LE SANTE CROCIATE 2

Roberto Renzetti

PARTE SECONDA

LA PICCOLA CROCIATA DEL 1101

          Prima di studiare con qualche dettaglio le vicende che portarono alla Seconda Crociata, merita un qualche cenno una Piccola Crociata che ebbe luogo nel 1101.

          Quando in Europa giunse notizia della conquista di Gerusalemme vi fu un grande entusiasmo da parte di tutti. Molti dei crociati che tornavano magnificavano le loro imprese, raccontavano di terre meravigliose e ricche che non chiedevano altro di essere sfruttate e dicevano che occorreva che un’altra crociata fosse bandita per poter portare sostegno stabile a quanto loro stessi avevano realizzato. La Chiesa naturalmente benediceva questi discorsi incoraggiando con i suoi predicatori, calamità storiche, un nuovo afflusso di crociati in Oriente. La nuova spedizione fu pronta a partire nell’autunno del 1100. A settembre si mise in moto una crociata di lombardi, alla quale si aggregarono tedeschi e francesi, guidata dal massimo rappresentante della Chiesa in Lombardia, il vescovo di Milano Anselmo di Buis, e formata da vari notabili del luogo come il conte Alberto di Biandrate, il conte Ghiberto di Parma ed Ugo di Montebello. I lombardi avevano partecipato in piccolo numero ed ingloriosamente alla Prima Crociata arruolandosi con Pietro l’Eremita e dando il loro contributo al completo insuccesso della crociata dei pezzenti quando non riuscirono a far altro che accordarsi con i tedeschi contro i francesi (i superstiti dei massacri cui andarono incontro si raccolsero sotto il comando di Boemondo). Ora le cose non erano diverse e così le descrive Runciman:

L’attuale spedizione non era molto meglio organizzata: comprendeva pochissimi soldati bene addestrati ed era formata principalmente dalla marmaglia raccolta nei bassifondi delle città lombarde, uomini la cui vita era stata sconvolta dalla crescente industrializzazione della regione; con loro c’era un gran numero di ecclesiastici, di donne e di bambini. Era una massa cospicua, per quanto la cifra valutata da Alberto d’Aix in duecentomila anime debba essere divisa almeno per dieci.  Né l’arcivescovo, né il conte di Biandrate che veniva considerato come il capo militare, erano in condizioni di farsi obbedire da tutta quella gente.

          Marciarono attraversando la Carnia, scendendo lungo il corso del fiume Sava, attraversando l’Ungheria ed entrando nell’Impero bizantino a Belgrado. Qui, come era costume, furono presi in consegna da scorte armate dell’Imperatore Alessio che li accompagnarono attraverso la penisola balcanica. Essendo però in gran numero per essere sorvegliati ed alimentati furono suddivisi in tre gruppi (uno a Filippopoli, uno ad Adrianopoli, uno a Rodosto). Ma lo spirito banditesco fece sì che, nonostante i controlli, quella massa di persone, ciascuna nel territorio che occupava, si scatenasse nel più vergognoso saccheggio di villaggi, di granai, di bestiame e, per mostrare la forza della loro fede, di chiese. Solo a marzo Alessio riuscì a trasportarli tutti  in un campo situato fuori le mura di Costantinopoli preparando il loro trasbordo in Asia, al di là del Bosforo. Ma poiché era circolata una voce di altri pellegrini in arrivo dall’Europa, costoro si rifiutarono di partire prima dell’arrivo dei nuovi fantomatici crociati. L’Imperatore reagì tagliando il cibo e costoro non trovarono altro di meglio che attaccare la città riuscendo a varcare le mura, ad attaccare il Palazzo della Blachernae dove furono miracolosamente fermati dal comandante crociato e dal vescovo di Milano che si erano precipitati a scongiurare ogni azione violenta contro Alessio. Dopo una difficile pacificazione, ottenuta da Raimondo di Tolosa che si trovava a Costantinopoli godendo della fiducia di Alessio, i nuovi crociati accettarono di essere trasferiti in Asia, nei pressi di Nicomedia, dove attesero l’arrivo degli altri crociati dall’Europa.

          Questa nuova armata della fede era guidata, suo malgrado, da Stefano di Blois, quel principe crociato che era scappato dall’assedio di Antiochia per paura. Il suo gesto divenne per lui una condanna da parte di tutti e particolarmente da parte della moglie che, sembra, gli negasse anche i favori sessuali. Così Stefano nella primavera del 1101 dovette ripartire ed al suo seguito si aggregarono altri nobili. Passarono per l’Italia, attraversarono l’Adriatico e giunsero a Costantinopoli in maggio. Lungo il cammino si aggregò un altro piccolo contingente di crociati tedeschi al comando di Corrado, conestabile (o comandante dell’esercito) dell’Imperatore Enrico IV. A maggio quindi vi fu l’unificazione dei due gruppi, quello dei lombardi e quello dei francesi cui si erano aggiunti i tedeschi. Tutti si accordarono sul fatto che il comandante supremo fosse Raimondo di Tolosa e partirono sul finire di maggio con il sostegno di un contingente bizantino, che comprendeva 500 mercenari turchi, al comando del generale Tsitas.

          Raimondo, in accordo con Stefano e con quanto discusso con Alessio, intendeva stabilizzare e rendere più sicura la via di comunicazione attraverso l’Asia alla Siria ed ai regni cristiani e quindi era deciso a ripercorrere la strada che aveva percorso durante gli inizi della Prima Crociata. Ma i lombardi che avevano come idolo Boemondo non furono d’accordo: costoro volevano come primo obiettivo della loro crociata liberare Boemondo che, si ricorderà, era prigioniero dell’emiro danishmend, Mohammed ibn Ghazi, nel castello di Niksar (o Neocesarea) che si trovava in una zona lontana nord-orientale dell’Anatolia. E forti del loro numero i lombardi imposero il loro punto di vista ed indirizzarono la crociata verso quel luogo lontano prendendo la via di Ancyra (oggi Ankara) che apparteneva al sultano selghiucida Kilij Arslan. Arrivarono il 23 giugno e presero subito possesso della città che risultò indifesa. Proseguirono subito per Niksar seguendo la via di Gangra. Al loro avanzare l’esercito di Kilij Arslan arretrava distruggendo ogni cosa che potesse servire da approvvigionamento ai crociati.

Crociata del 1101 (da Wikipedia)

          Arrivati a Gangra i crociati provarono ad attaccare la città ma la cosa risultò impossibile per le sue difese. Non potevano aspettare un assedio perché non avevano viveri e la cos li costringeva a marciare in fretta. I piani prevedevano di arrivare a Niksar passando per Amasia ma la mancanza di cibo e l’insopportabile calore di luglio in quei territori fecero vincere l’opinione di Raimondo che propose di spingersi per una via più a Nord che, attraverso Kastamonu (o Castra Comneni), arrivasse fino alla città bizantina di Sinope sul Mar Nero da dove poi si sarebbe potuta attaccare Niksar essendo stati approvvigionati. Dopo poco l’inizio di questo cammino vi fu un attacco dei turchi selghiucidi al quale la cavalleria lombarda rispose con una fuga immediata lasciando la fanteria al massacro. Fu Stefano a raccogliere i superstiti e, insieme a Raimondo, a raccogliere tutti in un unico gruppo ad evitare gli attacchi continui alle avanguardie ed alle retroguardie. Arrivati nei pressi di Kastamonu si capì che l’unica speranza di salvezza era di raggiungere al più presto  le coste del Mar Nero ma, anche qui, i lombardi non furono d’accordo ed imposero la marcia più diretta a Niksar, per la strada di Mervisan ed Amasia (pensavano che usciti dal territorio dei turchi selghiucidi ed entrati in quella dei danishmend i maggiori pericoli sarebbero stati lasciati indietro). I crociati attraversarono il fiume Halys, saccheggiarono un villaggio cristiano ed arrivarono a Mervisan. Qui scattò l’attacco contro i crociati. I lombardi, come ormai loro costume, scapparono subito lasciando gli altri in gravi difficoltà. Raimondo riuscì a salvarsi ritirandosi verso la costa con alcuni dei suoi e con alcuni bizantini. Gli altri visto tutto perduto cercarono di salvarsi come poterono. I turchi si fermarono per trucidare tute le donne, i bambini e gli anziani restati negli accampamenti, quindi inseguirono i fuggiaschi uccidendo tutti coloro che non avevano avuto la possibilità di allontanarsi con i cavalli. I lombardi, veri responsabili del disastro, furono trucidati in misura dei quattro quinti. Le loro donne, se giovani, ed i loro bambini riempirono le une gli harem e gli altri i mercati di schiavi. Raimondo ed i suoi riuscirono ad imbarcarsi per Costantinopoli nel porto bizantino di Bafra, alle foci dell’Halys. Gli altri gruppi di sbandati al comando di Stefano arrivarono aprendosi il cammino con le armi fino a Sinope da dove proseguirono verso Costantinopoli per vie costiere, arrivando in città all’inizio dell’autunno.

          I primi risultati negativi dell’intelligenza lombarda furono: la rottura definitiva di una strada di comunicazione diretta con la Siria ed i regni cristiani di Palestina con la conquista di Iconio (o Konya) da parte turca; la rottura delle trattative in corso tra Alessio e l’emiro danishmed per la liberazione di Boemondo; il ritorno dell’orgoglio turco che aveva finalmente battuto un esercito crociato; l’espansione fino ai confini di Edessa dei territori turchi; la rottura dei rapporti tra crociati e bizantini. Il raggiungimento di tutti questi risultati in così poco tempo fu davvero notevole se si tiene conto che si trattava solo di pochi lombardi.

          Gli effetti di tutto ciò si videro subito. Un ordinatissimo esercito francese, al comando di Guglielmo II conte di Nevers, arrivò a Costantinopoli poco dopo la partenza dei lombardi. Guglielmo non si fermò a Costantinopoli perché intendeva unirsi agli altri. Arrivò ad Ancyraa fine luglio e da lì non riuscì a sapere dove si trovavano gli altri. Seguì allora per la strada che ritenne più naturale, quella che era stata percorsa dagli eserciti della Prima Crociata passante per Iconio. Questa città era già stata conquistata dai turchi di Kilij Arslan e Guglielmo non ritenne di perdere il tempo in un assedio e proseguì. Ma Kilij Arslan ed altri suoi alleati tra cui Mohammed ibn Ghazi fecero una strada diversa e più breve per arrivare a tagliare il cammino dei crociati. Circondarono con il loro l’esercito francese ed in poco tempo lo massacrarono. Solo Guglielmo e la sua scorta si salvarono aprendosi il cammino tra i soldati turchi. Dopo varie peripezie e dopo aver vagato sia sulla catena montuosa del Tauro sia nel deserto, si presentarono seminudi ad Antiochia a chiedere asilo.

          Subito dopo l’attraversamento del Bosforo da parte di Guglielmo II conte di Nevers, un altro esercito crociato di francesi e tedeschi, al comando di Guglielmo IX di Poitiers e Guelfo (o Welf) IV di Baviera si presentò a Costantinopoli. Le truppe di costoro, appena entrati in territorio bizantino nei Balcani si dettero a violenze e saccheggi tanto da provocare una vera guerra con i bizantini. Per contrasti tra famiglie di nobili questo esercito non volle congiungersi con quello del conte di Nevers e aspetto per 5 settimane vicino al Bosforo proprio per far allontanare l’altro esercito che si dirigeva verso Ancyra. Quando si mise in marcia scelse la via ordinaria, quella per Dorileo ed Iconio. A partire da Dorileo ci si rese conto che l’altro esercito era passato da poco con conseguenze prevedibili sulla possibilità di approvvigionarsi. Ma il fatto più drammatico era la mancanza d’acqua con i poszzi distrutti o prosciugati. Superata Iconio, che fu trovata indifesa ma completamente spogliata (con i campi vicini) dai turchi di ogni possibile riserva alimentare, i crociati si diressero verso Eraclea, la strada lungo la quale era avvenuto il massacro degli uomini di Guglielmo. Anche Eraclea, ai primi di settembre, fu trovata priva di difesa e di ogni rifornimento alimentare. Ma lì vicino scorreva un fiume che attirò tutti i crociati arsi dalla sete. Ruppero le fila e disordinatamente si buttarono nell’acqua. I turchi avevano preparato un’imboscata: circondarono i crociati che presi dal panico si dettero alla fuga ostacolandosi l’un l’altro (era il 5 settembre del 1101). Vi fu un massacro generalizzato. Si salvò Guglielmo IX di Poitiers che vagabondò per giorni finché non riuscì ad arrivare a Tarso. Si salvò anche Guelfo IV di Baviera che dopo molti giorni di vagabondaggio arrivò ad Antiochia dove chiese asilo (morì comunque a Cipro durante il viaggio di ritorno nello stesso 1101). Il vescovo al seguito fu ucciso. Fu ferito gravemente e la cosa lo portò alla morte anche Ugo di Vermandois che si era unito alla crociata perché non aveva completato la Prima essendo tornato in Europa dopo la conquista di Antiochia. La Margravia d’Austria, Ida, madre di Leopoldo III di Babenberg, sparì dalla lettiga sulla quale seguiva gli avvenimenti e nessuno seppe cosa fosse accaduto di lei. Qualche cronaca postuma la dava in un harem sperduto dove avrebbe messo alla luce il condottiero musulmano Zengi del quale ci occuperemo tra poco. Altra cronaca parla di 60.000 morti.

          In definitiva la crociata del 1101, nel suo complesso fu un disastro sia per l’enormità di morti sia per le conseguenze già accennate che, in definitiva, riguardarono la fine di un percorso via terra ai regni cristiani di Palestina ed alla Siria. Ora non era più possibile inviare masse enormi di pellegrini che sarebbero nelle intenzioni diventate massa per colonizzare la zona. Ora la via sicura era solo quella via mare che riduceva drasticamente la quantità di persone per gli elevati costi. Solo le flotte delle repubbliche marinare e di altri Paesi rivieraschi trassero da ciò enormi profitti.

TRA PRIMA E SECONDA CROCIATA

Credo che dalla Parte Prima di questo lavoro si sia capito che le Crociate nascevano soprattutto per esigenze interne alla Chiesa ed ai suoi rapporti con i potentati dell’epoca. Vediamo quindi cosa accadeva nella Chiesa dal finire della Prima Crociata e quindi dalla morte di Papa Urbano II fino all’inizio della Seconda Crociata.

 Scrive Gregorovius:

La storia temporale dei Papi da Gregorio VII in poi è una specie di rappresentazione caotica e al tempo stesso altamente tragica in cui si avvicendano continuamente gli scoppi di ribellione popolare, le fughe e gli esili dei papi, i loro ritorni trionfanti, le loro tragiche nuove cadute e, ancora una volta, le loro immancabili ascese.

        Si ricominciò dal successore di Urbano, un altro vescovo di Cluny, Ranieri di Bleda che assunse il nome di Pasquale II. Aiutato dal denaro con cui si pagò una truppa riuscì ad entrare in Roma, ma poi fu cacciato dai nobili romani che lo erano perché più bravi ad organizzare rapine appostandosi in vicoli bui o su strade percorsi da ricchi da derubare ed ammazzare. Questi nobili originavano sempre da Tuscolo o dintorni, cambiavano nome (ad esempio i Colonna, i Corsi, i Pierleoni, i Frangipane, …) ma i metodi erano gli stessi. Si susseguirono così vari antipapi che resistevano finché vi erano i denari per i mercenari ed analogamente il Papa poteva accedere o muoversi per la città solo se aveva, in quel momento, adeguate protezioni. Da notare negli anni di Papato di Pasquale due fatti di rilievo: nel 1101 era morto Corrado il figlio di Enrico IV che aveva abbandonato il padre per schierarsi con il Papa; nel 1106 era morto lo stesso Enrico IV. Il figlio ventiduenne di quest’ultimo, Enrico V, lanciò un ultimatum al Papa per la sua incoronazione a Roma e per pretendere di nuovo il diritto all’investitura dei vescovi. Al rifiuto di Pasquale, Enrico fece eleggere l’antipapa Silvestro IV (1105-1111), antipapa che seguiva gli altri due: Teodorico (1100-1102) e Alberto (1101). A questo punto Enrico scese in Italia (1110) con un possente esercito contro il quale nulla avrebbero potuto i normanni chiamati in aiuto dal Papa e la ormai vecchia e neutrale Matilde. Con Enrico fuori dalla città di Roma si arrivò ad un Concordato costituito da due trattati: nel primo l’Imperatore rinunciava alle investiture e nel secondo il clero rinunciava ai beni della corona in forza di un decreto papale. Come osserva Gregorovius quel Concordato sembrava fatto tra due banditi. In esso figuravano norme che possono apparire straordinarie come quella che imponeva all’Imperatore di non arrestare il Papa. Dopo la firma di questo Concordato Enrico doveva essere incoronato Imperatore a Roma. Fu però il clero che rifiutò il secondo trattato del Concordato e, nella Chiesa dove doveva avvenire l’incoronazione, Pasquale e vari cardinali furono arrestati. Alla fine di una lunga prigionia e di violenti scontri, con centinaia di morti, Pasquale cedette e firmò una bolla in cui dichiarava decaduti tutti i decreti di Gregorio VII, restituendo di fatto le investiture all’Impero. Dopo di ciò fu liberato il Papa che incoronò frettolosamente Enrico nel 1111, fuori dalle mura. Solo l’anno seguente, 1112, il Concilio Lateranense dichiarò la nullità della concessione delle investiture all’Imperatore e chiese al Papa di scomunicare Enrico V. Questi riuscì a resistere per un poco ma poi, nel 1116, dovette scomunicare Enrico V e poi scappare a Montecassino quando il sovrano rimise piede in Italia. Insomma niente di nuovo, si proseguiva stancamente così da centinaia d’anni, per maggior gloria di Gesù.

        A questo punto (1118) seguirono vari Papi ed Antipapi effimeri e scoloriti fino al 1185 ma con le solite guerre tra famiglie, corruzioni, simonie, nepotismi e quanto altro si voglia aggiungere. Riporto alcune vicende tanto per dare il clima di Roma mentre pellegrini sclzi si battevano per la vera fede in Palestina.

Inizio con il sottolineare che tra questi campioni del Cristianesimo con Papa Callisto II (1119-1124) si addivenne ad un Concordato con Enrico V secondo il quale l’investitura dei vescovi ritornò al Papa ed all’Imperatore restò l’investitura feudale (Concordato di Worms del 1122). Subito dopo, nel Nono Concilio Laterano del 1123, vennero ripristinati tutti i decreti di Gregorio VII e riconfermati tutti i privilegi dei crociati. Il Papa che seguì, Onorio II (1124-1130), fu eletto nel solito modo, così descritto da Rendina:

Già nell’ultimo periodo del pontificato di Callisto II, le due famiglie romane dei Frangipane e dei Pierleoni, che si contendevano la carica civile della prefettura, erano riuscite a infiltrare in seno allo stesso collegio dei cardinali i difensori delle rispettive fazioni, rimettendo quindi in gioco la loro autorità nell’elezione di un pontefice. Il decreto elettorale del 1059 denunciava tutta la sua insufficienza e non era valso ad eliminare l’influenza dell’elemento laico.

 
Alla morte di Callisto Il, la fazione dei Pierleoni riesce a far eleggere il proprio candidato, il cardinale prete Tebaldo Boccadipecora, che assume il nome di Celestino II; ma questi aveva appena accettato la nomina, quando un gruppo della fazione dei Frangipane, guidato dal cardinale Aimerico, entra nel Lateraano e destituisce con la forza il nuovo papa. Questi non ci pensa due volte: si dimette spontaneamente anche perché nello scontro che ne era seguito aveva riportato alcune ferite, in seguito alle quali morirà pochi giorni dopo. I cardinali prendono atto delle sue dimissioni e riconoscono papa il candidato dei Frangipane, Lamberto, vescovo di Ostia, il 15 dicembre del 1124.

 
Lamberto, nativo di un piccolo borgo nei pressi di Imola, Fiagnano, cardinale dal tempo di Pasquale II, compagno d’esilio di Gelasio II, era stato l’esecutore del concordato di Worms, consigliere quindi tra i più abili nella diplomazia pontificia sotto Callisto Il. Egli fu consacrato il 21 dicembre del 1124 con il nome di Onorio II [l’anno successivo moriva Enrico V ed a lui succedeva Lotario II Supplinburger Duca di Sassonia, ndr].

