LE SANTE CROCIATE 1

Roberto Renzetti

PARTE PRIMA

        Sul finire del Primo Millennio l’Italia era territorio di conquista per i più differenti eserciti. Risultava frammentata in diversi possedimenti che andavano cambiando abbastanza frequentemente e rapidamente. Alcuni principati, sia al Sud che al Nord d’Italia, si erano fortificati e sembrava dovessero diventare stabili. Vi era poi una forte presenza longobarda a Nord e normanna al Sud. La Chiesa continuava a ricercare il miglior protettore che comunque non doveva discuterne l’autonomia. Il tutto era però diretto da varie potenze straniere, alcune delle quali declinavano ed altre emergevano. Tra queste vi erano le potenze imperiali franca e bizantina, la prima delle quali sostituita o appannata dalla potenza germanica.

        La situazione è ben illustrata dalle seguenti carte geografiche:

          Cammarosano racconta nel modo seguente come si iniziò a porre la questione islamica:

         In questa mobile situazione … si impose il nuovo fatto, destinato a produrre una svolta drastica alla situazione politica d’Italia e ad accentuarne la frammentazione politica: l’espansione islamica.

 
       Sino dagli inizi del secolo VIII i Saraceni(1) d’ Africa avevano compiuto incursioni in Sicilia e in Sardegna, con assedi di città, razzie di tesori e di persone, estorsione di momentanei tributi: sollevazioni dei Berberi e pestilenze, e certo anche una difesa bizantina ancora efficace, avevano impedito che quei raids si consolidassero in operazioni di conquista. Ma nel secondo quarto del secolo IX gli eserciti islamici iniziarono una pressione militare continua, mirando allo stanziamento e al dominio politico, e concentrando sulla Sicilia il loro sforzo. L’obbiettivo erano come di consueto le città. Palermo fu presa nell’831 e sarebbe diventata la capitale della colonia musulmana di Sicilia, formalmente dipendente dall’ emirato aglabita d’ Africa [situato nell’odierna Tunisia e con capitale l’antica Kairouan (Qayrawan), ndr] ma con la fondamentale tendenza di sovranità che caratterizzava oramai da tanto tempo ognuna delle regioni sulle quali si estendeva l’Islam. Poi gli Agareni(1) (come sono detti nei testi latini) combinarono una logorante e incerta guerra nell’isola con puntate frequenti sul continente, impadronendosi di Taranto nell’836, incendiando Brindisi nell1’838, ponendo loro teste di ponte ad Agropoli e verso la foce del Garigliano, devastando la Campania e la Calabria, saccheggiando le Puglie negli anni 840-870. Bad, assalita una prima volta fra 840 e 841, fu occupata stabilmente nell’847 e sarebbe divenuta base delle gesta di Sawdan, il capo musulmano più celebrato per ardimento, ferocia e scaltrezza nelle narrazioni cristiane del tempo. Nel maggio dell’878 cadeva finalmente Siracusa, la città più importante di Sicilia e quella per la quale più a lungo si era combattuto.

 
        Nelle cronache del tempo l’avvento islamico, sia in Sicilia che nel continente, fu spesso ricondotto alle sollecitazioni di maggiorenti locali, ambiziosi, ostili alla corte bizantina, o comunque in lotta con altri potenti. Quello dell’invasore chiamato proditoriamente a sostegno dei propri appetiti, e poi divenuto padrone, è uno stereotipo plurisecolare. Ma come ogni stereotipo ha una radice nelle cose, e non c’è dubbio che i non numerosissimi ma valorosi eserciti arabi e berberi fossero considerati possibili alleati da parte di personaggi e di clan del Mezzogiorno bizantino e beneventano nel loro endemico conflitto per il potere politico. Di fronte all’intervento saraceno nel Mezzogiorno le aristocrazie del principato beneventano non organizzarono una comune difesa, e si incrementarono anzi le loro lotte interne. […]


        Se la pressione dei Saraceni non impedì, anzi contribuì ad accentuare la divisione politica e i conflitti interni dei territori meridionali, essa suscitò d’altro canto nuovi impulsi di intervento dall’ esterno. Sia in Sicilia che nelle Puglie i guerrieri islamici si trovarono a più riprese di fronte dei contingenti veneziani, protagonisti di effimeri successi quale ad esempio un recupero di Taranto. Ma fu soprattutto l’ambiente franco a ritrovare uno spazio di intervento. Due serie di fatti apersero questo spazio. Anzitutto la chiusura, nell’843, del lungo e sanguinoso conflitto che aveva opposto fra loro i nipoti di Carlo Magno per la successione imperiale e per la spartizione di regni e città dell’impero. Poi una impresa saracena che suscitò particolare sgomento e clamore: il saccheggio della basilica romana di S. Pietro nell’ estate dell’846.

        Senza un’organizzazione militare ed una flotta a disposizione risultava molto difficile contrastare incursioni improvvise e sempre più massicce in imprecisati territori (con una scorribanda, nell’841, fu incendiata Capua). Episodicamente si poteva avere un qualche successo come quando nell’871 il franco Ludovico II riuscì a strappare Bari all’occupazione saracena. Ma Ludovico fu fatto arrestare (morì poi nell’875) per altre vicende dal principe di Benevento Adelchi ed i Saraceni ripresero a fare razzie: gli attacchi da Saraceni stanziati in Puglia riguardarono le coste dalmate; nell’878 Siracusa fu conquistata dai musulmani; nell’880 fu distrutto l’eremo di Montecassino e saccheggiata la cittadina di San Vincenzo al Volturno; … Come già detto si tratta di un quadro intricatissimo di guerre e devastazioni, di alleanze composte, violate e ricomposte, attraverso le quali si inserivano vari conquistatori, non ultimi i Saraceni. Sul finire del IX secolo avevano conquistato quasi tutta la Sicilia (resistevano ancora Taormina, che cadrà nel 902, e Rometta, che cadrà nel 963. Da qui partirono assalti, oltreché a coste italiane, a possedimenti francesi e bizantini. Particolarmente di mira furono prese Creta, Cipro, Sardegna e Corsica dove giovani, donne ed uomini furono catturati per essere immessi nel mercato degli schiavi. Questo stillicidio del terrore fu per qualche tempo fermato da una iniziativa di Papa Giovanni X e del Re d’Italia Berengario insieme ad altri principi del Sud (Capua, Salerno e Benevento) che nel 915 scacciarono i Saraceni dal Garigliano.

        Si andò avanti così per anni finché non si fece strada l’idea di tagliare alla radice questa calamità. Già sotto Gregorio VII vi era stata una pre-crociata (1081) guidata dal normanno Roberto il Guiscardo che, per la prima volta nella storia, ebbe il permesso dal Papa di issare la croce come simbolo di un esercito. Altra pre-crociata fu appunto quella che nacque sotto Papa Vittore III (1087) e fu realizzata da una coalizione di Repubbliche Marinare, con particolare impegno pisano. Le cronache di Montecassino raccontano che questa spedizione fu promossa da Papa Vittore III, il benedettino che proveniva da quel monastero. Cronache arabe e normanne aggiunsero particolari di tipo economico: i pisani ebbero dall’emiro Tamîn una forte somma di denaro perché lasciassero liberi i territori tunisini che avevano occupato ed in particolare la città di Mehdia, roccaforte della flotta saracena, che era stata conquistata e saccheggiata. Con il bottino di guerra fu costruita la cattedrale di Pisa. E erano anche iniziate da parte di Gregorio VII altre gestioni del problema Islam. Poco oltre il 1070 Gregorio scrisse ai principi (Aragona, León e Navarra) che operavano (o erano in procinto  di farlo) alla Reconquista dei territori spagnoli occupati da islamici ricordando loro che il Regno di Spagna era pertinenza di San Pietro in base ad un antico e consolidato diritto (Gregorii VII, Registrum, I, 7). Naturalmente non spiegava l’origine di tale diritto supponendo che esso discendesse ancora dalla falsa Donazione di Costantino e (forse) dalla cessione della penisola iberica ai Visigoti (411), completamente cristianizzatinel 589(2). La questione fu ripresa da Papa Urbano II che sollecitò a più riprese i Re cristiani alla riconquista di terre in mano islamica. A tal fine, nel 1090, convocò un Concilio a Tolosa nel quale venne deliberato di inviare una delegazione a Toledo perché vi fosse restaurato il Cristianesimo. Intanto, nel corso dell’XI secolo i Normanni (un misto di scandinavi, danesi e tedeschi) avevano occupato la Sicilia scacciando i Saraceni. Ed i Normanni divennero una forza molto importante con la quale fare i conti dopo che si furono insediati in Normandia (X secolo) dove si convertirono al Cristianesimo ed in Inghilterra, resto della Francia ed Italia Meridionale (XI secolo). Il secolo XI vide una generale decadenza della spinta propulsiva che gli arabi avevano avuto a partire dai tempi di Maometto (VI secolo). A tale declino si accompagnò però l’avanzata tumultuosa di popolazioni di origine mongola, i Turchi, convertiti all’Islam nel secolo X ed arrivati al Mediterraneo attraverso la conquista di: Persia, Mesopotamia, Siria, Palestina e Gerusalemme (1070), luoghi santi, ed attaccando a più riprese ciò che rimaneva dell’Impero Bizantino (sconfitto duramente nel 1071 nella battaglia di Manzicerta). Già nel 1073 Gregorio VII si fece promotore di una spedizione contro i Turchi che non ebbe seguito per le violente lotte che i cristiani amavano fare tra loro, questa volta per le investiture e per lo scontro in atto tra il Papato ed Enrico IV, il giovane Imperatore del Sacro Romano Impero.

        E’ utile, a questo punto, accennare al Millenarismo. L’avvento di quell’anno era presagio di molte sciagure tra cui la fine del mondo ed il giudizio universale. Ciò riportò molti ad abbracciare la fede con la speranza della salvezza e con la fede riprese l’ascetismo.

IL MILLENARISMO

        Dopo oltre 600 anni impiegati in questioni teologiche puerili e tutte relativa a come considerare Gesù, a costruire falsi documenti atti non già al trionfo del messaggio evangelico ma per accrescere sempre di più il potere temporale, arriviamo a superare un anno fondamentale per il futuro dell’umanità, il Mille. Tutti i profeti, gli asceti, gli eremiti, i bigotti predicavano la fine del mondo. Nascevano nuove religiosità e sembrava si tornasse ai tempi in cui Gesù sollecitava tutti a comportarsi bene perché la fine del Mondo ed il Giudizio Universale erano vicini (poi, visto che il Mondo non finiva, fu spiegato da saggi teologi che i tempi di Dio sono diversi da quelli degli uomini e da qui era nata la confusione, anche se viene da chiedersi “di chi ?“).

 Non tutti gli eventi che chiudevano il millennio ed aprivano il nuovo erano orrori, qualcuno tentò una riforma che riportasse le cose su un binario quantomeno di onesta moralità. Si tratta dei monaci benedettini del Monastero di Cluny o almeno della fortunata coincidenza di avere di seguito ben sei abati che lavorarono con successo, se non altro momentaneo allo stesso fine di riforma. Iniziò l’abate Bernone (850-927) nel 909, nella villa di Cluny regalatagli da Duca Guglielmo I d’Aquitania, a intraprendere il cammino del recupero degli ideali monastici, corrotti da secoli di turpitudini; seguì Oddone (879-943); quindi, di seguito, Mayeul (948-995), Odilone (961-1049), Ugo (1024-1109), Pietro il Venerabile (1092-1156), tanto spiritualmente ispirato da Dio da definire gli ebrei cani rognosi e luridi porci (come del resto farà anche San Bernardo da Chiaravalle che incontreremo più oltre) e da essere fatto santo. Una osservazione può rendere conto di uno degli elementi di forza di queste persone. Mentre venivano portati avanti gli ideali di Cluny da sei persone che si successero con continuità di pensiero, a capo della Chiesa si alternarono ben cinquanta Papi, ognuno dei quali marciante per suoi interessi e crimini particolari. Questi monaci partivano dalla volontà di riformare ma in realtà tentavano di aggiornare la regola di San Benedetto ai tempi che correvano che distavano 400 anni dalla formulazione iniziale. Uno degli aggiornamenti più importanti, dopo il ritorno alla regola di San Benedetto, prevedeva che il Monastero non dipendesse più dai potentati locali ma direttamente dalla Chiesa di Roma nella persona del Papa (qui le intenzioni erano ottime ma il rischio di cadere in mano ad un delinquente era fortissimo). Ma l’aggiornamento che rompeva con la regola di San Benedetto era il non tener conto quasi del tutto della parte della regola che imponeva il lavoro ai monaci. Comunque, in questi tempi di totale corruzione, i cluniensi volevano riportare la chiesa alla purezza dei tempi antichi e parlavano di castità, di pietà, di disciplina. Questo risultava essere un linguaggio nuovo che faceva presa sugli spiriti più nobili della chiesa. I monaci di Cluny si fecero subito fama di persone serie e davvero dedite ad operare per il bene del prossimo, rappresentando il vero ideale di vita monastica. Fattasi questa fama, come era costume dell’epoca, molti cittadini che intendevano salvare la propria anima accudivano con fervore a Cluny. E’ naturale che andassero a Cluny anche un’infinità di donazioni di coloro che intendevano la salvezza dell’anima come un mercimonio. In tal modo il Monastero divenne ricchissimo e mantenne le ricchezze perché la regola non prevedeva il dilapidare o il vivere nel lusso ma pregare e lavorare. Per ciò che riguarda l’influenza di Cluny sul Papato, occorre osservare che quando la chiesa fu messa sotto tutela dall’imperatore nel X secolo il loro messaggio non si limitò più all’aspetto spirituale e morale della chiesa, ma divenne un programma di riforma generale.

        Come già accennato la fine del millennio aiutò indirettamente la crescita di Cluny per la cattiva coscienza dei ricchi padroni che si recavano imploranti perdono dove riconoscevano vi fosse la vera dedizione a Dio. In quell’epoca venivano recuperati dall’oblio tutti i vecchi testi apocalittici che ruotavano intorno al Vecchio Testamento, come il Libro di Daniele, o Apocrifi del Nuovo Testamento o l’Apocalisse di Giovanni. Una vera sarabanda dell’orrido dominata dall’Anticristo e dalla nuova speranza della Seconda Venuta del Messia sulla Terra. Gli avvenimenti naturali andavano su quella strada: epidemie disastrose avevano decimato la popolazione d’Europa, eventi meteorologici avevano distrutto campi e città, le piaghe bibliche erano tutte lì, non ultima la corruzione ed il crimine dilagante proprio alla testa della Chiesa. Molti esaltati annunciavano visioni bibliche di combattimenti celestiali, di apparizioni di dragoni in lotta con i santi, … La fine del mondo era annunciata con profezie che si intrecciavano con numeri tratti dalla Cabala: sarà il 1000 ? o il 1033, l’anno 1000 dopo la Passione ? o quell’altro anno perché era significativo di quell’evento ? o quell’altro ? Nel 975 venne avanzata una data certa per il Giudizio: nell’anno in cui il Venerdì Santo sarebbe coinciso con la festa dell’Annunciazione, quando cioè Cristo sarebbe stato concepito il giorno della sua morte. Questa data era il 992 anche se qualcuno osservò che la circostanza si era già verificata nel 908 senza fine del mondo. Ogni cialtrone si guadagnava da vivere con le sue profezie ma la Chiesa incassava perché, anche se i suoi rappresentanti erano delinquenti, quella sembrava la via per il Signore. Le donazioni si moltiplicarono accompagnate da un ben preciso contratto che indicava il fine della medesima: Mundi Termini appropinquanti

        La Chiesa di Roma, che traeva enorme profitto da tali credenze e superstizioni, non ne traeva lezioni di moralità, anzi … Il millennio che si chiudeva, come raccontato, con alcuni Papi implicati in vicende che dire riprovevoli è un dolce eufemismo.

        Più in generale, alla fine del millennio il Papato era quasi alle dipendenze assolute di alcune famiglie nobili di Roma e dintorni. Questa nobiltà aveva occupato il soglio pontificio con suoi rappresentanti, senza alcun merito dottrinale, ma solo per godere degli enormi vantaggi che quella posizione offriva. Ed a questa Chiesa sarebbe dovuto arrivare il messaggio di rigore proveniente da Cluny che avrebbe significato, in termini dottrinali, che non era la Chiesa a dove dipendere dall’Impero, qualunque esso fosse, ma l’Impero dalla Chiesa. Sembravano discorsi al vento. Chi mai avrebbe potuto raccogliere tale sfida in una Chiesa dominata da delinquenti ?

 Dal punto di vista politico la situazione, sul finire del millennio era la seguente. Nel 983 Roma stava collassando istituzionalmente. L’Impero Carolingio, che reggeva il Sacro Romano Impero, era collassato sul finire del IX secolo con uno dei discendenti debosciati di Carlo Magno, Carlo il Grosso(2’). Mentre la monarchia francese, privata del potere Carolingio, divenne del tutto inconsistente, mentre in Italia si succedevano per periodi brevissimi vari Re fantoccio dei papi in piccoli regni che mutavano continuamente confine, mentre accadeva tutto questo l’Impero d’Occidente si ricompose in Germania intorno alla famiglia degli Ottoni, fondatrice della dinastia sassone. Ottone I il Grande con un’accorta politica riuscì a sottomettere la Chiesa trasferendo l’amministrazione dei suoi beni al potere centrale e interferendo nella nomina dei vescovi e degli abati. La Chiesa divenne uno strumento di potere con il quale Ottone riuscì ad unificare Germania (con estensioni verso Est ed interferenze in Francia da cui fu sottratta la Borgogna) ed Italia, qualcosa di meno dell’Impero carolingio ma comunque l’unico baluardo ai particolarismi ed alle minacce esterne. Ottone I fu incoronato da Papa Giovanni XI nel 962 a Roma

Il legame cercato con la Chiesa era funzionale almeno per due aspetti: da un lato è sempre stato utile tenere buoni rapporti con questa Istituzione in grado di muovere o meno dei consensi; dall’altro si sentiva una urgente necessità di moralizzazione del clero divenuto in gran parte gaudente, sbandato, lussurioso ed ultramondano. A tale scopo era necessario il sostegno del Papa, Giovanni XI (che certo non brillava per morigeratezza ed esempio), di un papato anch’esso tutto da moralizzare, ma anche una iniziativa dal basso con la fondazione da parte del Duca Guglielmo di Aquitania del Monastero benedettino di Cluny (910), divenuto in seguito il centro europeo per attuare la riforma monastica.

Nel 962, come accennato, si ebbe la fondazione canonica del Sacro Romano Impero romano-germanico. Alla testa di questo alla morte nel 973 di Ottone I, successe il figlio, Ottone II (973-983). E proprio alla morte di Ottone II, quando aveva 28 anni, si registrava il collasso di Roma. Questo Imperatore lasciava un erede di soli 3 anni, Ottone III, ed in simultanea era eletto Papa Giovanni XIV (983-984), una persona assolutamente non gradita alla fazione che puntava sull’antipapa (già eletto in passato per breve tempo nel 974, poco dopo la morte di Ottone I) Bonifacio VII (984-985) legato alla potente famiglia romana dei Crescenzi imparentata con i Teofilatti(3). Tra l’altro questo antipapa, secondo alcune cronache del tempo, sarebbe stata la persona che avrebbe strangolato in carcere il Papa Benedetto VI. Questo sarebbe stato il motivo del suo allontanamento forzato da Roma (si recò a Costantinopoli) per salvarsi dal linciaggio. Le stesse cronache del tempo raccontano che Bonifacio VII scappò anche a un’accusa di stupro con cui disonorò una giovane e che si portò appresso i tesori della Chiesa. Quando tornò a fare l’antipapa nel 984 avrebbe chiuso il suo rivale Papa Giovanni XIV nelle segrete di Castel Sant’Angelo lasciando che morisse di fame (altri affermano che fu avvelenato). Anche questa volta vi furono aspri scontri tra differenti fazioni e gli stessi Crescenzi abbandonarono il sostegno a questo antipapa. Alcuni riuscirono a catturare Bonifacio VII che fu prima martoriato, quindi trascinato cadavere come trofeo per le vie di Roma fino a lasciarlo smembrato sotto la statua di Marco Aurelio. A Giovanni XIV i reggenti di Ottone III fecero seguire l’elezione di Papa Giovanni XV (985-996) che risultò un accaparratore di denaro, un nepotista e delinquente che in definitiva faceva addirittura rimpiangere Bonifacio VII. Questa volta fu il popolo romano che lo attaccò in ogni modo finché Giovanni non dovette chiedere aiuto all’Imperatore Ottone III che approfittò del viaggio per essere incoronato per portare aiuto ma, prima di arrivare a Roma, si venne a sapere che Giovanni era morto (non si sa se era morto davvero o che fine avesse fatto). Poiché Ottone era arrivato ed il nuovo Papa tardava ad essere eletto, fu lo stesso Ottone III che impose Papa Gregorio V (996-999). che subito unse Ottone III e lo incoronò imperatore (aveva 16 anni). Appena Ottone se ne fu andato, i romani si ribellarono al Papa che dovette fuggire da Roma lasciando il posto ad un antipapa eletto ancora dai Crescenzi che aveva come capostipite Crescenzio, Giovanni Filagato, con il nome di Papa Giovanni XVI (997-998). Di nuovo Ottone III scese in Italia e fece arrestare l’antipapa. Gli furono strappati gli occhi, gli tagliarono il naso, la lingua e le orecchie, quindi fu gettato in galera fino a farlo partecipare in queste condizioni ad un Concilio a cavallo di un asino. I suoi sostenitori furono decapitati ed appesi come monito ai merli di Castel Sant’Angelo (tra di essi anche Crescenzio). Fu a questo punto che Odilone, abate di Cluny, intervenne su Ottone III. Con tutta la forza morale della sua persona consigliò l’elezione al soglio pontifico di Gerberto d’Aurillac, un monaco di 45 anni di eccezionale preparazione in tutti i campi del sapere ispiratasi anche all’esempio di Cluny.

         Questo grande personaggio che fu anche eccellente matematico ed astronomo, merita un minimo di attenzione. Gerberto nasceva nel 950 ad Aurillac nell’Aquitania francese. Era di umili origini e per poter studiare, come tutti facevano, a soli 13 anni entrò in convento nella sua città. Nel 967 un nobile di Barcellona (che faceva allora parte del regno carolingio trovandosi al confine con la Spagna araba), il conte Borrell, fece visita al monastero di Aurillac e l’abate gli chiese di portare con sé il fanciullo per farlo studiare in modo più adeguato a Barcellona. Borrell portò il ragazzo con sé e lo affidò prima al monastero di Santa Maria di Ripoll (in cui si erano fatte traduzioni dall’arabo al latino di testi classici di geometria e di trattati arabi su alcuni strumenti) e quindi lo fece studiare proprio a Barcellona. Fu qui che Gerberto, non disdegnando il diritto e la politica, ebbe importantissimi contatti con il mondo islamico confinante e fu qui che, contrariamente a tutti i suoi contemporanei, maturò vivi interessi per la matematica e l’astronomia. Vi sono documenti che attestano una sua richiesta da Ripoll ad un amico di Barcellona di un certo trattato di astrologia ed anche successivamente (984) di una sua richiesta al vescovo Mirone di Gerona del trattato De multiplicatione et divisione numerorum di un certo Giuseppe Ispano. Nel 969 il conte Borrell fece un viaggio a Roma e si fece accompagnare da Gerberto. Vi fu un incontro tra Borrell, Papa Giovanni XIII e Ottone I nel quale il Papa convinse Ottone I a prendersi Gerberto come istitutore di suo figlio, il futuro Ottone II. Fu l’inizio di una folgorante carriera che vide prima Gerberto fare da insegnante al giovane Ottone II, quindi Gerberto che Ottone invia a studiare alla scuola della Cattedrale di Reims dove divenne prestissimo insegnante. Intanto Ottone II era diventato Imperatore fatto che gli permise di nominare Gerberto abate del monastero-abbazia benedettino di San Colombano (a Bobbio, vicino Piacenza), fondato dall’irlandese Colombano nel 614, che era andato in rovina per la cattiva precedente gestione. Questo monastero si dedicava alla trascrizione dei manoscritti ed in esso vi era una ottima biblioteca, in gran parte costituita da manoscritti portati dall’Irlanda da Colombano, contenente 700 codici anche in greco e tra i più antichi della letteratura latina; ma, ed è questo un vero miracolo, vi era anche un certo numero di monaci che sapevano anche leggere il greco. Da queste preziose miniere egli estrasse il materiale per realizzare i suoi studi di geometria. Nel 984 moriva Ottone II e Gerberto si trovò invischiato nelle lotte politiche per la successione. In tale occasione si trovò in contrasto (985) con Ugo Capeto che da lì a poco sarebbe diventato Re di Francia ponendo fine alla dinastia carolingia. Ugo Capeto nominò vescovo di Reims Arnolfo, un suo protetto, anziché il naturale successore Gerberto. Nel 991, quando Arnolfo fu deposto perché sospettato di aver tramato contro il Re, Gerberto fu nominato vescovo. Ma a Reims vi fu opposizione a tale nomina tanto che dovette intervenire un sinodo di vescovi che nel 985 dichiarò Arnolfo non decaduto e quindi Gerberto non nominabile vescovo. A questo punto fu la famiglia degli Ottoni ad intervenire. Ottone II era morto nel 983 ed all’età di soli 3 anni era stato incoronato imperatore suo figlio Ottone III. Gerberto fu chiamato per fare il precettore di Ottone III. Intanto saliva al trono pontificio Gregorio V, cugino di Ottone III, che nominò subito (998) Gerberto arcivescovo di Ravenna. Alla morte del Papa nel 999, grazie al Privilegium Othonis del 962 per il quale l’elezione papale doveva avvenire soltanto con il consenso dell’Imperatore del Sacro Romano Impero e alla presenza di suoi rappresentanti, Ottone III fece nominare Gerberto Papa con il nome di Silvestro II (Gerberto cercava di avere un nome meno germanico e più latino ed approfittò anche per farsi successore ideale del Papa dell’epoca di Costantino il Grande). Fu un Papa molto efficiente e lavorò per cristianizzare l’est e per fare alcune riforme monastiche sulla strada aperta da Cluny. Fu il primo Papa che iniziò a pensare alla liberazione della Terra Santa con crociate. Ma non fu il primo Papa a finire probabilmente avvelenato (pratica molto spesso utilizzata in Vaticano) nel 1003. Nel 1001 vi era stata una sollevazione di Roma contro Ottone III e contro Gerberto che si sapeva essere una creazione del primo. I due si rifugiarono a Ravenna ed Ottone fu ucciso in una delle battaglie per la riconquista della città (1002). Gerberto tornò a Roma in condizione di totale sottomissione ai vari potentati della città e, appunto, si sospetta un suo avvelenamento. Papa Silvestro II (999-1003) fu uno dei pochi Papi degni di essere rappresentanti di istanze superiori.

          E’ interessante leggere come il  fine millennio viene descritto da Gregorovius:

Le lunghe guerre tra la corona e la tiara avevano precipitato l’impero in uno stato di miseria indescrivibile e le passioni partigiane, contaminando tutte le sfere della società, avevano ispirato odi contro natura e causato discordie e colpe senza numero. La defezione di Corrado [il figlio di Enrico IV che, disgustato dal padre, era passato sotto la protezione di Matilde di Canossa e del papa, ndr], traditore del proprio stesso padre, non era che l’orrendo simbolo in cui l’intero genere umano, in quell’epoca, poteva riconoscere se stesso, poiché ovunque il padre insorgeva contro il figlio, il fratello contro il fratello, il principe contro il principe, e contro il vescovo si schierava il vescovo, contro il papa un altro papa. Nella vita degli uomini si operò una scissione così profonda che mai se ne era vista l’uguale nella storia; essa sembrò dilacerare il cristianesimo stesso e fiaccare la forza gloriosa dei suoi misteri. Il mondo era immerso nelle tenebre di una maledizione mortale; dove era più il Redentore, grazia e benedizione dell’uomo? Se Cristo fosse tornato allora sulla terra, con grande stupore avrebbe constatato che la religione dell’amore da lui stesso predicata si era tanto allontanata dalla freschezza delle origini da essere ormai irriconoscibile, e con meraviglia Pietro avrebbe trovato i suoi successori nell’incarico apostolico tutti indaffarati a erigere un trono cesareo sulle rovine di Roma, sopra il suo stesso sepolcro, e avrebbe sentito il pontefice definirsi Pontifex Maximus, al pari di un antico romano.

        Passato l’anno 1000 e constatato che tutto seguiva allo stesso modo vi fu una sorta di spirito di ripresa che coinvolse tutti tanto da portare l’intera Europa ad una situazione economica favorevole in connessione con la prima rottura della società feudale e l’espansione a molti piccoli contadini della proprietà terriera. In concomitanza con questa crescita economica europea iniziò una crisi della potenza orientale: sia l’Impero Bizantino che quello arabo si sfaldavano e cadevano sotto i colpi dei Turchi. E’ questa situazione di accresciuta potenza occidentale a fronte di perdita di potenza orientale che sarà alla base degli avvenimenti che prenderanno le mosse all’inizio del nuovo Millennio.

