APPUNTI PER UNA STORIA CRITICA DELLA SCUOLA IN ITALIA. PARTE PRIMA: DAL SETTECENTO ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE

Roberto Renzetti

2005

PREMESSA

Vi sono varie storie della scuola in Italia e tutte hanno elementi di grande interesse. Il taglio è generalmente pedagogico e questo disturba alla lunga. In ogni caso lo stimolo a scrivere questo lavoro non è stato questo ma il cambiamento epocale che si è originato con la Riforma Berlinguer e che si porta avanti con le cialtronerie di Moratti. Stiamo perdendo la scuola pubblica, almeno nel senso della scuola qualificata che preparava a fondo o per l’ingresso nell’Università o per avviarsi nel mondo del lavoro. Questi episodi che si susseguono con grande rapidità e con una quasi indifferenza di tutti, particolarmente dei sindacati ed ancora più in particolare di quello, la CGIL Scuola, che una volta doveva innanzitutto farsi interprete degli interessi dei ceti meno abbienti che, con queste riforme, sono i principali danneggiati. E’ una mancanza di cultura e di conoscenza dei problemi che ci ha avviato allo smantellamento del pubblico. Stessa lacuna di chi pensa a giochetti di potere invece di lottare in difesa del bene insostituibile della scuola pubblica, bene che è costato la lotta e l’impegno di molte generazioni contro chi non gradiva una educazione democratica che mettesse tutti gli studenti sullo stesso piano di serietà ed opportunità.

Inizierò con il ricercare le prime manifestazioni del pubblico nelle scuole degli Stati preunitari per poi arrivare ai demolitori di oggi. 

[Nel seguito il numero tra parentesi quadra che comparirà di tanto in tanto è riferito al numero con cui è contrassegnato un testo di bibliografia. I numeri tra parentesi tonda, al solito, rappresentano il rinvio ad una nota].

LA SCUOLA PRIMA DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE

Poiché è impossibile ricostruire nei dettagli ogni articolazione della scuola dall’antichità ad oggi, occorre fare un taglio che, nel mio caso si situa a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento. Se si risale ai secoli immediatamente precedenti, non si rintraccia quasi nulla di scuola pubblica, di scuola obbligatoria, di scuola gratuita.

Si può dire molto schematicamente che la scuola come problema viene posto dalla Chiesa riformata, come realizzazione di uno dei principi alla base della scissione dalla Chiesa di Roma. Si trattava infatti di rendere i fedeli capaci di leggere la Bibbia, ciascuno per conto suo, e di fornirne una libera interpretazione. Questo fatto spinse ad una istruzione elementare che interessò vasti strati di popolazione. Tanto per capire i problemi che vi sono nella ricostruzione, ad esempio, di questo periodo, si tratterebbe di capire a chi è diretta tale istruzione, se solo ai fedeli o a tutti, se si tratta di qualcosa di episodico affidato alla buona volontà di un pastore, o se si iniziano a costruire delle strutture minime, se vi è un minimo di obbligatorietà o meno, se vi è gratuità o meno, se ambo i sessi sono interessati e se si da che età, … Data poi la logistica (popolazione molto sparpagliata nel territorio e bambini fortemente occupati nel lavoro) come si realizzavano le cose ? I vari Paesi operavano allo stesso modo ? Vi erano sostanziali differenze tra città e campagna ? Queste domande le lascio completamente inevase e le ho fatte solo per far capire i livelli di difficoltà che si hanno nel discutere di queste cose. 

In ogni caso, a fronte di questi inizi di un’educazione di base da parte dei protestanti, anche la Chiesa cattolica si inserì nella stessa strada dopo il Concilio di Trento. A lato dei seminari, si istituirono scuole parrocchiali sempre più estese nel territorio che, se da una parte ebbero il merito almeno di insegnare a leggere e scrivere agli eserciti di poveri e quello fondamentale di essere obbligatorie e gratuite, dall’altro lato rappresentarono un fallimento nella crescita sociale, nel progresso civile ed economico perché erano esclusivamente finalizzate a contrastare le altre Chiese.