Morto Onorio II, cosa accadde ? Leggiamolo ancora da Rendina:

Alla morte di Onorio Il si rinnova la scontro tra i Pierleoni e i Frangipane; la notte tra il 13 e il 14 febbraio del 1130 è notte di tregenda. Moriva un papa e precipitosamente i sedici cardinali appartenenti alla fazione dei Frangipane guidati dal cardinale Aimerico, eleggevano papa il cardinale Gregorio Papareschi, in una sorta di «conclave» nel chiuso della rocca dei Frangipane, che assumeva il nome di Innocenzo II.

 
Gli altri quattordici cardinali, trovatisi di fronte al fatto compiuto, si rifiutano di riconoscere la validità di quella elezione e, poche ore dopo, riunitisi nella chiesa di San Marco procedono all’elezione del cardinale Pietro Pierleoni, che assume il nome di Anacleto II. La sua elezione è accreditata dall’assenso dato di lì a breve tempo, da alcuni cardinali del gruppo che già aveva eletto Innocenzo II, e in questa modo Anacleto finisce per avere la maggioranza del collegio dei cardinali, con il consenso dei rappresentanti del popolo e di tutta la nobiltà dai Tebaldi agli Stefani.

 
Tuttavia nessuno dei due papi si mostrava incline a rinunciare alla nomina e ambedue ricevono la consacrazione la stesso giorno, il 23 febbraio. Innocenzo in Laterano, rifugiandosi poi in gran fretta nella fortezza dei Frangipane sul Palatino, e Anacleto in San Pietro con tutti gli onori e l’appoggio del popolo lo riconosceva carne sua papa. Roma insomma dava credito, a quanta pare, solo ad Anacleto II e questo grazie al potere di cui i Pierleoni godevano nell’ amministrazione della città; il loro pontefice poteva considerarsi tranquillo, sedere su tutte le cattedre papali delle basiliche cittadine e mettere le mani sul tesoro della Chiesa, mentre Innocenzo II doveva infine darsi alla fuga.

 
In questo scisma apertosi dunque inesorabilmente in seno alla Chiesa di Roma, si evidenziano i difetti di una procedura elettorale, in cui finivano per subentrare interessi non ecclesiastici, perché il collegio dei cardinali era pilotato all’esterno da elementi laici. Peraltro restava da vedere a quale dei due contendenti il mando cristiano avrebbe dato il suo assenso; non era più Roma in fondo a dover decidere, ma gli Stati d’Europa e, purtroppo, non sulla base di motivi strettamente religiosi, ma apertamente politici. In particolare non erano ideali propriamente cristiani a guidare il conflitto dei due contendenti così che, come osserva l’Ullmann, «i discorsi pubblici per conta di ciascun papa si concentrarono su una scambio di ingiurie e di attacchi ripugnanti, e in questi la fazione innocenziana fu particolarmente virulenta, prendendo a bersaglio della sua polemica, con spirito poco cristiano, l’origine ebraica di Anacleto II».

        Tra i contendenti si inserì il teologo francese San Bernardo di Chiaravalle schierandosi dalla parte di Innocenzo e facendolo accettare, a Reims, al Re Ludovico di Francia ed all’Imperatore Lotario II di Germania (seguirono poi Spagna ed Inghilterra). In conseguenza di ciò Innocenzo si impegnò ad incoronare Lotario e, naturalmente scomunicò solennemente Anacleto. Restava il problema di tornare e riprendere Roma, saldamente in mano di Anacleto. Lotario discese in Italia ed altri principi muovevano le loro truppe. Di nuovo scontri, complotti, assedi, finché Innocenzo riuscì ad entrare a Roma (1137) dove trovò un ambiente favorevole grazie alle entrature di San Bernardo. Una coincidenza favorevole che evitò ulteriori problemi fu la morte quasi immediata di Anacleto II (1138). Ma problemi molto gravi caddero su Innocenzo per aver voluto salvare la città di Tivoli dalla distruzione che i romani avevano decretato per la sua rivolta e la ricerca di autonomia da Roma. Il popolo romano insorse con violenza contro il Papa (1143) decretando la fine del potere pontificio su Roma e ristabilendo il potere civile senatoriale nella città. Era una rivolta democratica che, sull’onda di quanto accadeva in varie città italiane del Nord, tentava di costruire una Repubblica nello spirito dei Comuni. Nel settembre dello stesso anno moriva Innocenzo II mentre Lotario II era morto nel 1137 lasciando il trono (1138) a Corrado III della dinastia Hohenstaufen di Svevia.

    Passò un pontificato scialbo, quello di Celestino II (1143-1144), e di seguito un altro privo di significato, quello di Lucio II (1144-1145). Da notare solo che quest’ultimo Papa tentò di attaccare la sede del Senato repubblicano che si era costituito in Campidoglio. Si mise alla testa delle truppe papaline ma Dio non era con lui perché una pietra scagliata dall’alto del Campidoglio lo prese in fronte ammazzandolo. Il Papa che seguì, Eugenio III (1145-1153), fu eletto in Laterano durante questo momento di aspro scontro tra i repubblicani ed i papalini, non riuscì però a recarsi a San Pietro per essere consacrato perché i repubblicani glielo impedirono facendolo scappare da Roma e rifugiare a Viterbo da dove, visto il seguito di tumulti e l’impossibilità di una pacificazione, prese la via della Francia (1147). Da Vetralla, cittadina vicina a Viterbo, nel dicembre del 1145, Eugenio scrisse al Re di Francia Luigi VII inviandogli una bolla, la Quantum praedecessores, con cui si dava il via alla Seconda Crociata (in cambio remissione di tutti i peccati, indulgenza plenaria per il Re e tutta la famiglia). Si era infatti diffusa la notizia che la contea di Edessa nella parte più settentrionale del Medio Oriente (ma anche Antiochia, una delle roccaforti cristiane nella zona) era caduta in mano turca nel dicembre del 1144. Occorreva rimettere in piedi un esercito per riconquistare quel territorio e consolidare quelli già occupati. Aiutò anche questa volta San Bernardo che mise a tacere tutti coloro che credevano che la guerra non spettasse ai cristiani e la croce non dovesse essere trascinata nei massacri. Il teologo elaborò una teoria straordinaria che solo un pazzo che vuole autogiustificarsi è in grado di inventare, quella del malicidio: chi uccide una persona malvagia, quale è chi si oppone a Cristo, non uccide una persona, ma il male che è in lei; dunque egli non è un omicida bensì un malicida e quindi lavora per maggior gloria di Dio. Bernardo non si fermò qui perché predicò con tutte le sue forze la crociata fino a convincere Papa Eugenio. Al richiamo del Papa, che aveva bisogno urgente di diversivi, risposero sia l’Imperatore di Germania Corrado III che il Re di Francia Luigi VII. In teoria doveva essere un esercito con struttura più organizzata di quanto si era visto nella Prima Crociata con la non piccola differenza che questa volta non vi fu la sorpresa della Prima Crociata.

GLI ORDINI CAVALLERESCHI

          Alla fine della Prima Crociata vi fu una sorta di esplosione di un fenomeno nuovo, quello della nascita dei più svariati ordini religioso-cavallereschi che riempirono di sé l’intera storia del XII secolo ed anche molto oltre: Templari, ordine Teutonico, ordine di San Giacomo, ordine dei Portaspada, ordine degli ospedalieri di San Giovanni detto anche dei Gerosolimitani (in seguito diventati Cavalieri di Rodi e quindi Cavalieri di Malta), … Si tratta in gran parte di militari con qualche vezzo religioso, sono cioè più militari che monaci (Bernardo di Chiaravalle li chiamava monaci). Questi ordini, come scrive Hans Prutz nel suo libro Ordini religiosi cavallereschi erano favoriti sia dalla Chiesa che dai Paesi dell’Occidente europeo e non per quanto una persona informata superficialmente possa pensare ma perché si liberano così da una massa di elementi moralmente dubbi e pericolosi, lasciando che moltissimi briganti, profanatori di santuari ed assassini, spergiuri ed adulteri, se ne vadano in Oriente, dove sono ben accolti come soccorritori contro gli infedeli (Prutz citato da Deschner). Credo quindi si debbano discutere questi ordini cavallereschi non per quanto la vulgata ci tramanda, eroi dediti alla fede per la quale erano pronti a sacrificare la vita, ma per le loro azioni.

          Lo studio, anche solo succinto, della storia di questi ordini sarebbe di una estensione non compatibile con le finalità del mio lavoro. Mi limiterò quindi a studiare uno o due ordini, e non oltre l’epoca delle crociate, citando qua e là, dove necessario, gli altri.

          In linea di massima gli ordini religioso-cavallereschi nascevano come strutture permanenti di sostegno a pellegrini e crociati. Ciò discendeva da una peculiarità sia dei pellegrini che dei crociati(1): la massima parte di costoro si recava in Terra Santa per un periodo più o meno breve ma comunque limitato. Il ritorno in Europa, specialmente in determinati periodi, lasciava quelle terre del tutto prive di strutture operanti con continuità e di personale che conoscesse la zona, la lingua, i costumi e tutto ciò che sarebbe stato utile conoscere. Due erano le esigenze primarie: l’assistenza medica e la protezione da attacchi, diciamo, di banditi che depredavano ogni incauto. Ma non vi sarebbe stato nessun ordine di alcun tipo se dietro non vi fossero stati dei finanziamenti provenienti da donazioni, a volte molto cospicue e quindi occorreva anche che qualche ordine si occupasse di raccogliere fondi e canalizzarli opportunamente. Occorre comunque dire cha anche prima delle crociate esisteva una qualche organizzazione benefica di sostegno ai pellegrini, in generale creata e/o affidata a monaci come i benedettini. Questi ultimi avevano una sede a Gerusalemme, la Chiesa di Santa Maria Latina vicina al Santo Sepolcro, sede che funzionava come un ospedale gestito da un laico, frate Gerardo Sasso l’Ospedaliero. Come tutti gli altri cristiani, i benedettini furono cacciati da Gerusalemme quando fu attaccata dai crociati. Al loro ritorno si trovarono con la situazione mutata: da una parte i bisognosi di assistenza medica erano ora in quantità precedentemente inimmaginabile e dall’altra la città era ora gestita in termini religiosi da un Patriarca e vari canonici. Già Papa Urbano II, fin dal Concilio di Clermont, aveva iniziato a raccogliere donazioni per costruire anche a Gerusalemme un ospizio-ospedale indipendente che sostenesse i crociati e frate Gerardo, dopo la conquista della città, si impegnò in questa grande costruzione che aggregò alla Chiesa di San Giovanni Battista e svincolò dalla tutela benedettina (il successore di frate Gerardo, Raymond du Puy de Provence, inaugurò la prima infermeria dell’Ordine nei pressi del Santo Sepolcro). Fu Papa Pasquale II, successore di Urbano II, che il 15 febbraio del 1113, con la Bolla Pie postulatio voluntatis, riconobbe tale struttura ospedaliera, l’Ospedale, la mise alle sue dirette dipendenze, approvando l’Ordine ospedaliero del Santo Sepolcro. San Giovanni Battista fu riconosciuto ufficialmente come patrono dell’Ordine e la regola benedettina fu sostituita da quella Agostiniana (con questo atto il Patriarca di Gerusalemme dava il rango di canonici regolari a coloro che gestivano l’Ospedale). Nel contempo lo stesso Papa, nel 1112, riconfermava l’opera della abbazia benedettina di Santa Maria Latina, decretando con ciò la rottura tra le due entità. Queste vicende non sono storicamente molto chiare così come ci racconta Demurger:

I canonici del Santo Sepolcro sono ancora (fino al 1114) canonici secolari. I rapporti tra i fratelli dell’Ospedale di Gerardo e i canonici non sono rapporti di dipendenza. Gli ospedalieri sono laici; fino al 1099 hanno seguito gli uffici religiosi dei monaci-chièrici di Santa Maria Latina; dopo il 1100, essi chiedono ai canonici del Santo Sepolcro di celebrare gli uffici religiosi nella loro chiesa di San Giovanni Battista. Questa vicinanza, motivo di confusione, spiega l’ambiguità della formulazione delle carte di donazione in Occidente nei primissimi anni del XII secolo. I donatori si rivolgono indifferentemente a Dio, al Santo Sepolcro, a San Giovanni o all’Ospedale di Gerusalemme. […]

Nel 1113 l’Ospedale è riconosciuto come ordine caritatevole internazionale, indipendente dai benedettini ma anche dai canonici del Santo Sepolcro. Non è per nulla un ordine militare, ma ci si è posti la domanda se non esistessero già cavalieri legati all’Ospedale e se non ci fossero armi e cavalli. I fratelli dell’Ospedale non si accontentavano di dare ospitalità ai pellegrini; ormai li accompagnavano lungo i sentieri e li difendevano con le armi(2). Ancora una volta siamo di fronte a un’ambiguità: per scioglierla occorre ritornare al Santo Sepolcro.

Nel 1112-1114 le cose si chiariscono. Nel 1112 il papa conferma l’abbazia benedettina di Santa Maria Latina e le sue abitudini, consumando in tal modo la rottura con l’Ospedale, avvenuta probabilmente già a partire dal 1100; nel 1113 l’Ospedale, come abbiamo visto, diventa indipendente; e nel 1114 il patriarca di Gerusalemme dà ai canonici del Santo Sepolcro la regola di sant’Agostino, facendone così una comunità di canonici regolari. Papa Callisto II lo conferma nel 1122. La funzione liturgica e la funzione caritatevole ormai erano chiaramente identificate in due organizzazioni religiose internazionali, l’ordine dei canonici regolari del Santo Sepolcro e l’ordine dell’Ospedale.

Uomini d’armi gravitano nell’orbita del Santo Sepolcro e formano una sorta di confraternita di laici, o di terz’ ordine, unita ai canonici. Albert d’Aix segnala che nel 1101 il patriarca aveva assoldato, senza dubbio tra i crociati rimasti sul posto, trenta cavalieri per difendere il Santo Sepolcro – vale a dire le mura, il sito e i beni (che provenivano da donazioni di Goffredo di Buglione e di Baldovino I). Non si tratta di un ordine militare. Sono cavalieri al servizio del Santo Sepolcro, come esistevano cavalieri al servizio di San Pietro a Roma. Essi sono sotto la tutela dei canonici e del loro priore (e non di un decano, termine usato solitamente) ed è probabilmente tra loro che si reclutarono i primi templari(3).

          Da questo scritto risulta bene come i vari ordini siano nati, dapprima intrecciandosi tra loro, quindi specializzandosi. In particolare gli Ospedalieri adottarono addirittura i codici di comportamento militari dei Templari.

          I Templari o meglio i Pauperes commilitones Christi templique Salomonis (Poveri compagni d’armi di Cristo e del Tempio di Salomone) nacquero invece su iniziativa di Hugues de Payns. In una antica Cronaca del XIII secolo redatta da uno scudiero che combatté a Gerusalemme, tal Ernoul, e che sembra il seguito di un’altra Cronaca, quella di Guglielmo di Tiro, leggiamo questo passo relativo alla nascita dei Templari:                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    

Quando i cristiani ebbero conquistato Gerusalemme, un numero significativo di cavalieri si consacrò al tempio del Sepolcro e molti vi si consacrarono in seguito, giunti da ogni parte. Ed essi obbedivano al priore del Sepolcro. Vi furono valorosi cavalieri tra i consacrati (nel senso di donati, che si sono donati come confratelli, o altrimenti, al Santo Sepolcro): Questi discussero tra loro e dissero: «Abbiamo lasciato le nostre terre e i nostri amici e siamo venuti qui per innalzare e esaltare la legge di Dio. E ci siamo fermati qui a bere e a mangiare e a sperperare senza far nulla. Non agiamo, né compiamo gesta militari, anche se ce n’è bisogno ovunque. E obbediamo a un prete e non compiamo gesta militari. Discutiamo e eleggiamo uno di noi Maestro, congedando il nostro priore, che ci condurrà in battaglia quando sarà necessario.

Commenta Demurger:

Se diamo credito al testo, coloro che avrebbero fondato l’ordine del Tempio provenivano dall’ambiente dei milites sancti Sepuleri; erano assoldati dai canonici per essere al loro servizio. Tra loro, anche se Ernoul non cita nessuno per nome, figurava molto probabilmente Hugues de Payns, signore di Montigny en Champagne. […]

Abbiamo motivo di pensare che i cavalieri legati al Santo Sepolcro fossero ospitati nel vicino Ospedale. Ernoul infatti scrive che, una volta ottenuta l’indipendenza dei cavalieri, «l’Ospedale rifiutò il Tempio e gli diede i suoi avanzi e l’insegna che è detta l’insegna del Baucent». Effettivamente, i templari hanno percepito dagli ospedalieri l’elemosina, o i resti della loro tavola (gli avanzi del testo di Ernoul), fino al XIII secolo. […] Aubri des Trois-Fontaines, prima del 1241, scrive che «desta meraviglia che l’ordine della cavalleria del Tempio prenda l’elemosina dei fratelli dell’Ospedale».

Un gruppo di cavalieri, dunque, ha spezzato i vincoli che li univano ai canonici del Santo Sepolcro e, al tempo stesso, al loro «albergatore», l’Ospedale. Il re e il patriarca hanno approvato; il priore del Santo Sepolcro, direttamente interessato, ha accettato. Questi cavalieri hanno formato un gruppo indipendente di religiosi laici sottomessi ai voti monastici di obbedienza, castità e povertà con la volontà di proteggere i pellegrini e difendere la Terra Santa con le armi. Dopo i canonici divenuti canonici regolari, dopo gli ospedalieri di San Giovanni, i templari, come saranno chiamati, si sono a loro volta emancipati dal «consorzio agostiniano» di Gerusalemme.

Se accettiamo questa ricostruzione, segue Demurger:

si può pensare che intorno all’idea di aiuto ai pellegrini e alla Terra Santa si siano formati tre ordini religiosi, ciascuno specializzato in una propria funzione: liturgica per i canonici, caritatevole per gli ospedalieri, militare per i templari. L’Ospedale è riconosciuto nel 1113, i canonici nel 1114. Il Tempio, invece, è fondato nel 1120, ma è riconosciuto solo nel 1129. La questione infatti era assai complessa, perché si trattava di accettare un ordine di religiosi combattenti. Una vera novità per l’epoca.

Una esaltazione di questi soldati di Cristo verrà, come no !, da San Bernardo di Chiaravalle che scriverà in loro onore il suo De laude novae militiae. I loro fini erano così clamorosamente comprensibili (la difesa del Sepolcro e del Tempio di Salomone !) che ricevettero donazioni gigantesche e l’adesione di molti nobili europei. E, proprio nel 1129, i Templari parteciparono autonomamente alla loro prima battaglia. mentre nel 1139 passarono alla diretta autorità papale. Questi autorevolissimi riconoscimenti fecero assegnare sia ai Templari che agli Ospedalieri una catena di castelli fortificati che servivano per controllare gran parte delle vie più trafficate del regno di Gerusalemme: nel 1136 il Castello di Bethgibelin, nel 1142 il Castello del Krak des Chevaliers e, dopo il 1149, il Castello di Casal des Plains, di Toron des Chevaliers, di Chastel Arnoul, di Montréal e così via (i castelli erano tra loro collegati visivamente e con piccioni viaggiatori). Insomma questi Ordini assumevano pian piano il ruolo di esercito permanente del Regno di Gerusalemme e proprio le donazioni di castelli e terre mostravano che erano generalmente apprezzati. Occorre però dire che questo esercito permanente era assolutamente insufficiente a garantire la difesa di quel Regno. Da quando si era sciolto l’insieme degli eserciti della Prima Crociata nessun esercito riuscì mai ad essere sufficiente.

Alcuni Krak in Terra Santa

A proposito delle ricchezze accumulate da questi ordini vi è un passo di Deschner che merita di essere citato:

Come i Gerosolimitani, anche “i poveri Cavalieri di Cristo e del Tempio di Salomone” divennero assai rapidamente ed enormemente ricchi attraverso diritti speciali, donazioni e rapine. Le loro filiali nell’Europa occidentale si applicarono a far profitti in molteplici forme, puntando più di tutto sui grandi latifondi in via di espansione, specializzandosi in transazioni finanziarie, nello sfruttamento dei mulini non meno che nei profitti delle fiere commerciali. Erano gli esperti pecuniari per pellegrini facoltosi, per chierici e aristocratici. Regolavano il traffico dei pagamenti di privati e amministravano il tesoro dei principi, segnatamente quelli dei re di Francia e d’Inghilterra. In Terrasanta, tuttavia, nessun signore cristiano, nemmeno il re, poteva fare affidamento su di loro. Perché già nel XII secolo essi perseguivano i loro privati interessi altamente egoistici, a scapito di tutti gli Stati crociati.