        A partire dalla fine del Millennio i cristiani di Occidente avevano iniziato a praticare pellegrinaggi in Terra Santa. Questa pratica era iniziata nel IV secolo sull’onda della visita in Terra Santa della madre di Costantino, Elena, ed aveva avuto impulso dallo stesso Costantino al fine di rendere popolare la nuova religione. In determinate epoche divenne un affare di moda il recarsi e stabilirsi in Palestina (San Gerolamo, ad esempio, che si stabilì alla fine del IV secolo in quelle terre seguito da molte ricche nobildonne romane; l’Imperatrice bizantina Eudossia, altro esempio, che per curarsi di incomprensioni a corte verso la metà del V secolo si stabilì da quelle parti con vari aristocratici di corte). In questi primi anni, ancora sulla scorta dell’operato di Elena, iniziarono le raccolte di reliquie che presto divennero un gigantesco affare per tutti con infinite truffe a latere (Eudossia avrebbe trovato, e profumatamente pagato, addirittura una immagine di Maria dipinta dall’evangelista Luca !). IN questa stessa epoca si iniziò a diffondere il culto dei santi. Esso era associato a miracoli che alcune reliquie avrebbero fatto o ad altri miracoli ottenuti per essersi recati a visitare determinate tombe. Tra i primi a sostenere la realtà dei miracoli di alcune reliquie e/o corpi di alcune persone furono i poeti Prudenzio ed  Ennodio (V secolo). E’ del tutto evidente che con lo spargersi della notizia del miracolo, molte persone si recassero in quei luoghi sia per ottenerlo, sia per appropriarsi di qualche reliquia da portare nel santuario del luogo d’origine. Il portare in patria il dito di un dato santo invogliava gli abitanti della regione in cui il dito era esposto ad andare a vedere i luoghi da cui proveniva e magari vedere l’intero corpo restante (se già non suddiviso in molti pezzi). Insomma macabri pellegrinaggi si sostituirono a quelli di semplice e pure fede. Comunque, fino alle Crociate, le reliquie più importanti della cristianità erano localizzate nei luoghi santi ed a Costantinopoli. Il pellegrinaggio subì un importante rallentamento a seguito di due fattori: da un lato l’Occidente impoverito e dall’altro le scorribande dei pirati Vandali che resero insicure le rotte. Dopo la conquista di quelle terre da parte del’Islam,  nonostante non fosse impedito dagli arabi, il pellegrinaggio restò una pratica non molto frequente per i motivi suddetti che permanevano. Inoltre l’insicurezza dei viaggi era cresciuta, per svariati cambiamenti geopolitici e per nuovi pirati arabi aggiuntisi agli altri, come era cresciuta la loro durata ed il conseguente costo. Ma intorno al 950 e 1100 ci fu un importante rinascimento religioso, sull’onda del misticismo indotto dai monasteri di Cluny e della Borgogna che fomentarono ed organizzarono molti pellegrinaggi(4) anche perché erano diventati pene canoniche inflitte a ricchi peccatori (non si indicava quasi mai la destinazione ma era il peccatore che sapeva che a maggior peccato serviva un pellegrinaggio più oneroso e così invece di Santiago de Compostela si recava in Palestina). Una facilitazione al pellegrinaggio si ebbe sul finire del X secolo, con la conversione dei sovrani di Ungheria al Cristianesimo. Ciò rese praticabile la via di terra, meno costosa anche se più lunga. Il pellegrino non si spostava quasi mai da solo ma associava a sé per il viaggio una pletora di poveri e bisognosi per espiare ancora di più a suon di denaro. L’ultimo famoso pellegrinaggio di relativa massa fu quello del 1033 in corrispondenza del millenario della morte di Gesù. Dopo questa data fu sempre più difficile raggiungere la Palestina per l’avanzata dei Turchi sia in terre bizantine che arabe. Da questo momento si moltiplicarono racconti di aggressioni e rapine sui pellegrini ed i Turchi, che avevano finalmente occupato (1076) le terre arabe di Siria e Palestina, imposero tasse elevatissime per entrare nei luoghi santi che restavano per loro una fonte d’ingresso di denaro importantissima. Episodi di intolleranza vi erano stati anche con gli arabi ma erano sempre stati marginali. Si pensi ad esempio che mentre i pagani furono costretti a convertirsi, ciò non accadde né per ebrei né per cristiani. Con i Turchi le cose peggiorarono a causa del fatto che i pellegrini erano ritenuti essere Bizantini, loro nemici acerrimi. In realtà nessuno avrebbe potuto distinguere tra quelle masse di persone quali fossero Bizantini e quali di altra etnia europea. Neanche i cristiani sapevano distinguere e quando scendevano sempre più numerosi in quelle terre si dilettavano negli eccidi di Turchi ma anche di Bizantini in quanto cristiani non ossequienti al Vescovo di Roma ma al Patriarca di Costantinopoli ma anche perché il loro sentire religioso era più vicino agli arabi che non alla Chiesa di Roma. In ogni caso i fatti di violenza sono certamente veri (e non dissimili da quanto accadeva a qualunque viaggiatore cristiano in qualunque Paese cristiano) ma sulla effettiva ampiezza e risonanza di essi molti storici sollevano fondati dubbi. Anche all’epoca la propaganda tendeva ad esaltare determinate notizie e a nasconderne delle altre e tra le notizie da esaltare vi era la ferocia dei Turchi. Comunque, in quello stesso 1055, i Bizantini si rivolsero a Venezia per chiedere aiuto contro le minacce turche al loro regno e piano piano si fece strada l’idea che anche l’Occidente cristiano nel suo insieme dovesse temere una invasione.

        Un evento straordinario era intanto accaduto tra la Chiesa di Roma con Papa Leone IX e quella di Costantinopoli guidata dal Patriarca Michele I Cerulario: nel 1054 le due Chiese erano arrivate ad una definitiva rottura consumando il Grande Scisma che era andato maturando in vari secoli su due questioni fondamentali, il Primato non riconosciuto della Chiesa di Roma e l’inserimento in Occidente della parola filioque nel Credo niceno (si tratta della natura attribuita allo Spirito Santo che nella religione ortodossa d’Oriente è “qui ex Patre procedit”, mentre nella cattolica romana è “qui ex Patre Filioque procedit“).

       Nel 1081 salì al trono d’Oriente, ormai in balia dei Turchi Selgiuchidi (dinastia turca che trae il suo nome da Seljük morto intorno all’anno 1000), Alessio I Comneno che aveva nei suoi progetti la riconquista dell’Asia Minore cosa che sarebbe stata impossibile senza l’aiuto dei regni d’Occidente. Al fine di ottenere il desiderato aiuto al piano di riconquista, Alessio I inviò degli ambasciatori in Occidente che giunsero a Piacenza nel marzo del 1095, mentre era in corso un Concilio diretto da Papa Urbano II (1088-1099). In tale consesso gli ambasciatori fecero presente la difficilissima situazione dell’Impero d’Oriente minacciato sempre più dai Turchi che già avevano conquistato grosse fette dei suoi territori. In questa occasione Urbano lanciò solo un messaggio ai cristiani italiani, franchi e normanni che li esortava ad intervenire in aiuto dei confratelli d’Oriente. Ma, come già visto nel precedente articolo, vi erano già state esortazioni del genere che sembravano sempre dettate da fatti contingenti e non da una politica precisa ed anche stavolta il tutto sembrò cadere nel nulla.

Le due figure mostrano: quella in alto l’estensione dell’Impero bizantino nel 1050; quella in basso la sua estensione nel 1095, quando gli ambasciatori di Bisanzio si recano a Piacenza.

L’ESPANSIONE MUSULMANA

Torniamo indietro di qualche secolo per ricostruire come avvenne l’espansione musulmana.

        Maometto, il Profeta, prima di morire (632) aveva realizzato la conquista di tutta la Penisola araba ed era arrivato a premere a nord sull’impero bizantino. A soli due anni dalla sua morte, nel 634, iniziò l’impetuosa espansione dell’Islam. Dopo le prime incursioni del 633-634 verso la Mesopotamia meridionale sotto il dominio persiano-sasanide ed alla Palestina del Sud sotto il dominio bizantino, iniziò l’attacco alla Siria, regione ancora dell’Impero di Bisanzio. Un esercito, guidato dal saggio ed intelligente Abū Bakr designato da Maometto come suo successore (Califfo)(5), partì da Medina. I primi scontri non furono favorevoli ai musulmani che, comandati da Khalid b. Saìid b.’As, vennero sconfitti duramente presso Damasco ad opera di un contingente di arabi cristiani, i Ghassanidi, comandati dal Theodoros, fratello dell’imperatore Eraclio. Sostituito il comandante musulmano con Abu ‘Ubayda b. al-Jarrah, i musulmani, nel 635, conquistarono Damasco e, nel 637, riuscirono a estendere la conquista su l’intera area mediorientale (Giordania, Palestina, Siria ed Iraq) ad eccezione di Cesarea che cadde (insieme ad Hayfā e Gaffa) nel 640. Tra il 636 ed il 637 l’esercito di Eraclio era stato annientato lungo le rive del fiume Yarmuk e ad Antiochia. Eraclio era in grave difficoltà soprattutto nel fronte Sud. Per far fronte all’inarrestabile avanzata nel 638 utilizzò ancora gli arabi cristiani di Al Jazira, ultima roccaforte dell’Impero bizantino, per tentare di fermare l’avanzata in territorio siriano. I musulmani inviarono subito ingenti forze verso Al Jazira e conquistarono l’intera regione nel medesimo 638. Questo fu anche l’anno della caduta di Gerusalemme.

L’Arabia nel 632, alla morte di Maometto. Da Atlante Storico

       Eraclio aveva combattuto per 30 anni contro i persiani e la loro sconfitta aveva debellato il suo esercito aprendo la strada all’occupazione musulmana. Infatti, tra il 639 ed il 641, sotto gli attacchi musulmani, dopo la Persia e la Mesopotamia bizantina da cui passarono alla conquista dell’Armenia, cadde anche l’Egitto con la decisiva sconfitta dei bizantini nella battaglia di Heliopolis (640). Questa sconfitta dei bizantini lasciò l’intero Egitto militarmente sguarnito e fece da deterrente per i nativi, i monofisisti perseguitati dai cattolici, a ribellarsi ed a cacciare i commissari di governo. Finalmente, nel 642, cadde l’intera Persia, dopo la sconfitta dell’esercito sasanide a Nihāwand e, sempre nello stesso anno, cadde l’ultima roccaforte egiziana, Alessandria(6), da dove i musulmani iniziarono ad espandersi lungo la costa del Nord Africa conquistando le principali città della Libia fino a Tripoli (643). Vi fu solo la resistenza del bizantino Conte Gregorio, governatore dei territori libici. Ma la sua sconfitta, vicino Cartagine, aprì la via alla conquista di tutto il Nord Africa. A questo punto però l’avanzata si fermò perché i musulmani iniziarono una feroce guerra civile. Nel 642 era morto Abū Bakr che aveva lasciato la guida dell’Islam a ‘Omar ibn al-Khattāb (Omar) della tribù Quraysh (suocero del Profeta) che la mantenne fino al 644 quando fu ucciso da uno schiavo persiano (sembra senza motivazioni politiche). Il califfo Omar fu considerato il più grande esponente del Califfato dei Rāshidūn, il più grande cioè dei 4 califfi (nell’ordine: Abū Bakr, Omar, Othman, Alì) che furono a capo dell’Islam nei 30 anni successivi alla morte di Maometto (dal 632 al 661). Il successore, l’altro genero del Profeta ‘Othmàn ibn ‘Affàn (Othman), del clan Omeya e della tribù Quraysh, fu designato da un consiglio costituito dagli antichi compagni di Maometto. Egli  mantenne il potere fino al 656, favorendo in ogni modo i membri del suo clan e preparando l’ascesa al potere della dinastia Omeya. Quando fu ucciso gli successe a Medina, come quarto califfo, il cugino e genero di Maometto, Alì ibn Abi Talib (Alì), rivale degli Omeya e primo Imam della comunità islamica Sciita, che resterà al potere fino al 661 (non si sa bene chi uccise Othman ma i sospetti si appuntarono su Alì che, a sua volta, fu ucciso inaugurando guerre civili a ripetizione in ogni regione conquistata). A Damasco, dopo scontri armati a Siffin tra i seguaci di Alì ed i sostenitori dell’assassinato Othman e dopo la cacciata di Alì che si rifugiò nell’odierno Iraq, venne proclamato califfo (660) il governatore della Siria e cugino dello stesso Othman, Muhawiyah, ancora del clan Omeya della tribù Quraysh, proclamatosi califfo dell’intero Islam alla morte di Alì nel 661 e restato al potere fino al 680 (da notare che la Umma musulmana, il centro di potere musulmano, con la morte di Alì e l’ascesa al potere di Muhawiyah, passò da Medina a Damasco). Come è facilmente intuibile, da questo momento, iniziarono lotte di potere che creeranno fratture tra musulmani, a cominciare dall’odio che si iniziò ad insinuare tra persiani e turchi (anche Aisha, che aveva condannato l’assassinio di Othman, fu nemica implacabile di Alì e dei figli avuti con Fāţima, la figlia di Maometto, per aver consigliato a Maometto di ripudiarla). I persiani, sciiti cioè settari, hanno aggiunto alla religione dell’Islam un atto di fede che così recita: se Maometto è il profeta di Allah, il suo compagno Alì ne è il vicario, mentre gli altri successori sono degli usurpatori. Gli Sciiti, più in generale, ritengono che solo i discendenti diretti di Maometto possono essere assunti come califfi dell’Islam ed in tal senso il califfo omayyade Muhawiyah  è il primo usurpatore. I Sunniti, l’altra importante fazione islamica (delle tante che ne seguirono), sono invece considerati ortodossi e quindi più tolleranti perché riconoscono tutti e tre i califfi che sono succeduti a Maometto valutando come più debole proprio Alì. La rottura degli sciiti con i sunniti divenne insanabile quando il figlio di Alì e Fāţima, Hussein, che pretendeva di assumere il ruolo di califfo dell’Islam in quanto discendente di Maometto, fu ucciso e decapitato nella battaglia di Kerbala nel 680. Con l’assassinio di Alì (671), finì il califfato elettivo e iniziò la dinastia omayyade e nel 665 riprese la conquista del Nord Africa. Occorre dire che il califfo Muhawiyah fece lo stupido errore di designare suo successore il figlio Yazīd b. Mu’āwiya. Ciò metteva fine ai califfi elettivi ed inaugurava una dinastia di califfi che generò fortissimi contrasti con i musulmani ortodossi.

        Tutti gli storici concordano nell’ammettere una generale accettazione delle popolazioni all’occupazione musulmana almeno fino a circa la metà del VII secolo. Un importante contributo in tal senso lo dettero le autorità religiose che avevano preso il controllo della situazione alla morte di Eraclio (641), le autorità civili si erano dissolte e l’esercito era allo sbando. Una volta che un così vasto territorio fu conquistato in relativamente poco tempo, vi fu difficoltà di controllo tanto più da un centro come Medina che era distante e difficilmente raggiungibile. E tali autorità erano cristiani, quei monofisiti e nestoriani che non vedevano l’ora di rompere ogni legame con le assurde scomuniche di Roma. A questo punto furono i comandanti musulmani allora che presero la gestione del potere delle singole province conquistate.

        Da parte bizantina, ad Eraclio successe il figlio maggiore Eraclio Costantino (avuto con la prima moglie Eudocia) che morì di tubercolosi dopo soli 4 mesi di co-regno con il fratellastro Eraclio II, detto Eracleona (figlio della seconda moglie Martina). La repentina morte di Costantino fece sospettare all’esercito che fosse stato assassinato. Il generale armeno Valentino Arsacido si sbarazzò dei sospettati, Martina ed Eracleona, esiliandoli mutilati a Rodi. Prima di ciò, costrinse Eracleona a nominare co-imperatore il figlio undicenne di Costantino, Costante, che assunse il nome di Costantino IV, anche se nei documenti è ricordato come Costante II, che regnò fino al 668. Nei rimasugli dell’Impero romano d’Oriente, ancora lotte di potere che continuavano a sfaldarlo.

L’Impero musulmano nel 661, alla morte di Alì. Da Atlante Storico

        A questo punto dell’avanzata musulmana, ci si rese conto della necessità di avere una flotta. Questa eventualità era completamente al di fuori della cultura di un Paese sempre vissuto nel deserto e sempre servitosi di cammelli e cavalli per gli spostamenti. Fu il futuro califfo Muhawiyah, all’epoca governatore della Siria, che capì l’importanza della flotta per attaccare l’Impero bizantino nel suo cuore, Costantinopoli. Iniziò quindi a costruirla e nel 649, utilizzando gli efficienti arsenali bizantini principalmente di Siria ed Egitto (Tripoli, Tiro, Acri, Alessandria), la inaugurò con la prima spedizione contro Cipro, conquistando la capitale Costanza. Il governo di Bisanzio pagò profumatamente i musulmani per avere una tregua di tre anni durante i quali Muhawiyah rafforzò la flotta tanto che, finita la tregua, nel 654 assediò Rodi e quindi attaccò e saccheggiò Coo e Creta. La traiettoria degli attacchi puntava a Costantinopoli e da quella città si capì subito il pericolo incombente. Sulla flotta bizantina salì al comando l’Imperatore Costante II che attaccò la flotta araba (chiamata dai musulmani di Dhāt al-sawārī e dai bizantini di Phoenix) al largo delle coste della Lydia (regione nell’attuale Turchia, affacciata alla Grecia). Vi fu una drammatica sconfitta bizantina che vide anche l’Imperatore a rischio di morte. Da questa vittoria i musulmani non trassero un immediato vantaggio perché erano scossi dalle guerre civili tra loro, era scoppiata la guerra civile tra Muhawiyah ed Alì della quale ho parlato qualche riga più su. Questa volta fu Muhawiyah a chiedere una tregua a Bisanzio per ottenere la quale pagò addirittura dei tributi all’Impero. Di questo momento di debolezza ne approfittarono in Armenia dove chiesero di tornare ad avere rapporti con Bisanzio.

        Costante II approfittò invece della tregua per sconfiggere gli slavi delle province orientali dell’Impero (658) e per portare avanti una dura lotta con il Papato di Roma per come venivano eletti i Papi, senza il rispetto delle norme che volevano il parere di alcune autorità bizantine (la dura controversia era iniziata con Papa Martino salito al trono pontificio nel 649). Successivamente Costante, con l’opposizione di tutta la corte, pensò di trasferire la sede imperiale in Occidente e, dopo il tentativo di far fronte in Italia ai Longobardi (Benevento, dove fu sconfitto), dopo esser passato per Napoli e Roma, si stabilì a Siracusa, in Sicilia, dove iniziavano minacce da parte della flotta araba musulmana e dove egli pensava di fare da argine a questa imminente avanzata. In questa città vi fu una congiura di corte contro Costante che fu ucciso nel suo bagno (668). Un tal Mezezio venne acclamato Imperatore dall’esercito ma la cosa durò pochissimo perché l’esarcato di Ravenna(7) reagì con una dura repressione dei cospiratori ed usurpatori (669).

        Costantino IV, figlio di Costante, successe al trono di Costantinopoli apprestandosi a dover affrontare prove fondamentali per lo sviluppo della storia. Muhawiyah, una volta sistemate le lotte interne all’Islam, riprese gli attacchi all’Impero bizantino a partire dall’Asia Minore (663) con incursioni continue e ripetute ogni anno. L’intera regione fu devastata e gli abitanti schiavizzati. In poco tempo lo scontro arrivò molto vicino a Costantinopoli, a Calcedonia, dall’altro lato del Mar di Marmara.  Lo scontro però decisivo tra musulmani e bizantini doveva avvenire in mare dove Muhawiyah aveva già mostrato la sua superiorità. Alle precedenti conquiste delle isole di Cipro, Rodi e Coo si aggiunse quella di Chio, sempre più vicina a Costantinopoli. Nel 670 fu conquistata la penisola di Cizico ancora più vicina e che servirà da base per azioni successive. Nel 672 furono conquistati altri territori come Smirne e le coste della Cilicia che nell’insieme rappresentavano l’accerchiamento della capitale dell’Impero. Finalmente nel 674 fu posta d’assedio Costantinopoli con una flotta imponente. L’assedio durò l’intera estate poi la flotta si ritirò a Cizico. Continuò nelle estati successive fino al 678 quando una nuova arma fece la sua comparsa nelle fila dei bizantini, arma che ebbe ragione dei musulmani che furono finalmente sconfitti. Si tratta del fuoco greco, un qualcosa di micidiale, una specie di lanciafiamme che incendiava le navi nemiche e le torri d’assedio, con in più un effetto di non possibile spegnimento con acqua (una specie di iprite o napalm o fosforo bianco)(8). Oltre a questo la flotta araba, menomata da una violenta tempesta, subì un altro rovescio in mare tanto che Muhawiyah fu costretto a firmare una tregua trentennale con Costantino IV di Bisanzio, tregua durante la quale doveva pagare ogni anno pesanti tributi (monete d’oro, schiavi e cavalli) alla città vincitrice. Per la prima volta dall’apparire dell’Islam sulla scena mediterranea, i musulmani erano stati sconfitti duramente e questa vittoria, insieme a quelle successive di Leone III nel 718 e di Carlo Martello nel 732, servirono a salvaguardare l’Europa dal dominio arabo. Da questo momento l’Impero bizantino poté spostare truppe verso i Balcani e la Tracia per difendersi dalle invasioni dei barbari dell’Europa del Nord. Queste battaglie saranno portate avanti dal figlio di Costantino IV, Giustiniano II, che successe al padre, morto nel 685 all’età di 33 anni. Costui si mostrò incapace ed il suo sistema di tassazione portò all’esasperazione ed alla rivolta. Fu deposto dalla furia della popolazione che lo catturò, gli tagliò il naso e lo esiliò a Cherson, l’attuale Sebastopoli, in Crimea (695).

Il fuoco greco, disegnato in un antico manoscritto bizantino [da Wikipedia]

        Intanto, come accennato, nel 665 riprese la conquista del Nord Africa da parte musulmana che durerà fino al 689. Si cominciò con le zone più occidentali della Libia (Barqa) dove venne sconfitto un grande esercito bizantino. Nel 670 si aggiunse alle forze musulmane un altro esercito proveniente da Damasco e comandato da Uqba ibn Nafi che si situò nella località di Qayrawan (città a Sud dell’odierna Tunisi che sarebbe poi diventata la capitale della provincia islamica dell’Ifriqiya) presa come base per un’ulteriore espansione verso la Libia, la Tunisia, l’Algeria e la Mauritania (l’odierno Marocco) che si affaccia sull’Atlantico. Qui, in corrispondenza della città di Tingi, l’odierna Tangeri, l’avanzata fu fermata dal generale dei Goti, Conte Giuliano, e fu costretta a ritirarsi sui monti dell’Atlante. I successi di Uqba lo fecero rimuovere nel 673 da Muhawiyah che temeva la sua fama crescente. Fu sostituito dal comandante ‘Abd Allāh ibn al-Zubayr, un sahabi (compagno del Profeta) in quanto discendente di Abu Bakr, primo califfo, e nipote di Aisha, moglie di Maometto. Ma siamo al 680, alla morte di Muhawiyah, quando scoppiò una nuova feroce guerra civile tra i califfati di Arabia e Siria. Quattro califfi si successero in 5 anni, fino all’arrivo al potere del califfo di Damasco ‘Abd al-Malik ibn Marwān nel 685 (per un certo tempo, dal 683 al 692, vi furono due califfi che governavano su due parti in cui risultò diviso l’Impero islamico e la guerra civile continuò fino alla morte dell’avversario di Marwān, al-Zubayr proclamatosi califfo di La Mecca in quanto discendente di un compagno del Profeta. Al-Zubayr fu decapitato ed il suo corpo fu crocifisso).

        Con la fine della guerra civile riprese la conquista musulmana del Nord Africa che fu affidata ad Hassan, all’epoca governatore dell’Egitto, che dovette ricominciare dalla conquista dell’Ifriqiya, nel frattempo ripresa da Bisanzio. Vi fu però una dura resistenza bizantina che inviò truppe da Costantinopoli, navi e soldati dalla Sicilia. A questo esercito si aggiunsero i Visigoti di stanza in Hispania che temevano il grave pericolo musulmano che premeva alle frontiere sud della penisola iberica. I musulmani furono costretti a ritirarsi alla loro base di  Qayrawan. I cristiani ebbero l’illusione della vittoria e festeggiarono inneggiando i simboli della croce ma l’anno successivo i musulmani attaccarono in forze Cartagine incendiandola ed in una successiva battaglia, quella di Utica presso Cartagine, sconfissero i bizantini cacciandoli definitivamente dal Nord Africa. Siamo al 698 quando la maggior parte del Nord Africa era stato conquistata dai musulmani ai bizantini.

        Musa, un generale musulmano di origine yemenita, si incaricò di completare alcune conquiste. Nel 700 conquistò Algeri e le isole mediterranee di Maiorca, Minorca ed Ibiza e finalmente, nel 709, con l’esclusione di Ceuta (piccolo enclave nel territorio africano che si affaccia alla Hispania) difesa dal Conte Giuliano, tutto il Nord Africa era stato conquistato. L’anno successivo anche Ceuta cadde per un accordo tra Musa e Giuliano. Quest’ultimo infatti cercava l’aiuto di Musa per vendicarsi del Re dei Goti, Roderico che aveva violentato sua figlia Florinda. E sembra che questa fu la chiave che aprì ai musulmani omayyadi le terre della penisola iberica. Sempre nel 710 il generale musulmano di origine berbera Tariq ibn Ziyad conquistò Tangeri che divenne il ponte per l’invasione dell’Europa attraverso l’Hispania e nel 711 Musa inviò Tariq ibn Ziyad ad attraversare lo stretto di Jabal al-Ţāriq (Gibilterra)(9), partendo da Ceuta con navi fornite da Giuliano, ed invadere la penisola iberica. Tariq sconfisse l’esercito del sovrano iberico, Roderico dei Visigoti, che morì nella battaglia del Guadalete (luglio 711). Tariq in breve tempo conquistò le principali città della penisola (Cordova, Granada, Malaga, Siviglia) arrivando a Toledo, la capitale, nel 712, e proseguendo verso la Cantabria e Tarragona, conquistate nel 713-714(10). Nello stesso 714 Tariq conquistò Saragoza, Soria e Palencia entrando nelle Asturie fino alla città di Gijon (a questo punto Musa fu richiamato a Damasco). Caddero poi, nel 716, Logroño e Leon e Tariq arrivò fino all’Ebro. Nel 719 furono conquistate Pamplona, Huesca e Barcellona. Da qui si entrò nel territorio del Regno visigoto in Gallia con la conquista di Narbonne (720).

L’Impero musulmano nel 720, dopo il completamento della conquista iniziata da Tariq ibn Ziyad. Da Atlante Storico

L’Impero musulmano nella sua successiva espansione dal 622 al 750 (con estensione al 945). Da Atlante Storico

        Intanto a Costantinopoli erano in corso lotte violente per la successione a partire dalla morte di Giustiniano II. Si erano avuti vari deboli imperatori successivamente eliminati in un modo o in un altro. Nel 717 fu un usurpatore di umili origini del settentrione della Siria, Leone, a impadronirsi del trono di Costantinopoli con il nome di Leone III. Dalla sua terra natale, Leone era stato trasferito in Tracia con la famiglia, per fini colonizzatori dell’Imperatore Giustiniano II. Quando questo Imperatore, al quale era stato tagliato il naso, nel 705 passò per la Tracia nel viaggio che intraprese al fine di riprendersi il trono di Costantinopoli, Leone si mise al suo seguito. Giustiniano gli fu grato ed egli poté accedere agli alti gradi dell’esercito, restando al servizio dei successivi imperatori che si susseguirono fino a Teodosio III. Leone prese il potere mettendo fine alle lotte intestine durate 20 anni ed il suo regno durò fino al 741. 

        Il primo pressante impegno di Leone fu nei preparativi per l’imminente assedio musulmano a Costantinopoli. Già un suo predecessore, Anastasio II, aveva fortunatamente dato il via a imponenti fortificazioni che Leone terminò. Poco dopo infatti, sia per terra che via mare, fu lanciato l’attacco degli eserciti musulmani. Anche stavolta tutti sapevano che se cadeva Costantinopoli vi sarebbe stata l’invasione d’Europa che si sarebbe trovata senza alcuna ulteriore difesa. Anche stavolta gli arabi musulmani furono sconfitti da una serie di eventi. Innanzitutto, oltre alla resistenza delle mura, ancora il fuoco greco scagliato contro le navi assedianti, quindi l’attacco di un esercito bulgaro, infine il freddo particolare di quell’inverno aggiunto alla carestia che fece molti morti tra le fila arabe. Un anno dopo l’inizio dell’assedio i musulmani si ritirarono. Ma non terminarono le ostilità, da questo momento solo via terra. Ogni anno, a partire dal 726, vi erano attacchi continui dei musulmani con occupazioni e distruzioni di varie città vicine a Costantinopoli (Cesarea, Nicea, …). Leone riuscì a fermare tutto questo grazie all’alleanza con i Cazari del Caucaso e dell’Armenia, alleanza che sigillò anche con il matrimonio del figlio Costantino, suo futuro successore, con una figlia del Khān dei Cazari (733). Finalmente, nel 740 Leone sbaragliò completamente l’esercito musulmano nella battaglia vicino alla città di Akroinos. Era finito l’incubo. Da questo momento gli arabi attaccarono qua e là ma sempre con minore intensità e mai più puntando a Costantinopoli. Alle porte dell’Europa dell’Est erano stati fermati.

        Cosa accadeva ad Ovest, dove ormai già l’intera Hispania (a parte qualche piccolo territorio irraggiungibile a Nord, nella cordigliera cantabrica) era stata conquistata ? I musulmani sembrava potessero ormai entrare nelle pianure della Gallia senza alcuna resistenza. Già erano entrati nell’attuale Francia perché il Regno Visigoto che avevano travolto si estendeva anche in quei territori. Musa, ancora nel 714, disponeva di un imponente esercito e si preparava ad attaccare i Regni declinanti dei Franchi (i Re fannulloni Merovingi) e dei Longobardi per arrivare a Roma ad unificare il Dio Unico sugli altari del Vaticano. Come scrive Gibbon, la conquista sarebbe proseguita soggiogando i barbari della Germania. Seguendo poi il corso del Danubio fino alla sua foce, sarebbe stato possibile prendere Costantinopoli dal Nord mettendo fine all’Impero Romano d’Oriente. La corte musulmana di Damasco si insospettì di questi piani ad ampio respiro di Musa e della fama che lo accompagnava. Il califfo al-Walīd I lo richiamò a Damasco e Musa obbedì. Intraprese il viaggio di ritorno verso la Siria via terra portando con sé immensi tesori. Fu dovunque acclamato in vero trionfo fino al suo arrivo a Damasco nel 715. A Damasco una iniziale pena di morte per il presunto reato di malversazione fu tramutata in una multa e nell’allontanamento da ogni incarico pubblico, finché nel 716 non fu assassinato. In Hispania, a Musa seguirono altri governatori (wālī) che durarono però poco per successive congiure, assassinii o rapide sostituzioni. Merita essere ricordato il wālī di Al-Andalus (la vecchia Hispania) nominato nel 730, ‘Abd al-Rahmān ibn ‘Abd Allāh al-Ghāfiqī. A quell’epoca, nel 719, i musulmani erano già arrivati a Tolosa e nel 725 avevano occupato Carcassonne e Nimes. Intanto, nel 720, iniziavano gli attacchi alla Sicilia, attacchi che continueranno tra il 727 ed il 753, quando si interromperanno fino all’827 per un periodo di ulteriore guerra civile tra musulmani in Africa.

        Al-Rahmān ammassò un grosso esercito, comandato da Abdul Rahman, nel lato spagnolo dei Pirenei atlantici a Pamplona e nel 732 li attraversò nel passo di Roncisvalle penetrando nella regione dell’Aquitania. L’attacco era stato portato in un momento in cui l’esercito del Conte Eudes (noto anche come Oddone), Duca di Aquitania, era impegnato a difendersi dall’attacco da Nord di Carlo Martello, Maggiordomo di Palazzo di Austrasia e Neustria, sovrintendente cioè alle necessità del Palazzo reale dei Ducati Franchi d’Austrasia e Neustria, che tentava la riunificazione del Regno dei Franchi (nel 735, con la morte di Eudes, Carlo Martello mise una forte ipoteca anche sull’Aquitania).  Il primo di questi due ducati era quello più a Nord-Est e il più potente dei 4 ducati in cui era diviso il Regno dei Franchi della dinastia merovingia: Austrasia, Neustria, Aquitania, Borgogna, mentre il secondo era a Nord Ovest. Dopo aver attraversato la Garonna e la Dordogna, l’esercito musulmano si scontrò vicino Bordeaux con un esercito cristiano, guidato dal Conte Eudes, che fu distrutto nel 732 con un enorme numero di morti. Anche al Sud, da Narbonne, un esercito musulmano avanzò diritto verso il Rodano ed assediò Arles distruggendo, anche qui, l’esercito cristiano che era venuto in aiuto. L’esercito che aveva vinto a Bordeaux si spinse più oltre arrivando fino in Borgogna ed occupando Lione e  Besançon, saccheggiando ogni bene di valore e devastando ogni cosa, soprattutto nei monasteri e nelle chiese che incontrava (in quell’epoca era un sogno vano il pensare di trovare ricchezze altrove, a parte naturalmente i palazzi del potere). Lungo questa rotta si trovavano Tours e Poitiers che erano le mete più ambite per quanto si raccontava di ricchezze che si trovavano in quei monasteri dedicati uno a San Martino di Tours (quel santo del mantello …) e l’altro a Sant’Ilario di Poitiers. Commenta sarcastico Gibbon che i santi patroni in oggetto dimenticarono quel potere miracoloso che avrebbe dovuto difendere le loro tombe.

