la guerra contro l’URSS il giovane Osama combatte al fianco dei mujaheddin; pur essendo antiamericano, sceglie di approfittare del sostegno USA contro l’URSS . Tra il ’90 e il ’91 si rompe il cartello finanziario tra Bush e bin Laden e soprattutto l’America invade il Golfo. Osama si allontana allora dalla casa reale saudita, facendosi promotore degli interessi petroliferi locali. Privato successivamente della cittadinanza saudita, ripara in Sudan, da dove, grazie alle sue immense risorse finanziarie riesce a mettersi a capo di un vasto movimento islamico antiamericano, cresciuto e fanatizzato nel calderone delle guerre civili afghane. Messo in piedi un vero e proprio impero del terrore, si sposta in Afghanistan, dove nel ’96, con la mediazione del Pakistan (qual fatale errore!) conosce il mullah Omar. Mediante un’abilissima operazione politica, supportata dagli aiuti finanziari e militari che bin Laden era in grado di offrire ai talebani, sfila ai pakistani il controllo di ampi settori del regime talebano, rivolgendoli contro l’America. Nel 1998 si sfiora la guerra: bin Laden fa esplodere le ambasciate americane in Africa e l’America risponde con una pioggia di missili sui campi di al-Queda. L’Unocal abbandona il progetto. I tempi per una guerra però non sono ancora maturi. Sono gli anni in cui l’amministrazione Clinton privilegia i Balcani e il Kossovo. Si tenta una negoziazione che sembra aprire uno spiraglio; nel 2000 la Unocal rientra nel progetto, ma è solo uno fuoco di paglia. In seguito il cambio della guardia al governo USA: si insedia al potere l’amministrazione più militarista e connessa con gli interessi petroliferi degli ultimi anni. Dal marzo 2001 ad agosto 2001 l’America offre un ultimatum ai talebani: se ci consegnate Bin Laden (e ci lasciate costruire il gasdotto Unocal, ndr) vi copriremo d’oro, altrimenti vi seppelliremo di bombe.
Bibliografia:
Limes, Le Monde Diplomatique, Il Manifesto, la rivista “Scienza e Vita” del marzo ’98,materiale reperito sul sito http://www.italy.indymedia.org, il libro “Afghanistan anno zero” di Giulietto Chiesa & Vauro, il dossier “Nato” a cura della rivista Guerre&Pace che a sua volta riprende fonti da “The Economist” e “International Herald Tribune”, nonché rapporti ufficiali del governo Usa e rapporti della multinazionale petrolifera Unocal
Categorie:Politica
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