Questo spirito evangelico-economico fece sì che i Templari si trovarono in lotta con i Gerosolimitani per ragioni economiche relative alla riscossione delle tasse ed al commercio dei privilegi. Si scontrarono anche militarmente in situazioni in cui i templari si allearono con i musulmani per meglio contrastare i Gerosolimitani.

LA MARCIA DELLA SECONDA CROCIATA

          La sera di Natale del 1144 il governatore di Aleppo e Mosul, Imadaddin Zangi, uno dei più grandi condottieri del suo tempo, assalì Edessa e, dopo un assedio di 4 settimane, la conquistò. La Regina Melisenda di Gerusalemme, moglie del Re Baldovino II morto nel 1131, aveva inviato a sostegno del Conte Joscelin II di Edessa un esercito al comando di Manasse il Conestabile mentre Raimondo di Antiochia si era rifiutato di fornire qualsiasi aiuto. L’esercito di Matilde non fece in tempo ad arrivare e ciò fece finire la storia dell’effimera Contea. Il governatore di Mosul divenne un importante simbolo per i musulmani e la perdita di quel grande territorio per la cristianità fece versare lacrime a tutta Europa.

          Zangi fu assassinato, sembra da uno schiavo, il 14 settembre del 1146. I cristiani approfittarono dell’evento per attaccare in forze Edessa. Questa volta fu il figlio di Zangi, Nurradin, ad annientare l’esercito cristiano. Tutti i franchi di Edessa furono fatti uccidere, compreso l’arcivescovo ed i chierici della Chiesa di Roma. Furono solo risparmiati i cristiani siriani, armeni, greci e giacobiti. Costoro non seppero apprezzare il gesto e tentarono una rivolta. Questa volta Nurradin si vendicò uccidendone alcuni, cacciandone degli altri e riducendo in schiavitù gli ultimi.

          Appena a Gerusalemme si seppe di questo evento la Regina Melisenda si consultò con Antiochia per inviare immediatamente la notizia a Papa Eugenio III e richiedere l’indizione di una nuova crociata. Fu inviato come ambasciatore Ugo, il vescovo latino di Jabala (città del Principato di Antiochia vicina a Margat della Contea di Tripoli). Il Papa in Italia era in una situazione disastrata ed a Roma gli era impedito di entrare perché la città era divenuta Repubblicana, ma aveva ascendente sul Re di Francia Luigi VII, ritornato ad essere un buon cristiano dopo le dispute con il Papa, e sul Re di Germania Corrado III di Hohenstaufen. Il Papa ricevette Ugo a Viterbo e da questa città iniziò a convincere i sovrani a lui fedeli di mettere insieme un esercito per una Seconda Crociata. Il 1° dicembre del 1145 inviò la bolla Quantum praedecessores al Re di Francia ed a tutti i Principi di quella terra a lui fedeli in cui chiedeva la creazione di un esercito che partisse per la Terra Santa a difesa della cristianità contro gli infedeli. Il Re di Francia, dopo una prima assemblea in cui chiese ai vari principi di partecipare ma con scarso successo, convocò una seconda assemblea a Vézélay (Borgogna) per il 31 marzo 1146, dove chiamò all’opera di convincimento San Bernardo che non deluse arruolando tutti i presenti, molti nobili di alto rango, altri di rango inferiore, vari vescovi ed una gran quantità di persone umili. San Bernardo allora si mosse a comiziare per la Borgogna, la Lorena e le Fiandre raccogliendo una gran quantità di adesioni. Ma proprio mentre era in Fiandra, Bernardo ricevette un messaggio urgente e preoccupato dal vescovo di Colonia: il fervore per l’annunciata crociata stava facendo ammazzare gli ebrei della città. Bernardo doveva intervenire in Renania per fermare la strage. Tutto era cominciato in Francia con l’abate di Cluny, Pietro il Venerabile, che aveva denunciato con grande forza e scandalo il fatto che gli ebrei non pagavano la tassa per la liberazione della Terra Santa. Questa protesta assunse in Renania una forma molto più criminale per le predicazioni del monaco cistercense Radulfo che percorse Francia e Germania predicando contro gli ebrei che hanno crocefisso Gesù esortando i crociati a sterminarli prima di combattere i musulmani perché i veri primi nemici li abbiamo intorno a noi. Gli ebrei, accusati di omicidio rituale(5), vennero massacrati nelle città renane, in Baviera e in Carinzia(4): a Colonia, Magonza, Worms, Spira e Strasburgo. Particolarmente efferate furono le stragi di Würzburg del 1147 e di Colonia del 1150. A Radulfo si oppose Bernardo di Chiaravalle che, intervenuto dalle Fiandre, spiegò che gli ebrei non vanno uccisi ma solo cacciati, cacciati da ogni luogo(5).

Già che si trovava in Germania Bernardo ritenne che anche i tedeschi dovessero partecipare alla crociata e quindi con il solito fervore iniziò una predicazione a tappeto nella quale inventò un bestialità teologica, quella del malicidio, come prosecuzione dell’altra idiozia, questa volta di Sant’Agostino, quella di Guerra Giusta. Secondo Bernardo non si pecca se si uccidono dei malvagi, quindi anche degli infedeli (Sane cum occidit malefactorem, non homicida, sed, ut ita dixerim, malicida, et plane Christi vindex in his qui male agunt, et defensor Christianorum reputatur). Secondo Bernardo il Cavaliere di Cristo uccide in piena coscienza e muore tranquillo: morendo si salva, uccidendo lavora per il Crisot […], egli  è strumento di Dio per la punizione dei malfattori e per la difesa dei giusti. Invero, quando egli uccide un malfattore, non commette omicidi, ma malicidio, e può essere considerato il carnefice autorizzato di Cristo contro i malvagi.

La predicazione convinse molti tedeschi che l’estrema miseria trasformava in portatori di esaltazione mistica a partecipare ed anche il Re Corrado III di Hohenstaufen, in una situazione precaria per varie lotte intestine tanto da non essere mai incoronato, si convinse dopo aver ascoltato Bernardo a Spira nel dicembre del 1146.

Mentre accadeva questo, il Papa in Italia se ne fregava delle sorti della cristianità pensando prima di tutto alle sue. Egli era ancora a Viterbo e Roma era sempre più repubblicana con al potere Arnaldo da Brescia. Il Papa Eugenio accolse quindi con molta freddezza e fastidio le notizie sulla predicazione di Bernardo in Germania. Egli aveva pensato ad una crociata solo francese e solo a Luigi di Francia aveva inviato la sua bolla. Ora Bernardo gli aveva modificato i piani rendendo la crociata un fatto internazionale che gli sottraeva l’aiuto di Corrado (la motivazione ufficiale del disaccordo papale era che due Re alla testa della crociata potevano farla fallire per incomprensioni e gelosie).

E, mentre si progettava la partenza della crociata franco-tedesca che avrebbe fatto un percorso via terra, un altro piccolo esercito, convinto dalla predicazione di Bernardo, sceglieva la via del mare: si trattava di inglesi, alcuni fiamminghi e molti tedeschi del nord (frisoni). Le navi salparono dall’Inghilterra a fine primavera del 1147 ma a giugno una tempesta le costrinse a ripararsi alla foce del Duero in Portogallo dove restarono per attaccare via mare i musulmani che occupavano Lisbona. L’assedio di questa città durò fino ad ottobre (con un massacro di musulmani fatto dai crociati delle Fiandre e della Germania del Nord) ed alla sua fine molti crociati decisero di restare in Portogallo, privando la Terra Santa di una flotta che sarebbe stata di grande utilità.

I crociati franco-tedeschi, nel frattempo, ebbero l’offerta del Normanno Ruggero di Sicilia di essere trasportati con la sua flotta. Sia il Re di Francia sia quello di Germania sia il Papa, per una serie di contrasti avuti nel passato, rifiutarono decisamente l’offerta ed anche la presenza di Ruggero nella Crociata.

Re Corrado partì da Ratisbona sul finire di maggio del 1147, con due Re vassalli, quello di Boemia e quello di Polonia, con vari rappresentanti della nobiltà guidati da Federico di Svevia, con importanti vescovi tra cui Stefano di Metz ed Enrico di Toul, con un imponente esercito di circa 70 mila uomini (che soffriva di vari attriti interni tra tedeschi, slavi e lorenesi e che Corrado non era in grado di controllare tanto da delegare a Federico, che era energico ma privo di esperienza, il comando).

Prima di partire, comunque, i Principi crociati si misero in contatto con l’Imperatore bizantino, Manuele I Comneno(6), per chiedere il permesso di passaggio e di libero mercato per la durata del viaggio, per accordarsi su percorsi, logistica e sostegni vari tra cui l’indispensabile vettovagliamento. L’Imperatore Manuele pretese precise garanzie date con un giuramento solenne.

          L’esercito tedesco, che anticipava quello francese di un mese, attraversò l’Ungheria, entrò in territorio bizantino (20 luglio) con l’aiuto dei traghetti di Bisanzio per attraversare il Danubio, ricevette aiuti alimentari dal governatore della provincia di Bulgaria.  Dopo il passaggio per Sofia, fin lì senza incidenti,  i soldati crociati si scatenarono nelle solite scorrerie, razzie, saccheggi trucidando chi reclamava per questi comportamenti. Altri gravi incidenti, che Corrado affermò di non riuscire a contrastare, avvennero a Filippopoli dove un prestigiatore locale venne accusato di stregoneria dagli evoluti cristiani con la conseguenza che la città, quella fuori le mura, fu attaccata ed incendiata. L’intervento del vescovo della città costrinse Corrado a punire i responsabili. L’Imperatore Manuele si allarmò per questi avvenimenti e mandò dei soldati per scortare i crociati. Ciò peggiorò la situazione con continui scontri tra i crociati ed i bizantini. Questi ulteriori sviluppi indussero Manuele a intimare a Corrado l’attraversamento del Mare verso l’Asia non a Costantinopoli attraverso il Bosforo ma a Sestos in Tracia, attraverso i Dardanelli. Corrado non accettò e Manuele stava per muovere il suo esercito quando, all’ultimo momento, rinunciò allo scontro inevitabile.

Quando ancora i crociati si trovavano in Tracia venne il castigo divino (non saprei come altro chiamarlo). Una inondazione travolse il loro accampamento facendo annegare molti crociati e disperdendo beni, armi e viveri. Solo Federico ed il suo distaccamento uscì quasi indenne perché accampato in una altura. Finalmente, il 10 settembre, questo esercito raggiunse Costantinopoli.

Un mese dopo, l’8 giugno, prendeva la marcia l’esercito francese (con un contingente analogo a quello tedesco) al comando del Re da Saint-Denis (da notare che il Re di Francia si portava dietro la moglie Eleonora d’Aquitania nipote del Principe di Antiochia, si portava figli, parenti e parte della corte. Analogamente altri nobili portarono le famiglie son sé). Si sarebbero incontrati con i vassalli a Metz da dove presero la marcia attraverso la Baviera. A Ratisbona incontrarono gli ambasciatori di Manuele che chiesero garanzie a Luigi che le dette con qualche problema sulla cessione dei territori conquistati all’Impero. Con una marcia senza incidenti l’esercito francese giunse alla frontiera bizantina, attraverso l’Ungheria, ad agosto. Attraversarono i territori bizantini con la stessa richiesta di Manuele, il passare attraverso i Dardanelli. Anche qui la richiesta non fu accolta e anche Luigi arrivò a Costantinopoli. Quando i due eserciti si ricongiunsero, poiché i francesi avevano sofferto la fame a causa del passaggio anticipato dei tedeschi, i primi chiesero ai secondi di condividere parte dei viveri. Il rifiuto netto fece iniziare violenti dissapori tra i due eserciti.

LA SECONDA CROCIATA

          Quando giunse all’Imperatore Manuele notizia della Seconda Crociata egli era impegnato in gravi problemi: da una parte  le continue aggressioni che i bizantini subìvano in Anatolia da bande turche; dall’altra le razzie di predoni turchi che attaccavano dovunque evitando le fortezze e l’esercito bizantino. Manuele aveva in mente un piano di difesa basato su una serie di fortificazioni in contatto tra loro, una sorta di frontiera ben delimitata, che avrebbe  impedito tutto ciò.

          Sembrava intanto che una serie di eventi stessero debilitando i musulmani. L’emiro danishmend Mohammed ibn Ghazi, il più potente principe musulmano, era morto nel 1141. La sua morte comportò guerre civili per la successione tra figli e fratelli con il risultato che nel 1142 l’emirato era diviso in tre parti. Da questa divisione parve al sultano selgiuchida di Iconio, Masud, di poter estendere la sua egemonia su tutta l’Anatolia e quindi invase vaste zone danishmend estendendo il suo potere fino al fiume Eufrate. Spaventati da quanto stava accadendo i fratelli di ibn Ghazi, Yakub Arslan e Ain ed-Daulat, ai quali era toccata nella divisione le zone di Sivas e Melitene, chiesero aiuto ai bizantini stipulando con loro una alleanza contro Masud, e rendendosi vassalli di Bisanzio. A questo punto Manuele doveva preoccuparsi principalmente di Masud i cui contingenti si spingevano a fare attacchi e razzie sulla strada di Nicea e Dorileo. Manuele attaccò e respinse i musulmani ma dovette tornare a Costantinopoli per il suo cagionevole stato di salute.

Situazione dell’Asia Minore intorno all’anno 1140 (da Wikipedia)

          Nel 1143 Masud attaccò ancora l’Impero conquistando sia la piccola fortezza di Pracana (Isauria, regione che si trova a settentrione della catena del Tauro, a sud di Iconio) che però serviva a bloccare la via per la Siria, sia la valle del Meandro (in una zona sud occidentale dell’Anatolia) quasi fino al mare. Manuele decise allora di intervenire contro Masud e lo fece assediando per qualche mese Iconio da dove Masud era partito in fretta per cercare rinforzi. Ad un certo punto comunque Manuele si ritirò forse avendo avuto qualche notizia o relativa al ritorno di Masud con rinforzi o dell’arrivo dei crociati a Costantinopoli. Comunque, anche senza conoscere vari dettagli, Manuele preferì firmare una tregua con Masud, tregua con la quale Masud restituiva a Bisanzio le recentissime conquiste. I crociati in arrivo seppero di questa tregua e sbraitarono contro Manuele che avrebbe tradito la cristianità ma Manuele si era comportato saggiamente perché, se è vero che una guerra aperta con i turchi avrebbe facilitato il passaggio dei crociati, è altrettanto vero che l’Impero si sarebbe debilitato definitivamente con, tra l’altro, il pericolo che fosse assaltato proprio da Corrado che, oltre al comportamento indegno dei suoi soldati nei Balcani ed al rifiuto di passare attraverso i Dardanelli, aveva sostenuto ciò prima si sapesse della tregua tra Manuele e Masud. Vi era inoltre un altro problema che si presentava a Manuele, una possibile vicina guerra con i normanni i Ruggero di Sicilia.

          I timori di Manuele su Corrado non erano infondati. Quando questi arrivò a Costantinopoli ebbe come residenza un palazzo reale che, dopo qualche giorno risultò distrutto da saccheggi vari. A questo punto Corrado si trasferì in altro palazzo ma i suoi soldati non si trattennero da violenze e saccheggi di ogni tipo. Dovette intervenire l’esercito bizantino con rischi di scontri molto duri. Si riuscì a rimediare quando si seppe che i francesi stavano arrivando. A questo punto i tedeschi attraversarono il Bosforo ed arrivarono a Calcedonia, in Asia, dove Corrado chiese delle guide a Manuele perché lo accompagnassero attraverso l’Anatolia. Manuele diede delle guide al comando del varego (vichingo) Stefano, consigliò di non tagliare in linea retta l’Anatolia ma di mantenersi su strade costiere e consigliò di rimandare indietro i pellegrini non combattenti perché avrebbero appesantito la marcia e consumato viveri inutilmente. Corrado, da buon tedesco, fece di testa sua e non badò a questi preziosi consigli dirigendosi subito verso Nicea. Arrivato in questa città suddivise in due la sua crociata: i non combattenti al comando di Ottone di Frisinga avrebbero percorso la via costiera mentre l’esercito di soldati al suo comando avrebbe fatto il medesimo cammino della Prima Crociata attraverso strade interne. L’esercito di Corrado partì da Nicea il 15 ottobre e marciò senza problemi e ben alimentato per 8 giorni, quelli in cui si muovevano in territorio bizantino. Poi entrarono in territorio turco senza provviste d’acqua fermandosi per ristorarsi vicino ad un piccolo fiume, il Bathys, nei pressi di Dorileo, nel luogo dove vi era stata la grande vittoria contro i turchi della Prima Crociata. Quando tutti erano stanchi ed assetati, quando i cavalieri erano scesi da cavallo per bere e far bere i cavalli, quando vi era un gran disordine tra i soldati, furono attaccati con estrema durezza dai turchi selgiuchidi. Dice Runciman che fu un massacro invece di una battaglia, con i cavalieri turchi che attaccavano ripetutamente ed agilmente facendo stragi. Corrado a sera riuscì a malapena a mettersi in salvo fuggendo verso Nicea che raggiunsero ai primi di novembre, avendo perso i nove decimi del suo esercito e tutte le attrezzature.

          Intanto i francesi erano arrivati a Costantinopoli il 4 ottobre. Dopo una breve permanenza in città, avevano attraversato il Bosforo approdando a Calcedonia da dove erano arrivati a Nicea i primi di novembre. Qui, tramite Federico di Svevia, arrivò la notizia del massacro che aveva subito l’esercito di Corrado. Federico chiese a Luigi di unirsi ai resti dell’esercito di Corrado e Luigi acconsentì. Insieme i due Re decisero di seguire la strada costiera. Qui si invertirono i problemi che si erano avuti prima di arrivare a Costantinopoli. Erano ora i francesi che avevano scorte di viveri mentre i tedeschi ne erano privi. Al rifiuto dei francesi di alimentare i tedeschi, questi ultimi si dettero al saccheggio di ogni cosa che incontravano con la reazione dell’esercito bizantino che li attaccò facendoli desistere. Furono i francesi a fare da pacieri. Intanto tutti i pellegrini non combattenti decisero di ritornare indietro verso Costantinopoli e di loro non si è mai saputo cosa sia successo.

          I due eserciti decisero di marciare vicini alla costa per poter usufruire del sostegno della flotta imperiale e, attraverso Pergamo e Smirne, giunsero ad Efeso dove Corrado mostrò di essere molto malato tanto da ritornare a Costantinopoli. Qui, con le attente cure di Manuele, Corrado si riprese e, nel marzo 1148, una flotta bizantina lo trasportò in Palestina.

          I francesi seguivano la loro marcia lungo la costa dove ricevettero consigli da Manuele di non ingaggiare battaglie con i turchi e dove avvertirono lo stesso Luigi che l’Imperatore non poteva opporsi alle giuste ritorsioni dei suoi sudditi contro i vandalismi ed i saccheggi dei francesi. Dal momento dell’arrivo a Decervium nella Valle del Meandro, appena lasciata Efeso, i turchi iniziarono a farsi vedere e ad attaccare avanguardie e retroguardie crociate. Poi, al ponte sul fiume nelle vicinanze di Antiochia in Pisidia, vi fu l’attacco (intorno al 1° gennaio 1148). I crociati francesi riuscirono a respingere questo attacco ed i musulmani si ritirarono rifugiandosi in una città fortificata bizantina, incomprensibilmente priva di difese.

Nella carta è riportato il tragitto delle Prima Crociata dove si ritrovano molte delle città ora citate.