        Fu a questo punto che Carlo Martello, figlio illegittimo di Pipino il Giovane (oppure Pipino II) e fondatore della dinastia Carolingia, intervenne. E si discute sul perché tardasse ad intervenire con differenti ipotesi: la prima era lo spirito di vendetta verso Eudes che lo spingeva ad attendere la distruzione dell’Aquitania; la seconda è parto arabo ed afferma che Carlo attendeva che i musulmani fossero carichi di ricchezze saccheggiate e quindi più deboli per attaccarli; la terza e più ragionevole riguarda ragioni di opportunità che consigliavano di preparare bene un esercito, di attendere i rinforzi dei germani e di ammassare uomini prima di andare a scontrarsi con quell’orda infinita resa più potente dalla fame di ricchezze che intravedeva (anche il nemico Eudes portò i suoi armati agli ordini di Carlo). Era la fine di ottobre del 732 quando Carlo marciò contro i musulmani localizzati tra Tours e Poitiers. La marcia avvenne al riparo di una catena di colline in modo da non essere notata e l’esercito di Carlo sorprese i musulmani che non se lo aspettavano. Vi furono alcuni scontri parziali e limitati che durarono sei giorni. Sembrava che la meglio andasse ai musulmani. Al settimo giorno vi fu invece lo scontro frontale che vide in primo piano i germani battere sonoramente quell’esercito che pareva invincibile ed uccidere il loro comandante Al-Rahmān. Arrivò la notte e si aspettava un altro scontro per il giorno successivo. Ma in questo lasso di tempo vi furono scontri armati tra diverse tribù musulmane, tra chi voleva restare e chi voleva scappare. Il mattino seguente l’esercito di Carlo non trovò i suoi nemici ed al principio pensò a qualche imboscata ma dopo un poco si convinse che i musulmani erano stati definitivamente sconfitti e messi in fuga.

        Vi furono altri tentativi musulmani di invasione. Nel 734 un loro esercito avanzò lungo la valle del Rodano occupando Arles ed Avignone. Fu ancora Carlo Martello(51) che li respinse verso Narbonne (e stessa cosa accadrà nel 738)  senza però andare a fondo e liberare anche quel territorio che sarà definitivamente liberato da Pipino il Breve, il successore di Carlo, solo dopo il 750, dopo cioè la definitiva caduta del califfato Omeya di Damasco per le solite lotte interne ai musulmani, questa volta con gli Abassidi (da notare che, sfruttando supposte motivazioni religiose, iniziarono divisioni territoriali nell’Impero arabo. In particolare un omayyade decretò la separazione della penisola iberica che da quel momento si rese autonoma dal nuovo centro di potere arabo-musulmano, passato da Damasco a Bagdad). La rivolta degli Abassidi contro gli omayyadi iniziò nel 747. Nel 750 il califfo Omeya Marwān II fu sconfitto ed ucciso insieme a tutta la famiglia (solo un giovanetto riuscì a salvarsi e fu colui che successivamente, in Hispania, dette vita ad un nuovo ramo della dinastia omayyade). Per altro verso, le vicende di Carlo mostrano che i Merovingi, una dinastia morente, si affidavano ormai solo ai Maggiordomi di Palazzo. Le vicende del Regno dei Franchi era sempre più nelle mani dei Pipinidi che attendevano ormai solo la consacrazione ufficiale al Regno. Finalmente, con la morte di Dagoberto I i merovingi erano finiti ed i vari successori si servirono solo dei suddetti Maggiordomi di Palazzo per tirare avanti. La vicenda dei Merovingi fu chiusa da Pipino il Breve con il colpo di Stato del 751 che tramutò una situazione de iure ad una de facto (vi era stata una riunione dei grandi personaggi del Regno a Soisson e qui Pipino si fece eleggere Re in luogo di Childerico, ultimo Merovingio che venne poi internato in un monastero).

          Si può dire che, al fine di questo lavoro, l’espansione musulmana è stata fermata nella Francia occidentale ed è poi dovuta retrocedere perdendo pezzi del Nord della Spagna. Da questo momento musulmani da una parte e cristiani dall’altra si preoccuparono di più di risolvere i loro problemi interni che di farsi la guerra.

CONSIDERAZIONI SULL’ISLAM

        Scrivono Tabacco e Merlo che la rapidità sbalorditiva dell’espansione musulmana fu il risultato di un connubio potente, mai prima verificatosi, tra la forza aggressiva dei nomadi verso le ricche regioni razionalmente sfruttate dai sedentari e una coesione ideologica permeata di volontà politica conquistatrice. Il connubio si presenta nell’Islam già in radice: in una sintesi determinatasi nella vita del suo profeta armato. Ed aggiungono: Via via che nell’Arabia centrale e settentrionale le tribù più aggressive si andavano orientando, attraverso inte4se ora prevalentemente politiche, ora più schiettamente religiose, intorno a quel capo d’eccezione che era Maometto, la potente somma di aggressività che fin allora ra andata dispersa in una incoerente molteplicità di razzie e contrasti per lo più all’interno del mondo arabo,, veniva convogliata in una guerra-razzia di dimensioni crescenti contro i nemici della nuova fede.

        Effettivamente in soli 100 anni l’Islam ha costruito un Impero impressionante che va da Costantinopoli ai Pirenei. Secondo gli storici dietro vi era un doppio movente, da un lato l’unificazione religiosa e dall’altro la voglia di acquisire potere e ricchezza. Naturalmente occorre tener conto di varie differenze, di vari influssi, di varie personalità alla testa dell’Islam. Ma il fondo del movente espansionista era stato certamente delineato da Maometto e dai suoi primi collaboratori. A Maometto si deve infatti una prima stesura del libro sacro dei musulmani, il Corano.

Per definire questo libro in termini religiosi riporto le parole di Donini:

        Il concetto fondamentale del Corano è quello dell’abbandono alla volontà divina, della «sottomissione», o islam, da cui deriva il termine muslim, musulmano, per definire i seguaci della nuova religione. Si ritiene che l’anima sopravviva in forma corporea anche dopo la morte e che nella vita futura il credente potrà godere di ogni sorta di piaceri; ma chi si ostina nell’empietà e nel peccato sarà divorato dalle fiamme infernali. Se gli infedeli oppongono resistenza alla propagazione della nuova fede, devono essere sterminati (la «guerra santa», o gihàd); ma se si sottomettono e accettano di riscattarsi con un tributo, potranno vivere in pace e praticare i loro culti. Di qui una certa tolleranza, che ha caratterizzato nel corso dei secoli alcune grandi società islamiche nei confronti degli stessi Stati cristiani.

 
        Per concludere, l’Islam vede la religione come un modo di vivere, un insieme di comportamenti, una legge, un ideale politico; mancano invece quasi del tutto quelle connotazioni strettamente sacerdotali e liturgiche che appaiono essenziali alla nostra idea di religione. Ciò spiega come l’Islam abbia potuto tradursi, e continui a tradursi anche oggi, in un programma di unificazione politica e d’indipendenza nazionale per la maggior parte dei paesi del mondo arabo. Ma è innegabile, allo stesso tempo, che nelle mani delle classi dominanti e della parte più reazionaria del clero le norme religiose e sociali del Corano si sono rivelate un ottimo strumento per mantenere docili e sottomessi i ceti subalterni in tutta una serie di paesi convertiti alla dottrina di Maometto.

       Il gran successo nella conquista così rapida di zone abitate a prevalenza ebraica e cristiana merita un minimo d’indagine. Tralasciando il punto di vista militare, vediamo perché vi fu una sorta di accettazione popolare degli invasori. Il fatto che Allah sia un Dio unico è del tutto evidente ai musulmani ma, contrariamente ai cristiani, i seguaci dell’Islam credono di avere una dote in più rispetto a coloro che hanno altri dei. Sono loro i fortunati che non debbono andare a pietire (o peggio, imporre) conversioni ma tranquilli aspettare le eventuali persone che hanno finalmente capito e desiderano convertirsi. Non sono i musulmani che devono chiedere qualcosa come conversione ai vinti. Si accontentano della sottomissione. Tra i barbari era il vincitore ad andare spontaneamente incontro al vinto. Tra gli arabi accade il fenomeno opposto, sarà il vinto ad andare verso il vincitore. Ciò potrà avvenire solo se spontaneamente il vinto capirà che Allah è unico, che il Corano è il sacro testo, che l’arabo è la lingua santa. Quindi nessuna propaganda o oppressione ma assoluta libertà religiosa, anche per i cristiani monofisiti e nestoriani che erano invece perseguitati dalla casa madre del Cristianesimo. In tutte le zone conquistate dagli arabi erano le suddette religioni a dominare e si può quindi capire che, di fronte alla libertà religiosa garantita, e non per calcolo politico ma per quel senso di superiorità che si ha quando si è convinti di essere i migliori, tutti preferivano accettare tranquillamente il nuovo al duro passato oppressivo. I musulmani si sentivano magnanimi verso dei poveretti che non capivano la grandezza di Allah, accettavano tra loro persone degradate, spregevoli ed abiette. E’ l’infedele, del quale non viene attaccata la fede ma ignorata, che si sente demoralizzato e tenta di riconquistare una qualche dignità mondana, è lui che si dirige verso il musulmano e, nel farlo rompe i legami con la sua patria ed il suo popolo. Devo qui ricordare che con l’Ebraismo ed il Cristianesimo non vi era distinzione tra religione e politica con la conseguenza che i dominatori precedenti risultavano oppressori sia religiosi che politici. I nuovi conquistatori garantivano la completa libertà di culto e non chiedevano in tasse più di quanto non chiedessero i bizantini. Perché opporsi ?

        I musulmani erano anche pagati da qualcosa che invece era semplicemente disprezzata dai cristiani che, proprio per questo, non si accorgevano di quanto guadagnavano i musulmani. Tutta la scienza, la tecnica, la cultura e l’arte greca, romana e, soprattutto, alessandrina, così ferocemente denigrate e diffamate dalla Chiesa, erano invece assorbite con insaziabile interesse e passione dai musulmani (per la fortuna di noi tutti). Le stesse leggi, norme civili, istituzioni verranno assimilate per governare un impero ingovernabile con i costumi e le usanze tribali.

ALCUNE PREMESSE ALLA PRIMA CROCIATA

          Ho seguito in vari modi e da differenti punti di osservazione sia geografici che politici l’evolvere degli eventi da Carlo Magno,  dal fondatore cioè del Sacro Romano Impero, con l’incoronazione papale dell’anno 800, fino al momento in cui fu ideata la Prima Crociata. Restano da discutere i motivi economico politici che mossero l’insieme degli eventi.

            Occorre intanto ricordare che sull’onda degli entusiasmi del mondo che continuava ad esistere, agli inizi e durante l’XI secolo si ebbero enormi avanzamenti tecnologici che resero più “facile” la vita. La principale innovazione tecnologica che comporterà una grossa rivoluzione nella quantità di cibo che si può produrre è l’introduzione dell’aratro pesante a ruote che sostituisce quello romano leggero da spalla. Questo aratro con la sua lama scava più a fondo andando a rimuovere zolle vergini dove è più efficace il ciclo dell’azoto. Questo aratro poneva però problemi di ‘tiro’ che vennero risolti con l’introduzione del collare da spalla per la bardatura dei cavalli (in sostituzione di quello da gola che strozzava l’animale sempre più quanto più doveva fare sforzi). Come processi collegati vengono: la bardatura in fila, la ferratura (che permette l’uso del cavallo in agricoltura) ed il giogo. Oltre a ciò l’agricoltura si avvantaggia di sistemi di irrigazione. Vengono quindi costruiti canali, ponti e mulini a marea (Venezia). Mentre si inizia ad usare la ruota ad acqua per la macina del grano. La produzione agricola permette che si inizi un moderato processo di migrazione dalle campagne verso le città. Durante l’XI secolo si perfezionarono i mulini ad acqua mentre iniziarono ad entrare in funzione i primi mulini a vento. Lo sviluppo dei commerci accompagnò varie scoperte nel campo della navigazione: la bussola, il timone di poppa, lo scandaglio di profondità, l’astrolabio. Si iniziò a sviluppare una chimica pratica: coloranti, acido solforico, acido cloridrico, acido nitrico (per separare l’argento dall’oro). L’insieme di queste realizzazioni fatte con fatica comportò il miglioramento delle condizioni di vita ed un relativo benessere che si estese per i vari territori. La popolazione aumentò ed in conseguenza si ripopolarono le campagne con effetti a catena: nuove terre dissodate, nuove piantagioni, prosciugamento di paludi e disboscamenti per conquistare terra, creazione di canali, di strade, … Si stabilirono regole tra il proprietario terriero ed il contadino che le aveva in gestione. La terra in dotazione inizialmente era in quantità sufficiente per far vivere un gruppo familiare ma con le suddivisioni successive tra figli si arrivò ad una tale parcellizzazione che presto dalle campagne si ritornò in città per trovare qualcosa da fare per sopravvivere. Il feudo si disfaceva e nascevano i Comuni e con essi si ebbe una ripresa dei commerci che generò una borghesia che si poneva come strato intermedio tra nobiltà e clero da una parte e poveri contadini dall’altra.

Situazione geopolitica in Europa intorno all’anno 1000

          Insomma la vita in Occidente riprese e si rinnovò durante l’XI secolo.

Anche la Chiesa ebbe qualche sussulto con l’elezione di Papa Gregorio VII (1073-1085). Ciò comportò un durissimo scontro con l’Imperatore Enrico IV e dette origine alla guerra delle investiture che iniziò con la nomina nel 1075 del nuovo arcivescovo di Milano, nella persona di Tedaldo, suo cappellano, e con le interferenze imperiali nello stesso clero italiano, con il tentativo di costruire un nucleo di avversari di Gregorio. A ciò rispose subito Gregorio stabilendo che nessun membro del clero poteva ricevere l’investitura dalle mani dell’imperatore e, nel Dictatus Papae propriodel 1075,  affermò la supremazia del Papa su qualsiasi autorità terrena: unicamente il papa è in grado di confermare o di contestare imperi, regni, ducati, contee ed in genere i possedimenti di tutti gli uomini, di darli e di toglierli, e il tutto sulla base di meriti di ciascuno. Gregorio VII intraprese un’azione ad ampio raggio scrivendo a tutte le persone che avevano importanti responsabilità in Europa al fine di avere sostegno per l’opera di riforma che si riprometteva di avviare affiancata da quella di riconquista alla Chiesa dei possedimenti che riteneva di sua proprietà. Ebbe il sostegno ufficiale dell’Imperatore Enrico IV del Sacro Romano Impero, anche se da quelle parti non avevano gradito un’elezione nella quale non avevano potuto dare indicazione i tedeschi. In un Concilio del 1074 vi fu una dura offensiva contro chi aveva venduto e chi aveva acquistato cariche ecclesiastiche. I chierici ordinati per simonia dovevano considerarsi fuori dalla Chiesa mentre i vescovi che avessero ottenuto incarichi di prestigio, sempre per denaro, dovevano immediatamente lasciarli. Sul piano dottrinale vi fu una durissima condanna degli ecclesiastici che non rispettavano il celibato essendo sposati (venivano chiamati nicolaiti) o vivendo in concubinaggio ed avendo prole (si trattava di una evoluzione meno ipocrita dell’agapete che veniva praticata nei primi secoli della Chiesa). Inoltre si richiedeva ai Re o Signori che avessero beni ecclesiastici di restituirli alla Chiesa.

        Dalla Germania vi è una generale ed irata sollevazione dei chierici con moglie che arrivano a minacciare di morte il Papa. Gregorio fu molto duro e sospese 5 vescovi che avevano protestato e che erano tra i consiglieri di Enrico IV, inoltre tolse all’Imperatore la possibilità di investire vescovi, pena la scomunica. Naturalmente ciò comportò una rottura definitiva tra Impero e Papato e Gregorio emanò un suo documento, il Dictatus Papae, nel quale elencava dei canoni, cioè le condizioni per la riconciliazione. Il Dictatus era in pratica la rivendicazione della supremazia del Papa su qualsiasi autorità terrena. Il pontefice rivendicava il potere di deporre o reintegrare vescovi, principi ed imperatori. Gregorio sapeva che questo avrebbe provocato un duro scontro e così fu perché niente di quanto annunciato dal Dictatus fu preso in considerazione. Anzi, Enrico IV concesse da subito nuove investiture, nominò il nuovo arcivescovo di Milano, nella persona di Tedaldo, suo cappellano, ed interferì in vario modo nello stesso clero italiano tentando di costruire un nucleo di avversari di Gregorio. Si arrivò alla congiura guidata proprio dal cardinale Candido. Nel 1075 Gregorio fu pugnalato mentre diceva messa in Santa Maria Maggiore e condotto in prigione da una banda di armati. I fedeli, superato lo sbandamento iniziale, riuscirono a liberarlo il giorno seguente mettendo in fuga (ripareranno in Germania) i congiurati.

        Gregorio convocò a Roma Enrico IV perché si discolpasse (1076). Se non lo avesse fatto sarebbe stato scomunicato. Fu ancora Candido ad alimentare lo scontro, raccontando ad Enrico IV che Gregorio tramava con Matilde di Canossa (con stregonerie e rapporti indicibili), diventata una potente feudataria che in pratica aveva in mano l’intera Italia Settentrionale, per sottrargli i suoi possedimenti in Italia. Enrico IV inviò a Gregorio una dichiarazione di disobbedienza, sottoscritta da quasi tutti i vescovi tedeschi e lombardi, ritenendolo non più degno di occupare quel posto. Gregorio rispose con la solenne scomunica di Enrico IV e di tutti coloro che avevano firmato la disobbedienza. Enrico IV si adirò violentemente ma si rese conto che il popolo sosteneva il Papa anche perché sembrò che l’ira divina si abbattesse su di lui attraverso i suoi sostenitori che in breve tempo morirono in quantità. Ciò provocò la diffusione di una paura superstiziosa che fece levare contro Enrico IV vari principi tedeschi  che già non lo apprezzavano. In questi casi si ricorreva al perdono papale e la cosa fu proposta ad Enrico IV: se otterrà il perdono papale non si correrà il rischio di una guerra civile e tutti i principi ribelli lo avrebbero riconosciuto come Imperatore. Ci furono momenti di indecisione che si conclusero in un viaggio di Enrico in Italia ma con un esercito al seguito. Gregorio, che viaggiava nel Nord Italia, saputo che Enrico aveva attraversato le Alpi e non conoscendone le intenzioni, si rifugiò nel castello di Matilde di Canossa, a Canossa sull’Appennino Emiliano. Enrico, arrivato fin qui, chiese di essere ricevuto ed il  Papa negò ogni contatto. Matilde ed altri dignitari pregarono il Papa di recedere ma egli fu irremovibile: Enrico dovrà stare tre giorni e tre notti al freddo ed al gelo prima di essere ricevuto ! Passato questo tempo lo ricevette, lo ascoltò nella cappella del castello, prese atto della richiesta di perdono, dopodiché lo riammise tra i fedeli e gli dette la comunione. Sembrava completamente sottomesso Enrico IV ma macinava rancore e vendetta che avrebbe scatenato appena riconquistato il trono. Ma né popolo né principi erano più con lui. Lo cacciarono ed elessero Imperatore Rodolfo Duca di Svevia, cognato di Enrico. Dopo varie vicende che vedranno anche uno scontro armato tra partigiani di Enrico e di Rodolfo, nel 1080 il Papa consacrò Imperatore Rodolfo e scomunicò di nuovo Enrico per non aver rispettato gli accordi di Canossa. L’ex Imperatore, per tutta risposta, convocò una dieta di vescovi (erano in 26), in maggioranza nicolaiti e simoniaci, a Worms (1080), che dichiarò deposto il Papa ed eletto come nuovo pontefice l’arcivescovo di Ravenna Guiberto (uno dei capi della congiura di Santa Maria Maggiore) con il nome di Clemente III che, come primo atto, scomunicò Gregorio. Vi furono frenetici tentativi di Gregorio per la sua difesa e quella del Papato in un momento in cui Enrico IV si era riorganizzato ed in Italia non aveva grossi sostegni oltre Matilde di Canossa al Nord. Riallacciò i legami con i Normanni e particolarmente con Roberto il Guiscardo che, scomunicato per aver toccato terre della Chiesa a Benevento, fu riammesso tra i fedeli a patto di difendere la Chiesa (l’altro re normanno, Giordano di Capua, figlio di Riccardo, prima accettò la difesa del Papa poi fece dietrofront). In definitiva Enrico IV arrivò alle porte di Roma per cacciare Gregorio ed imporre Clemente. Furono i medesimi romani che riuscirono a respingere Enrico che per almeno due anni non tentò nulla contro Roma. Passati questi due anni Enrico tornò e riuscì ad entrare in città con Gregorio asserragliato a Castel Sant’Angelo. Tutto era perso perché i nobili romani, che avevano organizzato la sconfitta di Roma, si schierarono con lui; perché i vescovi lombardi riconobbero Clemente come Papa; perché Enrico si fece incoronare come Imperatore da Clemente III in Laterano nel 1083. Il normanno Roberto il Guiscardo che avrebbe dovuto difendere Roma ed il Papa, si presentò a Roma con due anni di ritardo dalla richiesta e con un grande esercito, tale da far scappare Enrico IV e far rifugiare Clemente III in luogo sicuro a Tivoli. Per questo aiuto il prode normanno volle mettere a sacco Roma, con massacri inauditi e provocando violenti incendi che distrussero quasi due terzi di essa.

        Gregorio verrà preso ostaggio da Roberto che non avrà il coraggio di restare a Roma per la violenta ostilità di tutti nei suoi riguardi. Ma anche Gregorio aveva perso il sostegno popolare tanto che fu accettato addirittura Clemente III, risorto da Tivoli, come Papa, mentre Gregorio moriva a Salerno (1085) dove era stato portato da Roberto il Guiscardo. Si chiudeva qui la vicenda di un riformatore che fece cose importanti contro simonia ed immoralità del clero e che aprì la strada, in modo del tutto inconsapevole, alle grandi eresie della Chiesa dei secoli futuri poiché, capito cosa significava moralità, il popolo la continuò a pretendere anche dai successori di Gregorio.

                 Dopo Gregorio VII fu eletto Papa un benedettino da tutti riconosciuto come un sant’uomo (Gregorio aveva indicato tre possibili successori ma la corte pontificia, conoscendo il forte carattere di questi, per non ripetere l’esperienza di un Papa che faceva tutto lui con serietà e senza corruzioni, decisero per un candidato diverso). Il momento era delicato e solo in questo modo sarebbe stato possibile avere una tregua intorno al trono pontificio e rimettere in moto ogni imbroglio. Anche qui, per acclamazione, fu eletto Desiderio di Montecassino che assunse il nome di Papa Vittore III (1086-1087) ma desiderio non voleva saperne di fare il Papa perché preferiva una vita ritirata di preghiera e lavoro piuttosto che entrare nelle sarabande pontificali. Una volta eletto Vittore si dimise allontanandosi da Roma, dove ricomparve l’antipapa Clemente III che resterà come una presenza ineliminabile fino al 1100. Vittore sosteneva che il Papa doveva essere eletto secondo le modalità ormai stabilite. Fu accontentato e risultò eletto in un Sinodo a Benevento (Roma era impraticabile perché occupata da Clemente III) ma di fatto fu Papa per soli 4 mesi preferendo ritirarsi nel suo eremo di Montecassino (nel Sinodo Clemente III fu scomunicato, fu rinnovato il divieto all’investitura laica e si iniziò ad impostare la campagna contro i Saraceni in Africa). E proprio su questa importante questione vi furono avvenimenti che accaddero sotto il suo Papato che meritano di essere ricordati. Quella corte pontificia, che si era in gran parte sostituita alla prepotenza nobiliare (ma in realtà era la medesima cosa perché tra quei vescovi e cardinali vi erano i rappresentanti dei nobili), decise, così sembra, all’insaputa del Papa una spedizione contro i musulmani, una pre crociata. Già sotto Gregorio vi era stata una pre-crociata (1081) guidata dal normanno Roberto il Guiscardo che, per la prima volta nella storia, ebbe il permesso dal Papa di issare la croce come simbolo di un esercito. Altra pre-crociata fu appunto quella che nacque sotto Papa Vittore (1086) e fu realizzata da una coalizione di Repubbliche Marinare: Genova, Pisa, Amalfi. In realtà queste Repubbliche cercavano di difendersi dalle continue incursioni dei Saraceni africani in territori europei che, tra l’altro, rendevano insicure tutte le rotte con grave danno per i loro commerci. Inizialmente si riuscì a liberare la Sardegna e la Corsica fino ad una incursione in territorio tunisino dove fu conquistata e saccheggiata la roccaforte della flotta saracena di Mehdia. Con il bottino di guerra fu costruita la cattedrale di Pisa.

        Alla morte di Vittore seguirono scontri violenti tra le famiglie nobili a Roma, scontri che interessarono anche i Normanni, i Lombardi e l’Impero di Augusta. Era tutto tornato come prima con attori che via via cambiavano sulla scena recitando sempre la stessa parte. La novità era quella della lotta contro i musulmani contro i quali la Chiesa tentò di riconquistare l’unità dei cristiani. L’operazione inizierà, come vedremo, con Papa Urbano II, successore di Vittore, che ebbe buon gioco ad indicare i musulmani come un pericolo onnipresente e continuamente agente contro terre cristiane. Si susseguivano incursioni improvvise e sempre più massicce in imprecisati territori. Episodicamente si poteva avere un qualche successo come quando nell’871 il franco Ludovico II riuscì a strappare Bari all’occupazione saracena. Ma Ludovico fu fatto arrestare (morì poi nell’875) per altre vicende dal principe di Benevento Adelchi ed i Saraceni ripresero a fare razzie: gli attacchi da Saraceni stanziati in Puglia riguardarono le coste dalmate; con una scorribanda, nell’841, fu incendiata Capua; nell’878 Siracusa fu conquistata dai musulmani; nell’880 fu distrutto l’eremo di Montecassino e saccheggiata la cittadina di San Vincenzo al Volturno; … Come già detto si tratta di un quadro intricatissimo di guerre e devastazioni, di alleanze composte, violate e ricomposte, attraverso le quali si inserivano vari conquistatori, non ultimi i Saraceni. Sul finire del IX secolo avevano conquistato quasi tutta la Sicilia (resistevano ancora Taormina, che cadrà nel 902, e Rometta, che cadrà nel 963. Da qui partirono assalti, oltreché a coste italiane, a possedimenti francesi e bizantini. Particolarmente di mira furono prese Creta, Cipro, Sardegna e Corsica dove giovani, donne ed uomini furono catturati per essere immessi nel mercato degli schiavi. Questo stillicidio del terrore fu per qualche tempo fermato da una iniziativa di Papa Giovanni X e del Re d’Italia Berengario insieme ad altri principi del Sud (Capua, Salerno e Benevento) che nel 915 scacciarono i Saraceni dal Garigliano.

        Si andò avanti così per anni finché non si fece strada l’idea di tagliare alla radice questa calamità. Già sotto Gregorio VII vi era stata una pre-crociata (1081) guidata dal normanno Roberto il Guiscardo che, per la prima volta nella storia, ebbe il permesso dal Papa di issare la croce come simbolo di un esercito. Altra pre-crociata fu appunto quella che nacque sotto Papa Vittore III (1087) e fu realizzata da una coalizione di Repubbliche Marinare, con particolare impegno pisano. Le cronache di Montecassino raccontano che questa spedizione fu promossa da Papa Vittore III, il benedettino che proveniva da quel monastero. Cronache arabe e normanne aggiunsero particolari di tipo economico: i pisani ebbero dall’emiro Tamîn una forte somma di denaro perché lasciassero liberi i territori tunisini che avevano occupato ed in particolare la città di Mehdia, roccaforte della flotta saracena, che era stata conquistata e saccheggiata. Con il bottino di guerra fu costruita la cattedrale di Pisa. E erano anche iniziate da parte di Gregorio VII altre gestioni del problema Islam. Poco oltre il 1070 Gregorio scrisse ai principi (Aragona, León e Navarra) che operavano (o erano in procinto  di farlo) alla Reconquista dei territori spagnoli occupati da islamici ricordando loro che il Regno di Spagna era pertinenza di San Pietro in base ad un antico e consolidato diritto (Gregorii VII, Registrum, I, 7). Naturalmente non spiegava l’origine di tale diritto supponendo che esso discendesse ancora dalla falsa Donazione di Costantino e (forse) dalla cessione della penisola iberica ai Visigoti (411), completamente cristianizzatinel 589(2). Siamo comunque in un’epoca in cui l’Islam esauriva la sua carica rivoluzionaria e, parallelamente, la Chiesa di Gregorio passava dalla fuga dal mondo alla conquista cristiana del mondo. La questione sollevata da Gregorio, il diritto della Chiesa sul Regno di Spagna,fu ripresa da Papa Urbano II che sollecitò a più riprese i Re cristiani alla riconquista di terre in mano islamica. A tal fine, nel 1090, convocò un Concilio a Tolosa nel quale venne deliberato di inviare una delegazione a Toledo perché vi fosse restaurato il Cristianesimo. Intanto, nel corso dell’XI secolo i Normanni avevano occupato la Sicilia scacciando i Saraceni. Il secolo XI vide una generale decadenza della spinta propulsiva che gli arabi avevano avuto a partire dai tempi di Maometto (VI secolo). A tale declino si accompagnò però l’avanzata tumultuosa di popolazioni di origine mongola, i Turchi, convertiti all’Islam nel secolo X ed arrivati al Mediterraneo attraverso la conquista di: Persia, Mesopotamia, Siria, Palestina e Gerusalemme (1070), luoghi santi, ed attaccando a più riprese ciò che rimaneva dell’Impero Bizantino (sconfitto duramente nel 1071 nella battaglia di Manzicerta). Già nel 1073 Gregorio VII si fece promotore di una spedizione contro i Turchi che non ebbe seguito per le violente lotte che i cristiani amavano fare tra loro, questa volta per le investiture e per lo scontro in atto tra il Papato ed Enrico IV, il giovane Imperatore del Sacro Romano Impero.

          Nonostante quanto or ora detto le motivazioni che portarono alle Crociate non sono così semplici. Ne abbiamo conferma da quanto acutamente scrivono Tabacco e Merlo:

Appare ormai sufficientemente accertato che le tradizionali ragioni invocate a spiegazione della crociata – accresciute violenze contro i pellegrini europei e richiesta di aiuto da parte di Alessio I Comneno [Imperatore bizantino dal 1081 al 1118, ndr] a seguito dell’avanzata dei Turchi selgiuchidi – siano motivazioni enfatizzate «a posteriori». La conquista turca non rallenta di molto la frequenza dei pellegrinaggi verso Gerusalemme(11): contribuisce a meglio organizzarli e disciplinarli, talvolta persino ad armarli. L’imperatore di Bisanzio, dal canto suo, richiede l’aiuto militare dell’Occidente non solo per la difesa dell’Asia Minore e il recupero di Antiochia [occupata dai Turchi Selgiuchidi nel 1084, ndr], ma per riavvicinarsi a Roma, dopo la crisi che dal 1054 si agitava tra la chiesa greca e quella latina, al fine di fronteggiare il pericolo dei Normanni che nel 1082 erano penetrati profondamente nella penisola ellenica.

Le ragioni della crociata non sono nell’Oriente islamico, sono interne alla cristianità occidentale, all’incrocio di tendenze e tensioni non facilmente conciliabili fra loro, quali l’esuberante e disordinato sviluppo di una società, la volontà di inquadramento e di direzione espressa dalle istituzioni ecclesiastiche – e in primo luogo dal papato -, l’affermazione di un vasto ceto che nell’uso delle armi trovava la sua ragion d’essere, la ricerca della pace come condizione necessaria all’ordinato svolgimento della vita civile e religiosa.