Naturalmente quanto dico non riguarda i ceti abbienti. Vi era largo uso di precettori privati con una didattica improntata alla Ratio dei gesuiti. I gesuiti avevano ampia esperienza nell’educazione (più che istruzione) dei giovani. Erano loro le scuole per nobili diffuse nei vari Paesi cattolici dove si insegnava che, insieme a quelle militari (per i futuri ufficiali, tutti di controllata discendenza). Tanto per esemplificare, in una scuola superiore insegnavano: classici greci, latini, del regno in cui ci si trovava, arte di comportarsi. Vi erano anche scuole avanzate nelle quali, oltre a queste cose si insegnava danza, musica e scherma. Vi era una carenza generalizzata nell’insegnamento di matematica e scienze: al più vi erano cenni ad Euclide ed all’astronomia di Tolomeo. In ogni caso la didattica ruotava intorno ad Aristotele, le scuole, a tutti i livelli, lavorano con dispute e sillogismi su date affermazioni. Norma da rispettare scrupolosamente restava il ‘non bisogna essere amici o avere confidenza con ragazzi umili di nascita‘.  Ma qui parliamo di scuole, appunto, per nobili, per alta borghesia terriera e per i primi artigiani neoricchi. Nella Ratio il corso per accedere all’università è suddiviso in due cicli, uno quinquennale umanistico ed uno triennale filosofico. Nel primo si insegna il latino ed il greco secondo lo schema: grammatica, stile, retorica (assenza completa di materie scientifiche e perfino dell’aritmatica, ma anche di storia, geografia e lingue nazionali). Le cose cambieranno parzialmente solo nella Ratio del 1832 dove si parla di adeguamento dei programmi secondo lo schema [9]:

Dio, l’uomo, il mondo fisico e il mondo morale, con la logica e dialettica e con la metafisica generale e speciale: teologia naturale, psicologia, cosmologia, etica; e nello studio delle scienze esatte: matematica, geometria e astronomia, e delle scienze sperimentali: fisica, chimica e storia naturale.


Nel capitolo V della Ratio si legge:


Poiché scopo della dottrina che in questa Compagnia si apprende è quello di giovare, con divino favore, alle anime proprie e dei prossimi; questa sarà, in generale e nelle persone particolari la misura secondo la quale si determinerà a quali facoltà, e sino a qual punto, i nostri divranno attendere. E poiché, generalmente parlando, a ciò giovano le lettere umane, delle diverse lingue, la logica, la filosofia naturale e la morale, la Metafisica e la Teologia, tanto la scolastica quanto quella che si denomina positiva, e la Scrittura Sacra, attenderanno a questi studi quelli che sono mandati ai Collegi


e nel capitolo XII, riguardante le Università:


Poiché scopo della Compagnia e degli studi è quello di aiutare i prossimi alla conoscenza ed amore di Dio ed alla salvezza delle loro anime; ed a questo fine il mezzo più proprio è la facoltà di Teologia; a questa principalmente attenderanno le Università della Compagnia; … E poiché la dottrina della teologia ed ,– il suo uso richiedono, specialmente in questi tempi, la cognizione delle lettere :. umane, e della lingua latina, greca ed ebraica; anche in queste si avrà numero sufficiente di buoni professori… Ed altresì, poiché le Arti o Scienze naturali dispongono gli ingegni alla Teologia e servono alla perfetta cognizione ed uso di essa, e per se stesse giovano al medesimo fine, si trattino con quella diligenza che si conviene e per mezzo di dotti professori, cercando in ogni caso e sinceramente l’onore e la gloria di Dio. 

E’ solo da notare che questa concezione di scuola contribuirà in modo decisivo alla resistenza alla penetrazione della scienza, ed alla cultura ed ai metodi che ad essa si accompagnano, che si sviluppava negli altri Paesi europei, ormai da 100 anni.

Le prime istanze critiche nascono con l’Illuminismo in connessione con  le trasformazioni economiche e sociali che si accompagnano alla Prima rivoluzione industriale, quella della manifattura che inizia a superare la produzione artigiana per produzioni impieganti un numero sempre maggiore di lavoratori. Per intendere l’importanza di ciò che i pensatori illuministi andavano seminando ed, in tempi relativamente brevi, cambiando, basta osservare, con Geymonat [1], che:

all’inizio del Seicento la chiesa cattolica può ancora intervenire con una certa efficacia nel dibattito fra copernicanesimo e cosmologia tolemaica, nel Settecento il copernicanesimo è universalmente accettato dagli scienziati i quali non fanno più alcun conto della condanna che continua a gravare contro di esso; nella seconda metà del Seicento Malebranche può ancora seriamente indagare quali fossero le dimensioni possedute dall’ape vivente ai suoi tempi quando era contenuta, cinquemilaseicento anni prima, entro gli organi genitali del primo campione di tale insetto creato direttamente da dio, un secolo dopo questo problema appare risibile; durante tutto il Seicento la fisica deve fare i conti col problema dei miracoli, interpretati come un intervento diretto di dio che sospende per un istante le leggi da lui imposte alla natura, alla fine del Settecento Laplace delinea un sistema del mondo in cui non ha più bisogno di fare in alcun modo intervenire « l’ipotesi di dio »; agli inizi del Settecento si crede ancora alle streghe e qualche disgraziata è purtroppo condannata al rogo sotto l’accusa di stregoneria, alla fine del secolo le esecuzioni capitali vengono compiute per motivi dichiaratamente politici, senza più invocare alcuna giustificazione religiosa.

E’ nella seconda metà del Settecento che il problema scuola laica pubblica emerge all’attenzione di principi e sovrani illuminati, per un complesso di concause. Da una parte si capisce che la gestione della scuola è gestione di potere e l’autorità laica vuole togliere tale potere alla Chiesa, dall’altra, pur non essendovi sentimenti antireligiosi, si porta avanti una tale operazione per avversione alla gestione curiale del potere e allo strapotere dei gesuiti. Tutti i pensatori dell’epoca narravano delle meraviglie di una diffusa educazione popolare, di quali miracoli si sarebbero potuti fare nella crescita politica, sociale ed economica. Ed allora i principi illuminati ambirono essere loro stessi a capo di un tale progresso e lavorarono per togliere alla Chiesa l’educazione per trasformarla in istruzione pubblica, popolare e laica. Si trattava di modernizzare l’istruzione togliendola all’ambito ristretto di una visione curiale, per formare cittadini che rispettassero il potere del principe medesimo e sapessero inserirsi produttivamente nella società. E’ chiaro che vi furono lotte politiche importanti e che, al di là dei fini che ciascuno si proponeva, la scuola popolare e laica fu uno strumento fondamentale di crescita sociale e politica.

Una accelerazione nell’organizzazione di tale scuola fu l’abolizione della Compagnia di Gesù nel 1773. Il solo fatto di dover rimpiazzare una gran quantità di maestri con dei laici (o anche con altri ordini religiosi non tanto invadenti) fa intendere le dimensioni del problema e ci fa porre la domanda di quanti fossero preparati per la funzione alla quale erano chiamati.

In ogni caso, dalle enunciazioni generali al passaggio alle realizzazioni, vi fu una gran mole di difficoltà: la già detta necessità di reperire maestri, il problema della formazione di altri, la cronica mancanza di fondi per strutture e per il pagamento di salari, le difficoltà ad individuare cosa insegnare, l’uniformità degli insegnamenti tra le diverse scuole, la mancanza di ogni idea di scuola che pensasse a formare cittadini, di ogni teoria didattica, ed infine la difficoltà quasi insormontabile di far capire alle famiglie poverissime che qualcuno, strappato come forza lavoro alla famiglia stessa, doveva recarsi a scuola per una non meglio compresa idea di emancipazione sociale ed economica. Quest’ultima difficoltà è alla base della gratuità che diventa argomento indivisibile da obbligatorietà ma, anche con la gratuità, questa scuola è intesa come nemica dal popolo a cui si rivolgeva. Osserva Genovesi [2] che vi è qui un circolo vizioso: senza scuola non acquista fondamento il concetto di infanzia e senza quest’ultimo concetto non sembra aver senso la scuola. Comunque stiano le cose è certo che in situazioni economiche drammatiche ed assolutamente precarie, il togliere delle braccia lavorative da una famiglia è un momento di ulteriore crisi insopportabile. Qui, anche se schematicamente, si mostra che gli ideali illuministici vedevano interessi molto differenziati e difficilmente conciliabili. Cosa difende la Chiesa ? e cosa il principe ? e la borghesia ? e gli utopisti teorici ? ed il popolo ? Per rendere conto dei sogni degli illuministi basta rifarsi alla posizione di uno dei moderati, Helvétius. Egli dice che la disuguaglianza di spirito che si riscontra tra gli uomini dipende unicamente dalla diversa educazione che essi ricevono, e dalla ignota e differente concatenazione delle circostanze in cui si trovano collocati. Solo modificando la loro educazione, attraverso la modifica della società in cui vivono, gli uomini diventeranno davvero virtuosi. Occorre costruire un nuovo ambiente sociale intorno ai giovani, ambiente che deve essere orientato al raggiungimento della felicità, attraverso il massimo sviluppo delle loro capacità. Sarebbe interessante confrontare queste cose con le supposte idee del sovrano, del cardinale e del padre di famiglia. Ma, a lato di queste ottime intenzioni, vi sono i primi studi relativi ad una pedagogia moderna che considera il fanciullo come essere completo e sano con il quale cercare non già di guadagnare tempo ma di perderne.