Città dell’Anatolia

          I francesi ripresero la marcia e tre giorni dopo furono a Laodicea. Qui trovarono la città deserta perché gli abitanti erano fuggiti, vista la fama che i crociati avevano, portando con sé ogni provvista commestibile. I rifornimenti erano molto importanti visto che ora avevano davanti una tappa molto faticosa che li avrebbe portati a d Attalia. Racimolati i viveri che riuscirono a saccheggiare, superati i monti che separavano dal mare (con la paura che serpeggiava per la gran quantità di cadaveri di tedeschi incontrata lungo il cammino), proprio dove iniziava la discesa al mare l’avanguardia disobbedì non aspettando alla sommità del passo e perdendo quindi contatto con il grosso dell’esercito. Fu a questo punto che i turchi attaccarono e solo la notte salvò dal completo disastro che fu comunque molto pesante. Da qui in avanti vi era pianura ed i turchi non osarono attaccare in campo aperto di modo che i crociati giunsero ad Attalia i primi giorni di febbraio. Il governatore della città imperiale era un italiano di nome Landolfo che si mise a completa disposizione di Luigi ma Attalia era una piccola città, le riserve invernali stavano finendo anche perché i tedeschi, in precedenza, avevano fatto man bassa. Luigi chiese allora a Landolfo di mettergli insieme delle navi per poter proseguire via mare. Ma questo compito era difficile per quel piccolo porto e comunque ci sarebbe voluto del tempo. I crociati si accamparono in attesa ed ancora una volta furono attaccati dai turchi riuscendo ancora a respingere l’attacco. Arrivarono le navi ma erano poche e Luigi decise di imbarcare, oltre se stesso, la sua corte e la cavalleria, lasciando quindi fanteria e tutto il resto di pellegrini, per far vela verso San Simeone dove arrivò il 19 marzo. La parte rimanente restò ad Attalia al comando di Thierry di Fiandra e Arcibaldo di Borbone che attesero altre navi. Arrivarono ed erano ancora poche cosicché i due comandanti seguirono l’esempio del loro Re: imbarcarono se stessi ed i soldati più validi rimasti lasciando indietro tutti gli altri. E questi ultimi iniziarono una straziante marcia attraverso la Cilicia che li portò ad Antiochia in meno della metà in primavera inoltrata.

          Prima di passare all’epilogo di questa Seconda Crociata occorre dire due parole su come fu raccontata dai cronisti ufficiali al seguito di Luigi VII. La colpa dei disastri fu tutta data, a parte qualche piccola manchevolezza, ai bizantini e ciò è una vera falsificazione. In epoca medievale avere un Impero, per quanto organizzato come quello bizantino, che fosse in grado di alimentare eserciti così grandi per vari mesi se non anni, era pura follia. Il fatto che i viveri dovevano essere pagati cari era conseguenza della loro scarsità e ciò non esclude che vari imbroglioni vi siano stati. Le razzie ed i saccheggi continui noj iautarono nella simpatia verso i crociati. La vicenda di Landolfo è emblematica: come è pensabile che in un piccolo porto ed in inverno vi siano navi in grado di imbarcare une esercito ? Runciman conclude queste considerazioni con parole del tutto condivisibili:

La responsabilità principale per i disastri che accaddero ai crociati in Anatolia deve essere attribuita alla loro propria stoltezza. In realtà l’imperatore avrebbe potuto fare di più per aiutarli, ma soltanto con grave rischio per il suo Impero. Ma il vero problema è più profondo: gli interessi più autentici della cristianità richiedevano che ci fossero di tanto in tanto eroiche spedizioni verso l’Oriente, condotte da una mescolanza di stolti idealisti e di rozzi avventurieri, per soccorrere uno Stato intruso la cui esistenza dipendeva dalla disunione dei musulmani? O era preferibile che Bisanzio, per tanto tempo custode della frontiera orientale, potesse continuare ad adempiere quella funzione, senza esserne impedita dall’Occidente? La storia della seconda crociata mostra ancora più chiaramente della prima quanto le due politiche fossero incompatibili. Quale delle due fosse giusta lo si sarebbe visto in seguito, con la caduta di Costantinopoli e i turchi minacciosi alle porte di Vienna.

Arrivato Luigi a San Simeone, fu scorato con tutti gli onori ad Antiochia dove vi furono lunghi e lussuosi festeggiamenti. Dopo qualche tempo il principe di Antiochia, Raimondo prospettò dei piani di azione contro gli infedeli ed in particolare contro Nurendin che nell’autunno del 1147 aveva ormai occupato vasti territori e premeva ai confini del Principato. Con la cavalleria di Luigi sarebbe stato possibile pensare di attaccare i musulmani che avevano base ad Aleppo. Ma Luigi non accettò quanto gli veniva proposto affermando che il suo voto di crociato era quello di andare a Gerusalemme. I principi franchi non condividevano ed anche il Conte Joscelin di Edessa sperava che i franchi si sarebbero uniti per liberare la Contea. Anche Raimondo di Tripoli spingeva per poter riconquistare alcuni territori persi. Mentre Luigi era titubante sul da farsi arrivò il Patriarca di Gerusalemme in persona inviato dalle massime autorità della città per informare Luigi che Corrado era già arrivato. La regina Eleonora di Francia, che era molto più intelligente del marito, capì che quando gli proponeva suo zio Raimondo di Antiochia era la cosa più saggia da fare. Ma quando espresse il suo parere Luigi fu preso da folle gelosia perché sua moglie Eleonora frequentava troppo Raimondo ed i rapporti non sembravano quelli di zio e nipote. Luigi decise di partire improvvisamente per Gerusalemme ma Eleonora disse che sarebbe restata ad Antiochia ed avrebbe divorziato. Luigi la trascinò con la forza verso il suo esercito che stava partendo.

Luigi fu accolto a Gerusalemme verso la metà di maggio con tutti gli onori, stessi onori riservati a Corrado che era sbarcato ad Acri verso la metà di aprile. I due Re erano così giunti a Gerusalemme ma mancavano sia Raimondo di Antiochia che Joscelin (oltre a Raimondo di Tripoli per motivi del tutto diversi, legati a questioni di legittimità su quel piccolo regno spettanti ad un suo parente, Alfonso Giordano figlio di Raimondo di Tolosa della Prima Crociata, che morì avvelenato con sospetti che ricaddero su di lui).

Quando tutti i crociati ed i Re dei territori della Palestina giunsero a Gerusalemme vi fu una assemblea solenne ad Acri il 24 giugno 1148, assemblea alla quale parteciparono anche Templari e Gerosolimitani. Si doveva discutere il cosa fare e, alla fine, si decise di attaccare in forze direttamente Damasco. Fu una scelta stupida e priva di qualunque ricaduta politica. Damasco poteva essere appetibile solo per le ricchezze di cui disponeva e perché la sua conquista avrebbe permesso di separare definitivamente i musulmani fatimiti d’Egitto dai musulmani turchi selgiuchidi. Per il resto il regno di Damasco era desideroso di amicizia con i franchi perché li vedeva come unico argine all’espansione di Nurradin ed attaccare Damasco sarebbe stato l’unico modo di consegnare quel regno all’alleanza con lo stesso Nurradin. Ma non vi era possibilità di ragionare di fronte alle ricchezze che si sarebbero prospettate. Ma è il caso di dire che le ricchezze accecarono coloro che presero questa decisione. La responsabilità maggiore fu comunque dei piccoli sovrani locali che conoscevano la situazione mentre per gli appena arrivati Aleppo non significava nulla mentre Damasco aveva una risonanza anche biblica.

Un grande esercito crociato partì dalla Galilea e dopo un facile cammino arrivò vicino a Damasco. L’emiro Unur non credeva che i cristiani intendessero attaccare Damsco ma quando si rese conto che era così chiamò a raccolta tutte le forze esistenti in Siria e chiese aiuto, come previsto, a Nurradin. Dapprima i crociati riuscirono a mettere in difficoltà i damasceni ma poi una serie di errori tattici (lo spostamento dell’esercito cristiano da una zona con acqua e viveri ad una pianura arida di fronte alla città, proprio laddove le mura erano più solide) fecero prevalere le forze che a Damasco si andavano via via ammassando restando comunque in attesa di Nurradin già in marcia. In breve tempo furono i crociati a doversi difendere. Ma non si resero neppure conto del disastro imminente, da buoni cristiani ardenti di fede si stavano scannando sul futuro assetto da dare a Damasco conquistata e su chi ne dovesse diventare Principe o Re o ciò che si vuole. E l’alleanza diventava sempre più precaria tanto che anche i Re occidentali si resero conto della follia di quell’assedio in quelle condizioni. Decisero quindi di ritirarsi verso la Galilea il 28 luglio ma con Unur che perseguitò l’intera ritirata con incursioni continue che provocarono molti morti. Ai primi di agosto l’esercito era arrivato in Palestina ed i piccoli sovrani locali si ritirarono verso i loro territori mentre restava una gigantesca umiliazione in tutti gli altri oltre ad una perdita di moltissime vite e materiale. L’invincibilità dei meravigliosi e coraggiosi principi cristiani era caduta a terra con fragore per far rinascere tutto l’orgoglio musulmano.

Corrado se ne andò subito imbarcandosi ad Acri per Tessalonica dove fu raggiunto da un invito di Manuele che già aveva accordato un matrimonio tra suo fratello Enrico d’Austria e la nipote di Manuele, Teodora. Il matrimonio serviva a stringere un’alleanza contro il normanno Ruggero di Sicilia, già in guerra con Bisanzio, i cui territori volevano spartirsi i due sovrani.

Luigi invece non si muoveva da Gerusalemme anche se spronato a tornare in Francia da più parti. Aveva paura del divorzio minacciato dalla moglie e dalle conseguenze politiche che ne sarebbero seguite. Di una cosa era certo Luigi, del risentimento verso l’Imperatore di Bisanzio Manuele, tanto era il risentimento che egli cercò di allearsi con Ruggero di Sicilia. Finalmente nell’estate del 1149 Luigi si imbarcò su una nave di Ruggero di Sicilia che si unì presto alla flotta che incrociava più a largo. Quando questa flotta era giunta vicina alle coste greche, fu attaccata dalla flotta bizantina. Luigi fu preso da terrore ed ordinò che la nave su cui viaggiava issasse la bandiera francese. Ciò fece risparmiare quella nave ma i bizantini catturarono altre navi in cui vi erano uomini e beni del Re. A fine luglio Luigi sbarcò in Calabria e divenne ospite di Ruggero a Potenza. Lì si decise di mettere su una nuova crociata contro Bisanzio. Dopo aver preso questi accordi Luigi partì per la Francia.

Tornato in Francia Re Luigi trovò il santo Bernardo interdetto per quanto accaduto a quel sommo esercito che si muoveva per volere di Dio. Accettò quindi di buon grado che le colpe fossero di Bisanzio ed iniziò a predicare contro quell’Impero per una crociata che lo distruggesse (santi al servizio di un Re ? Non era e non è una novità !). Ma perché il progetto avesse successo serviva l’accordo con Corrado che non ne volle sapere. La vendetta contro chi si era opposto al volere di Dio era rimandata.

E così finiva in modo indegnamente vergognoso la Seconda Crociata anche se alcune nefaste conseguenze in loco ne furono un’appendice drammatica.

IL SEGUITO IMMEDIATO

Nei territori cristiani di Palestina si fecero più pressanti gli attacchi contro ciò che restava della Contea di Edessa e contro il Principato di Antiochia. Nurradin e Masud, ciascuno per proprio conto, si espandevano a costa dei territori cristiani. Il 29 giugno del 1149, attaccato da Nurradin, in una furibonda battaglia l’esercito di Antiochia fu distrutto e lo stesso Raimondo morì.

Anche Joscelin, che non aveva voluto fare alcuna alleanza con Raimondo, nell’aprile del 1150 fu catturato da una banda di turchi che lo consegnò a Nurradin. Questi lo accecò e lo mise in una prigione dove morì 9 anni dopo, nel 1159. Baldovino, avvertito di cosa accadeva, accorse ma sia Nurradin che Masud si erano intanto impadroniti di gran parte del territorio del Principato e compiuto la conquista di parte di ciò che restava della Contea di Edessa (l’ultima parte, e cioè le città fortificate di Turbessel, Ravendel, Samosata, Aintab, Dulok e Birejik, fu comprata da Manuele alla moglie Beatrice di Joscelin. Un anno dopo Manuele perse queste città ad opera sia di Nurradin che di Masud alleatisi).

Antiochia era invece retta dal Patriarca con grande opposizione di tutti i nobili che non accettavano la conduzione ecclesiastica del Principato. Da Baldovino arrivò alla ventiduenne Costanza, la vedova di Raimondo, l’invito a risposarsi ma ella rifiutò le persone che il cugino Baldovino le aveva proposto. Ella si rivolse invece a Manuele chiedendo chi avrebbe dovuto sposare e qui Manuele non seppe interpretare i desideri della giovane Costanza inviandogli una persona, suo cognato vedovo Giovanni Ruggero, di circa 50 anni che aveva perso ogni attrattiva. Per risolvere il matrimonio di Costanza ci si rivolse a Raimondo di Tripoli ed a sua moglie. In eventi connessi a questa occasione una banda di assassini riuscì a colpire a morte Raimondo. Anche qui allora si poneva il problema di avere un uomo a capo della Contea di Tripoli. La reggenza fu presa da Baldovino con Nurradin che approfittò subito per attaccare facendo sua Tortosa. La città fu subito liberata e Baldovino decise di affidarla ai Templari.

Baldovino tornò a Gerusalemme dove iniziò una guerra con sua madre Melisenda. Egli voleva essere incoronato Re e la madre non voleva rinunciare alla reggenza. Melisenda parò con il patriarca accordando una doppia incoronazione. Baldovino chiese tempo ma nottetempo attaccò la sede del Patriarca costringendolo ad incoronarlo da solo. Iniziò una dura lotta che distrasse tutti dalla fede in Dio. Visto che era la madre che aveva il sostegno di tutti i nobili del regno, si arrivò al compromesso di dividere il regno in due con Baldovino al quale andò la Galilea ed il Nord del regno e con Melisenda che ebbe la Giudea, la Samaria e la costa, naturalmente con Gerusalemme. Questa situazione era insoddisfacente per la difesa del regno ed iniziarono altre lotte intestine. A questi avvenimenti assisteva compiaciuto Nurradin che non intervenne con qualche attacco solo perché stava realizzando la conquista di Damasco. Dopo la sconfitta dei crociati l’alleanza tra Nurradin e Unur di Damasco era via via venuta meno ed Unur aveva iniziato di nuovo ad aver paura di Nurradin. Per questo motivo si alleò con Gerusalemme avendo prima concordato una tregua di due anni con Nurradin. Ma dopo poco tempo, nell’agosto del 1149, Unur morì ed il potere venne assunto dall’emiro Mujir ed-Din (per conto del quale Unur aveva governato). Anche qui Nurradin avrebbe potuto intervenire nel clima di debolezza creatosi ma non lo fece perché anche dalle sue parti vi erano stati problemi con lutti e divisioni dei territori. Comunque una serie di avvenimenti in rapida successione riportarono Nurradin e Mujir ed-Din ad allearsi ma è da sottolineare che con questo Mujir ed-Din non rinunciò all’alleanza con i franchi.

Nei mesi seguenti sia cristiani che musulmani rivolsero la loro attenzione all’Egitto dove il califfato dei fatimiti stava esplodendo dopo l’assassinio del visir al-Afdal che comportò una serie di altri assassinii, di intrighi e guerre civili. Questa apparente debolezza nel 1153 spinse Baldovino, insieme ai Templari ed ai Gerosolimitani, ad attaccare la fortezza fatimita di Ascalona. Iniziò l’assedio ma delle navi egizie riuscirono ad entrare nel porto della città con uomini ed aiuti vari. Tra le macchine d’assedio dei cristiani vi era una gigantesca torre che permetteva di lanciare ogni cosa dentro le mura della città. Ma gli assediati in una rapida uscita riuscirono ad incendiarla. Vi fu però un incidente che vide la torre in fiamme andare ad appoggiarsi alle mura facendole cedere. Ne approfittarono i Templari che entrarono ma, essendo in pochi e non avendo avvertito nessuno, furono trucidati dagli assediati. L’assedio continuò finché il 19 agosto le autorità di Ascalona decisero di arrendersi a patto che i cittadini fossero lasciati liberi di andarsene con i loro beni mobili. La conquista di questa città ridette fiato ai cristiani e fu un’impresa esaltata in modo particolare. Ma il tutto avvenne perché Nurradin aveva lasciato fare. Egli infatti era occupato alla conquista di Damasco che avvenne a fine aprile del 1154. Questa conquista superava di gran lunga quella di Ascalona. Ora i turchi avevano in mano l’intera frontiera degli Stati cristiani. Nurradin, da ottimo politico lungimirante, rinnovò l’alleanza di Damasco con Gerusalemme per altri due anni perché doveva ora occuparsi di togliere ai turchi selgiuchidi le città dell’antica contea di Edessa che avevano occupato. Nel 1155 moriva il sultano Masud ed iniziarono anche qui lotte tra familiari per eredità e successioni al potere. Su queste lotte interne poté intervenire Nurradin che prese possesso delle città desiderate. A questo punto Nurradin poté dedicarsi al Sud. E fu un errore marchiano di Baldovino che gli dette l’opportunità di intervenire. Il Re di Gerusalemme violò la tregua per impadronirsi di alcune greggi al pascolo e Nurradin reagì con attacchi qua e là che crearono molti danni agli eserciti e beni cristiani. Fino a quando l’intero esercito di Gerusalemme fu attaccato sulle rive del Giordano con una sua durissima sconfitta. Nurradin avrebbe potuto facilmente avanzare ma gli giunsero notizie di eredi di Masud che stavano attaccando Aleppo e accorse da quelle parti. Ed ogni azione di guerra cessò a seguito di violentissimi terremoti che dall’agosto 1157 e per molto tempo colpirono l’intero territorio. Tutti dovettero dedicare energia a risolvere gli infiniti problemi che si erano creati piuttosto che dedicarsi a guerre.

A questi eventi si aggiunse una malattia di Nurradin (ottobre 1157) che sembrava stesse per morire. Di fronte a questa eventualità iniziarono subito le lotte per la successione. Nurradin però non morì anche se perse le sue enormi capacità di politico e condottiero.

Poiché gli eventi si accavallavano, occorre tornare un poco indietro, al 1153, quando Beatrice, vedova di Raimondo, decise a chi darsi in sposa. Tra i nobili arrivati ad Antiochia nella Seconda Crociata fi era anche il figlio minore di Goffredo di Buglione, il giovane Rinaldo di Chatillon. Costui era privo di avvenire in patria ma riuscì a far innamorare di sé la giovane Costanza. Chiesto il permesso a Baldovino, ben felice di togliersi di torno la reggenza di Antiochia, lo ottennero e si sposarono. Ma il matrimonio non fu gradito né ai nobili di Antiochia né al Patriarca Aimery e neppure alla popolazione: chi era questo nullatenente per diventare il loro principe ? Anche Manuele si adirò per questa scelta ma al momento era impegnato contro i selgiuchidi e non poté dirlo con la forza necessaria. Usò però il dato di fatto a suo favore: se Rinaldo avesse dato il suo aiuto concreto contro gli armeni guidati da Thoros egli lo avrebbe riconosciuto come principe e lo avrebbe aiutato finanziariamente. La proposta fu accettata anche perché gli armeni avevano occupato Alessandretta che era nel territorio del Principato. Rinaldo mise su una spedizione ed in breve cacciò gli armeni da Alessandretta, cedendo poi la città ai Templari che si impegnarono però a restaurare due fortezze che controllavano il passo delle Porte siriane. Con questo gesto iniziava una stretta collaborazione di Rinaldo con i Templari che non sarà priva di conseguenze.

Dopo la conquista di Alessandretta Rinaldo chiese i denari promessi ma Manuele disse che il compito di Rinaldo non era finito, occorreva attaccare direttamente Thoros. Questa posizione di Manuele fece adirare Rinaldo che reagì cambiando radicalmente alleanze. Consigliato in tal senso dai Templari, si alleò con l’armeno Thoros contro i bizantini iniziando ad attaccare fortezze bizantine in Cilicia ed addirittura pensando di impadronirsi dell’Isola di Cipro. Ma poiché non aveva denaro sufficiente per questa impresa pensò di averlo dal ricco Patriarca Aimery, vendicandosi così della sua disapprovazione del matrimonio. Aimery rifiutò e Rinaldo lo fece malmenare tanto da riempirlo di ferite quindi lo cosparse di miele e lo mise incatenato esposto al sole ed a tutti gli insetti sul tetto di una torre. La sera Aimery cedette. La notizia arrivò a Gerusalemme e Baldovino inviò subito un ambasciatore a chiedere la liberazione del Patriarca e poiché Rinaldo aveva avuto ciò che voleva, cedette subito.

Con i soldi di Aimery e con Thoros nella primavera del 1156 fu organizzato lo sbarco a Cipro, l’isola bizantina ricca e prospera sempre risparmiata dalle guerre che aveva alimentato i soldati della Prima Crociata che morivano di fame nell’assedio di Antiochia. Baldovino aveva in fretta fatto avvertire il governatore dell’isola, il nipote Giovanni Comneno dell’Imperatore Manuele ma non riuscì ad inviare in tempo dei rinforzi. Gli invasori franchi ed armeni depredarono e saccheggiarono l’intera isola. Fecero prigionieri i notabili tra cui il governatore ed il suo capitano delle guardie Michele Branas. Per tre settimane violentarono tutte le donne, sgozzarono uno ad uno vecchi e bambini, fecero stragi, depredarono chiese e conventi, insomma qualcosa di mai visto. Poi quando seppero di una flotta bizantina che si trovava al largo scapparono con le navi cariche di ogni refurtiva e con i prigionieri che sarebbero stati rivenduti con riscatti. Alcuni prigionieri furono mutilati ed inviati a Bisanzio come atto di sfregio.