Proprio dal movimento delle «paci di Dio»(12) occorre prendere le mosse per rintracciare quelle esigenze che la crociata porterò alla loro compiutezza. La «pace di Dio» svolge progressivamente la funzione di isolare le violenze militari nel settore del popolo cristiano dedito alle attività belliche, poiché i concili episcopali garantiscono, sotto minaccia di sanzioni spirituali, la protezione divina su chiese, chierici e monaci, e «poveri», cioè i disarmati: siano essi contadini, mercanti, pellegrini, donne. Un isolamento che, nel secolo XI diviene limitazione sempre più ampia dell’esercizio della guerra, considerata come fonte di peccato: uccidere un cristiano, significa spargere il sangue di Cristo. La «pace di Dio» si dilata a «tregua di Dio». E se le idee di pace non giungono certo a eliminare la guerra in Occidente, ottengono però il risultato di orientare parte dell’aggressività dei cavalieri all’esterno della societas christiana. L’unica finalità dell’uso delle armi moralmente e religiosamente accettabile è il loro impiego, in coerenza con la missione pur ricevuta da Dio che per il cavaliere è quella di combattere, contro i nemici della fede: il cavaliere a servizio del Cristo è in una condizione simile a quella dei «poveri» che attorno ai vescovi avevano lottato nella difesa delle «paci di Dio», è equiparato al «povero», al penitente. Coinvolgimento dunque di armati e inermi in un grande progetto di pacificazione che non esclude, anzi implica la lotta per creare le condizioni dell’affermazione del regno di Dio «che sta per venire”, del regno che è promesso ai «facitori di pace».

DEUS LE VOLT ! DIO LO VUOLE !

          Possiamo riprendere la storia dell’Occidente cristiano, che faceva perno sul Sacro Romano Impero, a partire da dove avevamo lasciato.

       Alla morte di Papa Vittore III, come già detto, fu eletto Papa il francese Urbano II (1088-1099). Le cose non furono però semplici perché Roma era saldamente in mano all’antipapa Clemente III. Dovettero passare vari mesi prima che si riuscisse ad eleggere il nuovo Papa. Poiché Roma era impraticabile si convocò l’elettorato a Terracina, secondo il Decreto di Papa Niccolò II del 1059, dove nel marzo del 1088 fu eletto un monaco del Monastero di Cluny, il vescovo riformista di Ostia Eudes de Lagery (fatto cardinale da Gregorio VII) che assunse il nome di Urbano II.

        Urbano, scomunicato nel 1089 da Clemente III, passò i primi anni del pontificato a cercare di farsi riconoscere come Papa e a crearsi le alleanze necessarie. Il problema principale era l’Imperatore Enrico IV che era stato scomunicato nel 1076 da Papa Gregorio VII e che era Imperatore grazie all’incoronazione non di un Papa ma di un antipapa. Enrico andava rafforzando il suo regno avendo sconfitto la resistenza armata di molti principi ed avendo riconquistato alla sua causa la maggioranza dei vescovi tedeschi e della Longobardia. In questa posizione Enrico intraprese un viaggio in Italia con l’intenzione di stroncare l’unica resistenza che gli era rimasta, Matilde di Canossa che, vedova di Goffredo il Gobbo, si era risposata con Guelfo V figlio del duca di Baviera su consiglio del Papa. Ma Guelfo lasciò Matilde quando seppe che tutti i suoi beni erano stati lasciati alla Chiesa di modo che, in definitiva, crebbero i nemici del Papa. Quest’ultimo si rivolse ai Normanni che però non riuscirono a garantire nulla. Enrico IV discese in Italia e subito si scontrò con l’esercito di Matilde. Vinse alcune battaglie ma poi fu sconfitto tanto che anche il figlio di Enrico IV, Corrado, prese fiducia in Matilde e le chiese asilo insieme alla seconda moglie dell’Imperatore (Corrado, su consiglio del Papa, andrà sposo con la principessa normanna Matilde e permetterà la ripresa dei legami del Papato con i Normanni). Questa vittoria di Matilde animò molte città del Nord che si costituirono in una Lega, guidata dalla stessa Matilde, contro l’invasore tedesco. La potenza di Enrico iniziò a venir meno ed egli fu costretto ad asserragliarsi a Verona, proprio quando a Roma l’antipapa Clemente era stato cacciato  e Urbano era riuscito nel 1094 ad insediarsi (seguirono comunque due anni di scontri in città con Clemente chiuso a Castel Sant’Angelo). Da notare che per questa vittoria romana non erano intervenuti i normanni ma un esercito messo insieme con i soldi raccolti soprattutto in Francia dall’abate Goffredo di Vendôme e guidato dal conte Ugo di Vermandois.

        Nonostante queste vittorie, la Chiesa non aveva intorno nessuno su cui appoggiarsi se si esclude la sola Matilde. Si trovava in uno stato di completa incertezza, senza alleati fidabili, senza riferimenti ed anche con poche disponibilità economiche. La Chiesa era inoltre impegnata nella lotta delle investiture, iniziata nel 1059 da Papa Niccolò II, che riguardava i vescovi che la Chiesa non voleva più fossero nominati dall’Imperatore. Ed è in questo clima che Urbano convocò il Concilio di Piacenza (nel mezzo della Longobardia scismatica) del marzo 1095 nel quale, dopo aver ribadito la condanna dei simoniaci, dei coniugati e dei concubini, esortò i regnanti cristiani ad aiutare i confratelli d’Oriente. Al Concilio, cui parteciparono 200 vescovi di: Italia, Francia, Borgogna Germania  e Baviera ed oltre 5000 ecclesiastici ed innumerevoli laici di varia provenienza, presenziarono i citati ambasciatori di Alessio, Prassede, la seconda moglie di Enrico IV del Sacro Romano Impero, ed una delegazione inviata da Filippo I Re di Francia. Il Concilio, data la eccezionale presenza di partecipanti si dovette tenere in un campo al di fuori delle mura della città. Questa importante partecipazione deve aver spinto Urbano ad altri Concili che interessassero ai problemi in discussione altre realtà politiche. Da Piacenza egli si diresse verso la sua terra, la Francia, per tenervi altri Concili (Macon, Cluny, Sauvigny) tra cui quello famoso del novembre 1095 (dal 18 al 28) a Clermont (13 arcivescovi e 205 vescovi, migliaia di chierici e laici accorsi per ascoltare il Papa).

Concilio di Clermont

        Prima che il Concilio terminasse, il Papa, come precedentemente ed insistentemente annunciato, tenne una seduta pubblica in cui si rivolse a una folla di laici e chierici riuniti per ascoltare il suo messaggio (era il 27 novembre). Raccontò le conclusioni più immediatamente teologiche del Concilio (contro l’investitura laica, contro la simonia, contro il matrimonio dei preti, per le «paci di Dio», per la supremazia di alcune sedi episcopali) e quindi passò al tema dei Luoghi Santi. Il discorso appassionato del Papa, diretto all’intera cristianità, prima si soffermò sulla orrenda situazione vissuta dai cristiani a Gerusalemme: “Abbattono gli altari dopo averli sconciamente profanati, circoncidono i cristiani e il sangue della circoncisione o spargono sopra gli altari o gettano nelle vasche battesimali; e a quelli che vogliono condannare a una morte vergognosa perforano l’ombelico, strappano i genitali, li legano a un palo e, percuotendoli con sferze, li conducono in giro, sinché, con le viscere strappate, cadono a terra prostrati. Altri fanno bersaglio alle frecce dopo averli legati ad un palo; altri, fattogli piegare il collo, assalgono con le spade e provano a troncare loro la testa con un sol colpo. Che dire della nefanda violenza recata alle donne, della quale peggio è parlare che tacere?“. Quindi partì dall’elemento che gli stava più a cuore: i cristiani si facevano continue e crudeli lotte tra loro, non era più opportuno combattere gli infedeli ? I briganti si facciano soldati, chi ha lottato contro i fratelli lotti contro i barbari, chi è stato mercenario avrà una più grande mercede guadagnando per sé la salvezza eterna. Tutti i balordi erano riconquistati alla fede se in lotta contro il nemico: “Insorgete, puntate le vostre armi grondanti di sangue fraterno contro i nemici della fede cristiana. Voi, oppressori di orfani e vedove, voi, assassini e profanatori di chiese, voi ladri degli altrui beni, voi, che siete pagati per versare sangue cristiano, che come avvoltoi siete attirati dal fetore dei campi di battaglia: affrettatevi se amate l’anima vostra, a muovere al comando di Cristo in difesa di Gerusalemme. Voi tutti che commetteste tali delitti da essere esclusi dal regno dei cieli, riscattatevi a questo prezzo, poiché questo è il volere di Dio …“. E da ultimo l’esortazione a partire, ad armarsi per combattere gli infedeli profanatori dei luoghi santi: “Non vi trattenga il pensiero di alcuna proprietà, nessuna cura delle cose domestiche, ché questa terra che voi abitate, serrata d’ogni parte dal mare o da gioghi montani, è fatta angusta dalla vostra moltitudine, né è esuberante di ricchezza e appena somministra di che vivere a chi la coltiva. Perciò vi offendete e vi osteggiate a vicenda, vi fate guerra e tanto spesso vi uccidete tra voi. Cessino dunque i vostri odi intestini, tacciano le contese, si plachino le guerre e si acquieti ogni dissenso ed ogni inimicizia. Prendete la via del santo Sepolcro, strappate quella terra a quella gente scellerata e sottomettetela a voi: essa da Dio fu data in possessione ai figli di Israele; come dice la Scrittura, in essa scorrono latte e miele. Gerusalemme è l’ombelico del mondo, terra ferace sopra tutte quasi un altro paradiso di delizie; il Redentore del genere umano la rese illustre con la sua venuta, la onorò con la sua dimora, la consacrò con la sua passione, la redense con la sua morte, la fece insigne con la sua sepoltura. E proprio questa regale città posta al centro del mondo, è ora tenuta in soggezione dai propri nemici e dagli infedeli, è fatta serva del rito pagano. Essa alza il suo lamento e anela ad essere liberata e non cessa d’implorare che voi andiate in suo soccorso“. E “quando andrete all’assalto dei bellicosi nemici, sia questo l’unanime grido di tutti i soldati di Dio: «Dio lo vuole! Dio lo vuole!»“.

          E tutto il pubblico gridò Deus le volt … Quindi tutti fecero eco al Confiteor recitato dal cardinale Gregorio.

Ancora Tabacco e Merlo commentano:

Quando Urbano II, a Clermont, in un concilio di «pace» e di «riforma», decide l’estensione dei privilegi fin allora riservati ai «poveri» a tutti quanti intraprendano il viaggio penitenziale al Santo Sepolcro, libera energie spirituali e culturali, prodotte da un lungo processo storico, che trovano ulteriore vitalità nelle condizioni sociali ed economiche, oltre che politiche, di molte terre d’Europa. L’iter Hierosolimitanum è ad un tempo pellegrinaggio, penitenza, strumento di redenzione, avventura umana e religiosa, occasione di conquista di nuove terre della cui ricchezza si favoleggiava, non solo per l’aristocrazia militare, grande e piccola, ma anche per gli «inermi» che attribuiscono al viaggio un valore decisivo. Per loro il simbolo è realtà: la Gerusalemme «terrestre» è la Gerusalemme «celeste». Dio chiama gli «eletti» per instaurare il suo regno. Predicatori itineranti, quali Pietro d’Amiens detto l’Eremita, percorrono le contrade, raccontando delle tribolazioni dei pellegrini, esibendo lettere miracolosamente «cadute dal cielo», richiamando prodigi e profezie, incitando i «poveri» a mettersi in marcia. E gruppi così reclutati, spontaneamente aggregatisi, di composizione eterogenea, nella primavera del 1096, senza aspettare il segnale del papa, intraprendono il viaggio verso Gerusalemme, sostanziando la loro attesa millenaristica di antisemitismo: la «crociata popolare» inizia con il massacro degli Ebrei delle città renane e danubiane [con saccheggi e scorribande crudeli, ndr]. I protagonisti di questa prima avventura finiranno quasi tutti uccisi prima di giungere a quella Gerusalemme che avevano creduto di intravedere ogni qual volta all’orizzonte si profilava una fortificazione [i Turchi li fecero quasi tutti a pezzi appena giunsero in Anatolia, ndr].

        Una prima osservazione deve essere fatta. L’enfasi sui luoghi santi e Gerusalemme risultava nuova. Quelle terre non erano mai interessate al Papato fino ad allora (vi erano in quel periodo delle lotte tra turchi e dei sommovimenti tra popolazioni dell’Asia Minore che rendevano difficili i pellegrinaggi, ma questa era la normalità che invece fu enfatizzata). Lì, dove era il sepolcro di Cristo, nessuno pensò mai di farne la sede della cristianità. Il Papa introduceva questo elemento nuovo per canalizzare l’attenzione e distoglierla dai disastri dell’Occidente. S’invocava l’inizio di una Guerra Santa, guerra alla quale tutti, ricchi e poveri, dovevano dare il loro contributo perché Dio li guidava. Nessuna paura poi perché chi fosse morto in battaglia avrebbe ricevuto l’assoluzione e la remissione dei peccati (come del resto avveniva nell’Islam). Ma la Chiesa sa essere generosa quando i doni che fa non costano nulla. E così donò: indulgenza plenaria, esenzione dai tributi, immunità dai tribunali ordinari, protezione da persecuzione per debiti fatti prima della Crociata, scomunica per chi tentasse di far danno al crociato, alla sua famiglia ed alla sua proprietà. Vi era poi un’invenzione che solo la Chiesa di Roma era capace di fare: chi pagava forti somme alla Chiesa era esonerato da fare il crociato vero in armi. Una seconda osservazione è più importante e riguarda il cosa possa essere accaduto tra marzo e novembre del 1095 perché Urbano passasse da una semplice esortazione ad un appello così forte e deciso. A questo proposito leggiamo cosa scrive Gatto che ci introduce molto bene ai motivi reali della crociata:

Cosa accadde fra la primavera e l’autunno del 1095 che portò Urbano a passare da un cauto e diplomatico appoggio alla causa della cristianità orientale alla proclamazione della prima crociata? I motivi del mutamento possono essere molteplici, ma non vanno sottovalutati fra essi taluni incontri destinati probabilmente a determinare la volontà papale in modo irreversibile. Anzitutto, il vescovo di Roma visitò l’Abbazia di Le Puy dove vide e parlò lungamente con Ademaro di Monteil, il quale, verso il 1087, aveva compiuto un pellegrinaggio a Gerusalemme, donde era rientrato narrando particolari “apocalittici” sulle condizioni dei cristiani oppressi dai Selgiuchidi. Fra l’altro, Ademaro era imparentato con i conti di Tolosa e fu forse proprio in quella occasione che furono decise la spedizione e la relativa direzione, entrambe affidate per l’appunto al conte tolosano Raimondo. V’è in proposito chi ritiene addirittura che dal centro monastico suddetto il pontefice si sia recato a Saint-Gilles per incontrarvi Raimondo, il quale, poi, mandò i suoi ambasciatori a Clermont per portarvi ufficialmente l’assenso del loro signore al passagium. Una terza tappa del percorso urbaniano si svolse in Borgogna, più precisamente a Cluny, ove il papa prese contatto con il duca Ottone I, già in precedenza ben disposto a partecipare alla campagna militare contro i Mori d’Africa. In quei paraggi soggiornava anche Filippo I di Francia e non si può escludere che Urbano non cercasse ivi anche un suo primo, sia pur generico consenso alla guerra d’oltremare. Certo, dal marzo al novembre del 1095, gli intendimenti urbaniani apparvero fortemente mutati. È interessante pertanto studiare in qual modo tale evoluzione sia stata percepita, quanto sia stata posta in rapporto alla reale situazione della Palestina e dei cristiani che vi si recavano o vi vivevano e quanto sia scaturita da considerazioni dettate da motivi politici contingenti. Disse, ad esempio, Fulcherio di Chartres che papa Urbano nutrì il proposito di suscitare nuova vitalità nel cristianesimo proprio sostenendo la crociata. Se Urbano dunque ebbe per scopo principale la preoccupazione di cancellare il “basso profilo” in cui era scaduta la religione tra ecclesiastici e popolo e cercò di scongiurare il pericolo che i principi cristiani continuassero a passare il tempo combattendosi sterilmente 1’un l’altro, allora si deve concludere che il suo obiettivo ebbe scopo squisitamente politico e scarsamente missionario. Egli, insomma, non avrebbe mirato all’ampliamento dei confini della cristianità o alla loro difesa dagli invasori, ma avrebbe plasmato il cristianesimo come una fede praticata nell’ ambito geografico ed umano di competenza. Parecchi anni dopo quegli eventi, Guglielmo di Malmesbury, invece, nel De regum gestis pose in risalto il rischio concreto corso in quei frangenti dalla cristianità: rischio costituito dalla perdita a favore dei musulmani dell’ Asia e dell’ Africa. Legato alla fede rimaneva, infatti, solo l’Occidente cristiano e non mancarono difficoltà quando, come comprovò 1’occupazione della Spagna, delle Baleari e della Sicilia, i seguaci dell’Islam entrarono nel nostro continente. Il bisogno di respingere un possibile assalto alla fede dei padri, dunque, rimase un elemento non aleatorio e costante nell’azione del papa e fu comunemente rilevato da tutte le fonti narrative. Tuttavia tale esigenza non fu sempre contrapposta al tentativo di adeguare la passione per la guerra ad una finalità che non fosse quella delle lotte interne tra cristiani. Le precedenti battaglie contro i Saraceni e la situazione della Spagna soggiogata dai Mori prepararono altresì gli animi delle popolazioni alla riscossa armata. E in realtà ciò stette a dimostrare come nella cultura occidentale fosse ora latente ora presente un fondo di “fobia” contro gli stranieri volto a tradursi in scelte violente. Un aspetto di tale stato d’animo posto alla base della mentalità occidentale può individuarsi pure nel principio in base a cui l’obiettivo crociato fu individuato nella liberazione della Terra Santa nonché nell’ostilità che i Latini provarono quando vennero a contatto con i loro correligionari copti, siriani e greci, considerati quasi alla stregua dei Turchi. Non è dato conoscere però neppure se e fino a qual punto i cristiani di rito latino fossero a conoscenza della diversità dei riti ortodossi. Di fatto, l’incontro con il mondo bizantino e medio orientale provocò in prevalenza ostilità e risentimento da ambo le parti e, allorché nel Levante furono organizzati gli Stati latini, gli Arabi di fede cristiana vennero considerati senza alcun riguardo dall’autorità ecclesiastica latina e ciò attesta che l’impulso a scontrarsi era forte e chiaro. In Europa, poi, l’odio contro lo straniero si diffuse con un contagio presto ingigantitosi, dapprima alimentato dalla paura di un imminente attacco islamico, dopo, da un indiscriminato risentimento contro le popolazioni levantine e soprattutto contro i musulmani. Quando, in prosieguo di tempo, nella parte dell’Est del nostro continente comparvero le bande indisciplinate radunatesi al seguito di Gualtieri Senza Averi e di Pietro l’Eremita (i capi della crociata dei pezzenti che, privi di ogni esperienza militare, portarono al massacro dei Turchi oltre 12000 persone), prese forma un conflitto pericoloso contro le popolazioni locali e, segnatamente, contro le comunità ebraiche. Quasi la stessa cosa si verificò, poi, allorché vennero organizzati eserciti regolari mossisi sulla base di una più severa disciplina. L’autore dei Gesta Francorum, al seguito di Boemondo di Taranto, offrì una interessante descrizione della gente di Tracia: i Traci – si racconta – erano spaventati al solo vedere i cristiani; essi non pensavano affatto di trovarsi di fronte a dei pellegrini, ma a vere e proprie orde indemoniate che intendevano saccheggiare il paese e uccidere tutti. La gente del luogo, inoltre, non voleva vendere loro vettovaglie, nessun articolo di vestiario o altro; così per forza di cose, i Franchi, per sopravvivere, dovettero darsi alla rapina. A Monastir i peregrini si scagliarono contro un castello pieno di eretici che massacrarono, dando l’edificio alle fiamme con quanti vi si erano rinchiusi. Un’altra volta furono i Bizantini ad attaccare i pellegrini; allora Boemondo, assoggettati i Greci, si rivolse ai prigionieri catturati chiedendo loro: «perché uccidete il popolo di Cristo e i miei uomini?». L’episodio è interessante, in quanto vi si coglie l’incapacità, peraltro abbastanza comprensibile, dei Franchi di integrarsi con popolazioni diverse da loro. Tale incapacità si verificò a differenti livelli. Così, mentre i crociati franchi passavano per le regioni balcaniche, si moltiplicarono al loro transito saccheggi, stupri, assassini e battaglie senza quartiere. Eccezionale fu, poi, l’intolleranza franca sul piano delle proprie prerogative e delle proprie abitudini. La prova più lampante al riguardo venne data dal1a pretesa occidentale di voler latinizzare le chiese ovunque ciò fosse possibile e, quindi, com’era naturale accadesse, dall’intento di latinizzare la stessa Grecia. Mai riuscirono, quindi, i “Latini” ad avere la comprensione degli Arabi cristiani di Siria e Palestina, quando essi divennero loro sudditi, mai quella dei Bizantini ortodossi e tanto meno quella degli islamiti. D’altra parte Latini e Greci, Arabi e Siriani erano tutti e sempre convinti di essere i più civili e i più cristiani e ritenevano gli altri inferiori a loro. Non per nulla Guiberto di Nogent nei Gesta Dei per Francos considerò le crociate fra le guerre combattute contro i barbari. La stessa convinzione di superiorità emerse, poi, dai propositi di papa Urbano II, allorché individuò nei Franchi la guida naturale dei cristiani, mentre Turci et Arabes furono ritenuti dei pericolosi “primitivi” minacciosamente addensatisi ai confini dell’Impero romano d’Oriente. Anche l’uso dei termini in proposito adoperati è utile a farci comprendere l’idea del pontefice che chiamò gli infedeli a volte pagani, a volte gentiles, senza tener conto che la loro religione e provenienza li poneva in un ambito diverso. Il modo di fare abituale mostrato dai crociati e quello degli organizzatori e dei dirigenti del movimento per la liberazione della Palestina fu, dunque, ispirato all’arroganza fondata sulla convinzione di trovarsi dalla parte della ragione, secondo una teoria in precedenza elaborata sul1a scorta di complesse e capziose argomentazioni articolate sui princìpi della guerra difensiva. La liberazione della Terra Santa divenne l’idea-forza nonché la giustificazione della crociata. La Terra Santa – si disse – era cristiana per eccellenza e doveva essere, quindi, tolta ai barbari che l’occupavano contro ogni diritto. Se i Franchi, dunque, erano alla guida dei cristiani, loro preciso dovere diveniva quello di riconquistare Gerusalemme. In altri termini la Terra Santa fu allora definita terra di Dio in quanto aveva visto nascere, operare e morire Cristo; fu denominata terra sua e come tale doveva essere restituita al cristianesimo. Proprio tale concetto di restituzione applicato alla riconquista stabile di quel territorio venne conferito nel suo senso più pieno alla Palestina.  L’idea di crociata, propugnata da Urbano a Clermont, rispecchiò, dunque, un mondo orientale sconvolto dalle guerre e un Occidente voglioso di combattere: da un lato vi fu il guerreggiare violento ed entusiasta dei cristiani, incapaci di osservare la tregua di Dio, e dall’altro quello dei Turchi che all’inizio arretrarono dinanzi all’inatteso impeto occidentale e, poi, una volta ripresisi, con i loro attacchi incessanti, osarono spingersi fino alle rive del Mediterraneo e oltre.

        Eravamo rimasti a ciò che il Papa aveva detto a Clermont. Cronisti dell’epoca raccontano che, appena ebbe finito di parlare, centinaia di cavalieri guidati dal vescovo di Le Puy si inginocchiarono ai suoi piedi chiedendogli la benedizione al fine di mettersi immediatamente in cammino verso la Terra Santa. Il Papa chiese loro di cucire sopra i loro panni una croce di tela per mostrare la condizione di crociati. Dopo aver recitato insieme il Credo niceno fu fissato un appuntamento per la partenza al 15 agosto dell’anno seguente, dopo aver raccolto i frutti del campo. Sarebbe iniziata nel 1096 la Prima Crociata, uno dei più orrendi massacri della storia dell’umanità che seminerà per oltre duecento anni morte e distruzione non solo nel campo avverso ma anche tra cristiani che differivano per qualche dogma o per qualche funzione liturgica. Dio lo voleva ?

        La chiamata della Chiesa fu quindi accolta con entusiasmo in quasi tutta Europa. La Repubblica di Venezia che aveva fiorenti commerci avviati con i musulmani d’Oriente, temendo che la Crociata li avrebbe pregiudicati, non aderirono. Venezia aveva buoni rapporti anche con Bisanzio che gli lasciava utilizzare i suoi porti. Ma Bisanzio era in guerra continua con i Normanni e Venezia non credeva fosse producente aderire ad una impresa in cui anche i Normanni partecipavano. Poi si resero conto, ma dopo le vittorie crociate, che non partecipando avrebbero perso l’uso dei porti siriani e quindi aderirono all’ultimo momento proprio per conquistare quei porti e per mostrare al mondo quanta fede li sostenesse (comunque i veneziani si mossero in modo di non essere troppo cattivi con i musulmani, soprattutto quelli d’Egitto con i quali vi erano scambi che arricchivano gli uni e gli altri). Il fatto invece che gran parte d’Europa aderisse con entusiasmo alla Crociata era abbastanza strano perché non si era ancora nella fase di completa ripresa che sarebbe comunque presto venuta. I disastri annunciati per il passaggio del millennio e quelli reali erano alla base di questa conversione fondamentalista. Sembrava si fosse scampato il pericolo della fine del mondo ma la carestia che portava fame dappertutto, i proprietari terrieri feudali che premevano con lo sfruttamento sui contadini, le grandi migrazioni dal Nord al Sud d’Europa con tutti gli scompensi connessi, non potevano essere segnali che annunciavano peggiori calamità se non si fosse fermata l’avanzata del Diavolo liberando i Luoghi Santi ? Su questo predicavano e premevano i monaci di Cluny che magnificavano quelle calamità come segnali di Dio che avrebbero permesso la salvezza dell’umanità. A questo richiamo accorsero da ogni parte migliaia di persone, in maggioranza pezzenti e morti di fame dell’intera Europa con la speranza di riempirsi lo stomaco e tornare con qualche bottino piuttosto che salvarsi l’anima. Ma vediamo più in dettaglio il corso degli eventi a partire da una carta geografica che ci presenta la situazione geopolitica intorno all’anno 1000. ed una che mostra a cosa era ridotto l’Impero bizantino sul finire dell’XI secolo, Impero che fu utilizzato come piattaforma per lanciare l’attacco a Gerusalemme che, per la verità, non era al primo posto degli interessi religiosi musulmani (semmai lo diventerà dopo la Crociata).

L’area mediterranea in epoca appena antecedente alla Prima Crociata.  Le aree in varie tonalità di verde sono quelle dei diversi emirati e califfati in cui era suddiviso il mondo musulmano. L’area in grigio-violaceo è quella dell’Impero Romano d’Oriente. La zona color arancio è quella del Sacro Romano Impero.

L’Impero bizantino nell’anno 1045

LA PRIMA CROCIATA DEI PEZZENTI

          Prima di raccontare le vicende della Crociata degli eserciti, è utile raccontare quella dei poveri diseredati guidata da Pietro l’Eremita (tra i cosiddetti pezzenti, disoccupati, vagabondi, contadini poveri (per l’espoliazione da parte dei ricchi cristiani che invocavano la crociata)  vi erano anche ricchi signorotti, religiosi, esponenti della piccola nobiltà, alcuni signori feudali in gran parte dei veri e propri delinquenti). Le migliaia di persone di ogni ceto, ma particolarmente contadini con mogli e figli ed ogni avere al seguito, unite da una profonda fede, si erano raccolte nella primavera del 1096 a Colonia dove Pietro riuscì ad aggregare molti piccoli nobili tedeschi. Una così grande quantità di persone doveva marciare in fretta perché non vi era nessun regno che potesse dar loro da mangiare per più tempo. Nell’attesa a Colonia che si aggregassero altri “crociati”, un’ala impaziente, guidata da Gualtiero San-Avoir (Senza Averi) prese la marcia verso la Palestina, attraversò l’Ungheria con il permesso del sovrano, entrando nell’Impero Bizantino a Belgrado (strappata nel 1018 da Basilio II ai bulgari) senza avvertire i governanti la città. Costoro aspettarono ordini per capire cosa fare ma il tempo passava e le moltitudini di Gualtiero affamate iniziarono a razziare i campi. Questi saccheggi insieme ad una rapina fatta in un bazar ungherese fatta da alcuni “crociati” che venivano dietro il grosso, fecero reagire le truppe di stanza a Belgrado che ammazzarono gran quantità di crociati in battaglia e ne incendiarono svariati altri in una chiesa. Gualtiero riuscì a proseguire con una scorta armata fornita dal governatore bizantino della provincia bulgara, Nicetas, che aveva avuto ordini dall’Imperatore di Bisanzio Alessio I Comneno, informato che dietro questa avanguardia crociata seguiva il grosso (circa 20 mila persone) guidato da Pietro l’Eremita e per questo estremamente preoccupato. Gualtiero e la sua moltitudine crociata giunse infine a Costantinopoli verso la metà di luglio del 1096. Dietro, come detto, seguiva la gran massa guidata da Pietro sul suo asino. Costoro arrivarono senza problemi fino a Zemun, vicino Belgrado ed al confine tra Bisanzio ed Ungheria. Qui iniziarono gravi problemi iniziati con una banale lite ma sostenuti da un controllo di polizia molto stretto effettuato dai governatori di due province vicine, quella ungherese e quella bizantina. Un folto gruppo di crociati attaccò la cittadella ungherese e la conquistò ammazzando 4000 uomini e saccheggiando ogni provvista. Quindi, resisi conto della sicura vendetta del Re d’Ungheria, scapparono su delle zattere, appositamente costruite con legname anch’esso rubato, lungo il fiume Sava. Nicetas aveva dei soldati armati ma non sarebbe stato in grado di far fronte a quell’orda alla quale comunque aveva ordinato di guadare il fiume in un unico posto da lui indicato per evitare lo sparpagliarsi di quella moltitudine in territori dove non sarebbe più stata controllabile. I crociati attraversarono il fiume senza tener conto di alcun ordine, Pietro ordinò di attaccare i soldati di Nicetas che furono affogati con le loro barche ed ammazzati senza pietà. Nicetas aveva messo insieme molti altri armati mercenari ma aspettava rinforzi da Costantinopoli per organizzare in sicurezza una nuova scorta armata. Intanto vi fu una trattativa che, in cambio di ostaggi crociati, prevedeva il vettovagliamento e la veloce dipartita dei crociati. Così si fece e di nuovo sembrò che le cose si sistemassero ma, al momento di abbandonare gli accampamenti per marciare verso Sofia, un’altra lite tra tedeschi ed un locale provocò il disastro. I crociati tedeschi bullescamente incendiarono i mulini che si trovavano lungo il fiume. Ciò fece reagire Nicetas che attaccò i crociati nelle retroguardie prendendo ostaggi. Vi fu quindi un susseguirsi confuso di eventi che, alla fine vide i bizantini guidati da Nicetas uccidere qualche migliaio di crociati, imprigionarne altrettanti che restarono per tutta la vita in galera e catturare il tesoro delle donazioni fatte a Pietro. Di fronte a questo attacco Pietro si rifugiò su una collina e, dopo aver messo insieme circa 7500 superstiti, proseguì il viaggio fino ad una città abbandonata dove fecero la mietitura visto che avevano perso ogni provvista. Furono qui raggiunti da altri superstiti e ci si rese conto alla fine che un quarto dell’esercito crociato dei poveri era andato perso fino ad allora. Arrivati a Sofia furono raggiunti dalla scorta proveniente da Costantinopoli che li prese in consegna, senza che accadesse più alcun incidente, fino in città dove ebbero il perdono dell’Imperatore. Runciman descrive mirabilmente gli eventi che seguirono:

Il benevolo interessamento dell’imperatore non cessò quando i crociati arrivarono a Costantinopoli il 1° agosto. Egli era curioso di vedere il loro capo e Pietro fu invitato a un’udienza a corte, dove gli vennero dati denaro e buoni consigli. Alessio, con la sua esperienza, giudicò assai poco efficiente la spedizione e temeva che, se fosse passata in Asia, sarebbe stata ben presto distrutta dai turchi. D’altra parte l’indisciplina dei pellegrini lo costrinse ad allontanarli il più presto possibile dai dintorni di Costantinopoli. Gli occidentali commettevano furti senza fine, facevano irruzione nei palazzi e nelle ville dei sobborghi, rubavano perfino il piombo dai tetti delle chiese. Sebbene il loro ingresso in Costantinopoli fosse strettamente controllato e soltanto piccoli gruppi di visitatori fossero ammessi entro le porte, era impossibile sorvegliare tutti i dintorni.