Anche se l’Italia viveva non proprio centralmente le vicende culturali europee, si fecero dei tentativi di scuola popolare pubblica nei vari Stati in cui essa si divideva, ed essi risultarono assolutamente difformi e con risultati completamente differenti. Una caratteristica comune è che sono pochissime le persone interessate ad un servizio che risulterà, almeno fino alla fine del Settecento, quasi inesistente.

LA SCUOLA DELINEATA DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE

La vera spinta ad una scuola moderna proverrà dalla Rivoluzione Francese, anche se, in quel Paese, si scontrarono varie tendenze ed ipotesi che di fatto non portarono immediatamente a nulla. I tempi ridotti, l’enormità dei problemi, il boicottaggio completo di tutti coloro che avrebbero potuto fare qualcosa, non permise la costruzione di un prodotto finito (almeno a livello di scuola popolare laica) ma stimolò solo la voglia e la capacità di farlo in epoca successiva. I documenti più interessanti che permettono di capire con quale spirito i rivoluzionari affrontarono il problema della scuola sono i cahiers de doléance. In essi leggiamo richieste, con accenti di assoluto realismo e moderazione, diverse a seconda di chi le avanza. Il clero richiede in sostanza [1]:

a) le prerogative della chiesa in materia scolastica devono essere mantenute e qua e là rafforzate. Perciò la religione dovrà continuare a costituire la base e il coronamento dell’insegnamento. Le congregazioni dovranno essere aiutate a svilupparsi. I non cattolici dovranno essere esclusi dal magistero.
b) In generale il clero è favorevole, sulla base sopra descritta, all’istituzione di una limitata istruzione popolare.
e) Il clero deve rientrare con funzione primaria nelle università.

La nobiltà mostra solo ostilità o indifferenza nei riguardi dell’educazione popolare. Essi si limitano a talune formule generiche circa l’utilità della pubblica istruzione. Viceversa, sul piano pratico, si preoccupano di chiedere l’istituzione di scuole speciali per giovani nobili, posti gratuiti nei collegi, scuole militari.
In compenso la nobiltà dimostra uno spirito abbastanza tollerante in materia religiosa.
Il terzo stato, si fa portatore delle lamentele e delle richieste della borghesia e dentro vi sono riflesse anche le oscure aspirazioni delle grandi masse contadine e operaie. Il terzo stato chiede:

a) la generalizzazione dell’educazione popolare. Qua e là si accenna all’obbligatorietà. Molto raramente alla gratuità, salvo che per gli indigenti.
b} L’intervento del potere civile in materia scolastica. Il più delle volte, però, si auspica una forma di collaborazione tra stato e chiesa.
e) Numerose sono le lamentele per il basso grado di preparazione dei maestri per i quali si chiedono un trattamento più conveniente ma anche seri esami e regolari controlli.
d) Si domanda la creazione di borse di studio e un maggiore decentramento dei collegi per favorire la prosecuzione degli studi ai giovani borghesi meno agiati.
e) Si auspica la parificazione dei giovani borghesi ai giovani nobili per quanto riguarda l’accesso alle scuole militari.
/) Per quanto si riferisce allo spirito informatore della scuola, la borghesia è discretamente tollerante e chiede un « catechismo civico » accanto al catechismo religioso.
g) Infine si auspica una riforma dei programmi in senso più realistico mediante l’attribuzione di maggiore importanza alle scienze, alla lingua materna e alle lingue moderne.