Cipro era distrutta completamente e qualcosa che rimaneva in piedi fu buttata giù dai violenti terremoti del 1157.

Seguirono vari eventi tra cui una sorta di accordo tra Baldovino e Rinaldo contro il convalescente Nurradin. Vi furono scontri vari ed infine una battaglia vicino a Damasco che vide Nurradin sconfitto. Ciò comportò una lunga tregua che permise sia a Nurradin che a Baldovino di occuparsi dei relativi problemi a Nord.

Baldovino occupò questo tempo anche per chiedere in moglie una nipote di Manuele, la tredicenne Teodora. Manuele la concesse con una dote enorme ed il matrimonio fu celebrato ad Acri nel settembre del 1158 dal Patriarca Aimery, in vacanza di quello di Gerusalemme recentemente scomparso.

Intanto Manuele, in grandissimo segreto, preparava un attacco alla Cilicia armena. Una flotta partì da Bisanzio nell’autunno del 1158 diretta in Cilicia, mentre un esercito di terra avanzava per vie costiere. Thoros, che si trovava a Tarso, fu avvertito quando i bizantini stavano per arrivare. Scappò con i suoi amici ed il tesoro verso le montagne dell’interno cambiando continuamente posizione per non farsi catturare da distaccamenti bizantini. L’esercito bizantino, al comando di Manuele, in meno di due settimane conquistò tutte le città della Cilicia oltre a Tarso. Naturalmente Rinaldo iniziò a tremare e la sua paura, insieme ai consigli del vescovo di Lattakieh, lo salvò. Mandò messi a Manuele che era accampato sotto le mura di Mamistra o Mopsuestia (città tra Tarso ed Alessandretta) per dirgli che gli cedeva la cittadella di Antiochia alla qual cosa Manuele fece rispondere che l’offerta era del tutto insufficiente. Intanto tutti i re grandi e piccoli della zona mandavano ambasciatori a rendere omaggio a Manuele. Anche i musulmani lo fecero: Nurradin, i Danishmend, il Re di Georgia, addirittura il Califfo. Rinaldo che indossato un saio si era recato anch’egli a rendere omaggio. Manuele lo fece attendere per lungo tempo poi lo ammise davanti al suo trono. Aveva dovuto camminare scalzo con i suoi per un lungo cammino ed era stato costretto a prostrarsi nella polvere chiedendo pietà. Alla fine Manuele perdonò ma a tre condizioni. La cittadella di Antiochia sarebbe stata nelle disponibilità di Bisanzio, Antiochia doveva fornire un contingente all’esercito bizantino ed il Principato avrebbe dovuto avere un Patriarca non più latino ma greco. All’accettazione solenne di queste condizioni, Rinaldo fu lasciato tornare ad Antiochia.

Anche Baldovino chiese di vedere Manuele. Questi all’inizio tergiversò perché credeva che Bladovino avesse una qualche rivendicazione su Antiochia ma poi cedette. Manuele ebbe una ottima impressione di Baldovino ed accettò quanto gli veniva richiesto: il perdono per gli abitanti di Antiochia, il perdono per Thoros, la riammissione di Aimery come Patriarca di Antiochia e quindi il non pretendere da subito un Patriarca greco. Risolti questi problemi Manuele poté finalmente entrare in Antiochia il giorno di Pasqua (12 aprile) del 1159. Fu un ingresso in pompa magna che previde alcuni ostaggi della popolazione di Antiochia, il disarmo di tutti i latini ed una maglia di ferro sotto gli abiti di Manuele. Questi entrò a cavallo tenuto per le briglie da Rinaldo che andava a piedi. Seguiva la guardia imperiale in alta uniforme. Tutto davvero ben organizzato e senza alcun incidente. Manuele si trattenne ad Antiochia per sette giorni di festeggiamenti dove strinse ancora di più i rapporti con Baldovino, il nipote acquisito dal matrimonio con Teodora. Poi partì dirigendo il suo esercito verso l’interno, verso la frontiera musulmana. Subito vari ambasciatori accorsero per chiedere tregua e tra questi anche un inviato di Nurradin che offrì di liberare i 6000 prigionieri cristiani che giacevano nelle sue carceri e di mandare un corpo di spedizione contro i Turchi Selgiuchidi. A quest’ultima offerta Manuele rispose affermativamente rinunciando ad attaccare Aleppo e realizzando così una sorta di alleanza con Nurradin.

Il comportamento di Manuele era comprensibile per chi aveva un Impero con vastissimi confini da salvaguardare e non aveva solo l’insignificante confine della Siria (anche se estremamente importante per i Regni cristiani di Palestina). Inoltre egli non poteva imbarcarsi in una lunga guerra così decentrata rispetto a Bisanzio da cui, tra l’altro, gli arrivavano notizie non confortanti sia su complotti in atto sia su problemi che si stavano avendo sui confini balcanici dell’Impero. Dal punto di vista cristiano l’alleanza di Manuele con Nurradin suonò come un tradimento ed anche la liberazione dei prigionieri cristiani creò problemi perché si trattava in gran parte dei tedeschi fatti prigionieri durante la Seconda Crociata. Inoltre, tra i liberati vi era il Gran Maestro dei Templari Bertrando di Blancfort ed il pretendente alla Contea di Tripoli, Bertrando di Tolosa.

Manuele iniziò quindi il ritiro verso Bisanzio ma tre mesi dopo tornò per una campagna contro i Selgiuchidi in Asia. Riuscì a sconfiggerli tanto che il sultano dei Selgiuchidi, Kilij Arslan II, cedette a Manuele tutte le città greche che aveva occupato, promise di cessare ogni scorreria, di rispettare i confini e di fornire un reggimento all’esercito imperiale quando vi fosse necessità, in cambio  della pace. Manuele accettò e finalmente nell’estate del 1161 ogni ostilità ebbe fine. Kilij Arslan II era diventato un vassallo dell’Imperatore e, come tale, fu ricevuto con tutti gli onori a Bisanzio. Questo successo di Manuele fu ammirato da tutti i capi orientali.

Per i 20 anni seguenti l’Impero di Costantinopoli era tornato ad essere una potenza rispettata in Asia minore che garantiva pace a quelle terre. Ciò permise di nuovo l’afflusso di pellegrini nella Terra Santa senza pericoli per la loro incolumità. Qualche scaramuccia qua e là continuò ad esservi ed in una di esse fu catturato Rinaldo che aveva compiuto una razzia nel territorio musulmano di Aleppo, ma in generale le tregua si mantenne.

La prigionia di Rinaldo rese di nuovo problematica la situazione ad Antiochia. Da una parte la successione avrebbe previsto che divenisse Principe il figlio di Boemondo, Boemondo il Blbuziente, che aveva però solo 15 anni, dall’altra il trono era reclamato da Costanza. Alla fine decise Baldovino di Gerusalemme: il trono sarebbe stato di Boemondo il Blbuziente quando avesse raggiunto la maggiore età, nel frattempo la reggenza sarebbe stata del Patriarca Aimery.

Un’altra vicenda si assommò a quanto raccontato. Sul finire del 1159 morì Irene, la moglie di Manuele e  nel 1160 giunse a Gerusalemme una delegazione per chiedere a Baldovino il nome di una principessa che fosse adatta a diventare sua sposa. Vi erano due possibili candidate famose per giovinezza e bellezza: Maria figlia di Costanza di Antiochia e Melisenda figlia di Raimondo II di Tripoli, ambedue cugine di Baldovino. Poiché però Baldovino diffidava di una stretta alleanza di Manuele con Antiochia, consigliò Melisenda. Le nozze sembravano doversi celebrare quando a Manuele giunsero voci sulla possibile illegittimità di Melisenda. Manuele fece decadere il fidanzamento e Raimondo si infuriò, anche perché non riebbe indietro tutte le spese che aveva sostenuto e la dote, al punto da armare le 12 navi che dovevano portare la sposa a Bisanzio per fare razzie a Cipro.

Gli ambasciatori di Manuele che si trovavano a Tripoli si erano recati ad Antiochia per organizzare il matrimonio con Maria. Baldovino che si trovava a Tripoli ebbe lì la notizia della fine del fidanzamento con Melisenda e si irritò. Si recò anch’egli ad Antiochia dove dovette accettare ciò che accadeva. La scelta di Maria da parte di Manuele comportò la conferma di Costanza come reggente del Principato. E Maria partì dal porto di  San Simeone per arrivare a Bisanzio dove, a dicembre, furono celebrate le nozze nella chiesa di Santa Sofia.

          Intanto Baldovino, di ritorno a Gerusalemme, si ammalò nel territorio di Tripoli. Si cercò di curarlo a Beirut ma non ci fu nulla da fare. Morì a 33 anni il 10 febbraio 1162. Era stato un ottimo Re amato dal suo popolo ma anche dai musulmani tanto è vero che quando suggerirono a Nurradin che era il momento buono per attaccare, egli rispose che non era il caso di molestare un popolo che piangeva la perdita di un principe così grande.

          A Baldovino III, che lasciava Teodora, una vedova di 16 anni, non senza disaccordi e mugugni, successe il fratello Amalrico, abile politico anche se non affascinante come Baldovino. Amalrico si era sposato nel 1157 con Agnese di Courtenay, figlia di Joscelin II di Edessa. Quando però si trattò di salire al trono trovò l’opposizione di tutto il clero per la consanguineità tra i due (avevano un trisnonno in comune). Quel matrimonio che aveva già messo al mondo due figli, Baldovino e Sibilla, dovette essere annullato anche se ai figli fu concessa la legittimità ed il diritto alla successione. Amalrico accettò l’imposizione della Chiesa e ascese al trono senza la moglie che comunque mantenne il titolo di Contessa di Giaffa e Ascalona e fu in grado di influenzare la politica del regno per i successivi 20 anni. Il nuovo Re di Gerusalemme mostrò subito di avere polso risolvendo con abilità alcune questioni di vassallaggio e dando la propria disponibilità ad aiutare militarmente l’Imperatore di fronte a delle scorrerie fatte da Thoros che, di fronte a questa disponibilità, si ritirò di nuovo tra le montagne. Boemondo di Antiochia era intanto divenuto maggiorenne e iniziò a governare anche se sua madre tentò di metterlo da parte. Questa sua operazione provocò dei tumulti ad Antiochia e, mentre Boemondo III venne insediato, ella fu esiliata morendo poco dopo. L’Imperatore accettò il cambiamento di potere ad Antiochia chiedendo alcune garanzie come l’invio a Bisanzio del secondogenito di Costanza Baldovino ed i figli sempre di Costanza nel matrimonio con Rinaldo. Amalrico per parte sua accettò che Antiochia diventasse bizantina ma scriveva a Luigi VII , Re di Francia, per sapere se era prevista una qualche spedizione francese in aiuto dei cristiani latini di Siria.

La non ostilità con i bizantini serviva ad Amalrico per portare avanti un suo grande progetto, la conquista dell’Egitto. 

L’Egitto nel XII secolo (da Runciman)

          Questo grande califfato era in completa decadenza a seguito di vicende di successioni, assassinii, rivalità, tradimenti, orge, … Amalrico credeva che se fosse caduto in mano di Nurradin allora sarebbe stato completato l’accerchiamento degli Stati cristiani. Era necessario che fossero questi ultimi a prendere l’iniziativa.

In Egitto, dopo la perdita di Ascalona, il visir Abbas, per sistemare alla successione del califfo al-Zafir una persona a lui gradita, operò, insieme al suo fido Usama, in modo che lo stesso califfo fosse assassinato durante un’orgia organizzata dal figlio Nasr. Abbas accusò dell’assassinio i fratelli del califfo e li mandò a morte mentre si impadroniva del tesoro del califfo. Abbas mise poi sul trono il figlio di 5 anni di al-Zafir, al-Faiz. Le principesse della famiglia del califfo sospettarono e chiesero l’aiuto del governatore dell’Alto Egitto, Ibn Ruzzik, che accorse al Cairo e mise in fuga, con il tesoro, sia Abbas che Nasr (29 maggio 1154). Superato il deserto del Sinai i fuggitivi furono attaccati da una pattuglia di franchi proveniente dal Castello di Montreal. Usama riuscì a fuggire ed a mettersi in salvo a Damasco, Abbas venne ammazzato mentre Nasr catturato con tutto il tesoro. Nasr fu consegnato ai Templari ed immediatamente disse che voleva farsi cristiano. Appena iniziato il cammino della conversione, arrivò dal Cairo la richiesta di avere Nasr in cambio di una grossa somma. I Templari non esitarono e rimandarono Nasr in catene al Cairo. Qui le principesse lo mutilarono con le loro mani poi lo fecero impiccare e fecero appendere il suo corpo alla porta Zawila dove restò per due anni. Il nuovo visir, Ibn Ruzzik, governò fino al 1161 mentre nel 1160 morì il piccolo califfo lasciando la successione al cugino al-Adid che aveva nove anni e che l’anno successivo dovette sposare la figlia di Ibn Ruzzik. Ma la zia del califfo, sorella di al-Zafir, iniziò a dubitare del visir e lo fece assassinare nel settembre del 1161. Prima di morire Ibn Ruzzik ebbe la forza di convocare a sé alcuni parenti e, in questa riunione pugnalò personalmente la principessa che lo aveva fatto pugnalare. Al-Adil divenne visir ma solo 15 mesi dopo fu assassinato dal governatore dell’Alto Egitto Shawar. Quest’ultimo venne cacciato otto mesi dopo dal suo ciambellano arabo Dhirgham che, per essere sicuro che nessuno avrebbe spodestato la sua persona, fece uccidere tutti i potenziali pericoli, lasciando così l’esercito egiziano privo di ufficiali.

Già nel 1160 Baldovino III aveva minacciato di invadere l’Egitto cosa che poi non si fece perché vi fu un accordo per cui l’Egitto avrebbe pagato una forte somma ogni anno. Fino al settembre 1163 non era stata pagata alcuna somma e da questo prese pretesto Amalrico per marciare con il suo esercito sull’Egitto fino a mettere sotto assedio Pelusio. La stagione non era però favorevole perché il Nilo era in piena ed il visir Dhirgham lo aiutò aprendo alcune dighe.

Saputo dello spostamento dell’esercito di Gerusalemme verso l’Egitto, Nurradin approfittò per attaccare il più piccolo degli Stati cristiani, la Contea di Tripoli, iniziando con l’assediare il Krak dei Cavalieri. A Tripoli si trovavano di passaggio alcuni nobili francesi, il conte Ugo di Lusignano e Goffredo Martel, con le loro ingenti scorte armate. Si unirono al conte Raimondo inviando un messaggio urgente ad Antiochia dove accorsero sia Boemondo III che un distaccamento imperiale lì presente. Nurradin fu sorpreso e dovette fuggire ma riorganizzò le sue forze ad Homs. Qui ricevette la visita dello spodestato visir egiziano Shawar che gli fece delle offerte importanti. Se lo avesse aiutato a riprendere il suo posto al Cairo, egli avrebbe pagato l’intera campagna, gli avrebbe ceduto territori e gli avrebbe pagato un enorme tributo annuo. Nurradin esitò perché per lui si sarebbe trattato di addentrarsi in un territorio sotto il controllo dei franchi nell’oltre Giordano. Quindi, nell’aprile del 1164, inviò un suo luogotenente, Shirkuk, con un forte distaccamento verso l’Egitto mentre egli stesso avrebbe agito una manovra diversiva attaccando Banyas, città tra Lattakieh e Tortosa, della Contea di Tripoli che era difesa dai Cavalieri Gerosolomitani (al principio questa era l’intenzione poi Nurradin si rivolse verso una città settentrionale del Principato di Antiochia). Da notare, per quanto avverrà nel seguito, che Shirkuk si portò dietro suo nipote, il ventisettenne Saladino figlio di Naim ed-Din Ayub. Dhirgham fu terrorizzato per quanto accadeva ed arrivò addirittura a chiedere aiuto ad Amalrico. Shirkuk avanzò però così in fretta che riuscì a vincere in poco tempo una tenue resistenza, a reinsediare Shawar e ad ammazzare Dhirgham (maggio 1164).

Accadde qui qualcosa che definire ridicola è poco. Preso di nuovo il potere Shawar denunciò l’accordo e ordinò a Shirkuk di andarsene. Ma quest’ultimo non ubbidì occupando la città di Bilbeis. Allora Shawar, anche lui !, si rivolse ad Amalrico perché lo aiutasse offrendogli molto denaro, anche per i Cavalieri Gerosolimitani ed il rimborso di ogni spesa. Amalrico accorse ed insieme a Shawar assediò Bilbeis. Dopo qualche tempo però si arrivò ad un accordo (Amalrico aveva avuto notizie di problemi a Gerusalemme): si sarebbe posto fine all’assedio se Shirkuk si fosse ritirato nella sua terra. L’accordo fu accettato e sia Amalrico che Shirkuk si ritirarono marciando parallelamente ai loro regni.

La notizia ricevuta da Amalrico era proprio quella dell’attacco e dell’assedio di Nurradin alla città fortezza di Harenc, appena alle spalle di Antiochia. Con Nurradin vi era la gran parte dei notabili musulmani. Vi fu una resistenza eroica in attesa degli aiuti richiesti ad Antiochia, Tripoli e Gerusalemme. Appena arrivò l’esercito cristiano Nurradin si ritirò perché si allarmò della presenza di un contingente di Bisanzio e Nurradin non voleva in alcun modo inimicarsi l’Impero. Boemondo III invece di accettare di buon grado la ritirata attaccò con impeto ed entrò in una trappola dell’esercito di Mosul. Molti cristiani vennero fatti prigionieri e moltissimi trucidati. Tra i prigionieri vi era Boemondo III, Raimondo di Tripoli, il comandante del contingente bizantino Coleman ed Ugo di Lusignano. Erano stati incatenati insieme e condotti in una prigione ad Aleppo. Sarebbe stato il momento per Nurradin di attaccare Antiochia priva di difese ma, come già detto, Nurradin non voleva inimicarsi Manuele tanto è vero che fece subito liberare Coleman.

          Amalrico arrivò ad Antiochia ed avviò subito trattative con Nurradin che si disse disposto a liberare, dietro riscatto, Boemondo e Thoros solo perché vassalli di Manuele. Non era invece disposto a rilasciare gli altri, tra cui Raimondo di Tripoli e Rinaldo che era prigioniero da tempo prima. Mentre Amalrico era in trattativa giunse un messo di Manuele che gli chiese in che veste era lì ed egli rispose inviando l’arcivescovo di Cesarea ed il suo maggiordomo a Bisanzio per chiedere all’Imperatore di sposare una principessa imperiale e per prospettargli la conquista dell’Egitto. Manuele fece attendere per due anni questi ambasciatori e, nel frattempo, Amalrico dovette ritornare a Sud perché Nurradin aveva attaccato Banyas e la guarnigione di quella città era con il suo esercito. La città e tutta la pianura circostante cadde in mani musulmane e, quando Nurradin minacciò di invadere la Galilea, gli abitanti della regione lo fermarono solo pagando un tributo.

          Appena libero Boemondo si recò a Bisanzio per chiedere aiuto economico a Manuele che glielo concesse ma pretese che egli ritornasse ad Antiochia con un Patriarca greco, Atanasio II. Aimery fu esiliato e per cinque anni la Chiesa greca poté espandere la sua influenza nell’intero Principato di Antiochia.

          Nurradin intanto non era rimasto fermo e negli anni 1165 e 1166 attaccò ogni fortezza che si trovava sulle pendici orientali del Libano mentre Shirkuk razziava l’Oltre Giordano. Quindi insieme decisero di attaccare l’Egitto (gennaio 1167). Shawar chiese di nuovo l’aiuto di Amalrico che radunò i notabili del regno per decidere ma quando decise era troppo tardi perché l’esercito di Shirkuk aveva già oltrepassato il Sinai ed ai primi di febbraio si trovava già all’istmo di Suez (a Nord dell’omonimo golfo) e la sua marcia lo portò rapidamente, attraverso Atfih, a Giza dove accampò.