Gualtiero Sans·Avoir ed i suoi uomini si trovavano già a Costantinopoli e diversi gruppi di pellegrini italiani vi arrivarono quasi nello stesso tempo. Essi si unirono alla spedizione di Pietro; 1’8 agosto tutte le sue forze furono trasportate al di là del Bosforo. Dalla sponda asiatica essi proseguirono in disordine, saccheggiando case e chiese, lungo la costa del Mar di Marmara fino a Nicomedia, che era abbandonata fin dal tempo del saccheggio compiuto dai turchi quindici anni prima. Qui scoppiò una lite fra tedeschi e italiani da una parte e francesi dall’altra, e i primi si resero indipendenti dal comando di Pietro e scelsero come loro capo un signore italiano di nome Rainaldo. A Nicomedia le due parti dell’esercito si diressero verso occidente lungo la costa meridionale del golfo di Nicomedia fino a un campo fortificato chiamato Kibotos dai greci e Civetot dai crociati, che Alessio aveva allestito nelle vicinanze di Helenopolis per i suoi mercenari inglesi. Era un terreno adatto per accamparvisi, poiché la regione era fertile ed altri rifornimenti potevano essere portati facilmente per mare da Costantinopoli.

Alessio aveva esortato Pietro ad aspettare l’arrivo dei principali eserciti crociati prima di tentare qualsiasi attacco contro gli infedeli, e Pietro era rimasto impressionato dai suoi consigli. Ma la sua autorità svaniva rapidamente e sia i tedeschi, sia gli italiani al comando di Rainaldo, sia gli stessi francesi (sui quali sembra che esercitasse la maggior influenza Goffredo Burel), invece di rimettersi tranquillamente in forze, gareggiavano gli uni con gli altri nel saccheggiare la campagna. Dapprima depredarono le immediate vicinanze, poi avanzarono cautamente nel territorio controllato dai turchi, compiendo scorrerie e derubando gli abitanti dei villaggi, tutti greci cristiani. A metà settembre parecchie migliaia di francesi si avventurarono fino alle porte di Nicea, capitale del sultano selgiuchida Kilij Arslan ibn Suleiman: saccheggiarono i villaggi nei sobborghi, raccogliendo le greggi e gli armenti che trovarono, e torturando e massacrando gli abitanti cristiani con spaventosa crudeltà; si disse perfino che arrostissero dei bimbetti sugli spiedi. Un distaccamento turco uscito dalla città venne respinto dopo un duro combattimento, poi essi tornarono a Civetot, dove vendettero il bottino ai loro compagni e ai marinai greci che si trovavano nei pressi del campo.

Questa fruttuosa incursione francese suscitò l’invidia dei tedeschi e verso la fine di settembre Rainaldo parti con una spedizione germanica di circa seimila uomini, fra cui c’erano dei preti e perfino dei vescovi. Essi oltrepassarono Nicea, saccheggiando ogni cosa sul loro cammino, ma, più riguardosi dei francesi, risparmiarono i cristiani, finché giunsero a un castello chiamato Xerigordon, che riuscirono a conquistare. Avendolo trovato ben fornito di provviste di ogni genere, decisero di farne un centro da cui partire per predare il paese, ma alla notizia dell’impresa crociata il sultano inviò un comandante militare di grado superiore, con molti soldati, per riprendere il castello. Xerigordon si trovava su una collina e i rifornimenti d’acqua vi giungevano da un pozzo che era appena fuori le mura e da una sorgente nella valle sottostante. L’esercito turco, giunto davanti al castello il 29 settembre, giorno di san Michele, respinse un’imboscata tesa da Rainaldo e, dopo essersi impossessato della fonte e del pozzo, accerchiò strettamente i tedeschi entro la fortezza. Ben presto gli assediati soffrirono atrocemente la sete: tentarono di ricavare  umidità dalla terra, tagliarono le vene dei loro cavalli ed asini per berne il sangue, e bevvero perfino l’urina gli uni degli altri. I loro sacerdoti cercarono invano di confortarli ed incoraggiarli; dopo otto giorni d’agonia Rainaldo decise di arrendersi ed apri le porte al nemico, dopo avere ricevuto la promessa di aver salva la vita se avesse rinunciato al cristianesimo. Coloro che rimasero fedeli alla loro religione vennero trucidati, Rainaldo e quelli che abiurarono con lui vennero inviati in prigionia ad Antiochia, Aleppo e fin nel lontano Khorasan.

La notizia che i tedeschi avevano preso Xerigordon era giunta al campo di Civetot ai primi di ottobre, subito seguita da una voce, diffusa da due spie turche, che essi si erano impadroniti della stessa Nicea e stavano spartendosi il bottino a loro proprio beneficio. Come i turchi si aspettavano, questo provocò una tumultuosa eccitazione nell’accampamento: i soldati chiedevano con grande clamore di poter correre a Nicea, lungo strade su cui il sultano aveva preparato accuratamente agguati e imboscate. I loro capi faticarono a trattenerli, finché all’improvviso si scopri la verità sulla sorte toccata alla spedizione di Rainaldo: l’eccitazione si mutò in panico e i comandanti dell’esercito si riunirono per discutere sul da farsi. Pietro era andato a Costantinopoli: la sua autorità sulle truppe era svanita ed egli sperava di ravvivarla ottenendo importanti aiuti materiali dall’imperatore. Ci fu nell’esercito un certo desiderio di uscire a vendicare Xerigordon, ma Gualtiero Sans-Avoir persuase i suoi colleghi ad aspettare il ritorno di Pietro, che doveva avvenire entro una settimana. Pietro, tuttavia, non tornò e nel frattempo si venne a sapere che i turchi stavano avvicinandosi con molte truppe a Civetot. Il consiglio dell’esercito si riunì nuovamente: i capi più responsabili, Gualtiero Sans-Avoir, Rinaldo di Breis, Gualtiero di Breteuil e Folco di Orléans, e i tedeschi Ugo di Tubinga e Gualtiero di Teck, esortavano ancora a non prendere iniziative fino all’arrivo di Pietro; ma Goffredo Burel, sostenuto dal favore dell’esercito, insistette che sarebbe stato codardo e sciocco non avanzare contro il nemico. Egli impose la sua volontà e il 21 ottobre, all’alba, l’intero esercito crociato, forte di oltre ventimila uomini, usci da Civetot lasciando dietro di sé soltanto vecchi, donne, bambini e ammalati.

A sole tre miglia dal campo, presso un villaggio chiamato Dracon, dove la strada per Nicea si inoltrava in una stretta valle boscosa, i turchi avevano teso un agguato. I crociati marciavano rumorosamente e senza precauzioni, i cavalieri in testa con le loro cavalcature: all’improvviso una grandinata di frecce dai boschi uccise o ferì i cavalli e, mentre questi s’imbizzarrivano sbalzando di sella i loro cavalieri, i turchi attaccarono. La cavalleria, incalzata dai turchi, fu rigettata indietro sulla fanteria; molti cavalieri combatterono eroicamente, ma non poterono arrestare il panico che s’impadroniva dell’esercito; in pochi minuti tutti i soldati si trovarono in fuga disordinata verso Civetot. Nell’accampamento stava appena cominciando la normale vita giornaliera: alcuni dei più anziani dormivano ancora nei loro letti e qua e là un prete stava celebrando la messa mattutina, quando in mezzo a loro si precipitò un’orda di fuggiaschi terrorizzati con il nemico alle calcagna. Non vi fu una vera resistenza: soldati, donne e preti vennero massacrati prima che avessero il tempo di muoversi; alcuni scapparono nelle foreste circostanti, altri in mare, ma pochi di loro sfuggirono a lungo alla cattura; altri si difesero per un certo tempo accendendo grandi fuochi che il vento spingeva in faccia ai turchi. Soltanto giovani e fanciulle d’aspetto attraente vennero risparmiati, insieme con i pochi prigionieri fatti quando ormai era svanito il primo ardore della battaglia, e vennero tutti portati via come schiavi. Circa tremila, più fortunati degli altri, riuscirono a raggiungere un vecchio castello che si trovava vicino al mare. Era stato per molto tempo fuori uso e le sue porte e finestre erano smantellate, ma i rifugiati, con l’energia della disperazione, improvvisarono delle fortificazioni con il legname che trovarono intorno, le rafforzarono con cadaveri e poterono cosi respingere gli attacchi del nemico.

Il castello resistette, ma sul campo di battaglia a mezzogiorno tutto era finito e i morti coprivano il terreno dal passo di Dracon fino al mare. Fra i caduti c’erano Gualtiero Sans·Avoir, Rinaldo di Breis, Folco d’Orléans, Ugo di Tubinga, Gualtiero di Teck, Corrado e Alberto di Zimmern e molti altri cavalieri tedeschi. Gli unici capi sopravvissuti furono Goffredo Burel, che aveva provocato il disastro con la sua avventatezza, Gualtiero di Breteuil e Guglielmo di Poissy, Enrico di Schwarzennberg, Federico di Zimmern e Rodolfo di Brandis, quasi tutti gravemente feriti.

Quando cadde l’oscurità un greco, che si trovava con l’esercito, riuscì a trovare un’imbarcazione e parti per Costantinopoli per informare Pietro e l’imperatore sulla battaglia. Non sappiamo nulla dei sentimenti che provò Pietro, ma Alessio ordinò subito ad alcune navi da guerra, con molti uomini a bordo, di salpare per Civetot. All’arrivo della squadra militare bizantina i turchi levarono l’assedio al castello e si ritirarono verso l’interno; i superstiti vennero condotti sulle navi e tornarono a Costantinopoli, dove furono loro assegnati dei quartieri nei sobborghi; vennero però tolte loro le armi.

La crociata popolare era finita: era costata molte migliaia di vite umane, aveva messo a dura prova la pazienza dell’imperatore e dei suoi sudditi ed aveva insegnato che la sola fede, senza buon senso e disciplina, non avrebbe aperto la strada per Gerusalemme.

          Nell’estate del 1096, come vedremo, mosse anche la Crociata ufficiale, quella dei Principi e dell’Imperatore. E la Crociata mosse, in epoca in cui l’usura era vietata nell’Occidente cristiano ed a Bisanzio, grazie ai finanziamenti degli ebrei sefarditi che, a partire dalle varie diaspore in epoca romana, si erano insediati ovunque gestendo case di credito nei Paesi cristiani. Per la loro diffusa distribuzione, sia in Asia Minore che in Europa, questi ebrei erano gli unici in grado di mantenere vivi i commerci internazionali che provvedevano l’Occidente di quel gran bene che era la moneta sonante. I crociati non erano tutti benestanti e, comunque, necessitavano di denaro in prestito per affrontare la Crociata e questi prestiti in denaro provenivano in massima parte dagli ebrei. Qui, in quell’epoca, si posero molti problemi ai cavalieri crociati: i musulmani erano i nemici da combattere per liberare Gerusalemme, ma il combattere gli infedeli musulmani con il denaro di peggiori nemici, gli ebrei, coloro che avevano ucciso Gesù, era lecito ? Ciò comportò la necessaria  accettazione dei prestiti ma accompagnata da una sorta di rancore per l’essere dovuti ricorrere a nemici della cristianità. Anche su questo la Chiesa riuscì comunque a trarre guadagno: da una parte vietò di pagare interessi sui prestiti richiesti per fare il crociato e dall’altra mise forti tasse su chi questi prestiti faceva ed era praticamente costretto a fare. Ulteriore conseguenza di ciò fu la paura che si insinuava tra le comunità ebraiche che le spinse ad essere più generose con i prestiti stessi per evitare supposte peggiori conseguenze. Si erano infatti sparse voci di persecuzioni in Francia  (Rouen) contro gli ebrei e, dal fatto che uno dei comandanti crociati (Goffredo di Buglione) avrebbe giurato vendetta contro gli assassini di Cristo prima di partire per la liberazione della Palestina, si trasse la conclusione che dalla Crociata gli ebrei dovevano solo temere. Gli ebrei si rivolsero ad Enrico IV perché fermasse le intenzioni di Goffredo e gli fecero omaggio di una ingente somma in argento. Goffredo garantì che non aveva mai pensato a tale vendetta, soddisfatto del fatto che l’estorsione contro gli ebrei era ben riuscita. Gli ebrei comunque respirarono per lo scampato pericolo ma non sapevano che la loro salvezza sarebbe stata molto più cara. Gli entusiasmi dei crociati civili ed informali tedeschi, che ambiavano congiungersi con Pietro l’Eremita, di alcuni volontari esagitati, diseredati e chissà perché, inermi(13), al seguito di un signorotto renano, Emich von Leisingen, diressero gli slanci di fede verso comunità ebraiche nemiche della cristianità (iniziando in un crescendo i massacri di ebrei che, sempre più spesso, preferivano suicidi di massa: Spira, Worms, Magonza, Colonia, Treviri, Metz, Neuss, Altenhar, Eller, Kerpen, Xanten, Mehr, MOers, Geldern, Dortmund, Wevelinghoven e così via anche con altri signorotti, come Volkmar e Gottschalk, che imitarono le gesta di Emich con stragi di ebrei a Praga e Ratisbona) con inutili tentativi da parte di autorità civili, religiose e di semplici cittadini di evitare ogni violenza (si calcola in 50 mila il numero delle vittime dei pii cristiani). Queste bande di crociati, al seguito di Emich, Volkmar e Gottschalk, non riuscirono mai ad arrivare in Palestina e furono sterminate in territorio ungherese quando questi crociati tentarono analoga operazione contro gli ebrei nel loro territorio e contro la popolazione derubata e saccheggiata.

LA PRIMA CROCIATA DEI PRINCIPI E DELL’IMPERATORE

La Crociata dei Principi e dell’Imperatore Alessio era comandata dal legato papale, Ademaro di Monteil, vescovo di Le Puy (si deve notare che nessun Re prese parte alla Crociata perché tutti  i più importanti risultarono scomunicati: Enrico IV, Guglielmo il Rosso d’Inghilterra, Filippo I di Francia). Essa partì alla fine di agosto, più tardi rispetto a quella del popolaccio perché qui le cose dovevano essere organizzate:. Occorreva preparare carri con vettovaglie, armi e vestiti ma soprattutto occorreva lasciare disposizioni a persone che avrebbero dovuto curare i campi in assenza dei proprietari poiché la durata della Crociata era imprevedibile ma comunque misurabile in anni. Vi era anche il problema di accordarsi con l’Imperatore Alessio di Bisanzio. L’arrivo di moltitudini, per di più armate, bisognose di cibo ed appoggio logistico, era molto preoccupante. Ci si accordò preliminarmente          con Alessio su un giuramento di vassallaggio che i comandanti crociati avrebbero fatto all’Imperatore appena giunti a Costantinopoli: in cambio dell’appoggio logistico, sarebbero andate all’Impero bizantino tutte le terre conquistate dai crociati nella marcia verso Gerusalemme, ma solo quelle che erano state strappate in precedenza dai Turchi all’Impero. Le altre conquiste, se fossero diventati regni cristiani indipendenti, ma in qualche modo legati a Bisanzio, che facessero da cuscinetto con i Turchi, non dispiacevano ad Alessio.  

Gli itinerari degli eserciti crociati per raggiungere Gerusalemme, la città celeste dell’Apocalisse, furono diversi come diversi furono i capi dei singoli eserciti (Ugo di Vermandois, detto Le Maisné (Il Minore), fratello di Filippo I re di Francia, Goffredo di Buglione duca della Bassa Lorena, i suoi fratelli Eustachio, conte di Boulogne (o Buglione), e Baldovino, i normanni Boemondo di Taranto e Tancredi d’Altavilla, Raimondo IV di Saint-Gilles conte di Tolosa, Roberto II duca di Normandia, suo cognato Stefano conte di Blois, suo cugino Roberto II conte di Fiandra). Nonostante questi nomi altisonanti. il nerbo della spedizione era di cavalieri cadetti, cioè di avventurieri in armi seguiti da pellegrini disarmati, la società feudale in piena crisi.

Ricostruzione di abbigliamento crociato

Il primo a partire fu Ugo di Vermandois al quale durante il viaggio si aggiunsero i cavalieri superstiti che avevano partecipato agli assalti delinquenziali di Emich agli ebrei. Imbarcatosi a Bari subì un naufragio in cui molti crociati affogarono. Fu raccolto naufrago ed accompagnato a Costantinopoli con i superstiti. Alessio lo accolse bene ma lo tenne quasi prigioniero non fidandosi di lui.

Partì poi Goffredo di Buglione con i suoi fratelli ed un esercito molto grande ottenuto con la truffa agli ebrei, con la vendita di alcune proprietà e dando in pegno un suo castello al vescovo di Liegi. Non passò per l’Italia ma seguì la rotta di Pietro l’Eremita, rotta che era stata del suo antenato da parte di madre, Carlo Magno, quando andò in pellegrinaggio a Gerusalemme, attraverso l’Ungheria. Goffredo chiese il permesso di attraversare al Re Coloman d’Ungheria ma questi era rimasto molto scottato dai precedenti passaggi e pretese che gli fosse lasciato in ostaggio il più pericoloso dei fratelli di Goffredo, Baldovino e famiglia. Sotto scorta attraversarono l’Ungheria passando a Belgrado nell’Impero bizantino dove si sostituì la scorta con quella imperiale. Il viaggio fino al Mar di Marmara andò avanti tranquillo ma qui l’esercito si scatenò per 8 giorni devastando tutte le campagne, razziando ed ammazzando. La giustificazione portata ad Alessio era quella della prigionia dorata di Ugo. Si riuscì a tranquillizzare Alessio che però fece arrivare le truppe di Goffredo con il patto che accampassero fuori città. Vi furono attriti violenti tra Goffredo ed Alessio. Il primo non voleva prestare giuramento di vassallaggio, il secondo non dava rifornimenti alimentari (eravamo a fine dicembre). A questa risposta di Alessio iniziarono i saccheggi delle periferie di Costantinopoli ed Alessio, informato dell’arrivo di altri eserciti crociati reagì in modo di risolvere al più presto la questione Goffredo. Tagliò sempre più i viveri e la biada per i cavalli. Goffredo reagì saccheggiando e distruggendo tutti i sobborghi di Costantinopoli fino ad attaccare la città. Non è chiaro fino a che punto volesse spingere Goffredo, sta di fatto che gli arcieri sulle mura riuscirono a respingerlo nel giovedì della Settimana Santa, 2 aprile. Qualche giorno dopo un altro tentativo di assalto alla città portò alla sconfitta ed alla fuga dei crociati, all’accettazione del vassallaggio da parte di Goffredo ed al suo allontanamento dalla città, oltre il Bosforo, dove i crociati si accamparono sulla strada che conduceva a Nicomedia.

La situazione dei Balcani durante la Prima Crociata

Intanto altri crociati di Goffredo che avevano seguito la via dell’Italia erano arrivati nei pressi di Costantinopoli dove si erano riuniti con avanguardie di crociati normanni. Anche costoro provocarono incidenti ma, di fronte alla fermezza di Alessi e dei suoi soldati, desistettero e, dopo il giuramento di vassallaggio, furono accompagnati agli accampamenti di Goffredo. Ma altri crociati erano in arrivo, questa volta si trattava di Boemondo di Taranto, il normanno, con un esercito di circa 500 uomini (su un totale di circa 35 mila) ma il più addestrato ed offensivo di tutti gli altri. Imbarcatosi a Brindisi e sbarcato in vari luoghi tra Durazzo e Valona, Boemondo, per evitare le scorte imperiali, seguì uno strano percorso passante per l’interno nelle terre della Macedonia fermandosi a svernare a Castoria, città povera nella montagna macedone, dove gli abitanti non erano in grado di rifornirli e dove, tanto per cambiare, furono razziati tutti i capi di bestiame e furono incendiate tutte le case. Il seguito della marcia li portò all’antica città macedone di Edessa, vicina al fiume Vardar, dove furono presi in consegna dalle scorte imperiali che li accompagnarono agli accampamenti degli altri crociati con le solite norme date alle scorte dall’Imperatore: i crociati non avrebbero dovuto sostare più di tre giorni nel medesimo luogo. La marcia seguì in Tracia con Boemondo che aveva ordinato ai suoi di non creare alcun incidente mentre egli si recava ad un incontro con Alessio lasciando il suo esercito al comando di Tancredi, accampato in una ricca vallata. Boemondo giurò subito il patto di vassallaggio ed espresse ad Alessio la sua volontà di porsi al suo servizio, magari assumendo il ruolo di comandante di tutte le truppe dell’Impero in Asia. Alessio lo riempì di doni ma sulla richiesta di Boemondo si disse non ancora pronto. Venne fatto venire a Costantinopoli l’esercito che aveva atteso accampato ed Alessio permise l’attraversamento del Bosforo (26 aprile) con l’accompagnamento al campo dei crociati. Tancredi e Riccardo di Salerno attraversarono la città di notte per evitare il giuramento.

Quello stesso giorno giunse a Costantinopoli Raimondo di Saint-Gilles, conte di Tolosa che aveva raggiunto la città con il capo spirituale della Crociata, il vescovo di Le Puy. Raimondo era un nobile avanti negli anni,  molto ricco, educato ed influente, imparentato con la casa reale di Spagna oltreché di Francia. Aveva già avuto molte esperienze di combattimento contro i  musulmani, quelli di Spagna. Ambiva al comando, che aveva chiesto allo stesso Urbano II ma che non gli fu concesso. Era arrivato a Costantinopoli varcando le Alpi al Monginevro e seguendo una via complicata. Dopo aver attraversato la pianura padana, prima l’Istria quindi l’impervia Dalmazia piena di tribù selvagge che attaccavano continuamente le retroguardie. Con gravi difficoltà e senza cibo, esauritosi nei passaggi precedenti ed appena reintegrato con ingente esborso al principe serbo della terra in cui si trovavano, raggiunsero i pressi di Durazzo dove furono presi in consegna dalla scorta. La truppa iniziò ad essere violenta ed indisciplinata, pronta ad ogni saccheggio sempre represso dalla scorta. In una scorribanda fu ferito per errore il vescovo Le Puy e ciò fece infuriare di più la truppa crociata. Raimondo, saputo che gli altri crociati erano arrivati a Costantinopoli, lasciò il grosso dietro di sé per anticiparsi agli incontri che si tenevano in città. Ciò lasciò priva di ogni controllo la truppa che si scatenò in saccheggi, razzie, uccisioni e violenze di ogni tipo. Fu l’esercito bizantino che mosse contro questi banditi crociati, sconfiggendoli e disperdendoli, lasciando il prode Raimondo senza truppa. La notizia arrivò a Raimondo quando gli era stato chiesto il solito giuramento di vassallaggio. Raimondo si sentiva persona che doveva ubbidire al Papa e non ad altri. Quella firma di vassallaggio lo poneva come ubbidiente ad Alessio e forse a Boemondo. Ciò non era accettabile a chi ambiva il comando della Crociata. Fu trovata una via d’uscita che soddisfece tutti: giurava di rispettare la vita e l’onore dell’Imperatore e di non far o far fare dai suoi uomini nulla che potesse danneggiarlo. Dopo questo giuramento Boemondo tornò all’accampamento e Raimondo poté parlare con Alessio anche con le Puy che nel frattempo era arrivato (era restato indietro per curarsi dalle ferite). Vi fu un chiarimento ed Alessio confessò che non aveva alcuna fiducia in Boemondo e che mai gli avrebbe affidato il comando dell’esercito asiatico. Le Puy ebbe probabilmente conversazioni con l’alto clero bizantino. Alla fine Raimondo si trovò addirittura alleato di Alessio. Richiamò ciò che resta va delle sue truppe che furono, anch’esse accompagnate al luogo di stanza degli eserciti crociati.

L’ultimo grande esercito a partire, alcuni giorni dopo quello di Raimondo, fu quello che partì dalla Francia settentrionale sotto il comando congiunto di Roberto II duca di Normandia, suo cognato Stefano conte di Blois e suo cugino Roberto II conte di Fiandra. Partirono da Bruges e da Parigi per poi ricongiungersi; arrivarono al valico alpino di Pontarlier; entrarono in Italia passando per Lucca (dove incontrarono Urbano II), per Roma, fino ad arrivare al Sud dove tutti passarono l’inverno ospiti di Ruggero Borsa, duca di Puglia. Solo Roberto di Fiandra preferì proseguire imbarcandosi a Bari, arrivando a Durazzo e quindi a Costantinopoli (dove giurò subito), senza incidenti, quasi in contemporanea di Boemondo. Gli altri che erano restati in Puglia si attardarono molto, tanto che molti crociati si stancarono e tornarono alle loro case. Finalmente vi fu l’imbarco a Brindisi nei primi giorni di aprile. La prima nave carica di uomini, cavalli, animali da tiro, casse di viveri, armi e denaro, subito dopo essere salpata si rovesciò facendo perire tutti gli animali, 400 uomini e tutti i carichi anche preziosi. Molti di coloro che erano in attesa di imbarco un poco impauriti, un poco presi da superstizione, preferirono abbandonare e tornarsene in Francia. I rimanenti si imbarcarono, sbarcarono a Durazzo, furono presi in consegna dalla scorta e senza incidenti di rilievo arrivarono a Costantinopoli i primi di maggio dove subito fu prestato giuramento. Dopo una sosta in città con l’esercito accampato fuori le mura, furono tutti scortati agli accampamenti crociati al di là del Bosforo.

I percorsi dei vari eserciti crociati

In definitiva, ai primi di giugno del 1097 dai diversi cammini percorsi, dopo aver attraversato il Bosforo, come mostrato nella figura seguente, gli eserciti si ritrovarono riuniti a Nicea, capitale selgiuchida in Bitinia, dove, dal 14 maggio, tutti i crociati ai quali si era aggiunto un contingente bizantino con una guida di nome Taticio, avevano iniziato l’assedio che sarebbe durato fino al 19 giugno quando, dopo una sortita ed una battaglia che vide i crociati vincitori, la città, che era stata strappata a Bisanzio dai Turchi nel 1077, cadde tornando bizantina. E da qui iniziò la crociata militare in senso stretto con la conquista di luoghi strategici, dotati di fortezze, che avrebbero dovuto rendere sicure le strade che portavano a Gerusalemme. Ma Nicea era stata l’occasione per i soldati crociati di aumentare il risentimento verso Alessio. In quella città, Alessio sapeva bene, vi erano in maggioranza cristiani e solo pochi turchi. Non voleva in alcun modo che vi fossero saccheggi e distruzioni in una città che sarebbe tornata bizantina. Durante la notte del 18 giugno un gruppo di soldati imperiali entrò in città e convinse le sue guarnigioni alla resa. Ciò comportò che tutti i turchi furono portati a Costantinopoli sotto scorta e fu impedito il saccheggio agognato dalla soldataglia. Alessio si fece perdonare facendo doni in viveri ad ogni soldato e doni in oro e gioielli dal tesoro del sultano Kilij Arslan, in una quantità che lasciò tutti esterefatti, ai comandanti ed ai cavalieri anche di secondo ordine (ai quali Alessio, che non lo aveva fatto in precedenza, approfittò per chiedere il giuramento di vassallaggio che tutti fecero immediatamente). Un altro comportamento di Alessio fece stralunare l’esercito crociato. I prigionieri turchi furono trattati molto bene e fu loro permesso di riscattare la libertà, mentre la sultana, che era stata ricevuta a Costantinopoli con onori regali fu restituita insieme ai figli al sultano senza alcun riscatto. Ma Alessio fece un altro regalo ai comandanti crociati: egli consigliò loro che, arrivati in territori prossimi alla Palestina, facessero accordi di qualunque tipo con i Fatimiti (dinastia musulmana sciita che aveva conquistato l’Egitto sul finire del X secolo ed in rotta con quella sunnita turca) d’Egitto che odiavano i turchi ed erano completamente tolleranti con i cristiani. Vedremo oltre cosa accadde tra crociati e Fatimiti.

Situazione in Asia Minore nel 1097 (da Wikipedia)

Il 26 giugno i crociati lasciarono Nicea dividendosi in due gruppi per favorire il modo di approvvigionarsi. Appena qualche giorno dopo uno dei due gruppi si scontrò con i Turchi a Dorylaeum (molto probabilmente la moderna Eskişehir), un crocevia fondamentale da dove si aprivano vari cammini che attraversavano l’intera Anatolia oltre quello che portava verso Gerusalemme. Il sultano Kilij Arslan aveva raccolto le sue forze, aveva stretto alleanza con il suo vassallo, emiro Hasan dei turchi di Cappadocia, e con l’emiro danishmend, mettendo insieme un consistente esercito. Con il suo esercito il sultano attaccò (credendo) di sorpresa l’accampamento crociato ma i movimenti dei turchi, che spiavano i movimenti crociati, erano stati osservati. Circondati dai musulmani, i crociati resistettero con grande energia finché, dall’esterno non intervenne il secondo gruppo crociato che mise in fuga i musulmani presi dal panico per quell’intervento inaspettato (1 luglio). Nella fuga i Turchi abbandonarono i loro tendaggi con tutti i beni che si erano portati dietro, tra cui gli ultimi ingenti tesori del sultano. Il sultano con i suoi uomini si rifugiò sulle colline ritenendo inutile combattere con quei soldati. Nella ritirata saccheggiò tutti i villaggi che erano sotto il suo dominio incendiando i campi e tutto ciò che potesse essere utile ai crociati, soprattutto cibo.

Dopo soli due giorni l’esercito crociato riprese la marcia lungo l’unica strada possibile. Non era infatti consigliabile addentrarsi nel territorio dell’emirato di Danishmendidi che aveva intatto il suo esercito ed era avvertito della marcia crociata e neppure l’altra strada, quella del deserto rovente e priva di acqua in piena estate. Si prese la strada di Sud-Est, quella che portava ad Iconio. Verso la metà d’agosto l’esercito, dopo aver patito fame e sete nella lunga marcia attraverso villaggi distrutti, campi abbandonati e pozzi in rovina, entrò nella città deserta di Iconio, abbandonata dai musulmani di Kilij Arslan in fuga. Anche qui tutto era stato portato via ma vi era la ricca valle di Meran piena di acqua e prodotti della terra che permise ai crociati di rifocillarsi e riposarsi per vari giorni.