Sarà Condorcet a scrivere il Rapporto sull’Istruzione Pubblica, un progetto avanzatissimo per l’insieme di tutta la società: si parla di libertà di cultura, di libertà di ricerca, di libertà di insegnamento, si adombra l’educazione permanente, si sostiene che [1]

nessun potere pubblico deve avere l’autorità di impedire lo sviluppo di verità nuove o l’insegnamento di teorie contrarie alla sua particolare politica o ai suoi interessi contingenti.

L’indipendenza dell’istruzione fa parte dei diritti della specie umana. Dal momento che l’uomo ha ricevuto dalla natura una perfettibilità i cui ignoti limiti, se pure esistono, si estendono ben oltre la nostra immaginazione, poiché la conoscenza di verità nuove è per lui il solo mezzo per sviluppare questa felice disposizione, fonte della sua felicità e della sua gloria, quale potere avrebbe il diritto di dirgli: ecco ciò che bisogna che sappiate, ecco il punto in cui dovete arrestarvi? Poiché solo la verità è utile, poiché ogni errore è un male, con quale diritto un potere, quale che sia, oserebbe determinare dove è la verità, dove si trova l’errore?… Non si può arrestarsi senza tornare indietro; dal momento che si stabiliscono allo spirito umano degli argomenti che esso non potrà né esaminare né giudicare, questo primo limite posto alla sua libertà deve far temere che ben presto non rimanga alcun limite alla sua schiavitù. 

Ed a questo aggiunge una fondamentale distinzione, tra istruzione ed educazione: la scuola deve attenersi ad insegnare tutto ciò che si fonda su fatti e certamente mostrato dalla ragione; tutto il resto, credenze politiche e religiose, è compito della famiglia e delle chiese. E’ un passo importante che segna la completa laicità della scuola rispetto ad ogni influenza autoritaria sulla formazione dei giovani.

Il Rapporto si chiude con la forte affermazione di donne che hanno i medesimi diritti degli uomini, non solo ad avere la stessa istruzione ma anche ad essere esse stesse docenti, sopravanzando in questo lo stesso Rousseau che limitava sensibilmente l’educazione femminile.

Progetti importantissimi, come si può vedere. Essi si scontravano con una realtà in rapido movimento e con situazioni non governabili.

Alla fine della Rivoluzione si avrà una situazione di insegnamento pubblico a carico della fiscalità generale ed un insegnamento privato finanziato dalle famiglie. La Chiesa, prima messa completamente da parte, verrà riammessa all’insegnamento senza ulteriori problemi (sarà invece la Chiesa a sollevarne continuamente e ad alimentare un clima di conflittualità permanente non rassegnandosi ad aver perso il potere politico; sarà lo stesso Papa Pio VII, al solito, a lanciare proclami a sostegno delle scuole cattoliche). Siamo insomma più o meno nella stessa situazione che si aveva prima della Rivoluzione ma da questo momento si impone uno spirito nuovo con il quale si guarda e si guarderà all’istruzione pubblica, laica, popolare e gratuita. 

LA SCUOLA NELL’ITALIA PREUNITARIA FINO AL 1814 (caduta di Napoleone)

In Italia il clima politico dei vari Stati era tale da impedire l’emergere di opinioni radicali; chiunque lo tentasse doveva vedersela oltre che con il sovrano anche con la curia e le cose non finivano mai bene. I sostenitori di riforme che tra l’altro, togliessero le scuole alla Chiesa, come Alberto Radicati e Pietro Giannone, pagarono con l’esilio e con la morte in prigione (anche con la fattiva complicità di sovrani illuminati). Tali ultimi avvertirono la necessità di togliere la scuola al clero, analogamente che nel resto d’Europa, solo perché nelle scuole, unicamente gestite dai vari ordini religiosi, si formava la futura classe dirigente più protesa all’ortodossia religiosa che alla lealtà verso il principe. Si era capito insomma che il clero aveva come riferimento lo Stato della Chiesa più che lo Stato dove operava.