          L’esercito franco, partito il 30 gennaio, si avvicinava al Cairo da Nord Est. Lo raggiunse Shawar che lo fece accampare vicino alla città e gli propose un patto che fu accettato: Shawar avrebbe pagato una grossissima somma se l’esercito cristiano fosse rimasto in Egitto fino a quando non fosse stato cacciato Shirkuk.

          Dopo un mese di osservazione tra i due eserciti, vi fu uno scontro dovuto a San Bernardo. Infatti il santo apparve ad Amalrico dicendogli che era indegno di rappresentare la Croce perché non attaccava l’infedele. Il 18 marzo 1167 Amalrico attaccò e Shirkuk lo sconfisse. Solo per miracolo riuscì a salvare la vita ritirandosi dentro le mura del Cairo. Quindi Shirkuk attaccò e conquistò Alessandria ma qui fu assediato dagli eserciti franco ed egiziano. Dopo varie peripezie Shirkuk e Saladino si arresero e dovettero tornarsene in Siria. Amalrico preoccupato per quanto temeva accadesse in Palestina ed a Tripoli, aveva accettato di lasciare l’assedio pretendendo comunque un tributo da Shawar e lasciando una guarnigione al Cairo. Il giorno 20 agosto era di ritorno ad Ascalona con la grande preoccupazione per gli attacchi continui di Nurradin ai quali non si poteva rispondere se non con molti più uomini che non vi erano. Per questo motivo, per difendere cioè meglio i regni cristiani, egli affidò molte fortezze agli ordini militari, esempio che fu seguito ad Antiochia da Boemondo. Runciman osserva in proposito che se questi ordini fossero stati più responsabili e meno invidiosi, la loro potenza avrebbe potuto mantenere in efficienza le difese del regno. L’altro propositori Amalrico per la difesa dei regni cristiani risiedeva nell’Imperatore Manuele. E, a questo proposito, il 29 agosto finalmente sbarcò in Palestina, a Tiro, la delegazione che egli aveva inviato a Bisanzio due anni prima, delegazione che, tra l’altro, chiedeva in sposa una principessa imperiale. Arrivava con gli ambasciatori ed il suo seguito l’affascinante e giovane pronipote di Manuele, Maria Comnena, che divenne seconda moglie, dopo Agnese figlia di Joscelin II di Edessa, di Amalrico (fu in questo periodo che Guglielmo di Tiro venne nominato arcidiacono di Tiro, e incaricato da Amalrico di scrivere una storia del Regno, storia dalla quale provengono moltissime delle notizie riprese da Runciman e qui riportate). Quest’ultimo inviò un altro messo a Manuele, il Patriarca di Tiro Guglielmo, per definire finalmente la conquista dell’Egitto. Sul finire dell’autunno 1168 Guglielmo tornò con l’accordo fatto: Manuele e Amalrico avrebbero diviso a metà le conquiste egiziane. Ma i notabili cristiani di Gerusalemme non attesero la risposta di Manuele mettendo in minoranza Amalrico. Poiché arrivavano notizie dal Cairo secondo le quali Shawar, oltre a non pagare il tributo, non gradiva il distaccamento franco e stava trattando con Shirkuk le nozze di suo figlio Kamil con la sorella di Saladino e poiché era arrivato a Gerusalemme il nobile Guglielmo IV di Nevers con il suo esercito e poiché, infine, il capo dei Gerosolimitani, Gilberto di Assailly, esortava tutti a non perdere tempo, si decise di attaccare da soli l’Egitto in ottobre (decisamente contrari furono i Templari che avevano commerci con i musulmani d’Egitto e facevano da tramite con mercanti italiani).

          L’esercito franco arrivò di sorpresa e dopo un breve assedio conquistò Bilbeis dove i franchi appena arrivati si scatenarono in massacri. Analoghi massacri furono fatti dalla flotta che risaliva il Nilo in altre città e ciò alienò ai franchi le simpatie di tutti gli egiziani, sia musulmani che copti. I franchi continuarono ad assediare altre città ma Shawar reagiva incendiando la città assediata e minacciando di farlo anche per il Cairo. Finché il figlio di Shawar, Kamil, non chiese aiuto a Nurradin al quale offrì un terzo dell’Egitto. Nurradin inviò subito Shirkuk che arrivò in breve tempo mentre Amalrico, sentendosi ormai sconfitto, decise la ritirata il 2 gennaio 1169. Appena sei giorni dopo Shirkuk entrava al Cairo dove in breve tempo, su consiglio di Saladino, condusse Shawar in una imboscata dove fu decapitato. Per evitare tumulti della folla permise a chiunque lo volesse di depredare la casa del visir e questo acquetò tutti. In breve tempo Shirkuk si impadronì dell’intero Egitto nominandosi visir e Re, spartendolo in emirati che tolse alla famiglia di Shawar per assegnarli ai suoi fedeli, senza incontrare resistenze in tutto ciò perché si mostrò giusto al contrario di quanto era stato l’odiato Shawar. Purtroppo per  lui, Shirkuk non godé a lungo della sua posizione, solo due mesi dopo, il 23 marzo 1169, morì d’indigestione.

          Amalrico si rese subito conto del gravissimo pericolo che correvano i regni cristiani ormai circondati da musulmani tutti sunniti ed inviò imponenti ambasciate in Europa per chiedere una nuova Crociata. Una prima flottiglia partita da Acri fu spazzata via da una tempesta e costretta a tornare in porto. Una seconda ambasciata arrivò a Roma da Papa Alessandro III nel luglio del 1169. Quanto ricavarono gli ambasciatori furono miserabili risposte. Il Papa indirizzò loro da Luigi VII di Francia che li fece attendere a lungo dicendo poi che aveva gravi problemi interni. L’Imperatore di Germania, Federico Barbarossa, aveva liti furibonde in corso con il Papa e non fu il caso di avvicinarlo in nome della cristianità. Dopo due anni gli ambasciatori tornarono a Gerusalemme a mani completamente vuote.

          Miglior successo ebbe un’ambasceria inviata a Bisanzio. Manuele che si rendeva conto dei gravi pericoli incombenti con la nuova situazione geopolitica, offrì ad Amalrico la sua flotta imperiale con la quale sarebbe stato possibile riconquistare l’Egitto visto che Nurradin era occupatissimo al Nord con questioni di successione e liti varie per eredità con suo fratello, e visto che Saladino, inesperto come governatore, aveva preso il posto di Shirkuk. Il 10 luglio la flotta imperiale partì dai Dardanelli al comando dell’arciduca Andronico Contostefano. A causa di ritardi nell’organizzare una nuova armata da parte di Amalrico, la flotta al completo fu pronta a partire da Acri intorno alla metà di ottobre con la grave conseguenza di aver ormai esaurito le scorte di viveri non rimpiazzabili in Palestina e tantomeno a Cipro, ancora sofferente per le devastazioni subite e di aver dato il tempo a Saladino di trucidare tutti gli oppositori tra gli ufficiali dell’esercito egiziano, dando inoltre fuoco alla caserma che ospitava le guarnigioni di quegli ufficiali.

          La flotta imperiale e l’esercito franco si diressero verso l’Egitto per vie separate: la prima naturalmente per mare e l’altro via terra. Colsero di sorpresa Saldino che aspettava un attacco altrove ma le fortificazioni del Cairo erano estremamente robuste. La flotta che tentava di risalire il Nilo fu bloccata da gigantesche catene tese tra le due rive del fiume. Il comandante della flotta, ormai privo quasi di viveri, voleva attaccare subito ma Amalrico studiava la costruzione di torri. La prima che fu costruita risultò sbagliata mentre era riuscito un attacco contro la flotta imperiale realizzato con navi incendiate fatte scorrere con la corrente che aveva originato gravi perdite. Inoltre arrivavano truppe fresche in aiuto degli assediati al Cairo e sembrava arrivassero rinforzi dalla Siria, ed ormai il tempo giocava contro gli attaccanti che a dicembre si resero conto che la loro impresa era fallita. I greci non avevano più di che alimentarsi mentre le piogge avevano trasformato l’accampamento franco in una palude: a questo punto si capì che era ora di ritirarsi. Il 13 dicembre i franchi incendiarono tutto ciò che non potevano trasportare e si ritirarono arrivando ad Ascalona il 24 dicembre. La flotta bizantina fu preda di una terribile tempesta che fece affondare varie navi. Per molti giorni il mare restituì cadaveri di greci sulle coste della Palestina. Il comandante si salvò e, con ciò che restava della flotta, arrivò al Bosforo agli inizi del 1170.

          Iniziarono così commerci tra Damasco ed il Cairo. I dubbi sulla fedeltà di Saladino a Nurradin si dissolsero con una visita del padre di Saladino, un fedele a Nurradin, al Cairo. Non vi furono scontri tra cristiani e musulmani per qualche mese e ciò fu anche per effetto di un violentissimo terremoto (29 giugno 1170) che impegnò cristiani a musulmani a ricostruire quanto era stato distrutto. Ad Antiochia si dette la colpa dell’ira divina al fatto che nella Cattedrale di San Pietro officiava il greco Atansio che, tra l’altro, morì sepolto dal crollo.

          Fu nel dicembre del 1170 che Saladino con un imponente esercito si presentò ai confini meridionali del regno di Gerusalemme iniziando l’assedio della fortezza di Daron. Amalrico accorse con un contingente molto ben addestrato e, quando arrivò a Daron, Saladino si spostò ad occupare Gaza dove trucidò tutti gli abitanti della parte bassa della città non osando attaccare la cittadella perché troppo ben fortificata. Mentre Saladino operava in tal modo a terra, una squadra navale egiziana occupò l’avamposto franco di Aila nel golfo di Akaba.

          Il 10 marzo 1171 lo stesso Amalrico si diresse verso Bisanzio per trattare il cosa fare con Manuele (anche Manuele aveva avuto gravi problemi in Cilicia dove Mleh di Armenia, fratello del principe armeno Thoros, morto nel 1168, aveva occupato Mamistra, Adana e Tarso, rivendicando per sé la successione). Non si conoscono i termini del trattato tra i due sovrani ma il 15 giugno 1171 Amalrico salpò verso la Palestina soddisfatto. In quei giorni il Patriarca Guglielmo di Tiro scoprì che il figlio di Amalrico e della prima moglie Agnese, Baldovino di 9 anni, aveva la lebbra. Questo potrebbe essere nel contesto delle crociate un episodio insignificante ma gli fu dato un grande rilievo in termini di punizione divina perché Amalrico ed Agnese erano, come già detto, consanguinei. Era un cattivo presagio anche per la successione. La nuova sposa Maria avrebbe potuto mettere al mondo dei figli ma sarebbe stato meglio, per precauzione, che l’altra figlia di Amalrico ed Agnese, Sibilla, fosse fatta sposare al più presto con qualche principe occidentale per dare alla luce un eventuale erede e perché tale principe, in caso di necessità, potesse fungere da Re. Il conte di Sancerre, Stefano di Champagne, accettò l’offerta e si sbarcò in Palestina nell’estate del 1171 poco prima che Amalrico tornasse da Bisanzio.

          Quando Amalrico tornò aveva troppi problemi con il regno, interruppe le trattative di matrimonio per recarsi a Nord con l’idea di tornare a Bisanzio. In Cilicia una banda di predoni di Mleh lo assalì derubandolo di tutto e costringendolo a tornare a Gerusalemme. Poiché i rapporti tra Saladino e Nurradin sembravano arrivati al punto di rottura, non sembrò più necessario quel viaggio. Nurradin avrebbe voluto che il rito sunnita fosse l’unico presente al Cairo con la cacciata del clero sciita ma Saladino aveva tergiversato per attuare in tal senso nel modo più indolore possibile. Intanto moriva il giovane califfo fatimita al-Adid e con lui si estingueva la dinastia dei Fatimiti.

          E Saladino non smise di minacciare i regni cristiani attaccando questa volta la fortezza di Montreal. Amalrico fu informato in ritardo e corse a difendere la fortezza ma, proprio quando arrivava, si profilò l’esercito di Nurradin. Di fronte a Nurradin Saladino levò l’assedio dicendogli che lo faceva per tornare al Cairo dove alcuni disordini stavano avendo luogo ma Nurradin interpretò il gesto come pura vigliaccheria meritevole di castigo. A questa posizione di Nurradin, Saladino non poté che rispondere, su consiglio del padre, con scuse e gesti di ubbidienza. Per ora soddisfatto Nurradin continuò ad attaccare i territori cristiani devastando le terre di Antiochia e di Tripoli, con la distruzione dei castelli di Safita ed Araima, ritirandosi solo dopo il pagamento di un copioso tributo. Ma Nurradin puntava all’intero Principato di Antiochia e per conquistarlo chiese aiuto ai Turchi Selgiuchidi di Iconio che però non accettarono essendo vincolati da un patto di vassallaggio con l’Imperatore Manuele (Nurradin liberò però Raimondo di Tripoli in cambio di una forte somma).

          Nel 1173 ricominciò la guerra. Amalrico si era recato a Nord per punire Mleh. Riuscì solo a fermare le sue scorrerie ma non a catturarlo mentre Nurradin invadeva a Sud l’Oltregiordano chiedendo anche aiuto a Saladino che accorse assediando la fortezza di Kerak. Nurradin da parte sua marciava per dar man forte con un esercito da Damasco e, anche questa volta, quando arrivò ad incontrare Saladino questi disse che doveva leva l’assedio perché suo padre era molto malato (e questa volta era vero ed il padre di Saladino morì al suo ritorno). Anche Nurradin, in agosto, dovette lasciare Kerak perché non aveva forze sufficienti e si ritirò furioso contro Saladino, ripromettendosi di attaccare l’Egitto la primavera seguente.

          Per parte sua Amalrico non poteva che rallegrarsi delle divisioni tra musulmani. Tra le varie brutte notizie questa era consolante insieme al fatto che la i Nazariti o setta degli Assassini avevano chiesto di poter collaborare con i regni cristiani contro Nurradin anche per evitare quei tributi che erano imposti loro dai Templari.

Il territorio montagnoso degli Assassini incuneato tra la Contea di Tripoli ed il Principato di Antiochia

          Amalrico accettò volentieri l’amicizia degli Assassini comunicatagli da una ambasceria promettendo loro che nessun tributo ulteriore doveva essere pagato. Al ritorno alle loro terre l’ambasceria fu trucidata dai Templari che non gradivano le decisioni di Amalrico. Questi si infuriò e non accettò scuse. Di fronte al rifiuto dei Templari di consegnargli il colpevole, Gualtiero di Mesnil, egli intervenne di persona catturandolo e gettandolo in prigione a Tiro. Amalrico chiese scusa agli Assassini che accettarono e chiese a Roma che l’ordine dei delinquenti Templari venisse sciolto.

          Il 15 maggio del 1174 Nurradin, mentre preparava a Damasco l’attacco all’Egitto (dove Saladino si preparava a fuggire cercando un luogo dove farlo tra Sudan ed Arabia, scegliendo quest’ultima), morì di tonsillite. Il suo successore fu il figlio Malik as-Salih Ismail che aveva però solo 11 anni e la reggenza fu presa con la forza dall’emiro Ibn al-Muqaddam che aveva lì appoggio anche della madre. Ma qui si scatenò la solita sarabanda dei pretendenti alla successione e/o reggenza e tra i pretendenti si fece avanti anche Saladino. Questa divisione tra musulmani fu subito sfruttata da Amalrico che attaccò subito la città di Banyas. Al-Muqqadam uscì da Damasco per incontrarlo ed offrirgli denaro e la liberazione dei prigionieri cristiani in cambio di un’alleanza contro Saladino. Amalrico accettò e, mentre tornava a Gerusalemme fu preso da un attacco di dissenteria che lo fece ammalare gravemente portandolo rapidamente alla morte l’11 luglio 1174, aveva 38 anni.

          In un momento così delicato accadevano due fatti che sarebbero stati cruciali negli anni seguenti: la scomparsa di un Re dalle capacità di Amalrico insieme a quella di un gran condottiero come Nurradin. Quest’ultimo evento riaprì la strada a Saladino mentre il primo significò la successione di incapaci nel Regno di Gerusalemme.

COSA ACCADEVA NEL FRATTEMPO A ROMA ?

Nel 1148 i rimasugli dell’esercito franco-tedesco della Seconda Crociata tornarono in Europa con disonore. Ma Papa Eugenio si disinteressava dei morti e dei disastri, in fondo le crociate sono sempre state diversivi, tanto è vero che, chiese a Corrado, al suo ritorno spossato dalla Terra Santa di aiutarlo a rientrare a Roma. Corrado comunque scese in Italia nel 1150 dove vi morì (1152) lasciando il trono al nipote, Federico Barbarossa. Con questo personaggio il Papa sigillò subito un patto (che diventerà nel 1153 il Patto di Costanza): il sovrano tedesco avrebbe spazzato via la Repubblica a Roma restaurando il potere pontificio anche temporale, in cambio il Papa gli promise l’incoronazione a Roma. Il Signore si riprese questo Papa prima che i patti con Federico diventassero operativi.

        Dopo la breve parentesi di Papa Anastasio IV (1153-1154) che seppe convivere con il Senato della Repubblica di Roma, fu eletto l’inglese Papa Adriano IV (1154-1159) che invece attaccò la Repubblica ponendosi al servizio di Federico. Ciò fece crescere nella città l’ostilità verso Chiesa e preti e costrinse Adriano a chiudersi in San Pietro. Il poco santo Papa, incapace di comprendere ciò che accadeva, addirittura scagliò contro l’intera città di Roma l’interdetto, una maledizione accompagnata dalla sospensione di ogni cerimonia religiosa e amministrazione di sacramenti, compresa la sepoltura dei morti. Ciò convinse le anime più semplici del popolo che si rivolse al Senato chiedendo di aderire alle richieste del Papa. Quest’ultimo chiese come prima cosa l’allontanamento di Arnaldo da Brescia un predicatore che si muoveva nello spirito originale dei Patarini che era stato già giudicato eretico dal Concilio Laterano II del 1139. Arnaldo aveva partecipato attivamente alla Repubblica ed aveva infiammato la popolazione contro i privilegi papali ed ecclesiastici, contro la degenerazione della Chiesa di Cristo. Naturalmente per queste colpe fu scomunicato da Eugenio III nel 1148. La richiesta di Adriano fu esaudita ed egli scappò da Roma rifugiandosi presso i Visconti di Campagnano che lo stimavano come fosse un profeta. Ma i Papi non perdonano e qui siamo in momenti in cui iniziano ad essere perseguitate le eresie: fu Barbarossa che, disceso in Italia per essere incoronato (1155), richiese ai Visconti la consegna di Arnaldo e a tale richiesta non si poteva dire di no. Tradotto in catene a Roma, Arnaldo venne condannato da un tribunale di preti, per il suo rifiuto del potere temporale del Papa e della Chiesa, ad essere impiccato, dopodiché fu bruciato e le sue ceneri furono gettate nel Tevere (1155) affinché non se ne recuperassero i resti mortali che sarebbero potuti divenire oggetto di venerazione(7). La Chiesa era ormai sulla strada del puro assassinio e con gli anni si specializzerà in torture, bracieri, impiccagioni fino alle decapitazioni e fucilazioni. Per maggior gloria di Gesù.

        Ma, dopo la cattura di Arnaldo, Roma fu liberata dall’interdetto ed ebbe una solenne messa in Laterano per Pasqua. Da questo momento il Papa seguì per 4 anni a barcamenarsi tra città italiane, imperatore tedesco, normanni, popolo di Roma, dimenticando completamente quella che qualcuno vorrebbe essere la sua funzione: vicario di Cristo. Morì lasciando il collegio cardinalizio diviso, e come no !, tra due fazioni, quella favorevole all’Imperatore, guidata dal nobile cardinale Ottaviano, e quella che voleva completa autonomia, guidata dal cardinale inglese Bosone, nipote di Adriano IV. Ed il lettore avrà capito già come segue la storia. Con ben tre antipapi, uno dopo l’altro.