Ripresa la marcia, i crociati si trovarono ad Eraclea Cibistra un esercito turco pronto apparentemente a fronteggiarli ma in realtà con l’intenzione di farli deviare verso altro cammino (le montagne del Tauro). I crociati però attaccarono ed i turchi che non avevano intenzione di combattere si ritirarono.

Mappa che segna con qualche dettaglio le città toccate dalla Prima Crociata

Di nuovo vi era il problema della strada da seguire. Dovendo seguire la strada principale si sarebbe dovuta imboccare quella che portava alle montagne del Tauro (una catena, insieme all’Antitauro, che costeggia tutto il sud della Turchia sul Mediterraneo) e quindi al passo impressionante delle Porte Cilice in Cilicia Armena e quindi attraverso il non sicuro passo delle Porte siriane, che conduceva ad Antiochia. L’alternativa, vista la recente sconfitta turca, era quella che sembrava migliore, sulla strada che portava a Cesarea di Cappadocia, quindi a Mazacha, a Marash (superando i monti dell’Antitauro di 2400 metri) fino alle pianure di Antiochia, con attraversamenti di passi molto più facili e principati di armeni cristiani che non avevano voglia di entrare in guerre. Vi furono differenze di opinioni e l’esercito crociato si divise in due mettendosi in marcia il 10 settembre, con Tancredi d’Altavilla ed il normanno Baldovino di Boulogne, fratello di Goffredo di Buglione, che presero la strada più impervia della Cilicia, ed il grosso dell’esercito con il cammino per Cesarea. Con scontri di lieve entità, con occupazioni di villaggi, con turchi che in continuazione si ritiravano il viaggio sulla via di Cesarea non pose problemi e sul finire del mese l’esercito giunse a Cesarea abbandonata dai turchi e quindi proseguì per Comana (Placentia), in quel momento assediata dai turchi che, all’arrivo dei crociati, si ritirarono. I crociati, dopo un cammino molto travagliato a seguito delle piogge autunnali in montagna che avevano trasformato i sentieri in trappole di fango spesso costeggianti precipizi in cui precipitarono uomini, cavalli e carri legati l’uno all’altro, arrivarono a Marash il 17 di ottobre 1097 ed il 20 si trovarono a Ponte di Ferro, a sole tre ore di marcia (circa 12 Km) da Antiochia di Siria. Durante il tragitto iniziarono dissidi sotterranei tra i vari principi anche alimentati da voci fatte spargere da turchi (Antiochia sarebbe stata abbandonata quindi sarebbe stata facile preda mentre era lì che i turchi si concentravano). Mentre accadeva tutto questo l’esercito bizantino riprendeva e consolidava il possesso di quelle sue terre che anni prima erano state conquistate dai turchi. Truppe erano state inviate anche alla riconquista della Ionia e della Frigia, della città di Smirne, delle isole di Lesbo, Chio e Samo, tutte zone tagliate fuori dal possibile appoggio dell’esercito dei turchi. In breve tempo tutte queste terre furono riconquistate dai bizantini, insieme ad Efeso, Sardi, Lidia, Filadelfia, Laodicea. Questa operazione, non sappiamo se in modo diretto od indiretto, avrebbe permesso di assicurare vie per il rifornimento delle truppe crociate.

Alcuni monti del Tauro

Alcuni monti dell’Antitauro

          Intanto il secondo troncone dell’esercito crociato, sotto la guida di Tancredi e Baldovino di Boulogne, aveva conquistato Edessa. Da qui, mentre Tancredi proseguì verso Tarso ed Alessandretta (già conquistate dai crociati) per ricongiungersi con il grosso dell’esercito crociato ad Antiochia, Baldovino trasformò quel principato armeno in sua contea e si fece nominare Conte di Edessa restando in quella città ed attirando in essa altri crociati del grosso dell’esercito rimasti impressionati dai suoi successi (in realtà Baldovino era un avventuriero e come tale era considerato privo di effettivo potere sia dagli armeni che dai musulmani.

Contea di Edessa

Localizzazione di Antiochia. Si può apprezzare la localizzazione di Cesarea, di Edessa e quella delle catene montuose del Tauro e dell’Antitauro

Mappa di Antiochia nel 1098 (da Runciman)

          Antiochia era una città fortificata che aveva una grande importanza per essere al centro di commerci provenienti da tutte le parti dell’Asia. Era abitata da cristiani (greci, armeni, siriani) liberi nel loro culto, era la porta della Siria, conquistata dai musulmani nel 1085 e retta al momento dell’arrivo dei crociati da un governatore turcomanno, Yaghi-Siyan, che in qualche modo aveva usurpato quel posto facendo infuriare il sultano Malikshas ed il suo successore, l’emiro Ridwan. All’approssimarsi dell’esercito crociato il governatore ebbe paura per la sua situazione isolata. La prima reazione fu di attaccare in ogni modo i cristiani della città, potenziali nemici, scacciandoli ed utilizzando la loro cattedrale, San Pietro, come stalla per cavalli. I cristiani si organizzarono ed all’avvicinarsi dei crociati che li avrebbero spalleggiati passarono al massacro delle guarnigioni turche diffuse nei villaggi e nel territorio fedeli a Yaghi-Siyan. Allo stesso tempo, ad assedio della città iniziato (fine ottobre 1097), il governatore inviò suoi messi a vari emiri e sultani per chiedere aiuto. Coloro che avevano subito offese rifiutarono (tra gli altri i sultani di Aleppo, Ridwān, e Damasco, Duqāq), e ciò comportò una importante perdita di tempo. A questo punto, il governatore decise di chiedere aiuto al principe Kerbogha(14) (primavera 1098), in una situazione in cui tutti i sultani e gli emiri cominciavano a rendersi conto che i crociati erano una minaccia per l’intera zona, e tra questi qualcuno sperava che dalla sconfitta crociata sarebbe venuto qualche beneficio territoriale. Fu Kerbogha a risolvere la situazione drammatica del governatore di Antiochia. Egli, con l’approvazione del califfo di Bagdad, Al-Mustazhir, del sultano dei selgiuchidi, Barkiyaruq e del sultano di Persia, Mahmud I(15), organizzò e prese il comando di una grande armata musulmana, per liberare Antiochia dalla minaccia dei crociati. Il tutto avvenne però con gravi ritardi che tutti i comandanti musulmani imputarono allo stesso Kerbogha che, nella marcia verso Antiochia, pensò di fermarsi per liberare Edessa, contro il parere di tutti gli altri comandanti (in quella Contea vi erano solo circa 3000 crociati e perdere tempo nell’assedio sembrava del tutto inutile per un bersaglio così piccolo).

          Mentre Yaghi-Siyan cercava di risolvere i suoi problemi i crociati, che avevamo lasciati al Ponte di Ferro il 20 ottobre del 1097, avanzarono attaccando la guarnigione che difendeva il ponte fortificato con due alte torri, aprendosi il varco all’attraversamento del fiume Oronte. L’occasione fu propizia perché era in transito un convoglio con mandrie di bovini ed ovini e carri di grano, convoglio che fu immediatamente catturato. Al comando crociato vi era lo stesso vescovo Le Puy. Il giorno successivo, il 21 ottobre, Boemondo d’Altavilla e gli altri comandanti (e poco dopo l’intero esercito crociato, che restava in attesa del ricongiungimento di Tancredi) furono davanti alle mura di Antiochia, città che destò ammirazione e meraviglia per quanto era estesa dalla pianura dove era il fiume al Monte Silpio, ma anche timore per la potenza che le fortificazioni fatte da Giustiniano e restaurate dai turchi mostravano (lo spazio interno era sufficiente al pascolo di greggi, alla coltivazione di orti e l’acqua non mancava provenendo dal torrente Onopnicles ch dal Silpio entrava in città attraversandola; inoltre la città non poteva essere circondata per quella scoscesa montagna sul lato Sud). Boemondo si accampò dal lato della Porta di San Paolo, Raimondo di Tolosa scelse la Porta del Cane, e Goffredo di Buglione la Porta del Duca dove fu costruito un ponte di barche.

Antiochia con il Monte Silpio da una stampa del 1866 (da Wikipedia)

Altra stampa ottocentesca di Antiochia in cui si possono apprezzare le fortificazioni che si arrampicano sul Monte Silpio

          Sull’eventualità di attaccare immediatamente si espresse solo Raimondo. Boemondo pensò più prudente far riposare i soldati perché l’attacco a quelle mura sembrava estremamente complesso, inoltre aspettava che Tancredi si ricongiungesse, vi era poi la speranza che l’Imperatore Alessio intervenisse con macchine d’assedio come le torri ed infine, segretamente, voleva che quella città fosse risparmiata da distruzioni e saccheggi per suoi fini personali e, se la città si fosse arresa egli sarebbe stato l’artefice di tutto e quindi avrebbe potuto avere dei diritti da far valere. L’attesa comunque favorì Yaghi-Siyan che non avrebbe sopportato un attacco diretto perché non aveva uomini a sufficienza per controllare l’intera muraglia con le sue 400 torri. Il tempo lo aiutava ad organizzarsi e ad attendere i rinforzi.

          Si trovarono dei canali di comunicazione nei cristiani della città, canali che però divennero di spionaggio nei due sensi. Il governatore venne a sapere che non avrebbero attaccato ed allora fu lui ad organizzare sortite per colpire la retroguardia ed i contingenti che andavano in giro per procurare cibo. Verso la metà di novembre vi fu una prima battaglia con un contingente che tentò una sortita dalla città, contingente che Boemondo sterminò. Ma ad un solo mese di assedio vi era un caduta del morale delle truppe. Aiutò molto l’arrivo di Tancredi e la notizia di 13 navi genovesi che avevano attraccato al Porto di San Simeone con rifornimenti. Vi fu anche l’effetto incoraggiante di essere collegati alle rispettive patrie vie mare. Ma già a dicembre inoltrato, con il freddo e l’inverno avanzante, le scorte erano in via di esaurimento. Boemondo e Roberto di Fiandra con 20 mila uomini partirono per arraffare ogni possibile scorta in villaggi e campi vicini, seguendo la valle del fiume Oronte. Yaghi-Siyan ne approfittò subito per attaccare i crociati rimasti, guidati da Raimondo, uscendo con il suo esercito dalla Porta di San Giorgio (29 dicembre). Dopo uno scontro durissimo, Raimondo riuscì a battere e mettere in fuga i turchi. Ma anche Boemondo e Roberto erano attaccati dal sultano di  Damasco, Duqāq, che aveva deciso di andare in soccorso di Yaghi-Siyan ad Antiochia e che, risalendo la valle del fiume Oronte, si era trovato sulla strada l’esercito crociato. Anche qui vi furono scontri violentissimi che Boemondo e Roberto riuscirono a vincere anche se non riuscirono nella missione di raccogliere cibo sufficiente. La situazione si era fatta drammatica. Se da una parte le piogge, il fango ed il freddo avevano fatto ritirare Duqāq, dall’altra l’assedio era diventato una specie di trappola per gli assedianti. A queste sofferenze materiali si aggiunsero anche presunti auspici negativi dalla Terra e dal cielo. Sul finire dell’anno vi furono violente scosse di terremoto ed all’aprirsi del 1098 vi fu un fenomeno meteorologico celeste,  un signum mirabile, un portenti indicium, una aurora boreale che illuminò una intera notte la zona di Antiochia. Si sparse il terrore tra crociati e pellegrini al seguito tanto che in gennaio iniziarono le diserzioni (anche quel pezzente di Pietro l’Eremita, che dopo i disastri della sua crociata si era unito a questa, scappò essendo poi catturato da Tancredi). Intanto la carestia stava ammazzando i soldati crociati ed i cavalli. Vi furono perdite del 15% tra i soldati ed i cavalli si ridussero a 700. Si sa che i pellegrini crociati pezzenti che si erano uniti si dettero al cannibalismo, mangiando i corpi dei turchi uccisi in battaglia e che alcuni crociati mangiarono i propri cavalli. In questa tragica situazione Taticius, la guida e fiduciario dell’Imperatore Alessio, lasciò l’assedio con i suoi 2000 uomini per tornare a Costantinopoli (febbraio 1098). I comandanti crociati continuavano a dubitare di lui e a non seguire i suoi consigli. L’episodio fu utilizzato da Boemondo per i suoi fini segreti. La partenza di Taticius fu denunciata come atto di codardia e tradimento degli accordi tra crociati ed Imperatore di modo che i crociati non si sentivano più obbligati al giuramento di vassallaggio ed alla conseguente restituzione all’Impero delle terre bizantine occupate dai turchi (in realtà era stato Boemondo a confidare a Taticius che gli altri comandanti crociati volevano ucciderlo perché era uno strumento di Alessio che tramava contro di loro in favore dei turchi).

          Intanto un altro turco, l’emiro Ridwan, che aveva inizialmente rifiutato aiuto, resosi conto dei pericoli per tutti i musulmani, stava accorrendo in difesa di Antiochia. I crociati organizzarono un’accoglienza imprevista lasciando la fanteria negli accampamenti e spostando la cavalleria (ridotta a 700 unità) al di là del fiume pronta ad attaccare i turchi al Ponte di Ferro prima che lo attraversassero. La ridotta cavalleria e la sua maggiore agilità di manovra gettò lo scompiglio tra le fila turche tanto che si ritirarono in disordine (9 febbraio). Yaghi-Siyan aveva però approfittato della cavalleria impegnata oltre il fiume per attaccare la fanteria restata agli accampamenti, quando le cose si mettevano male per i crociati la cavalleria che tornava dalla sconfitta di Ridwan, euforica per la vittoria, si gettò sui turchi costringendoli a ritirarsi dentro le mura. Il morale si sollevò anche perché tramite accordi della Chiesa di Roma con quella Ortodossa, degli aiuti alimentari iniziavano ad arrivare con una certa regolarità al Porto di San Simeone, inviati dal Patriarca Simeone di Cipro e, probabilmente, da Taticius.  

          Il 4 marzo arrivò al Porto di San Simeone una flotta inglese, passata per Costantinopoli, al comando di Edgardo Atheling, pretendente al trono in esilio. Le navi trasportavano pellegrini soprattutto italiani ma a Costantinopoli furono riempite di viveri e di macchine d’assedio come le citate torri (ma i crociati, soprattutto Boemondo, fecero finta di non sapere che quei rifornimenti arrivavano dall’Imperatore). Raimondo e Boemondo con un forte contingente si recarono al porto con il duplice scopo di arruolare crociati tra i pellegrini e di trasportare attrezzature e viveri al campo. Sulla via del ritorno furono attaccati da turchi che erano usciti da Antiochia con lo scopo di impadronirsi di tali attrezzature e viveri. Lo scontro fu durissimo e sembrò dovesse terminare con una durissima sconfitta per i crociati. tanto era verosimile questa eventualità che alcuni soldati tornarono verso gli accampamenti ad annunciare la morte dei due comandanti Raimondo e Boemondo. Goffredo, restato nel campo, si preparò ad accorrere ma vi fu una sortita di turchi dalla città che impegnò in un duro scontro i crociati presenti. Anche qui lo scontro sembrava volgere al peggio per i crociati quando arrivarono al campo Boemondo e Raimondo che avevano perso i carichi ma erano restati con gran parte dei soldati. Questo evento dette fiducia ai soldati che combattevano e scoraggiò i turchi che si ritirarono dentro la città. I tre comandanti crociati, a questo punto, si diressero al recupero del carico che riconquistarono in breve tempo perché i turchi che lo trasportavano erano impediti in ogni movimento dalla quantità di materiale che trasportavano. Questa volta la battaglia fu vinta dai crociati che ammazzarono oltre mille turchi tra cui 8 emiri. Durante la notte altri turchi uscirono dalla città per seppellire i morti ed i cristiani fecero fare. Ma all’alba li dissotterrarono per impadronirsi di ogni cosa di valore dei loro vestiti ed armature.

          Con quanto era arrivato, oltre a rimettersi fisicamente in sesto, i crociati costruirono una torre per il controllo del Ponte Fortificato (Torre di La Mahomerie), ed un edificio fortificato per il controllo della Porta San Giorgio, passaggi dai quali erano fino ad allora arrivati rifornimenti agli assediati. Nel mese di aprile i lavori furono terminati. Fu la svolta nell’assedio. Niente più minacce di sortite improvvise, niente più approvvigionamento per i turchi, primavera avanzante e facilità di trovare cibo per gli assedianti. La città di Antiochia sarebbe presto caduta ma o si faceva presto o ci si sarebbe dovuti scontrare con Kerbogha di Mossul che proprio in quel mese di aprile si era messo in marcia con il suo possente esercito verso Antiochia. Ho già detto che qui vi fu un errore di Kerbogha che si intrattenne inutilmente ad assediare Edessa, perdendo tempo prezioso, almeno un mese (alla fine si rese conto che ci sarebbe voluto molto più tempo per portare a termine la conquista di Edessa). La marcia di Kerbogha verso Antiochia, a questo punto marcia a tappe forzate, riprese a maggio. Da parte di Yaghi-Siyan aumentava la paura perché non vi erano notizie dei rinforzi promessi e da parte crociata l’annuncio dell’imponente esercito in arrivo provocò molte diserzioni tra cui quella di Stefano di Blois. Intanto era arrivata al campo crociato una delegazione di rappresentanti del sovrano dei Fatimiti d’Egitto, il visir al-Afdal, che proposero la spartizione dei territori turchi. Furono accolti con cordialità e, senza alcun impegno, furono rimandati in Egitto carichi di doni (sottratti ai turchi dissepolti).

          Boemondo si vide costretto ad accelerare (i turchi in arrivo avrebbero potuto vanificare del tutto i suoi sogni di prendersi la città per sé; se fossero arrivati rinforzi da Alessio non avrebbe potuto rivendicare la città per sé). Riuscì a corromper un potente capitano armeno convertito all’Islam che operava dentro la città di Antiochia, Firuz. La notte del 2 luglio egli comandava il distaccamento situato alla Torre delle Due Sorelle. Boemondo doveva simulare una partenza per contrastare l’esercito di Kerbogha e con il favore delle tenebre tornare verso la Torre. Qui sessanta crociati poterono poggiare una scala ed entrare nelle fortificazioni da dove si impadronirono di altre due torri. A questo punto fu possibile appoggiare molte scale sulle mura e far entrare i crociati che, con l’appoggio di cristiani all’interno, spalancarono la Porta di San Giorgio e quella del Ponte da dove irruppe il grosso dell’esercito crociato. Iniziò un massacro di tutti gli abitanti la città, donne e bambini inclusi, con i cristiani e gli armeni che davano man forte ai crociati. Yaghi-Siyan raccolse ciò che poté e fuggì verso il Ponte di Ferro sulle pendici del Monte Silpio mentre il figlio, Shams ad-Dawla, con molti armati, si rifugiò nella Cittadella Fortificata a lato del Ponte di Ferro. Un contadino armeno catturò Yaghi-Siyan e fece dono a Boemondo della sua testa che lo ripagò in moneta. Alla sera del 3 giugno Antiochia, esclusa la Cittadella, era in mano crociata, saccheggiata per ogni dove con distruzioni, incendi e vandalismi. Nessun turco si era salvato e non solo min città ma anche nelle vicinanze dove la popolazione scampata correva a rifugiarsi verso le truppe di Kerbogha in arrivo.

          Il 5 giugno l’esercito turco arrivò al Ponte di Ferro, quello stesso che era stato attraversato qualche tempo prima dai crociati, dove si accampò per organizzare e completare l’accerchiamento di Antiochia. Il 7 giugno l’esercito turco si accampò sotto le mura della città. Kerbogha prese contatti con Shams ad-Dawla alla Cittadella (che lo insultò per il suo ritardo) perché il comando di essa passasse ad un suo fido. Riguardo ai ritardi, Kerbogha era stato consigliato dal sultano di Damasco Duqāq (riunitosi a questo esercito dopo la fuga per la sconfitta con i crociati) con la paura che se la battaglia fosse stata vinta dallo stesso Kerbogha, questi si sarebbe impadronito di tutta la Siria (queste lotte intestine tra musulmani sono sempre stata una loro caratteristica fin dai temi della morte di Maometto e sono alla base della frammentazione del loro possente impero e della loro completa decadenza). I crociati che si trovavano in città furono presi dal terrore per quella immensa moltitudine armata e, di nuovo, in molti disertarono. Coloro che restarono si dettero un comando unificato nella persona di Boemondo che non poté far altro che sperare nell’aiuto che era stato promesso da Alessio.

          Sotto assedio la situazione divenne di nuovo drammatica per il cibo. Inoltre osservare quella marea di musulmani accampati sotto le mura era terrorizzante. Di nuovo vi furono molti disertori che presero la via di Alessandretta e quindi Tarso. Qui si riunirono a Stefano di Blois che partiva per tornare a Costantinopoli. Sulla strada del ritorno, appena superata la città di Irconio, a Filomelio, incrociarono l’esercito bizantino al comando di Alessio che arrivava di rinforzo all’esercito crociato. Raccontarono che ormai non c’era nulla da fare, che i crociati erano stati distrutti da Kebogha. Alessio non aveva motivi per non credere e pensò che fosse più saggio ritirarsi.

          Intanto proseguiva l’assedio e la situazione insostenibile dei crociati. Ma fu il soprannaturale, la superstizione, che venne in aiuto morale dei cristiani in armi. Il 10 giugno, il servo Pietro Bartolomeo (noto per essere un imbroglione dedito ad ogni piacere) del pellegrino Guglielmo Peyre di Cunlhat dell’esercito provenzale si presentò a Raimondo di Saint Gilles e ad Ademaro Le Puy giurando di aver sognato un apostolo di Gesù, Andrea, il quale gli aveva confidato che la lancia che aveva trafitto il costato di Gesù era nascosta nella Cattedrale di San Pietro. Ademaro non credette al racconto perché aveva visto quella lancia a Costantinopoli ma Raimondo volle credere.  Il 15 giugno si recarono alla cattedrale e dopo aver scavato trovarono un pezzo di ferro che Pietro affermò essere la punta della lancia cercata. Questa cosa risollevò il morale dei soldati tutti che pensarono: Dio è con noi !

          Il morale era risalito ma la situazione dei viveri era peggiorata inoltre l’Apostolo Andrea aveva suggerito a Pietro di attaccare al più presto i musulmani altrimenti l’inedia avrebbe battuto le forze cristiane. Per questo motivo Boemondo decise che era arrivato il momento di affrontare gli assedianti in campo aperto. Questi ultimi, per parte loro, non smettevano di tramare gli uni contro gli altri soffrendo forti divisioni (Ridwan era stato contattato da Kerbogha perché desse aiuto ma la cosa aveva offeso il suo nemico di Damasco, Duqāq, che, per altri versi, iniziava a temere un attacco dei Fatimiti dall’Egitto contro la Palestina e sperava di sganciarsi dall’esercito musulmano per difendere le terre di suo immediato dominio. Infine vi erano fortissimi attriti tra arabi e turchi e quest’ultimo fatto provocò moltissime diserzioni). Il 27 giugno si tentò, con una delegazione di messi, inviati da Boemondo di convincere i musulmani ad andarsene. La missione fallì e Boemondo decise di attaccare il giorno dopo, 28 giugno. I crociati uscirono dalle porte della città, preceduti da Raimondo d’Aguilers, cappellano di Raimondo di Saint Gilles, che ostentava la Sacra Lancia. Fuori dalle mura attraversarono il Ponte Fortificato senza alcun intervento musulmano. Kerbogha temporeggiò, contro il parere generale, sperando di attaccare i nemici tutti insieme invece che un contingente per volta e per facilitare la fuoriuscita dei crociati fece ritirare le sue truppe. Il comandante musulmano riteneva che un duro attacco all’inizio, quando solo pochi crociati erano venuti fuori dalla città, li avrebbe spaventati tanto da farli rientrare con poche perdite. Ma quando tutti i crociati furono usciti (ne erano rimasti solo 200 in città), Kerbagha ebbe paura di quella moltitudine perché aveva ritenuto che i crociati fossero molti meno e si affrettò a chiedere un tregua, fatto che lo squalificò definitivamente tra gli altri comandanti e l’intero esercito. I crociati neanche risposero alla richiesta e si lanciarono immediatamente all’attacco incoraggiati dalla visione di alcuni cavalieri su cavalli bianchi sventolanti vessilli bianchi tra cui si riconoscevano, come no !, San Giorgio, San Mercurio e San Demetrio. Gli emiri a cominciare da Duqāq, che non avevano avuto visioni, si dispersero privi di ordini precisi e si allontanarono dal campo di battaglia per tornare alle loro terre. Pian Piano Kerbogha rimase solo con le sue truppe ed anche lui fuggì in preda al panico verso Mossul. I crociati li inseguirono massacrandone un gran numero. Con la resa della Cittadella, il cui comandante si convertì al Cristianesimo, Antiochia era stata completamente conquistata dai cristiani.  

          Si decise di restare ad Antiochia per un certo tempo, al fine di riposare un poco e di prepararsi all’attacco finale a Gerusalemme. La partenza fu fissata per il novembre. Intanto vi furono molte discussioni su cosa fare di quella città ed ebbe buon gioco Boemondo a sostenere che era stato Alessio a violare i patti e quindi quella città spettava loro. A chi ? Beh, sembrava evidente che a lui stesso. Tra l’altro un evento del genere faceva felice anche Raimondo perché con Boemondo fuori gioco dalla crociata sarebbe divenuto lui il comandante da quel momento in poi, cosa che massimamente desiderava.

          Intanto però c’era da affrontare una grave epidemia (probabilmente di tifo), scoppiata ad Antiochia nel mese di luglio, che portò all’altro mondo Ademaro Le Puy (il servo Pietro, quello della lancia, disse di aver sognato ancora l’Apostolo Andrea che gli aveva detto che Ademaro era stato punito per non avergli creduto). Durante l’epidemia che terminò in settembre ammazzando vari crociati, i principi si erano allontanati dalla città per raccogliere altre truppe e per organizzare le città che ruotavano intorno ad Antiochia.  L’11 settembre, tornati i principi, scrissero una lettera al Papa Urbano II in cui lo informavano dei particolari della conquista di Antiochia e della morte del suo legato chiedendogli di venire in questa città da cui avrebbe presto potuto viaggiare alla Città Santa. IL Papa rifiutò anche perché da quelle parti vivevano nella maggiore floridezza sette cristiane eretiche che in alcun modo avrebbero dovuto avere un riconoscimento anche solo molto indiretto. Mentre accadeva ciò si intensificarono le scorrerie dei principi cristiani nelle città vicine per rifornirsi di cibo ancora scarso (la guerra non aveva permesso di coltivare le aree più fertili ed il bestiame era stato in gran parte mangiato). Si organizzarono assedi anche lunghi visto che non vi era un accordo definitivo sul destino della città. Poi le truppe di Raimondo iniziarono a manifestare il loro malcontento per la lunga sosta (eravamo ormai a dicembre) e, finalmente, Raimondo partì il 13 gennaio 1099 da Maarat an Numan, una delle ultime città conquistate nei pressi di Antiochia e dove stazionava l’esercito, per proseguire la crociata. Lasciava dietro di sé il Principato di Antiochia con il suo Principe Boemondo (con il quale restò anche Baldovino, il fratello di Goffredo di Buglione).

VERSO GERUSALEMME

          Per seguire con qualche dettaglio cosa accadde dopo la partenza, è utile rifarsi alla cartina seguente.

La Siria al tempo della Prima Crociata (da Runciman). La linea continua indica l’itinerario della Prima Crociata.  La linea tratteggiata indica il cammino seguito da Goffredo e Roberto di Fiandra per raggiungere la crociata ad Arqa. La linea punteggiata indica l’itinerario di Boemondo e Baldovino al ritorno dal pellegrinaggio a Gerusalemme.

                    Abbiamo già detto che gli sciiti Fatimiti d’Egitto, il cui visir era al-Afdal, inviarono una delegazione a discutere con i crociati di Antiochia. Il fine era il comune odio contro i Turchi Selgiuchidi che andavano sconfitti al fine di dividersi la Siria. Da questo incontro, finito con cordialità, non era disceso nulla di operativo anche perché, nell’ipotizzata divisione, i Fatimiti desideravano occupare la Palestina, quella terra per la quale era iniziata la Crociata. A questo punto al-Afdal decise di operare in proprio sfruttando la guerra che impegnava la Siria del nord ed il sultano di Damasco, Duqāq. Avuta notizia della sconfitta di Kerbogha e del fatto che ormai i Turchi Selgiuchidi non erano in grado di opporre valide resistenze, al-Afdal invase la Palestina che era governata da vassalli di Duqāq (i figli di Ortoq, Soqman e Ilghazi). Questi ultimi, coscienti di non poter contare su Duqāq impegnato su altri fronti, si rinchiusero nelle mura di Gerusalemme contando sulla imponenza di quelle fortificazioni e sul valore e preparazione dei soldati turcomanni al loro servizio, sperando di resistere fino all’arrivo di aiuti militari.

          Ma al-Afdal disponeva, oltre che di un potente esercito, anche delle più moderne macchine da guerra e da assedio, tra cui 40 mangani.

Il mangano. E’ un’arma da lancio medievale, simile ad una catapulta, costituita da un’asta imperniata su un supporto. Ad una delle estremità era fissata la fionda che doveva ospitare il proiettile. All’altra estremità erano fissate delle corde per la trazione che era esercitata da uomini attraverso le corde. 

          La città riuscì a resistere per 40 giorni finché il danneggiamento delle mura non divenne tale da costringere alla resa con la conseguente caduta ed occupazione dell’intera Palestina fino alla foce del fiume Cane, un poco più a Nord di Beirut. I Fatimiti iniziarono subito i lavori per riparare i danni alle mura e permisero a Soqman e Ilghazi di rifugiarsi a Damasco. A questo punto i crociati avevano a Gerusalemme il potere egizio dei Fatimiti. Ma, al momento era importante capire chi c’era tra Antiochia e Gerusalemme, dato per assodato che si aveva a che fare con arabi e non con Turchi, anzi con arabi non troppo entusiasti dei turchi che si espandevano in territori in quel momento arabi (la comune fede nell’Islam passava in secondo piano). Ebbene nel territorio che i crociati avrebbero dovuto attraversare per primo, dall’Oronte alla costa, vi erano gli arabi Munqiditi di Shaizar; nel territorio che sarebbe seguito, la linea della costa libanese fino ai territori Fatimiti, vi erano gli arabi Banu Ammar di Tripoli. Occorreva tentare di farseli amici o, almeno, non nemici.

          Abbiamo già detto che Raimondo partì il 13 gennaio 1099 da Maarat an Numan, aggiungiamo ora che egli marciava a piedi nudi e vestito da pellegrino. Percorse circa 20 Km ed arrivò a Kafartab dove si fermò fino al 16 gennaio per ammassare viveri e dove fu raggiunto da Tancredi e Roberto di Normandia che avevano accettato di diventare suoi vassalli. A Kafartab ebbe la visita di inviati dell’emiro di Shaizar che offrì guide e cibo a basso prezzo se l’esercito avesse attraversato in pace il suo territorio. Raimondo accettò ed il 17 si mise in marcia con le guide che lo condussero oltre Shaizar ed Hama, attraverso la valle del Sarout. Vi fu una discussione su quale cammino fosse il migliore. La prima proposta di Raimondo fu bocciata. Egli avrebbe percorso la linea di costa ma Tancredi obiettò che tale linea era densa di città fortificate e fortezze (tra le quali solo Lattakieh era in mano cristiane, e loro, con 1000 cavalieri e 5000 fanti, non sarebbero stati in grado di portare assedi. Si decise allora di passare all’interno, attraverso la Buqaia, la pianura tra i monti del Nosairi ed il Libano, per poi seguire la linea costiera. In tal modo si sarebbe evitato il pericolo di imbattersi nell’esercito del sultano di Damasco, Duqāq, ancora intatto e già tornato a Damasco.

          Il 23 gennaio l’esercito giunse a Masyaf quindi a Refaniye (abbandonata ma piena di provviste) e, dopo tre giorni discesero alla Buqaia, pianura dominata dalla fortezza di Hosn al-Akrad (nota anche come Krak dei Cavalieri) dentro cui erano state messe al riparo le mandrie di bestiame degli arabi. Proprio per questo la fortezza fu attaccata il 28 gennaio. Qui gli arabi riuscirono a giocare i crociati. Aprirono una porta e fecero uscire un poco di bestiame. I crociati in disordine cercarono di impadronirsene e nel far questo si dispersero tanto che una piccola sortita di armati arabi li mise in grave imbarazzo. Si dovettero ritirare pensando di attaccare seriamente il giorno dopo ma, durante la notte, la gran quantità di bestiame era stato portato via ed i crociati dovettero accontentarsi di quel poco che era stato lasciato.

Il Krak dei cavalieri

Durante questi eventi, arrivarono a parlamentare con Raimondo l’emiro di Hama che offri trono doni in cambio del passaggio pacifico dell’esercito crociato e l’emiro di Tripoli, della dinastia Banu Ammar, che offrì un qualcosa di analogo. Quest’ultimo emirato aveva in passato fatto patti con i Turchi Selgiuchidi perché fosse difeso dall’espansionismo dei Fatimiti. Ora i Turchi erano vinti e, da Sud, i Fatimiti avevano già occupato Gerusalemme e non davano mostra di arrestarsi. Per questo motivo l’emiro cercava ora patti con i crociati: in cambio della difesa dell’emirato, avrebbe concesso doni e viveri in quantità. Ma gli inviati di Raimondo a Tripoli, che avrebbero dovuto concludere il trattato, tornarono da Raimondo raccontando meraviglie di quelle terre, prospere e piene di ogni bene. Suggerirono a Raimondo di attaccare una delle città dell’emirato in modo da spaventare l’emiro che avrebbe dato molto di più in denaro, qualcosa che ormai Raimondo aveva terminato. Si decise quindi di attaccare Arqa, la prima città fortificata che avrebbero incontrato sulla strada di Tripoli (ad un poco più di 20 Km dalla città). L’esercito crociato si presentò sotto le mura della città il 14 febbraio.

Da Wikipedia con modifiche

          Ma Raimondo era preoccupato di trovarsi ad un certo punto isolato in mezzo a terre un poco non conosciute ed un poco imprevedibili. Da un momento all’altro poteva piombargli addosso qualche esercito turco che lo avrebbe distrutto. Mandò allora messi a Lattakieh (in mano, lo ricordo, di crociati) per chiedere un attacco al porto di Tortosa, governata da un vassallo di Tripoli, per impadronirsene. Quel porto sarebbe servito sia per avere rifornimenti sia per garantirsi una eventuale via di fuga perché apriva a facili comunicazioni con Cipro, Antiochia e l’Europa. La notte del 16 febbraio i pochi crociati di stanza a Lattakieh erano sotto le mura di Tortosa che presero senza combattere con uno stratagemma: accesero fuochi tutt’intorno facendo credere di essere una gran moltitudine. Gli abitanti della città se ne andarono prima del sorgere del sole lasciandola completamente sguarnita e provocando, a catena, la resa anche di Maraclea (o Marqiye), città a circa 15 Km a Nord di Tortosa. Ancora a catena, quando i crociati ad Antiochia seppero di questi successi furono presi da attacchi di gelosia (i bottini erano ingentissimi) e partirono in molti per ricongiungersi con Raimondo. Goffredo di Buglione, Roberto di Fiandra e Boemondo si misero in marcia verso Lattakieh da dove Boemondo tornò indietro pensando che il suo Principato avesse ancora bisogno di essere fortificato ed assestato. Gli altri, ai quali si era aggiunto Tancredi che aveva lasciato Raimondo, proseguirono assediando Jabala dove arrivò loro un’ambasceria di Raimondo che li pregava di raggiungerlo all’assedio di Arqa.

          L’assedio di Arqa aveva creato problemi perché da una parte non vi erano soldati sufficienti per sostenerlo e dall’altra non si poteva rinunciare senza che gli arabi pensassero ad una debolezza crociata. Comunque l’assedio continuava perché la zona era ricca di viveri ed il riposo era gradito ai soldati. Ai primi di marzo arrivò però la notizia (falsa) di un esercito Turco, proveniente da Damasco, in aiuto di Arqa. Raimondo mandò un messo a Jabala per chiedere aiuto immediato. I crociati assedianti Jabala strinsero una tregua con le autorità della città che accettarono il vassallaggio cristiano e si recarono rapidamente ad Arqa. Qui vi furono subito attacchi contro vari villaggi nei sobborghi di Tripoli ma il clima generale si guastò ben presto perché Raimondo che era prima il capo assoluto, ora aveva un esercito diviso in due con tutti gli altri comandanti contro. Questi contrasti passarono ben presto agli umori dei due eserciti che iniziarono a non collaborare. Il tutto peggiorò quando arrivò un messaggio dell’Imperatore Alessio che comunicava la sua partenza da Costantinopoli ed il suo arrivo per giugno. Se lo avessero atteso li avrebbe condotti alla conquista della Palestina. Questa proposta vide Raimondo favorevole e tutti gli altri, che non vedevano l’ora di andare alla conquista di Gerusalemme, contrari. I Fatimiti per parte loro inviarono una proposta, rifiutata: se non avessero attaccato Gerusalemme sarebbe stato permesso a pellegrini e crociati il via libera a tutti i luoghi santi. Restava il problema: lasciare l’assedio di Arqa e proseguire o arrivare alla conquista della città ? Anche qui ci pensò Pietro Bartolomeo, l’imbroglione visionario della lancia, che questa volta, però, si scottò letteralmente.

          Il buon Pietro fece sapere che il 5 aprile gli erano apparsi min sogno Gesù, San Pietro e l’apostolo Andrea per dirgli che Arqa doveva essere subito attaccata. Il cappellano di Roberto di Normandia disse apertamente che si trattava di un’invenzione. Molti furono d’accordo con il cappellano che, per buon peso, parlò della lancia come di una bufala. Altri invece difesero Pietro. Iniziarono violenti scontri verbali che irritarono Pietro (sic !) che disse di voler difendersi mediante l’ordalia del fuoco, una prova che lo avrebbe dovuto vedere uscire salvo dall’attraversamento di un lungo e stretto passaggio tra due grandi fuochi benedetti. Il Venerdì Santo, Pietro si cimentò con la prova e ne uscì bruciacchiato ed ustionato dappertutto tanto che per 12 giorni fu in pericolo di vita. Ciò convinse Raimondo a continuare nell’assedio (ma non a disfarsi della presunta lancia) fino al 13 maggio quando tutti lo spinsero ad avanzare, lasciando l’assedio e dirigendosi verso Tripoli lungo la via costiera perché ritenuta più fidabile per gli appoggi che si sarebbero potuti avere dalle flotte inglesi e genovesi che incrociavano da quelle parti. Appena l’emiro della città fu informatori questa avanzata, si affrettò a comprare l’immunità per Tripoli offrendo grandi quantità di denaro, la liberazione di 300 prigionieri cristiani, viveri, cavalli ed ogni attrezzatura in quantità, oltre ad esperte guide. Per buon peso, se i cristiani avessero sconfitto i Fatimiti, si sarebbe convertito al Cristianesimo. Partito da Tripoli il 16 maggio, senza alcun incidente, l’esercito crociato arrivò alla frontiera faitimita, alla foce del fiume Cane (Nahr El Kalb) un poco a Nord di Beirut, il 19 maggio. Da questo punto si iniziava il passaggio attraverso zone a rischio, non tanto per un esercito di terra dei Fatimiti che disponeva a Nord di Gerusalemme solo di piccole guarnigioni, quanto per la possente flotta che pattugliava quel tratto di mare e sarebbe potuta intervenire in qualunque momento neutralizzando anche eventuali aiuti dalle flotte inglesi e genovesi. Si decise allora di spingere al massimo la velocità di avvicinamento a Gerusalemme. La marcia fu veloce perché varie città fecero doni in denaro e viveri al fine di essere risparmiate da saccheggi e distruzioni e perché vi fu solo qualche piccola resistenza. L’esercito crociato, attraversata Sidone (20 maggio), il 23 fu a Tiro, quindi il 24 ad Acri da dove mosse subito per Haifa. Da questa città i crociati seguirono la costa fino ad Arsuf per poi piegare verso l’interno alla città di Ramleh, dove giunsero il 3 giugno. Questa era una città musulmana, contrariamente alle altre in cui vi erano in gran maggioranza dei cristiani. I musulmani furono spaventati dall’arrivo dei crociati ed abbandonarono la città al loro arrivo, bruciando prima la chiesa cristiana di San Giorgio. La conquista di una città musulmana esaltò i crociati che si ripromisero di costituire lì una diocesi. Il 6 giugno 1099 ripartirono verso Gerusalemme della quale città furono a vista le torri e le mura la sera del 7 giugno, dopo che Betlemme, interamente cristiana, era stata riconquistata da un distaccamento crociato.

          Gerusalemme era la città maggiormente fortificata del mondo medievale. Solo il lato sud-ovest sembrava in qualche modo accessibile, per il resto fortificazioni e natura del terreno impedivano qualunque impresa. Inoltre l’esercito crociato era ridotto ai minimi e non aveva attrezzature d’assedio e d’attacco ad una città fortificata. Non vi erano corsi d’acqua nella città ma enormi cisterne che avrebbero permesso di resistere molto a lungo. Inoltre il governatore fatimita della città, Iftikhar, aveva predisposto Gerusalemme all’assedio: aveva avvelenato tutti i pozzi che circondavano la città (occorrevano circa 8 Km di strada per arrivare al Giordano), aveva sgomberato il terreno di greggi e di viveri, aveva cacciato dalla città tutti i cristiani potenziali nemici e bocche comunque da sfamare.

          I crociati iniziarono ad assediare ed anche ad attaccare ma fallendo ogni tentativo. Poi, a seguito della visione di un veggente incontrato sul Monte degli Ulivi, si aprirono la strada al successo. Tutti i crociati ed i pellegrini, a piedi scalzi, fecero un giro intorno alle mura della città, dopo tre giorni di digiuno. L’eremita aveva garantito che dopo nove giorni Gerusalemme sarebbe caduta. Ci si rese conto che senza macchine non si sarebbe potuto portare a termine l’assedio. Il problema nasceva dal fatto che non vi era legname atto a costruire macchine. Tancredi e Roberto di Fiandra dovettero fare lunghe marce, servendosi di cammelli e schiavi musulmani, per portare tronchi dalle foreste che circondavano Samaria. Altro legname e mano d’opera specializzata arrivò dal porto di Giaffa da alcune navi genovesi ed inglesi. Si iniziarono a costruire vari mangani, molte scale e tre torri (due grandi ed una più piccola alla cui costruzione dettero il loro contributo i genovesi) per poter superare le mura.

Ricostruzione grafica delle due grandi torri realizzate nell’assedio di Gerusalemme

          La notte tra il 13 ed il 14 luglio iniziò l’attacco con la prima indispensabile operazione, riempire di terra il fossato in corrispondenza di dove le torri sarebbero state avvicinate alle mura. Ci si riuscì con molte perdite perché dall’alto delle mura i musulmani bombardavano con pietre, con olio bollente e con fuoco greco. Infranta la difesa in un punto, si poggiarono gran quantità di scale ed i crociati iniziarono ad entrare. Vi furono fughe di tutti gli abitanti, dei soldati ed anche del governatore che, per aver salva la vita, pagò una grandissima quantità di denaro. Ma qui iniziò una cosa orrenda per la quale la cristianità va giustamente ricordata: ogni essere vivente della città fu ammazzato in modi orrendi. I cadaveri venivano addirittura squartati perché era costume dell’epoca ingoiare monete d’oro che si cercavano aprendo gli stomaci dei nemici. E che dire della ricerca delle monete nel sesso delle donne ? Tutti furono massacrati, nessuno si salvò, neanche gli ebrei che, accusati di aver collaborato con i musulmani e rifugiatisi nella sinagoga, vennero incendiati con essa. Cronisti dell’epoca raccontano che per camminare in città occorreva spostare cadaveri, avendo il sangue che arrivava fino alle caviglie (questa dimostrazione di bestialità cristiana fece rinascere il fanatismo dell’Islam).

          Il 15 giugno la città era caduta ed il 17 giugno i comandanti crociati si riunirono per decidere chi sarebbe stato il governatore di Gerusalemme, visto che il naturale pretendente, Ademaro Le Puy, era morto. Due giorni dopo, senza essere venuto a conoscenza della conquista di Gerusalemme, moriva l’ideatore della Crociata, Papa Urbano II.

Regni cristiani dopo la Prima Crociata

          Vi furono accesi dibattiti relativi al fatto che prima di tutto occorresse eleggere un patriarca e solo dopo si poteva procedere a quella del Re. Ma non si trovò un patriarca degno del rispetto di tutti i crociati. Si pospose allora la scelta del patriarca passando a quella del Re. La corona regale fu prima offerta a Raimondo (anche se su di lui e non solo) vi erano molti dubbi. Ma Raimondo rifiutò anche perché aveva capito che non solo non era ben accetto tra gli altri comandanti ma addirittura dal suo esercito. Giustificò il rifiuto con la nobile scusa di non potere essere eletto Re nella città santa dove il Re era stato Gesù (con questa uscita Raimondo sapeva di mettere in difficoltà anche gli altri pretendenti al trono). La corona fu quindi offerta a Goffredo di Buglione che aveva il sostegno degli altri due comandanti crociati superstiti, Roberto di Fiandra e Roberto di Normandia. Goffredo prima tergiversò poi accettò con la condizione di non essere nominato Re ma Difensore del Santo Sepolcro (Advocatus Sancti Sepulchri). Raimondo prese molto male questa elezione che in qualche modo lo aveva raggirato. Dapprima reagì non consegnando all’eletto le zone della città che occupava, quindi se ne andò sdegnosamente da Gerusalemme con i suoi soldati. Si diresse verso il Giordano in processione, fece bagnare tutti nel fiume ed indossare vesti pulite (la cosa gliela aveva consigliata ad Antiochia quel veggente di Pietro Bartolomeo ma non si sa bene il perché), per accamparsi infine nei pressi di Gerico. Subito dopo si passò, non senza contrasti, all’elezione del Patriarca che risultò essere Arnolfo Malecorne di Rohes, il cappellano di Roberto di Normandia (era sostenuto dal normanno italiano Arnolfo, vescovo di Martorana). Appena eletto, Arnolfo di Rohes riformò la gestione della Chiesa del Santo Sepolcro, dotandola di campane, cacciando tutti i preti cristiani dei riti orientali sempre presenti in quella Chiesa con altari differenziati (greci ortodossi, georgiani, armeni, giacobiti, copti) e disperdendo tutte le autorità religiose cristiane non latine. I cristiani della città, scacciati in precedenza dal suo governatore fatimita, tornati in città, rimpiansero la gestione musulmana e nascosero la reliquia più preziosa di cui disponevano e che avevano salvato, la parte più grande della Croce. Ma il nuovo Patriarca fece torturare i loro capi per sapere dove era nascosta e recuperarla.

          Intanto giunse a Gerusalemme la notizia che un esercito fatimita egiziano, al comando dello stesso visir al-Afdal, era in marcia verso Gerusalemme ed era già entrato in Palestina minacciando Ascalona. Goffredo fu informato, da alcuni esploratori egiziani catturati, che l’esercito di al-Afdal non era al completo perché aspettava rinforzi via mare. Occorreva quindi attaccarlo subito anche se Raimondo e Roberto di Normandia avrebbero partecipato solo dopo essersi accertati dell’attacco egiziano (il 10 agosto si convinsero e partirono). Ed il 9 agosto si mosse l’esercito crociato al quale a Ramleh si unirono le truppe di Tancredi e di Eustachio di Buglione (fratello di Goffredo). Il giorno 11 l’intero esercito crociato si trovò ad Ibelin, oltre Rameleh, per avanzare nella pianura di Ashdod. Qui riuscirono a circondare e catturare tutte le greggi al seguito dell’esercito fatimita. Il 12, nella pianura di al-Majdal (poco a Nord di Ascalona), attaccarono in totale sorpresa l’esercito del visir. La paura fece fuggire tutti i soldati egiziani, alcuni dei quali si rifugiarono in un bosco finendo bruciati con esso. Il visir scappò con alcuni uomini fidati e, ad Ascalona, si imbarcò in fuga verso l’Egitto. L’intero accampamento fu abbandonato pieno di armi, animali, oggetti di grande valore compresi lingotti d’oro, d’argento e pietre preziose.

          Da questo momento gli attriti tra i comandanti crociati aumentarono fino al punto che furono compromesse le facili conquiste di Ascalona, Cesarea, Acri ed Arsuf (quest’ultima cadde solo nel marzo del 1100 e ad essa seguirono le altre) e, ai primi di settembre, partirono per tornare verso l’Europa, attraverso la via che costeggiava il mare, sia Raimondo che i due Roberto che i loro soldati.

          Tornando ora alla questione del Patriarcato di Gerusalemme, prima di morire. il Papa Urbano II aveva nominato il successore di Le Puy in Terra Santa nella persona del vescovo di Pisa, Daimberto. Runciman dice che il Papa conosceva bene i francesi ma non altrettanto bene gli italiani. Questo personaggio era un corrotto, un vano, un ambizioso e disonesto (quando era  legato papale alla corte di Alfonso VI di Castiglia, si era già appropriato di parte del tesoro che questi aveva inviato come dono al Papa). Daimberto partì dall’Italia nell’estate del 1099 accompagnato da una flotta di Pisa. Fu il viaggio di una compagnia di pirati che, lungo la navigazione, si fermò a saccheggiare e rapinare le molte isole ionie. Ma l’alleanza piratesca di Chiesa e pisani era già stata collaudata, ad esempio, nel 1087 quando con il sostegno della Chiesa e con la partecipazione del vescovo di Mantova ed anche con le apparizioni di San Pietro e dell’Arcangelo Gabriele, assaltarono e saccheggiarono la città di Media in Tunisia, dove uccisero i sacerdoti di Maometto e rubarono tutti i beni della moschea, oro, marmi e porpora, con i quali iniziarono a costruire ed ornare la cattedrale di Pisa. Questa volta furono i bizantini che cercarono di fermarli mettendoli in fuga. I pisani approdarono nel Principato di Antiochia e furono ben accolti da Boemondo che era preoccupato della prevedibile razione dell’Imperatore Alessio per la sua presa di possesso del Principato. Con quella flotta sarebbe stato possibile attaccare quella dell’Imperatore che occupava il fortificato porto di Lattakieh (che era anche di stanza a Cipro). Dopo una trattativa alla quale partecipò direttamente Daimberto, vi fu un accordo contro i bizantini. In una serie di eventi successivi che comunque videro Alessio tentare di trovare un accordo, si arrivò al blocco navale di Lattakieh da parte dei pisani, mentre Boemondo assediava a terra la città. Proprio in quel frangente, gli eserciti crociati di Boemondo e dei due Roberto erano di passaggio tornando da Gerusalemme. Furono indignati per ciò che accadeva, anche perché senza l’aiuto bizantino non sarebbero mai riusciti a tornare in Europa. Convocarono quel delinquente del vescovo Daimberto e lo rampognarono duramente perché non poteva iniziare la sua missione con atti di pirateria che tra l’altro avrebbero estraniato ai crociati la supposta simpatia dei cristiani del luogo. Daimberto dovette desistere e con lui Boemondo che, senza il sostegno della flotta pisana pirata, non avrebbe potuto nulla. Il governatore bizantino di Cipro rimase favorevolmente colpito da questo comportamento e si offrì di imbarcare ed accompagnare gratuitamente l’intero contingente crociato a Costantinopoli. Così fu con tutti gli uomini escluso Raimondo che restò a Lattakieh, anche perché Raimondo aveva fatto voto di restare in Terra Santa e non era nei suoi piani il ritorno in Europa.

          Daimberto era invece giunto ad Antiochia da dove era impaziente di arrivare a Gerusalemme con Boemondo che, capito il personaggio, decise di accompagnarlo anche perché era crescente il discredito per un comandante crociato che ancora non si era recato a pregare davanti al Santo Sepolcro. Saputo del viaggio, anche Baldovino, Conte di Edessa, si unì al gruppo sempre con fini diversi da quelli di fede. Infatti era fratello di Goffredo (e l’altro fratello Eustachio di Buglione se ne era andato con gli altri crociati) e sperava in una successione. La partenza fu fissata ai primi di novembre, in modo di giungere a Gerusalemme per Natale. Dopo una marcia difficile per un inverno molto piovoso e per la consueta scarsità di cibo, arrivarono a Gerusalemme il 21 dicembre. Dopo il Natale passato a Betlemme venne cacciato il Patriarca Arnolfo e sostituito con Daimberto il quale immediatamente incoronò in nome della Chiesa di Roma, sia Boemondo come Principe di Antiochia che Goffredo come Difensore del Santo Sepolcro (Baldovino restò fuori dai riconoscimenti). In queste investiture Boemondo prendeva per sé il sostegno papale da far valere contro Alessio.  Il 1° gennaio del 1100 Boemondo e Baldovino ritornarono alle loro terre a Nord non senza qualche scontro con i siriani di Duqāq. A Gerusalemme invece da una parte Goffredo aumentava i territori sotto le sue dipendenze ed acquistava credito presso i musulmani, dall’altra perdeva potere tra i suoi e particolarmente era assediato dal delinquente Daimberto che voleva ed ottenne il potere temporale su due città: la cittadella di Gerusalemme (Torre di Davide) e Giaffa.

          Gli eventi seguirono con Goffredo intento ad estendere i suoi territori, con il delinquente Daimberto a pretendere e a tramare, con la prospettiva di nuove conquiste alle quali sembrava dovesse partecipare la flotta di Venezia arrivata a Giaffa (Venezia avrebbe aiutato i crociati nella conquista di città costiere ma volevano l’esclusiva per il commercio con l’intera Palestina oltre alla concessione di un base fissa (Tripoli). Durante queste trattative, il 18 luglio 1100 Goffredo di Buglione morì forse per tifo o per avvelenamento in un banchetto offertogli dall’emiro di Cesarea.

          Inutile dire che questa morte scatenò vari appetiti su quei territori e che il più grande aspirante a gestire tutto era Daimberto. Quando alla successione si affacciò la candidatura di Baldovino, fratello di Goffredo, Daimberto tentò il possibile per scongiurare l’ipotesi: scrisse a Boemondo chiedendogli aiuto militare contro il candidato Baldovino (la lettera non arrivò mai a Boemondo perché il messo Morello a Lattakieh se la vide strappare per quanto scandalizzò tutti). Daimberto da delinquente qual era neppure si rendeva conto che per permettere a lui di impadronirsi di Gerusalemme contro la volontà dei principi cristiani, chiedeva al cristiano Boemondo di Antiochia di fare guerra al cristiano Baldovino di Edessa. Per maggior gloria di Dio e di Gesù si mostrava che le antiche speranze di Urbano II erano poggiate sulla sabbia. L’intenzione di unire i cristiani per trasferire le loro beghe contro un nemico comune era una sciocchezza. I cristiani, soprattutto se aizzati e con un mestatore come Daimberto, tornavano a farsi le guerre come sempre.

          Per parte sua Boemondo, che non conosceva le richieste di Daimberto, faceva del tutto per rompere ogni rapporto con i bizantini, dei quali temeva presto o tardi la vendetta, aiutando verso la definitiva separazione tra la Chiesa latina d’Occidente e greca d’Oriente. Poiché non si fidava del Patriarca di Antiochia, il greco Gregorio IV, nominato da Ademaro, lo cacciò sostituendolo con il latino Bernardo di Valenza. Dopo questa impresa Boemondo, insieme a Riccardo di Salerno, ebbe un rovescio militare che gli sarebbe stato fatale senza l’aiuto di Baldovino. Rispondendo ad una richiesta di aiuto degli armeni di Melitene, Boemondo mosse da Antiochia con soli 300 uomini per non lasciare indifesa la città. Lungo il cammino subì un’imboscata dall’emiro danishmend che sterminò, oltre al clero armeno che lo accompagnava, tutti i suoi uomini e lo fece prigioniero. Fortunosamente Boemondo riuscì a far avvertire Baldovino del suo stato di cattività e Baldovino intervenne. Al suo approssimarsi l’emiro pensò bene di ritirarsi verso l’interno (lasciando però l’assedio di Melitene) dove Baldovino non era in grado di inseguirlo (terra troppo sconosciuta e piena di possibili insidie ed agguati) e Boemondo con Riccardo iniziarono una lunga prigionia in catene (che finì nel 1103 quando fu riscattato dal principe armeno Kogh Vasil(16)). Tornato ad Edessa sul finire di agosto, Baldovino fu informato della morte del fratello Goffredo. Iniziò i preparativi per la partenza, che avvenne il 2 ottobre, nominando un sostituto e accordandosi anche con il reggente di Antiochia che era grato a Baldovino per averlo salvato dal plausibile attacco dell’emiro danishmend. Poi con 200 cavalieri e 700 fanti si mise in marcia tra la disperazione di Daimberto che, a questo punto, non avrebbe potuto contare su Boemondo in catene.

          Nel suo percorso lungo la costa per raggiungere Gerusalemme, Baldovino si trovò di fronte all’attacco dell’esercito del sultano di Damasco, Duqāq, che aveva ambizioni di conquistare Tripoli, e che aveva messo insieme le forze dell’emiro di Homs e quelle di una squadra navale araba, partita da Beirut, che dava appoggio dal mare. Con grande abilità militare Baldovino sconfisse i suoi attaccanti e li mise in fuga verso le montagne. Baldovino era atteso per una imboscata in una gola che ne seguiva un’altra, già attraversata, a circa 5 Km. Di fronte al primo attacco musulmano, Baldovino si ritirò fino alla prima gola dove con rapido dietrofront attaccò i musulmani. Questi, colti all’improvviso fecero per ritirarsi ma erano sospinti dal retro dal grosso del loro esercito. Iniziò qui la grande confusione che disperse l’esercito musulmano. Per parte sua la zona di mare era sabbiosa e le navi non erano in grado di avvicinarsi per dare un valido aiuto. Da questo momento la marcia verso Gerusalemme non fu interrotta se non dai cristiani stessi. Tancredi tentò di bloccare Baldovino, alleandosi con Daimberto, ma da Giaffa Baldovino aveva avuto il sostegno dal popolo, lo stesso popolo che aveva cacciato Tancredi medesimo. Ed il 9 novembre Baldovino si presentò sotto le mura di Gerusalemme entrando in città accolto da grandi manifestazioni di gioia popolare, gioia di franchi, armeni, greci, siriani, … Daimberto si era chiuso in un monastero sul Monte Sion in preghiera, Tancredi si era ritirato nelle sue terre di Galilea e l’11 novembre Baldovino fu incoronato Re di Gerusalemme.

          Baldovino era persona avveduta e non passò a vendicarsi dei suoi nemici anche perché sapeva che Daimberto rappresentava l’autorità papale. Dopo una spedizione contro i musulmani, al suo ritorno a Gerusalemme  fece la pace con Daimberto che volentieri accettò perché comunque avrebbe trovato il modo di guadagnarci. Con Tancredi la cosa fu più complessa ma alla fine fu convinto a prendere il posto di Boemondo a capo del Principato di Antiochia, cedendo la Galilea a Gerusalemme. Così a Dicembre Baldovino fu incoronato ufficialmente Re di Gerusalemme da Daimberto ed a Marzo del 1101 Tancredi partì per Antiochia. Con questi avvenimenti si può affermare che concludeva la Prima Crociata(17).

ALCUNE CONSEGUENZE

          Le conseguenze non tanto di questa prima ma dell’insieme delle Crociate furono enormi e si possono riassumere nel far uscire l’Europa da uno stretto provincialismo. Ma delle conseguenze complessive discuterò dopo aver trattato lo svilupparsi di tutte le altre crociate. Ora è interessante cogliere alcune conseguenze che solo apparentemente sono minute.

          Dal punto di vista politico gli eventi della Prima Crociata che ho riassunto rappresentano una radicalizzazione dei rapporti tra Cristianesimo ed Islam ed anche una rottura sempre più evidente tra Chiesa Latina e Chiesa Greca. L’Impero Bizantino viveva la Crociata come un qualcosa da mantenere su stretti binari perché sarebbe potuto accadere che una coalizione europea contro Bisanzio avrebbe significato la fine dell’Impero. Quindi le divisioni dell’Occidente andavano bene per l’Impero d’Oriente. Ma occorreva comunque che l’Occidente fosse vigile contro le minacce, ancora all’Impero d’Oriente, da parte musulmana. L’immagine dei puri cavalieri senza macchia che lottavano per il trionfo del Cristianesimo riuscì fortemente sbiadita al finire della Prima Crociata: quei principi e cavalieri non erano altro che falsi pellegrini, ipocriti avventurieri alla ricerca di profitti, arricchimenti ed affermazioni personali. Ma il massimo profitto dalla Crociata sarà per le potenze marinare, soprattutto italiane che videro aprirsi porti e mercati inimmaginabili qualche anno prima e piene di merci ambitissime in Occidente per gusto, raffinatezza e preziosità. Quindi inizia una fitta rete di scambi che serve a fare girare più moneta e a far crescere l’economia europea con conseguente miglioramento del tenore di vita. In tutti i mercati europei iniziarono ad essere commerciati i raffinati ritrovati della civiltà orientale, con spezie, seta, zucchero, gemme, profumi L’importazione di cereali, alberi da frutta, piante di ogni genere, e la loro coltivazione su larga scala dette un importante impulso all’agricoltura. Le nuove esigenze della navigazione fecero stendere mappe accurate delle coste asiatiche. Ciò comportò la necessità di osservazioni sempre più accurate, soprattutto del cielo, con conseguente impulso di scienza, tecnica ed arti anche importate da quanto sviluppato e conservato dai musulmani come i preziosi codici della letteratura greca, le versioni arabe di Tolomeo e di Aristotele e molto molto altro (ed i musulmani, da questo momento, non furono più considerati dei barbari infedeli e basta). Le conquiste effettuate localmente dai cavalieri e principi crociati ebbero vita stentata ed effimera. Non vi era nulla di stabile e si era sempre in attesa di un qualche attacco che avrebbe rigettato tutti in mare. Tutto ciò dipendeva anche da quella divisione degli interessi dei principi che mai si sognarono di lottare insieme per un fine comune e per interessi comuni. Eppure tutto ciò comportò importanti conseguenze in Europa perché quei principi erano parte del sistema feudale. Con la loro dipartita e le grandissime spese che essa comportò, le proprietà feudali iniziavano a passare di mano: dai principi ai banchieri, ai re, alla Chiesa che, con saggia gestione di ipoteche, avevano operato al fine di concentrare il potere in poche mani. La Chiesa, in particolare, ebbe vantaggi enormi da questa Prima Crociata: il suo prestigio (fino qui) crebbe a dismisura e le sue finanze si gonfiarono. Ma, stava accadendo un fatto importantissimo: la fede incorrotta, che nessuno avrebbe discusso ancora nell’XI secolo, spariva gradualmente. Molti contadini erano riusciti a riscattare le loro terre a quei principi pellegrini  bisognosi di denaro iniziando un tessuto di piccole proprietà che poco a poco, in concomitanza con i servi che lasciavano la terra per trovare di che alimentarsi in concentrazioni urbane, sfocerà nei Comuni in alternativa al potere centrale. La nuova mobilità sociale, la rottura dei confini feudali, addirittura di quelli nazionali per passare in Oriente, ciò che rompeva con la fissità del feudalesimo avviava una rivoluzione civile, sociale ed economica. La nobiltà non trasse alcun vantaggio dalla Crociata oltre agli effimeri regni costruiti e nei quali tentavano di riprodurre il mondo feudale lasciato. Vantaggi vennero invece alla borghesia dei mercanti che cresceva ed iniziava ad affermarsi.