        Venne eletto il senese Rolando Bandinelli che venne immediatamente destronato dal cardinale Ottaviano accompagnato da una schiera di armati entrati in San Pietro. Bandinelli, protetto dai Frangipane, si nascose e venne consacrato fuori Roma come Papa Alessandro III (1159-1181). Chiese ed ottenne la protezione normanna. Intanto Ottaviano si era fatto consacrare con il nome di Vittore IV (nome già usato dall’ultimo antipapa). Ritorniamo alla situazione che a scegliere chi ha diritto al titolo di Papa è l’Imperatore e non il tanto auspicato autonomo ma corrotto clero (il popolo era già stato eliminato dal diritto di parola). Arrivò la sentenza di Federico favorevole a Vittore anche se questi era stato scomunicato da Alessandro III [davvero chiedo a chi legge se, cambiando i nomi, sia possibile spostarsi di centinaia d’anni indietro o avanti accorgendosi della traslazione. E chiedo anche retoricamente se questa è la Chiesa di Cristo o una banda di criminali che usando il nome di un disgraziato morto sulla Croce si ingrassa spudoratamente]. Federico inibì le gerarchie di operare in qualunque modo prima che un Concilio che egli avrebbe convocato a Pavia (1160) avesse deciso. In punta di diritto Alessandro, contrariamente a Vittore, non si recò a Pavia: la Chiesa non è giudicabile da nessuno ed è nella sua sola facoltà la convocazione di Concili. Per reazione a quel Concilio, di una cinquantina di vescovi tedeschi e norditaliani, Alessandro venne scomunicato. La mossa di Alessandro solleticò il nazionalismo italiano che si schierò con Alessandro contro l’Imperatore straniero. Il vescovo di Milano scomunicò sia Barbarossa che Vittore. Subito dopo anche Alessandro confermò la scomunica svincolando inoltre tutti i regnanti e sudditi cristiani dal giuramento di fedeltà a Barbarossa. E mentre i sovrani di tutti gli Stati europei si schierarono con Alessandro, Barbarossa furibondo preparò un attacco a Milano ritenuta responsabile della non ubbidienza all’Impero delle città del Nord. Dopo la devastazione di città vicine, assediò Milano e dopo un anno la conquistò (1162) radendo al suolo le mura e gran parte della città che fu dispersa in quattro zone limitrofe. Le vicende portarono ad un successivo indebolimento di Barbarossa che scese di nuovo in Italia (1163) con un piccolo esercito senza riuscire a concludere nulla nei riguardi di varie città del Nord che si erano sollevate contro di lui. Intanto Alessandro aveva cercato l’alleanza con il Re di Francia ed aveva incassato l’appoggio del Re d’Inghilterra. Barbarossa pensò di riappacificarsi con Alessandro in concomitanza con la morte di Vittore IV (1164) ma fece prima un suo uomo di fiducia, Rainaldo di Dassel, a far nominare un nuovo antipapa nella persona del nobile Guido da Crema che assunse il nome di Pasquale III. Costui per esaudire l’Imperatore Barbarossa, canonizzò Carlo Magno quale iniziatore dell’Impero Germanico. Di nuovo Barbarossa scese in Italia con un possente esercito. Arrivò a Roma, l’assediò e dopo scontri violentissimi e sanguinosissimi riuscì ad arrivare ad occupare San Pietro (1167) dove insediò Pasquale III che lo incoronò finalmente Imperatore del Sacro Romano Impero. A questo punto iniziò la vendetta contro la città, devastata incendiata, fatta oggetto di terrore contro gli abitanti. Intervenne una pestilenza sull’esercito tedesco che sembrò un segno divino ed iniziò una resistenza durissima capeggiata dai Frangipane e dai Pierleoni. Barbarossa, visto il rifiuto generalizzato della popolazione e le morti continue tra i suoi, se ne tornò in Germania mentre Alessandro III, che nel frattempo si era rifugiato a Benevento tra i Normanni, divenne il simbolo ideale delle città del Nord che si erano costituite presso l’Abbazia di Pontida nel 1167 in una Lega di Comuni cui parteciparono Milano, Piacenza, Parma, Modena, Genova, Bologna, Reggio Emilia, e molte altre città (circa 30). Da qui gli avvenimenti si fanno concitati. Moriva nel 1168 il secondo antipapa e subito se ne fece un terzo, Callisto III. Barbarossa era sempre più furibondo contro vari eventi italiani, Alessandro III, le città del Nord e la città di Alessandria fondata in Piemonte dalla Lega dei Comuni e chiamata in tal modo in onore di Alessandro III (era una fortezza antimperiale ai confini del marchesato del Monferrato schierato con l’Imperatore). Decise una nuova discesa (1174), invocato anche da alcune città del Nord come Pavia, Como e Lodi che chiedevano il suo aiuto contro la prepotenza di Milano, per sbarazzarsi di quelle fastidiosissime città che lo avversavano. Con esse sarebbe anche caduto Alessandro. Iniziò con Alessandria che assediò per sei mesi senza riuscire a conquistarla. A questo punto Barbarossa, avendo perso il suo maggiore alleato, Enrico XII di Baviera detto il Leone, che era in guerra contro i nemici slavi e danesi, pensò bene di chiedere un armistizio a Montebello nel 1175. I Comuni pretesero un qualche riconoscimento che Barbarossa rifiutò e quindi non venne accettata nessuna tregua. Dopo un anno di posizionamenti che permise l’arrivo di rinforzi dalla Germania e dal Monferrato (non numerosi come avrebbe desiderato) all’Imperatore, il 29 maggio 1176 si arrivò allo scontro tra l’esercito imperiale e l’esercito dei Comuni a Legnano(8). I Comuni bloccarono i rinforzi impedendo che si unissero al grosso dell’esercito e riuscirono a sconfiggere quell’esercito che era il terrore di mezza Europa. In realtà la sconfitta militare non fu pesante quanto il duro colpo politico e morale al prestigio dell’Impero. A seguito della sconfitta Barbarossa firmò la pace con Alessandro recandosi sul suo territorio, ad Anagni, e qui riconoscendolo unico Papa legittimo, rinunciando di interferire su Roma. Ma i Papi non si interesseranno mai delle sorti altrui. Hanno il solo fine di vivere al meglio un’esistenza separata dal mondo alle spese del mondo. Questa pace firmata tra Alessandro e Barbarossa fu una pace separata che di fatto escludeva i Comuni che erano invece coloro che avevano sbaragliato le mire egemoniche di Barbarossa. Questa pace produsse il progressivo indebolimento della Lega dei Comuni che andò sfaldandosi ed in definitiva risultò un successo politico per Barbarossa che iniziò a firmare paci separate, certamente molto più vantaggiose per lui, con i singoli Comuni. Una pace generale si raggiunse solo nel 1183, a Costanza, dopo la morte di Alessandro III nel 1181. A Costanza l’Imperatore riconobbe l’autonomia delle città ma come privilegio imperiale e ciò voleva dire, oltre al riconoscimento dell’Imperatore come entità superiore, che le città dovevano pagare ingenti tasse all’Impero. In definitiva Barbarossa poteva presentarsi ancora come l’alfiere del Papato e vide aumentato prestigio ed influenze anche perché riuscì a combinare il matrimonio (1186) di suo figlio Enrico VI con Costanza d’Altavilla, unica erede del trono siculo-normanno, che legava l’Impero tedesco con i Normanni che regnavano nel Sud d’Italia. Ultimo avvenimento che potenziò l’immagine di Barbarossa fu la Terza Crociata indetta (1187) da Papa Clemente III (1187-1191)(9) per la riconquista di Gerusalemme. Fu lo stesso Barbarossa che si avviò a capo del suo esercito in Terra Santa (1189). Anche qui l’intervento divino sbarazzò la storia di costui che, nel 1190, annegò attraversando un fiume in Asia Minore.

        Alla morte di Federico Barbarossa salì al trono il figlio, Enrico VI che sopravvisse pochissimo al padre. Morì infatti nel 1197 lasciando come erede il figlio, Federico II, di soli 3 anni. Fu necessario che la madre, Costanza d’Altavilla, assumesse la tutela del piccolo mentre era impegnat anche al governo non facile della Sicilia dove vi erano lotte tra fazioni normanne e tedesche. La reggenza di Costanza durò un anno perché nel 1198 Costanza morì avendo comunque già rese operative le volontà di Enrico VI che aveva fatto molte concessioni alla Chiesa (signoria feudale sulla Sicilia e riduzione dei diritti di nomina dei vescovi all’autorità civile) in cambio dell’incoronazione del figlio Federico II. Costanza, prima di morire, affidò la custodia e la tutela del piccolo Federico II al nuovo Papa, Innocenzo III (1198-1216)(10).

NOTE

  • I crociati indossavano una sopraveste bianca con una croce rossa ordinaria.
  • Queste scorte armate divennero ben preso un esercito numeroso, tanto da intervenire autonomamente in battaglia contro i musulmani. I suoi soldati indossavano una sopraveste nera con una croce bianca amalfitana.
  • I templari indossavano una sopraveste bianca con una croce rossa di Malta.

(4) . Il 1° marzo 1756 fu il Papa Benedetto XIV a parlarci di quegli episodi orrendi nella sua Enciclica A quo primum. Scriveva il Papa, quasi che la cosa fosse stata una ragazzata e dandoci la sua lezione di perfetto antisemitismo:

Il famoso monaco Radulfo, sospinto una volta da eccesso di zelo, a tal punto s’infiammò contro i Giudei che nel secolo dodicesimo, in cui visse, percorse la Gallia e la Germania e, predicando contro gli stessi Giudei, in quanto nemici della nostra Santa Religione, infiammò anche i Cristiani a tal segno che li distrussero fino allo sterminio: e questo fu il motivo per cui i Giudei furono massacrati in gran numero. E che cosa mai si ritiene che quel monaco farebbe o direbbe oggi se fosse tra i vivi e se vedesse ciò che accade attualmente in Polonia? A questo eccessivo e furente zelo di Radulfo si oppose quel grande San Bernardo, che nella sua Epistola 363, inviata al Clero e al Popolo della Gallia Orientale, così lasciò scritto: “Non si deve perseguitare gli Ebrei, non si deve ucciderli, ma nemmeno cacciarli. Interrogateli circa le Divine pagine. Ho inteso la profezia che nel Salmo si legge circa i Giudei: Dio mi pose sopra ai miei nemici, dice la Chiesa, non perché li uccidessi, neppure quando si dimenticano del mio Popolo. Senza dubbio le vive scritture ci rappresentano la Passione del Signore. Perciò gli Ebrei sono dispersi in tutte le terre e, fin tanto che non avranno espiato la giusta pena per l’immane delitto, siano testimoni della nostra Redenzione“. Poi, nella epistola 365 ad Enrico, Arcivescovo di Magonza, così egli scrive: “Forse che ogni giorno la Chiesa non trionfa sui Giudei o convincendoli o convertendoli e quindi con più frutto che se in un sol tratto e insieme li annientasse con la punta della spada? Forse che vanamente è stata composta quella universale preghiera della Chiesa che viene innalzata a favore dei perfidi Giudei, dall’alba fino al tramonto, affinché il Dio e Signore strappi il velame dai loro cuori, in modo che dalle loro tenebre siano condotti alla luce della verità? Se infatti fosse vana la speranza che essi, increduli quali sono, diverranno credenti, superfluo e vano parrebbe pregare per essi“.

Contro Radulfo anche l’Abate cluniacense Pietro, nello scrivere a Ludovico Re dei Franchi, lo esortò a non permettere che si compissero eccidi di Giudei. E invero al tempo stesso lo incitò a rivolgere l’attenzione verso di loro per i loro eccessi e a spogliarli dei loro beni, o carpiti ai Cristiani o accumulati con l’usura, e a trasferire il loro danaro in uso e beneficio della Santa Religione, come si può leggere negli Annali del Venerabile Cardinale Baronio “nell’anno di Cristo 1146“.

Noi pure, non meno in questa questione che in tutte le altre, abbiamo assunto la stessa norma di comportamento che tennero i Romani Pontefici Nostri Predecessori. Alessandro III, minacciando gravi pene, proibì ai Cristiani di prestare servizio continuato alle dipendenze di Giudei: “Non si offrano ai Giudei in assiduo servizio per alcuna mercede“. Il motivo di ciò è esposto dallo stesso Alessandro III con le parole che seguono: “Perché i costumi dei Giudei e i nostri non concordano affatto; gli stessi (ossia i Giudei) facilmente attraggono gli animi delle persone semplici alla loro perfida superstizione con la continua convivenza e con l’assidua familiarità“;così si legge nel Decretale: Ad haec, de Judaeis. Innocenzo III, dopo aver spiegato per qual motivo i Giudei erano accolti dai Cristiani nelle loro città, ammonisce che il metodo e la condizione di tale accoglienza devono essere regolati in modo che essi non ricambino il beneficio con il maleficio. “Coloro che per misericordia sono ammessi alla nostra familiarità, ci ripagano con quella ricompensa che erano soliti offrire ai loro ospiti, secondo un proverbio popolare: un sorcio in bisaccia, un serpente in grembo e fuoco nel seno“.

Lo stesso Pontefice, aggiungendo che è conveniente che i Giudei siano asserviti ai Cristiani e non già che questi prestino orecchio a quelli, così prosegue:”Che i figli di una donna libera non siano al servizio dei figli di un’ancella, ma come servi riprovati da Dio, in quanto tramarono crudelmente per farlo morire, si riconoscano almeno servi di coloro che la morte di Cristo rese liberi, e quelli servi per effetto del loro operato“. Queste parole si trovano nel suo Decretale: Etsi Judaeos. In altri Decretali ancora: Cum sit nimis sotto lo stesso titolo De Judaeis et Saracenis affinché i Giudei non siano assunti in pubblici impieghi, prescrive: “Sia vietato preferire i Giudei in pubblici uffici, poiché in tale veste sono dannosi soprattutto ai Cristiani“.

(5) Uno studio di Miriam Davide sugli stereotipi antiebraici nel Medioevo lo si può trovare in http://www2.units.it/storia/DOTTORATO/Davide.htm.

Una delle accuse più spregevoli che veniva fatta agli ebrei era quella dell’omicidio rituale (accusa che iniziò in Inghilterra, a Norwich nel 1144) che consisteva, secondo la credenza popolare, nel sacrificio di un bambino cristiano da parte ebraica per irridere la passione di Cristo, oppure per scopi liturgici in cui era essenziale fare libagioni di sangue. IL Cristianesimo, senza pudore riprendeva antiche credenze pagane e le faceva sue. Inoltre mostrava che la grande novità del Nuovo Testamento rispetto alla barbarie del Vecchio era lettera morta. Bastava applicare agli ebrei uno dei massimi insegnamenti di Gesù per risolvere ogni problema: Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te.

(6) Manuele I Comneno, quartogenito di Giovanni II Comneno, fu imperatore dal 1143 al 1180. Il padre, come detto, era Giovanni II Comneno, il terzogenito, ma il primo figlio maschio, di Alessio I Comneno, imperatore dal 1118  al 1143. Alessio I Comneno era il figlio terzogenito di Giovanni Comneno e, come visto nella Prima Parte, fu imperatore dal 1081  al 1118.

(7) Leggiamo come racconta Gregorovius [storico tedesco che terminò di scrivere la sua opera nel 1876, pochi anni dopo la realizzazione dell’Unità d’Italia con al conclusiva Breccia di Porta Pia] gli avvenimenti che ho brevissimamente riassunti in questo capoverso. Occorre premettere che anche con Gregorio VII il popolo romano doveva dare il suo assenso, magari era solo formale, all’elezione di un Imperatore. Ora accadeva che non solo il popolo risultava espropriato dal dare il suo assenso all’elezione del papa ma anche a quella dell’Imperatore. Infatti Federico arrivava a Roma senza aver fatto richiesta formale all’autorità della città che, in questo periodo, era il Senato della Repubblica. Ebbene degli ambasciatori della città andarono incontro a Federico in arrivo per chiedergli l’approvazione della Costituzione della città e fargli presente le difficoltà del popolo di Roma di fronte ad un sovrano che si presentava solo come occupante in sodalizio solo con il Papa. Da questo punto inizia il brano di Gregorovius:

La dissennatezza che aveva spinto i Romani a provocare con tanta esagerata fiducia in se stessi quell’uomo potente si addiceva perfettamente all’alta idea che essi si erano fatti della Città Eterna, cui credevano di aver rifuso nuova vita con l’istituzione del senato; ma se in quel momento nella tenda imperiale si fosse trovato un uomo capace di superare i limiti inteìlettuali della propria epoca, egli avrebbe potuto ridere davvero di cuore sentendo Federico stesso condividere l’esaltazione dei senatori e la loro fantastica idea del legittimo potere sul mondo posseduto dall’imperatore romano.

 
Gli ambasciatori romani tornarono a Roma col cuore gonfio di stizza. Ora Federico non poteva aspettarsi altro dalla repubblica se non che gli chiudesse in faccia le porte e difendesse la città. Il papa [vero nemico in casa, ndr] gli consigliò di occupare nascostamente la Leonina con truppe scelte, che sarebbero state accolte ivi dai suoi, e suggerì anche di mandare con questa schiera il cardinale filotedesco Ottaviano, suo ambizioso rivale, che in tal modo veniva allontanato dalla tenda dell’imperatore. Mille cavalieri partirono all’alba del 18 giugno e occuparono la città Leonina senza incontrare resistenza.

 
Quello stesso giorno, senza ricevere il saluto dei Romani, Federico, sceso da Monte Mario, entrò in ordine di battaglia nella Leonina dove era atteso dal pontefice che lo aveva preceduto. L’incoronazione si svolse immediatamente nel duomo di S. Pietro, occupato militarmente. Possente come un tuono echeggiò nell’alta basilica il grido di giubilo dei Tedeschi, quando il giovane Cesare prese in mano la spada, lo scettro e la corona dell’impero. Roma, però, non lo riconobbe come suo imperatore; la città rimase sbarrata e il popolo si raccolse sul Campidoglio, dove si ergeva il palazzo dei senatori, ultimato da poco, Quanto confusa e fallace fosse persino a Roma l’idea dell’impero, lo, dimostrano queste incoronazioni compiute nel sobborgo pontificio, mentre ansiosamente si aspettava che i Romani, dai quali gli imperatori traevano il loro titolo, irrompessero in armi” dai ponti del Tevere. La diversità di cultura, di esigenze e di origine costituiva un abisso incolmabile che separava dai Romani gli imperatori di nazione tedesca. Essi odiavano in Adriano IV lo straniero che dominava la loro patria; tuttavia lo veneravano anche perché era il pontefice; ma Federico già allora doveva riuscir loro insopportabile. Egli non aveva giurato le leggi della città, come tutti gli altri imperatori si erano dati cura di fare, né aveva atteso e tanto meno pagato con doni l’elezione o la tradizionale acclamazione dei Romani; essi perciò avevano buoni motivi per sentirsi lesi nei propri diritti. La richiesta, che gli era stata fatta, di approvare la loro costituzione, era ragionevole ed egli fu incauto nell’opporvi un rifiuto. Sarebbe venuto un tempo in cui l’imperatore; costretto a pentirsi, avrebbe prestato giuramento a quei cittadini tanto disprezzati. Dopo che i papi avevano cessato di essere candidati eletti dal popolo romano, quest’ultimo. si era visto portare via anche il diritto di partecipare all’elezione del suo imperatore; ma in un tempo in cui le antiche tradizioni permeavano tutti i concetti giuridici sia civili che politici, i Romani non potevano piegarsi a riconoscere che la Città Eterna non aveva ormai altra funzione che quella di essere il luogo dove l’imperatore e il papa ricevevano la loro consacrazione solenne. Mentre altre città rifulgevano per ricchezza e potenza, Roma aveva un solo motivo d’orgoglio: essere Roma. Gregorio VII aveva affidato al papato la missione di rappresentare la monarchia universale e i Romani, dal canto loro, sognavano di fare lo stesso per mezzo della maestà del popolo e della dignità imperiale da esso conferita.

 
Per secoli e secoli le loro pretese ereditarie e le loro lotte coi papi, che cercavano di spogliare la città della sua veste politica, hanno dato alla sua storia un carattere tragico che non ha l’eguale nella vita dell’umanità. In questa battaglia combattuta sempre contro lo stesso destino, battaglia che si protrasse fino ai giorni nostri e sotto la cui impressione noi ci troviamo mentre scriviamo questa storia della città, gli unici alleati dei Romani furono le mura Aureliane, il Tevere, la malaria e le ombre e i monumenti dei loro grandi antenati. Solo oggi che aspira unicamente al comune rango di capitale, la città di Roma ha trovato un difensore e un alleato nella nazione italiana.