Da Wikipedia


NOTE

(1) L’origine delle parole Saraceni ed Agareni è stata ricostruita in modo fantastico come di origine biblica (Genesi 21; 8-21). Saraceni sarebbero i discendenti di Sara, la donna che con Abramo generò Isacco. Abramo ebbe anche varie relazioni, una delle quali con la schiava Agar da cui nacque l’altro figlio Ismaele (Genesi 16; 15). Sara, gelosa, fece scacciare Ismaele da casa con l’accordo di Dio e costui ebbe un’altra discendenza (quella degli arabi) che, dal nome Agar, si chiamano Agareni.

Riguardo alle parole che incontreremo per designare alcuni popoli, riporto quanto afferma l’arabista Kadidja Mandili: «Le parole “arabi, saraceni, mori, turchi e berberi” erano utilizzate senza alcuna distinzione ed indicavano i soldati musulmani che, a partire dal VII secolo, solcavano il Mar Mediterraneo alla ricerca di bottini. La parola “saraceno” che noi troviamo nei libri di storia, designava inizialmente un popolo della penisola del Sinai per indicare, in seguito, tutti i popoli arabi. Non si trova nessuna differenza terminologica nelle fonti medioevali. Oggi invece, distinguiamo nettamente tra le parole “arabo” e “musulmano”. La prima fa riferimento all’etnia dominante nell’Islam e la seconda indica i fedeli di tale religione. […] Bisogna rilevare che le invasioni saracene – ma sarebbe più corretto definirle “incursioni” – non miravano alla conquista dei territori, ma al bottino e alle prede. La flotta musulmana doveva essere capace di contrastare quella di Bisanzio sia militarmente che commercialmente. I pirati della marina musulmana rifornivano merce umana quando era necessario per il commercio degli schiavi, ma essi ricoprivano allo stesso tempo un ruolo ufficiale: proteggevano i convogli governativi; ciò avvenne regolarmente per tutto l’VIII secolo. Così, diversi pirati saraceni, fra i quali i Berberi, gli Andalusi e di Cretesi, operavano per proprio conto sulle coste della Sardegna, della Sicilia, delle Puglie, della Campania e sulle coste della Liguria e di Venezia. Al contrario, le occupazioni temporanee d’Ischia, di Ponza, di Lampedusa e di altri luoghi strategici d’Italia, come il sacco di Civitavecchia, spinsero i Bizantini e – a partire dall’800 i Carolingi – ad organizzare delle flotte capaci di difendere le coste italiane.

(2) La Spagna, provincia di Roma, nel 409 viene invasa da varie tribù barbare (svevi, vandali, …). Nel 411 i Visigoti vengono in aiuto di Roma e scacciano gli altri barbari. Da questo momento l’amministrazione di questa provincia è lasciata loro. Nel 475, un anno prima della caduta dell’Impero Romano d’Occidente, viene fondato in Spagna il regno Visigoto che, a partire dal 589, sarà interamente cristianizzato. In soli tre anni, tra il 711 ed il 714, gli arabi musulmani del califfato Omeya di Damasco occupano la penisola iberica provenendo da Sud. I cristiani vengono respinti verso nord e lì si attesteranno in piccoli regni situati in posti strategici sulle montagne della cordigliera Cantabrica e dei Pirenei. Nel 756 gli Omeya di Spagna si rendono indipendenti da Damasco e costituiscono il Califfato di Cordova. Questo Califfato si manterrà fino al 1031 per poi smembrarsi in tanti piccoli regni (taifas). A questa data la penisola contava al Nord i regni cristiani di León, Navarra, Aragón, Cataluña (circa un terzo del territorio) una striscia di terra di nessuno divideva questi piccoli regni dai taifas arabi costituenti la regione di ‘Al Andalus‘. La debolezza militare araba avvia, nel 1045, la Reconquista che si concluderà nel 1492. Da sottolineare la conquista cristiana di Toledo del 1085, il formarsi al Nord di tre stati cristiani sempre più grandi ed aggressivi (Portogallo, Castiglia, Aragona e il piccolo Navarra). Dalla metà del XIII secolo il regno di Granada è tutto ciò che resta di arabo nella penisola. Nel 1469 Isabella I di Castiglia sposa Fernando II di Aragona dando inizio alla prima convergenza di regni ispani che in poco tempo occuperà tutta la penisola ed inizierà una impetuosa espansione in altri territori. Nel 1492 cade il regno di Granada, compiendosi il disegno di Fernando e Isabella: unificare i popoli di Spagna in nome della cristianità contro gli invasori arabi. La Crociata è portata a termine vittoriosamente e Papa Alessandro VI Borgia concede ai Re di Spagna il titolo di ‘Re Cattolici‘ (1494).

(2’) Seguiamo gli avvenimenti che seguirono la morte di Carlo Magno quando l’Impero fu suddiviso tra i suoi tre figli, Carlo il Calvo, Pipino e Ludovico. I problemi iniziarono a porsi proprio con quella incoronazione con la quale era sembrato che Carlo Magno accettasse una sudditanza rispetto al Papa. Con la morte del sovrano iniziarono ad emergere insoddisfazioni per questa sudditanza anche se restava sempre la protezione carolingia ai possedimenti papali, particolarmente da parte di Carlo il Calvo, in un’epoca di forti rivolgimenti interni e minacce esterne (Bulgari ed Ungari ad Oriente, Arabi in Sud Italia e Provenza, Normanni e Vichinghi al Nord). Queste esigenze di difesa coniugate con la conflittualità interna a fini di estensione di domini terrieri all’interno dell’Impero, crearono nuove esigenze di difesa, non più centralizzata ma diffusa in forze locali e realtà territoriali che iniziarono a costituire i principati (aggregazioni di famiglie egemoni, per meriti amministrativi e per servigi alla casa reale, realizzate con il consenso del Re) e le signorie (famiglie ricche ed autonome dal Re, con basi patrimoniali fondiarie e con forti impegni nella difesa dei territori anche mediante la catena dei loro castelli). Con il passare del tempo questi poteri locali si rafforzarono, anche  fagocitando i piccoli appezzamenti di terra dei contadini, fino a mettere in discussione il potere del Re che sempre più esercitava il suo potere su importanti estensioni terriere e sulle città. La messa in discussione era anche della diarchia, cioè della Chiesa insieme alla corona, diarchia che sottraeva potere appunto a principati e signorie. Intanto in quegli anni si arrivò a distinguere i compiti dei chierici da quelli dei vescovi, di coloro che erano dediti a funzioni meramente religiose con coloro che invece erano a capo di cattedrali con le loro immense ricchezze, coloro che erano associati istituzionalmente al potere civile ma autonomi dalla giurisdizione secolare.

L’insoddisfazione di principi e signori si coalizzò per invertire il rapporto di sudditanza del regno rispetto alla Chiesa cercando di influire sull’elezione dei papi. Vi furono vari scontri tra gli eredi al trono fino ad arrivare al trattato di Verdun dell’843. Ma anche qui continuarono liti e discordie, suddivisioni e conflitti finché non si ricostituì l’unità dell’Impero tra l’879 e l’887 con Carlo il Grosso che fu subito però deposto dai feudatari che decretarono il definitivo smembramento del regno carolingio nelle tre regioni in cui inizialmente era stato suddiviso tra i figli di Carlo Magno (più o meno le odierne Francia, Germania, Italia).

Il legame cercato con la Chiesa era funzionale almeno per due aspetti: da un lato è sempre stato utile tenere buoni rapporti con questa Istituzione in grado di muovere o meno dei consensi; dall’altro si sentiva una urgente necessità di moralizzazione del clero divenuto in gran parte gaudente, sbandato, lussurioso ed ultramondano. A tale scopo era necessario il sostegno del Papa, Giovanni XI (che certo non brillava per morigeratezza ed esempio), di un papato anch’esso tutto da moralizzare, ma anche una iniziativa dal basso con la fondazione da parte del Duca Guglielmo di Aquitania (910) del Monastero benedettino di Cluny (vedi testo), divenuto in seguito il centro europeo per attuare la riforma monastica.

(3) Il bordello a cui era ridotto la corte papale ebbe molto a che fare con queste donne di famiglie potenti. Da Wikipedia riporto i rapporti di parentela tra queste donne e le potenti famiglie cui appartenevano:

“I Conti di Tuscolo (in lingua latina Comites de Tuscolana) sono stati una potente famiglia baronale romana che governò su larga parte dell’Agro Romano e dei Colli Albani tra il X ed il XII secolo, influenzando le vicende interne di Roma, dello Stato Pontificio e della stessa Chiesa cattolica attraverso il “papato di famiglia”. Il “papato di famiglia” era una formula politica che risolveva il problema della convivenza del potere civile e religioso, diversamente dal sistema politico diarchico tentato con successo da Alberico II di Spoleto che, mentre deteneva il potere politico, affidava quello religioso a papi di sua scelta. In punto di morte, sapendo che dopo di lui il sistema diarchico non avrebbe più funzionato e temendo l’intervento di Ottone I, volle unificare i due poteri facendo giurare ai nobili romani di eleggere, dopo la sua morte, il figlio Ottaviano, che divenne, un anno dopo, Papa Giovanni XII.

La roccaforte eponima di questa famiglia fu l’antica città di Tusculum, fondata in epoche remote prima della stessa Roma e rasa al suolo nel 1191 con il declinare della potenza dei conti tuscolani

. […]

Le origini

Dall’unione di Teofilatto I dei Conti di Tuscolo (864-925) e Teodora I (†916) nacquero Marozia (†955) e Teodora II (†950).

Dall’unione di Marozia e Alberico I (†924), Marchese di Toscana e Camerino nonché Duca di Spoleto, nacquero Alberico II, Costantino, Sergio, Deodato (o Davide) e Giovanni, quest’ultimo ritenuto dagli storici figlio illegittimo di Marozia con Papa Sergio III (904-911) e asceso al soglio di Pietro come Papa Giovanni XI (931-935). Alcuni storici ritengono che Papa Sergio III e Papa Adriano III (884-885) (nato Agapito) fossero fratelli di Teofilatto I e figli di un certo Benedetto magnus tusculanus dux et comes, figlio di quell’Alberico marchio et consul tusculanus princeps potentissimus, a sua volta figlio di Teodato consul, dux et primicerius Sanctae Romanae Ecclesiae e fratello di Papa Adriano I (772-795).

Da Deodato-Davide (comes tusculanus), fratello di Alberico II, nacque Papa Benedetto VII (974-983).

Fino ad Alberico II, le informazioni sui Conti di Tuscolo sono incerte e frammentarie; da Gregorio I in poi, diventano più sicure.

Alberico II ebbe due figli certi: Gregorio I ed Ottaviano I, quest’ultimo poi Papa Giovanni XII (955-963).

Da Gregorio I nacquero tre figli: Alberico III, Teofilatto II e Romano. Teofilatto II nel 1012 divenne Papa Benedetto VIII. Romano (Consul et dux, senator) nel 1024 divenne Papa Giovanni XIX.

Teofilatto II, prima di divenire Papa, ebbe un figlio: Giovanni I dei Conti di Tuscolo.

Alberico III (Imperialis palatii magister; Consul et dux; Comes sacri palatii Lateranensis) ebbe cinque figli: Teofilatto III divenuto poi Papa Benedetto IX, Guido, Pietro, Ottaviano II e Gregorio II.

Nel settembre 1055, quando l’ex-papa Benedetto IX fece una donazione, dei fratelli risultavano vivi Guido, Pietro e Gregorio, non Ottaviano.

Guido ebbe un figlio, Giovanni II dei Conti di Tuscolo, che nel 1058 divenne l’antipapa Benedetto X.

Gregorio II (Consul; nobilis vir; senator; Comes Tusculanensis) ebbe un figlio che gli successe alla guida della famiglia nel 1058: Gregorio III.

A Gregorio III (Comes Tusculanensis; Consul; illustris) nel 1108 successe il figlio Tolomeo I.

A Tolomeo I (Illustrissimus; dominus; Consul et dux) nel 1126 successe il figlio Tolomeo II.

Tolomeo II ebbe due figli: Gionata (Comes de Tusculano) e Raino (Nobilis vir; dominus) che, alla sua morte nel 1153, guidarono insieme la famiglia fino al 1167, quando Gionata morì e rimase solo Raino, morto nel 1179″.

Di qualche rampollo di questa genìa di delinquenti avrò modo di parlare in dettaglio più oltre. Qualche dettaglio su Marozia posso darlo ora: sua madre, Teodora, la mise al letto del Ppapa Sergio III quando aveva solo 14 anni. La giovane rimase incinta ma la cosa non la turbò, anzi gradiva il tutto, tanto che riuscì a dominare con il sesso i successivi Papi Anastasio II e Landone riuscendo a far eleggere Papa il vescovo di Ravenna Giovanni, con il nome di Giovanni X per poterci fare l’amore più spesso che non a Ravenna. Tutta una vita evangelica.

Ancora da Wikipedia riporto una breve storia della potente famiglia dei Crescenzi:

“È storicamente ritenuto capostipite della famiglia un Crescenzio che figura come giudice fra i nobili romani in un placito romano di Ludovico III del 4 febbraio 901 sotto Papa Benedetto IV e, se pur si tratta dello stesso personaggio, in un altro tenuto in Roma da Alberico II il 17 agosto 942 sotto Papa Stefano VIII.

Discenderebbero da lui, per quanto sia ignoto il grado di parentela, Giovanni Crescenzi I (morto nel 960), marito di Teodora II (figlia del senatore Teofilatto I e di Teodora I) e padre di Giovanni vescovo di Narni, eletto Papa col nome di Giovanni XIII (965-972), di Teodora III sposata a Giovanni III duca di Napoli, di Crescenzio “de Theodora” detto “Crescenzio II”, di Marozia II (Marozia I era la zia, sorella di Teodora II) e di Stefania; Crescenzio II sarebbe il Crescenzio “a caballo marmoreo” che compare fra i primati di Roma in un sinodo del 963 presente Ottone I.

Dopo la morte della moglie Teodora II nel 950, Giovanni Crescenzi I si sarebbe fatto sacerdote fino a divenire vescovo. Nel periodo dal 965 al 1012 i Crescenzi dominarono su Roma col titolo di patrizi dei Romani; con Crescenzio de Theodora la famiglia estese il suo controllo anche su Palestrina (che Giovanni XIII concesse nel 970 alla sorella Stefania) e sul comitato sabinense. Crescenzio II fece eliminare papa Benedetto VI e impose l’elezione dell’antipapa Bonifacio VII, che tuttavia fu costretto all’esilio da Ottone II, mentre Crescenzio si ritirava in un monastero e vi moriva nel 984.

Suo figlio Giovanni Crescenzi II, detto poi Nomentano, ebbe grande influenza sotto il pontificato di Giovanni XV e di Gregorio V: assunto il titolo di patrizio dei Romani (985), divenne signore di Roma ed ottenne nel 988 il comitato e la città di Terracina per il fratello Crescenzio III (morto nel 1020), il quale poi tenne la prefettura di Roma negli anni 1014-15 e 1019, subentrando al nipote Giovanni Crescenzi III morto nel 1012. Giovanni Nomentano fece fuggire Gregorio V ed eleggere Giovanni XVI, che lasciò il potere temporale nelle sue mani. Ottone III, venuto a Roma, lo assediò in Castel Sant’Angelo (che si chiamava allora Castellum Crescentii) e lo fece decapitare (998): fu esaltato come martire della libertà romana.

Fra il IX ed il X secolo i Crescenzi furono feudatari di Mentana, ove fecero costruire un palazzo. I Crescenzi feudatari di Mentana vennero chiamati Crescenzi-Nomentani.

Suo figlio Giovanni detto Giovanni Crescenzi III nel 1002 si fece ordinare patrizio dei Romani ed ebbe la signoria della città fino alla sua morte nel 1012; estese i possessi della famiglia nella Campagna e nella Marittima.

Nel 1045 i Crescenzi Ottaviani riuscirono ancora a far eleggere al papato un loro membro, il vescovo di Sabina Giovanni, col nome di Papa Silvestro III”.

Poiché abbiamo accennato a Papa Giovani XI, vale la pena ricordare qualche evento che lo riguarda. Giovanni XI (910-935) non fu eletto ma imposto dalla madre, Marozia, che lo aveva avuto dal Papa Sergio III quando era quindicenne (in seguito Marozia fece uccidere Sergio III). Il personaggio era un gaudente dedito alle cose più triviali, dissolute e turpi.

(4) La vita ascetica, che faceva parte della pratica religiosa di alcuni monasteri cristiani, non era una soluzione praticabile per tutti i fedeli. Risultava difficile ad esempio per coloro che avevano responsabilità pubbliche o semplicemente erano lavoratori che dovevano alimentare le famiglie. Una alternativa alla vita ascetica poteva quindi essere il pellegrinaggio verso i luoghi sacri. L’altra alternativa e cioè le pene che venivano comminate per redimersi dai peccati (digiuno a pane acqua, pubblica umiliazione) mal si adattavano a orgogliosi e fieri cavalieri ma anche a persone più umili ma orgogliose.

(5) La designazione di Abū Bakr come Califfo da parte di Maometto generò risentimenti ed odi nella famiglia del Profeta che aspirava a quel posto. Particolarmente irritati furono il cugino e genero ‘Alīibn Abī Ţālib (aveva sposato la figlia di Maometto, Fāţima)e lo zio paterno al-‘Abbās b. ‘Abd al-Muttalib che per molto tempo si rifiutarono di riconoscere l’autorità di Abū Bakr che impedirono al Califfo di partecipare ai rituali funebri del Profeta. Questa situazione avrà rilevanza nella storia immediata dell’Islam. In ogni caso, come prevedibile, la morte di Maometto lasciò molta amarezza tra i suoi seguaci. L’unica consolazione erano le conquiste fatte, ed in particolare quella di La Mecca, in pochissimo tempo che avallavano l’idea di essere nel giusto. Non tutti però restarono convertiti, soprattutto tra le truppe beduine molte si ritirarono lasciando la religione superficialmente abbracciata. Così facendo, tra l’altro, non avrebbero più dovuto pagare i tributi dovuti. Il compito del Califfo fu quindi quello di mantenere l’unità delle varie tribù, alcune delle quali sentivano che con la morte di Maometto quella esperienza entusiasmante era finita, lavoro che lo impegnò per oltre un anno. Occorreva anche fortificare ed estendere quel nuovo credo e far sì che divenisse patrimonio comune di tutti gli abitanti della Penisola araba. E’ interessante notare che, alla morte del Profeta, spuntarono qua e là ai confini dell’Islam altri profeti che furono subito liquidati dai militari di Abū Bakr.

(6) Ad Alessandria era sopravvissuta alla barbarie cristiana parte della famosa ed incredibile Biblioteca. Secondo il racconto di un cristiano del XIII secolo, arrivarono altri barbari che rasero al suolo ciò che restava. Il devastatore sarebbe stato proprio Omar che è anche il personaggio che avrebbe dato una risposta agghiacciante ad una certa domanda. Alla richiesta di uno degli ultimi filosofi alessandrini, che frequentava la Biblioteca, di salvarla, Omar rispose con la sicumera del fondamentalismo ignorante: Se gli scritti dei greci concordano con il Corano, sono inutili e non occorre conservarli; se discordano, sono pericolosi e si devono bruciare. Ad Alessandria, civilissima città, esistevano 4000 bagni pubblici. I volumi della Biblioteca erano di carta e pergamena, materiali infiammabili. Essi sarebbero stati distribuiti ai 4000 bagni per alimentare il fuoco che scaldava l’acqua. Il numero dei volumi era tale che sarebbero stati necessari più di sei mesi per consumarli tutti. L’episodio è raccontato dallo scrittore siriano del XIII secolo, figlio di un ebreo convertito, vescovo e primate della Chiesa orientale, Abu’l-Farag (in italiano Gregorio Abulfaragio). Gibbon mette in dubbio questa storia affermando che negli Annali di Eutichio (patriarca di Alessandria del X secolo) e nella Storia dei Saraceni di Elmacin (XIII secolo) non vi è traccia di essa. Comunque siano andate le cose, il fanatismo, il fondamentalismo, le religioni vanno tenute lontane come la peste dello spirito e della ragione..

(7) L’Esarcato di Ravenna (o d’Italia) era  formato da città delle attuali Romagna e Marche che costituivano i territori bizantini in Italia. Le città erano: Ravenna, Forlì, Forlimpopoli, Classe, Cesarea (pentapoli), Rimini, Pesaro, Ancona, Senigallia e Fano.

(8)  Il fuoco greco, in quanto arma di enorme potenza, era fabbricato con una formula segreta nota solo al basileus ed a pochi tecnici che la realizzavano. L’invenzione è attribuita all’architetto greco Callinico che dalla città di Eliopolis (Siria), nell’attuale Libano, era emigrato a Bisanzio. Si trattava probabilmente di una miscela di pece, salnitro, zolfo, petrolio e calce viva sistemata dentro un otre molto grande al quale era collegato un tubo di rame. Queste armi erano montate sopra le navi bizantine per attaccare quelle nemiche (tutte costruite in legno con catrame che teneva unite le singole tavole e quindi molto infiammabili). Se l’otre era di cuoio si premeva e da esso veniva spruzzato il suo contenuto operando come un vero e proprio sifone lanciafiamme con quell’effetto di non possibile spegnimento dovuto alla calce viva. Se l’otre era di terracotta veniva lanciato con il sistema delle petriere (grandi fionde).

(9) Jabal al-Ţāriq significa Monte di Tariq, in omaggio a Tariq ibn Ziyad che iniziò la conquista, morendo nel 720.

(10) La Spagna, provincia di Roma, nel 409 viene invasa da varie tribù barbare (svevi, vandali, …). Nel 411 i Visigoti vengono in aiuto di Roma e scacciano gli altri barbari. Da questo momento l’amministrazione di questa provincia è lasciata loro. Nel 475, un anno prima della caduta dell’Impero Romano d’Occidente, viene fondato in Spagna il regno Visigoto che, a partire dal 589, sarà interamente cristianizzato.

In soli tre anni, tra il 711 ed il 714, gli arabi musulmani del califfato Omeya di Damasco occupano la penisola iberica provenendo da Sud. I cristiani vengono respinti verso nord e lì si attesteranno in piccoli regni situati in posti strategici sulle montagne della cordigliera Cantabrica e dei Pirenei. Nel 756 gli Omeya di Spagna si rendono indipendenti da Damasco e costituiscono il Califfato di Cordova. Questo Califfato si manterrà fino al 1031 per poi smembrarsi in tanti piccoli regni (taifas). A questa data la penisola contava al Nord i regni cristiani di León, Navarra, Aragón, Cataluña (circa un terzo del territorio) una striscia di terra di nessuno divideva questi piccoli regni dai taifas arabi costituenti la regione di ‘Al Andalus‘. La debolezza militare araba avvia, nel 1045, la Riconquista che si concluderà nel 1492. Da sottolineare la conquista cristiana di Toledo del 1085, il formarsi al Nord di tre stati cristiani sempre più grandi ed aggressivi (Portogallo, Castiglia, Aragona e il piccolo Navarra). Dalla metà del XIII secolo il regno di Granada è tutto ciò che resta di arabo nella penisola. Nel 1469 Isabella I di Castiglia sposa Fernando II di Aragona dando inizio alla prima convergenza di regni ispani che in poco tempo occuperà tutta la penisola ed inizierà una impetuosa espansione in altri territori. Nel 1492 cade il regno di Granada, compiendosi il disegno di Fernando e Isabella: unificare i popoli di Spagna in nome della cristianità contro gli invasori arabi. La Crociata è portata a termine vittoriosamente e Papa Alessandro VI Borgia concede ai Re di Spagna il titolo di ‘Re Cattolici’ (1494).

Gli arabi ebbero il merito di conservare la maggior parte del patrimonio culturale greco ed ellenistico, salvandolo dalla distruzione dei cristiani. Fu questo prezioso patrimonio di libri e pergamene che in lingua araba arrivò in Spagna a partire dall’VIII secolo. In un ambiente di tolleranza, queste conoscenze furono trasferite ai cristiani indigeni, ed ai moltissimi ebrei che vivevano nella penisola da epoche remote (con alterne vicende di accettazione e persecuzione sotto il dominio cristiano-visigoto e con la piena accettazione degli arabi musulmani per l’aiuto che gli stessi ebrei avevano fornito loro nella conquista di Spagna). Non vi furono persecuzioni di nessuno verso nessuno. Vi era una sorta di divisione del lavoro che vedeva gli arabi padroni di una agricoltura che con irrigazioni avanzatissime, con l’introduzione dell’arancio, del riso, del cotone, della canna da zucchero e di molte altre piante commestibili avevano reso molto fiorente, artefici di un artigianato tecnologicamente avanzato di articoli di lusso (pelli, tessuti, ceramica), ottimi commercianti; gli ebrei gestori di commercio, prestiti e finanza , mentre i cristiani erano il ‘popolaccio’, la forza lavoro in massima parte povera ed ignorante, costituita da discendenti dei visigoti, schiavi, slavi, schiavi liberati. I cristiani vedevano con grande ammirazione gli arabi per la loro cultura, raffinatezza ed addirittura per il suono della lingua e, spontaneamente, si convertivano alla religione musulmana diventando ‘mozarabi’ (arabizzati). Con il passare degli anni cominciarono a nascere musulmani nella stessa Spagna (muladì) che andava pian piano arabizzandosi. Tutti vedevano crescere il livello materiale della loro vita. Non vi erano momenti della precedente dominazione cristiano-visigota di cui andar orgogliosi. Gli stessi cristiani riconoscevano in svariati scritti la loro ignoranza rispetto allo splendore della cultura araba.

E’ utile ricordare che la dinastia Omeya crollerà nel 750 per far posto a quella Abasside. Marwān II ibn Muhammad ibn Marwān nel 750, l’ultimo Califfo omayyade, fu sconfitto dalle forze della dinastia abbaside, il cui capo è Abū l-‘Abbās al-Saffāh.

(11) Fino all’XI secolo i pellegrinaggi furono un fenomeno abbastanza limitato, per l’insicurezza generale e anche per una certa diffidenza da parte della stessa Chiesa: essi andavano oltre il controllo delle diocesi, che era saldamente territoriale, e non era gradito dagli ordini monastici. Essi inoltre sostenevano in genere che la propria “Gerusalemme” andasse trovata nel cuore di ogni cristiano, piuttosto che nel viaggio. In seguito la Chiesa riconobbe nel pellegrinaggio un’esperienza fondamentale della vita religiosa e lo disciplinò, corredandolo di un apposito voto e delle relative indulgenze spirituali.

(12) Il movimento delle “paci di Dio” nacque sul finire dell’VIII secolo,  riprese vigore nel X secolo nella Francia centro meridionale e fu codificato da vari concili nell’XI secolo a partire dal Concilio di Arles (1037-1041). Questo movimento riuscì ad ottenere dall’autorità ecclesiastica la sospensione dell’impiego della forza armata in particolari periodi in cui cadevano festività e liturgie cristiane, e la tutela dalla violenza armata alcuni luoghi pubblici, come i palazzi regi o i mercati, e religiosi, e vietavano la violenza contro tutti gli inermi. Più in particolare la Chiesa condannava in modo deciso le attività brigantesche dei cavalieri che ridotti in miseria per qualche evento, cercavano di riavere denaro e potere con gli assalti alle Chiese ed il brigantaggio. La Chiesa non parlava però dell’immoralità in sé di tali atti ma dell’immoralità del dirigerli verso la Chiesa. La direzione corretta era contro i Mori di Spagna che ostruivano le vie del pellegrinaggio a Santiago de Compostela. Questo stesso argomento fu usato per attaccare i possedimenti dei Mori nelle isole del Mediterraneo.

(13) Nel testo vi è già stato un riferimento al grande predicatore pro Crociata che fu Pietro d’Amiens, il povero eremita con molto seguito tra i poveri ed i diseredati, che percorse in lungo ed in largo mezza Europa per incitare alla Guerra Santa. Non fu il solo predicatore tra i poveri. Tra essi va ricordato anche Roberto di Arbrissel, fondatore dell’Ordine di Fontevrault. Lo stesso Papa a Clermont avrebbe detto qualcosa che rispecchiava le miserrime condizioni dei poveri contadini europei i quali non avrebbero avuto che da guadagnare dalla Crociata. Ed infatti l’Occidente del Nord Europa era preda di continue invasioni barbariche a seguito delle quali molte terre coltivate erano state abbandonate. Le distruzioni dei barbari avevano riguardato anche i sistemi di irrigazione costruiti in moltissimi anni: le dighe ed i canali erano stati distrutti e le acque avevano di nuovo invaso i campi. I nobili che passavano il tempo in battute di caccia nei boschi si rifiutavano di perderli per cederli alle coltivazioni. E Papa Urbano a Clermont disse: «In questo Paese voi potete a malapena nutrire gli abitanti e questo è il motivo per cui esaurite completamente le riserve e promovete delle guerre interminabili tra voi». A ciò si aggiunsero violente pestilenze, inondazioni ed uno sciame di meteoriti che si abbatté sulla Terra, fenomeni che quasi richiamarono l’Apocalisse e la seconda venuta di Cristo, da più parti annunciata. E Cristo sarebbe venuto in una Terra liberata dagli infedeli e dagli Anticristo e riconsegnata alla cristianità A fronte di tutto ciò vi era il miraggio di favolose ricchezze, racchiuse in quella terra dove scorre il latte ed il miele, che sarebbero andate a chi avrebbe preso parte alla spedizione.

(14) Tra questi il principe all’epoca più potente della Mesopotamia, l’atabeg o governatore selgiuchida di Mossul capitale della Jazira, della corte dell’emiro Kerbogha sotto l’autorità del sultano Imād al-Dīn Zengī che aveva 11 anni e che era sotto la tutela di Kerbogha.

(15) Erede di Malik Shah che, insieme a Suleyman I ibn Qutulmish, aveva conquistato tutta l’Anatolia ai bizantini, tra il 1071, data della battaglia di Manzincerta, ed il 1086.

(16) Boemondo, una volta libero non smise la sua politica di guerra ai musulmani e ad Alessio. Sconfitto dai musulmani si recò in Europa per chiedere aiuti. Sposo la figlia del Re di Francia e partì con un grande esercito che però usò contro i bizantini che lo sconfissero sonoramente. Da questo momento Boemondo sparì dalla scena politica diventando un vassallo di Alessio. Morì in Calabria nel 1111.

(17) La Contea di Tripoli completò il quadro dei regni cristiani feudali in Palestina. L’assedio della città iniziò nel 1102 ad opera di Raimondo, l’unico grande comandante crociato restato privo di un qualche regno, e si completò nel 1109. Il suo governatore, vassallo di Baldovino I Re di Gerusalemme, fu Bertrando II di Tolosa figlio di Raimondo che era0 morto nel 1105.

Dopo la caduta di Tripoli, altre città della costa, ancora in potere dei fatimiti, caddero (Beirut e Sidone lo fecero nel 1110, Tiro nel 1124).

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BIBLIOGRAFIA

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