Dopo l’incoronazione l’imperatore si recò nel suo accampamento, nei Prati Neroniani, mentre il papa si tratteneva nel Vaticano; il pomeriggio, stesso i Romani irrompevano inferociti nella città Leonina dopo aver attraversato, i ponti del Tevere. Trucidarono quanti nemici isolati trovarono, assalirono preti, cardinali e fautori della causa imperiale e si gettarono infine sull’accampamento di Federico, sperando forse di liberare il loro profeta Arnaldo. L’imperatore e i suoi uomini balzarono in piedi abbandonando il banchetto dell’incoronazione; corse voce che il papa e i cardinali fossero caduti nelle mani del popolo. Enrico il Leone, passando attraverso la breccia aperta tanto tempo prima da Enrico IV, irruppe nella Leonina e piombò alle spalle dei Romani; ma anche per quell’esercito, che era il più valoroso di tutti, non fu facile avere la meglio sui cittadini di Roma. li loro splendido coraggio dimostrò che la fondazione della Repubblica non era stata soltanto un frutto di fantasia. A Castel S. Angelo e, coi trasteverini, presso l’antica piscina, si combatté fino a tarda notte con alterna fortuna, fino a che i Romani dovettero soccombere al numero superiore dei nemici. Scrive lo storico tedesco: « Bisognava vedere i nostri come davano addosso ai Romani, quasi volessero dire: qui, Roma, prenditi ferro tedesco in cambio di oro arabo; cosi la Germania si compra l’impero!». Circa un migliaio di Romani furono passati a fil di spada o annegati nel fiume; molti di più furono i feriti, press’a poco 200 i prigionieri; gli altri si diedero a fuga precipitosa e furono accolti nella città saldamente fortificata, mentre Castel S. Angelo, che era in mano ai Pierleoni, restava neutrale.

 
La mattina dopo, il papa si presentò al campo dell’imperatore e pregò quest’ultimo di lasciar liberi i prigionieri [che infame !, ndr], che furono invece affidati al prefetto Pietro. Tuttavia la pur cruenta vittoria era stata cosi incompleta che questo grande imperatore che si considerava il legittimo signore del mondo dovette andarsene via senza aver messo piede a Roma. I Romani in quell’occasione si mostrarono veramente degni della propria libertà; virilmente asserragliati dietro le proprie mura, sfidarono l’imperatore, si rifiutarono di rifornirlo di viveri e vollero continuare la lotta. Perciò, il 19 giugno, Federico fu costretto a togliere il campo. Condusse con sé il papa e i cardinali, che fuggivano tutti da Roma, e si diresse quindi verso il Soratte. Durante la marcia attraverso il territorio romano fece radere al suolo tutte le torri che i grandi di Roma avevano fatto erigere sui loro possedimenti.

 
E’ probabile che allora, e proprio in quella campagna nei dintorni del Soratte, abbia avuto luogo la esecuzione di Arnaldo. La fine di quel famoso demagogo è oscura quanto quella di Crescenzio, poiché i contemporanei vi accennano di sfuggita e con una sorta di timidezza. Dopo la sua estradizione, egli era stato consegnato al prefetto della città. Questi insieme coi suoi, una potente famiglia di capitani che aveva ricchissimi possedimenti nella contea di Viterbo, aveva combattuto a lungo contro il comune romano e a causa di esso aveva subito danni non indifferenti; perciò odiava ferocemente Arnaldo. Fu certo con l’approvazione dell’imperatore che egli lo condannò a morte come ribelle ed eretico dopo una probabile sentenza del tribunale ecclesiastico. Lo sventurato rinunziò coraggiosamente all’appello; dichiarò che le proprie dottrine erano giuste e salutari e dichiarò di essere pronto a morire per esse. Chiese soltanto una piccola dilazione per confessare a Cristo i suoi peccati; pregò in ginocchio con le mani levate al cielo e raccomandò a Dio la propria anima. Gli stessi carnefici furono mossi a compassione. Cosi narra una poesia scoperta di recente, composta da un bresciano seguace dell’imperatore. Anche costui, come altri autori contemporanei, dice che Arnaldo fu prima impiccato e poi bruciato, per evitare che qualche reliquia giungesse fino ai Romani, e questo dimostra sino a qual punto il popolo lo avesse adorato. Secondo altri, le sue ceneri furono sparse nel Tevere. Il luogo del supplizio non fu mai individuato con esattezza.

 
Il fumo che si levò da quel rogo oscurò la maestà del giovane re le cui mani si erano tanto spesso lordate di sangue; Arnaldo fu sacrificato alle esigenze politiche del momento, ma sopravvissero i suoi vendicatori, i cittadini delle città lombarde che un giorno avrebbero piegato Federico a riconoscere la gloriosa opera della libertà cui lo spirito del monaco di Brescia aveva tanto efficacemente contribuito. Spesso la mano dei forti, senza che la loro mente lo preveda, mette in moto ingranaggi che provocano grandiosi avvenimenti, dai quali essi stessi sono sopraffatti. L’Arnaldo da Brescia che stava davanti a Federico non era lo stesso uomo che è oggi per noi, e ben poco il re doveva aver sentito parlare di lui. Che cosa poteva importargli della vita di quell’eretico? Se poi, al contrario, era informato sulla sua persona certo non era ben disposto verso questo lombardo dalle idee politiche innovatrici, lui che era stato in lotta con le città dell’Italia settentrionale e con Roma stessa. Così egli ne annientò la forza benché più tardi essa avrebbe potuto essergli di grande aiuto. Bisogna dire che a Roma Federico non diede prova di molta accortezza; invece di ricondurre la democrazia romana nei suoi giusti limiti – cosa che non gli sarebbe stato difficile attuare – mostrando fermezza e benevolenza al tempo stesso, e anziché strapparla all’influenza del papa per ricondurla sotto l’autorità dell’impero, egli ciecamente la respinse da sé. In tal modo si inimicò molte altre città e vide infine miseramente fallire tutti i suoi dissennati progetti.

 
Arnaldo da Brescia apri la serie dei gloriosi martiri della libertà che morirono sul rogo, ma il cui spirito indomito risorse come una fenice dalle fiamme per sopravvivere nei secoli.

 
Si potrebbe definirlo profeta, tanto chiaramente egli penetrò l’essenza dell’epoca sua, tanto lontano egli vide perseguendo uno scopo che Roma e l’Italia avrebbero raggiunto 700 anni dopo di lui. La coscienza del tempo in cui visse, ormai matura, fece di lui un riformatore geniale, sicché il primo eretico politico del Medioevo nacque dalla lotta per le investiture e ne fu la naturale conseguenza. La lotta tra i due poteri e la trasformazione delle città furono i grandi fenomeni concreti che gli servirono da fondamento storico. Una necessità interiore dovette guidarlo là dove stava la radice di tutti i mali. Se non avesse sperimentato a Roma se stesso, se ivi non avesse trovato la morte, Arnaldo avrebbe rappresentato il suo tempo in maniera incompleta. Roma, schiacciata contemporaneamente sotto il peso dell’antica grandezza e delle due massime potenze del mondo, non poteva durevolmente mantenere la sua libertà. Tuttavia la sua costituzione, cui Arnaldo aveva tanto contribuito in qualità di legislatore, resistette ancora a lungo dopo di lui; né a Roma si estinse mai la scuola degli arnaldisti, cioè dei politici. Tutto ciò che sul piano filosofico o su quello pratico si è opposto al carattere secolare del sacerdozio, ha sempre trovato in Arnaldo una esemplificazione storica; questo è tanto più vero in quanto le sue teorie non vennero mai guastate da volgari finalità tanto che persino i suoi più acerrimi oppositori riconobbero che egli era spinto soltanto da imperativi spirituali. Per la grandezza del tempo in cui viss e per il vigore del suo pensiero Arnaldo supera di gran lunga tutti coloro che sorsero dopo di lui a combattere per la libertà di Roma. Il Savonarola, al quale egli è stato paragonato, può suscitare un moto di repulsione in un animo virile per il suo spirito schiettamente monastico e l’affiato taumaturgico che da lui emanava; ma dell’amico di Abelardo non si narrano né oracoli né portenti; egli appare sano, vigoroso e chiaro, sia che lo fosse veramente, sia che la storia abbia taciuto molte cose di lui; le sue dottrine avevano tanta vitalità da essere ancora attuali oggi, nell’anno 1862. Ai nostri giorni Arnaldo da Brescia sarebbe ancora l’uomo più popolare d’Italia; è tanto arduo, infatti, infrangere quelle catene che dal lontano Medioevo tengono avvinte Roma e l’Italia, che lo spirito di quel monaco eretico del XII secolo, non può ancora trovare riposo e continua ad errare senza pace per le strade di Roma [con la Chiesa ancora oscenamente al potere, ndr].
Federico passò il Tevere presso Magliano e attraverso Farfa, sulle orme di Enrico IV, giunse a Ponte Lucano. Ivi, nell’accampamento tedesco, fu celebrata con pompa solenne la festività di Pietro e Paolo e in questa occasione il papa assolse le truppe germaniche dai peccati commessi, mondando le loro anime dal sangue versato a Roma [infame !, ndr]. Le città della Campagna si affrettarono a pagare all’imperatore il gravoso foderum [l’obbligo di alimentare i soldati e la corte imperiale al passaggio per le loro terre, ndr], altre gli resero omaggio mettendosi sotto la sua protezione e Tivoli, che in odio ai Romani si era schierata dalla parte del papa, sperò in quel momento di liberarsi anche dal giogo di quest’ultimo. Ambasciatori del comune alla cui testa c’erano ormai senza dubbio i consoli, consegnarono all’imperatore, che riconoscevano come capo supremo, le chiavi della città. Per vendicarsi dei Romani, questi avrebbe rafforzato volentieri una città nemica del senato, ma Adriano rivendicò, i diritti della Chiesa e l’imperatore sciolti i Tivolesi dal giuramento di sottomissione, restituì loro la città. Questo fu il solo misero compenso che il papa ricevette da Federico, il quale non aveva potuto mantenere la promessa di fare di lui il signore di Roma.
Proseguì quindi per Tuscolo e fino alla fine di luglio si trattenne con Adriano sui monti Albani. Di la fingeva di voler riprendere le ostilità contro Roma, ma in realtà la sua spedizione non aveva nessuno scopo; né poteva acconsentire alla preghiera di portare la guerra in Puglia contro Guglielmo I, perché i suoi grandi vassalli tedeschi ragionevolmente vi si opponevano, né in quella stagione dell’anno poteva intraprendere qualche cosa ai danni di Roma. Perciò, quando le febbri estive contagiarono i soldati, tra i quali già serpeggiava il malcontento, dovette prendere la via del ritorno, non senza un moto di dolorosa vergogna, e abbandonare al suo destino il pontefice. Consegnatigli i prigionieri, egli si congedò da lui a Tivoli e poi, dopo essere passato per Farfa, prese la via del ritorno. Durante la sua marcia verso la patria, la longobarda Spoleto, città ricca di onore e di fama, fu messa a ferro e fuoco con barbaro furore. Con pieno diritto lo Hohenstaufen poteva farsi. chiamare ora, come l’antico Demetrio, «distruttore di città».

(8) Riporto da Wikipedia le notizie su una leggenda nata intorno alla Battaglia di Legnano. Devo farlo visto che alcuni valliggiani del Nord utilizzano la leggenda a fini politici:

Come afferma Federico A. Rossi di Marignano nella sua biografia su Federico Barbarossa, il nome di un Alberto de Gluxano appare per la prima volta in una pergamena di data incerta, risalente secondo gli studiosi al 1196, posteriore cioè di vent’anni alla battaglia di Legnano. Il documento, conservato nell’Archivio dell’Ospedale Maggiore di Milano, contiene una supplica sottoscritta da alcuni abitanti di Porta Comacina che si appellavano contro una sentenza dell’arcivescovo di Milano a un papa indicato con la sola iniziale del nome: C., probabilmente Celestino III. Il nome di Albertus de Gluxano è il ventottesimo in un elenco di cinquanta postulanti. Un Alberto de Gluxano è dunque realmente esistito nella seconda metà del XII secolo, ma non è documentata la sua coincidenza con il leggendario eroe di Legnano. Con l’esclusione della possibile provenienza, Giussano, una città a 25 km a nord di Milano, non si hanno notizie storiche e biografiche certe. Appare per la prima volta nella cronaca storica della città di Milano scritta dal frate domenicano Galvano Fiamma nella prima metà del XIV secolo. La cronaca fu scritta per compiacere Galeazzo Visconti signore di Milano, ricostruendo la storia del medioevo del comune in toni eroici. Alberto venne descritto come il cavaliere che si distinse insieme ai due fratelli nella battaglia di Legnano del 29 maggio 1176 per aver guidato la Compagnia della Morte.

Secondo Galvano Fiamma, egli fondò, organizzò ed equipaggiò la Compagnia della Morte descritta come un’associazione militare di 900 giovani cavalieri scelti con il compito di difendere fino alla morte il carroccio, simbolo della Lega Lombarda, contro l’esercito imperiale di Federico I Barbarossa, imperatore del Sacro Romano Impero. Tale Compagnia della Morte sarebbe stata per la verità assemblata alla svelta e composta quasi totalmente da Bresciani o cavalieri provenienti dalle regioni orientali della Lombardia e forniti da quei comuni che, primo fra tutti Brescia, appoggiarono l’ideale comunale (e papale) contro quello imperiale (la città di Alessandria stessa deve il suo nome al papa che appoggiò i comuni contro l’impero). Alberto da Giussano, secondo alcune credenze verificabili in maniera incrociata potrebbe, ma non esiste sicurezza, essere stato podestà, “notaro” o altrimenti pubblico funzionario. Tale credenza è rafforzata dalla origine (Giussano) in un contesto sì Lombardo, ma di portata certo superiore (i pubblici funzionari erano originari di altri comuni per evitare “conflitti di interessi”). Alcuni storici ritengono tuttavia la sua figura poco attendibile in quanto “troppo romanzata ed idealizzante“. Nell’immaginario collettivo egli rimane comunque un simbolo della battaglia di Legnano celebrata durante il risorgimento come una vittoria del popolo italiano contro l’invasore straniero, tanto da esser inclusa nel “Canto degli Italiani” di Goffredo Mameli e da diventare l’argomento dell’omonima opera di Giuseppe Verdi, senza però citare il leggendario condottiero.

Sebbene più recentemente Alberto da Giussano sia divenuto un simbolo per alcuni movimenti indipendentisti del Nord, vale la pena ricordare che fu invece l’intervento dell’Imperatore Barbarossa ad essere in realtà invocato proprio da alcuni Comuni, come Lodi, Pavia e Como, che ne implorarono l’aiuto contro la prepotenza di Milano che, dopo aver distrutto Lodi e dopo aver vinto una guerra decennale contro Como (1127), ne limitava l’indipendenza e impediva lo sviluppo delle altre città.

Nel 1876, in occasione del settecentesimo anniversario della battaglia, il comune di Legnano, stimolato da un discorso di Garibaldi tenuto in città nel 1862, fece erigere in suo onore una statua che lo raffigura, inizialmente realizzata dallo scultore Egidio Pozzi e poi sostituita nel 1900 da un’altra realizzata da Enrico Butti. La statua definitiva, rappresenta l’eroe in una posa poi diventata famosa, con la spada alzata e lo scudo nella sinistra e si trova in Piazza Monumento, nei pressi della stazione ferroviaria.

Nel 1879 Giosuè Carducci ne fece uno dei protagonisti della sua celebre opera “Della Canzone di Legnano“. […]

(9) Tra Alessandro III e Clemente III vi furono i seguenti Papi:

171. — Lucio III, Lucchese, Ubaldo Allucingoli, 1. 6.IX.1181 — 25.XI.1185.
172. — Urbano III, Milanese, Uberto Crivelli, 25.XI, 1.XII.1185 — 20. X.1187.
173. — Gregorio VIII, di Benevento, Alberto di Morra, 21. 25.X.1187— 17.XII.1187.

Lucio ebbe rapporti durissimi con il popolo di Roma che voleva riconosciuto il Senato del Comune. Iniziò una lotta armata che finì con un “odio selvaggio e barbarico dei romani contro il clero” (Gregorovius). Lucio dovette scappare da Roma per riparare a Verona dove emanarono un decreto comune contro gli eretici di allora, i Catari ed i Valdesi (sulle persecuzioni criminali contro le pretese eresie tornerò oltre).

Urbano III, che mai riuscì ad arrivare a Roma, fu talmente poco considerato dall’Imperatore che Barbarossa fece sposare a Milano, dove Urbano era stato vescovo, suo figlio Enrico VI con Costanza d’Altavilla. Per rappresaglia Urbano rifiutò d’incoronare Enrico VI.

Gregorio VIII si mostrò disponibile ad incoronare Enrico VI Imperatore ma gli premeva di più lanciare la Terza Crociata e fece gestioni in tal senso preso le Repubbliche Marinare. Anch’egli non riuscì mai ad arrivare a Roma.

(10) Tra Gregorio VIII ed Innocenzo III vi furono i seguenti Papi:

174. — Clemente III, Romano, Paolo Scolari, 19, 20.XII.1187 — … III. 1191.
175. — Celestino III, Romano, Giacinto Bobone, 10, 14.IV.1191 — 8.I.1198.  

Clemente III, citato nel testo come colui che lanciò la Terza Crociata, desideroso di mettere piede a Roma, dove i precedenti Papi erano stati impossibilitati a farlo per non aver voluto riconoscere la potestà comunale del Senato, fece un accordo con le autorità di Roma con il quale veniva riconosciuta la sovranità papale su Roma, il Senato gli giurava fedeltà, la Chiesa poteva battere moneta con un terzo degli introiti che andavano al Senato per pagare le ipoteche della Chiesa. Per parte sua il Papa si impegnava a risarcire i Romani dei danni di guerra. La milizia di Roma, dietro pagamento, poteva essere utilizzata dal Papa per difendere i suoi patrimoni. Come conseguenza i nobili, legati da sempre al Papato, dovettero riconoscere il Comune con lo sgradevole risultato che i nobili si inserirono nella gestione civile snaturando via via le conquiste liberali di plebe e borghesia.

Celestino III dovette affrontare da subito la discesa dalla Germania di Enrico VI che voleva essere incoronato. Il Senato di Roma non accettò l’entrata in città degli armati tedeschi se i medesimi non se ne fossero andati via dalla difesa di Tuscolo. Enrico VI accettò e venne incoronato insieme a sua moglie Costanza (1191), subito dopo i Romani rasero al suolo Tuscolo, quel covo di nobili che tanto danno aveva fatto alla città. La degenerazione del Senato di Roma avvenne sotto questo Papa. Le lotte non erano più contro di lui ma per essere eletti senatori e qui vinse chi aveva più denaro che erano i nobili, cioè gli illustri accattoni che vivevano a spese del papa, ei vescovi e dei luoghi pii di Roma (Gregorovius). Il Senato cambiò la sua natura e divenne aristocratico con ilo sostegno attivo del Papa (non si sono mai smentiti e non si smentiranno mai, per maggiore gloria di Gesù). Celestino senza più l’opposizione del Senato poté incrementare le entrate della Chiesa con balzelli a tutti (chi si occupava delle finanze era Cencio Savelli, il futuro Papa Onorio III). Ma Celestino lanciò anche la IV Crociata che gli era stata chiesta da Enrico VI che voleva vendicare il padre morto affogato.

BIBLIOGRAFIA

(1) Karlheinz Deschener – Storia criminale del Cristianesimo – Ariele 2000-2010

(2) Paolo Cammarosano – Storia dell’Italia Medievale. Dal VI all’XI secolo – Laterza 2001

(3) Claudio Rendina – I Papi, storia e segreti – Newton Compton 1999

(4 ) Ferdinand Gregorovius . Storia di Roma nel Medio Evo – Avanzini e Torraca, Roma 1967

(5) Ludovico Gatto – Le crociate – Newton & Compton 2005

(6) Steven Runciman – Storia delle crociate – Mondadori 2010

(7) Georges Tate – L’Orient des Croisades – Gallimard – 1999

(8) Amin Maalouf – Les croisades, vues par les Arabes – J.C. Lattés, 1983

(9) G. Tabacco, G. G. Merlo – Il Medioevo – Il Mulino 1989

(10) G. Ostrogorsky – Storia dell’impero bizantino – Einaudi 1993

(11) S. Runciman – Storia delle Crociate – Einaudi 1993

(12) G. Ortalli (a cura di) – Storia d’Europa. Il Medioevo – Einaudi 1994

(13) P. Cortesi – Il libro nero del Medioevo – Newton & Compton 2005

(14) A. Demurger – I cavalieri di Cristo – Garzanti 2004

(15) Ludovico Gatto – Il Medioevo – Newton & Compton 2005

(16) O. Capitani – Storia dell’Italia medievale – Laterza 2009

(17) J. Le Goff – La civiltà dell’Occidente medievale – Einaudi 1999

(18) U. Haarmann (a cura di) – Storia del mondo arabo – Einaudi 2010

(19) Claudio Rendina – I Papi, storia e segreti – Newton Compton 1999



Categorie:Senza categoria

Rispondi