Le prime riforme, ma a livello di Università e Scuole Superiori, si ebbero nello Regno di Sardegna (1729); seguì il Regno di Napoli (Due Sicilie), subito dopo la cacciata dei Gesuiti (1767) e prima nel periodo di dominio austriaco quindi in quello di  Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, che, oltre all’ammodernamento dell’Università, iniziò a creare un limitato numero di scuole elementari pubbliche ed a sottrarre la scuola popolare alla curia; il Ducato di Parma, sotto l’influenza di Luisa Elisabetta, figlia del Re di Francia Luigi XV, fece le cose migliori: si realizzò un minimo di tessuto di scuole pubbliche alla diretta dipendenza dello Stato, l’insegnamento privato fu vietato, i libri di testo passarono al controllo dell’autorità civile, anche coloro che ambivano di fare i sacerdoti dovevano formarsi in scuole pubbliche, anche qui senza mai avere spirito antireligioso; in Lombardia gli Asburgo si muovevano sulla stessa strada: abolirono l’Inquisizione e soppressero la censura ecclesiastica sui libri, crearono un tessuto di scuole elementari gratuite che i comuni avevano l’obbligo di gestire, a Milano istituirono una scuola per la preparazione dei futuri maestri; il Granducato di Toscana si mise alla testa dei movimenti riformatori con la sottrazione della scuola alla curia, il controllo dell’intero sistema educativo, la creazione di scuole elementari pubbliche e gratuite, l’unificazione di metodi e programmi nelle scuole medie, istituendo un sistema di concorsi pubblici per la selezione degli insegnanti. Lo Stato Pontificio restava completamente privo di un sistema educativo (l’educazione popolare è assolutamente occasionale e del tutto marginale) e resterà in questa situazione fino al periodo della Restaurazione.  Le caratteristiche di maggior rilievo della concezione della scuola da parte della Chiesa (e non solo nello Stato Pontificio ma in tutta Italia) possono essere riassunte come di seguito: 1) indottrinamento catechistico del popolo ed espansione nelle scuole della dottrina cristiana; 2) formazione dei ceti dirigenti con l’uso strumentale della cultura classica e della scienza antica e moderna.

Più in generale vi è da osservare che, fino alla fine del Settecento, la scuola in Italia per quei pochi che ne usufruivano, fu essenzialmente classica e i precedenti tentativi di istituire scuole pratiche prima di questa epoca sono sporadici ed hanno poco seguito. La necessità dell’insegnamento tecnico viene propugnata dal pensiero illuminista, sotto la spinta dell’incipiente industrializzazione. L’insegnamento tecnico ricevette in Italia un notevole impulso dalla dominazione napoleonica, ma dopo la scomparsa di Napoleone si affermarono la Germania e l’Austria dove l’istituzione Real-schulen fece fiorire scuole tecniche e specializzate.

Tutte queste iniziative, pur se rappresentano l’inizio del processo che porterà alla scuola pubblica, sono ancora marginali e restano fortemente controllate dal potere politico.  Servirà il trauma della Rivoluzione Francese per spingere oltre i processi innescati, anche se, occorre sottolineare ancora, le novità più profonde che essa comportò non sono certo in una qualche riforma, così effimera da essere immediatamente cancellata dalla Restaurazione postnapoleonica, quanto nelle idee che si erano fatte strada: la scuola non è più neppure pensata come affare privato di un  precettore ma come affare d’interesse per l’intero Stato che deve promuovere scuole popolari. E parlare di scuola popolare implica il popolo che viene riconosciuto come compartecipe della crescita economica di un Paese. La borghesia che sta prendendo il potere sottraendolo alla nobiltà ed al clero si serve all’inizio di questo ormai quarto stato. Ma, da un certo momento, sancisce una netta separazione con il popolo per evitare facili illusioni di emancipazione sociale (il quarto stato è per la borghesia ciò che il terzo stato era per nobiltà e clero). L’alibi è proprio quella libertà sbandierata nel periodo rivoluzionario; essa ora è intesa come non obbligatorietà e non gratuità, e viene invocata proprio perché la borghesia non intende sobbarcarsi la spesa enorme di una istruzione pubblica generalizzata. Sarà ancora un liberale francese della Restaurazione, Adolphe Thiers, che sintetizzerà il tutto nella frase [1]:

sostengo che l’insegnamento primario non deve essere alla portata di tutti: vorrei dire che l’istruzione è, a mio parere, un principio di agiatezza e che l’agiatezza non è concessa a tutti.

In ogni caso, anche per prevenire eventuali moti di protesta, gli stessi sovrani della Restaurazione cercheranno di costruire delle scuole popolari pubbliche. Dove si ebbe una diretta influenza napoleonica fu (1805 – 1814) nel Regno Italico  (nel suo momento di massima espansione, andava dalla Valsesia all’Istria e da Bolzano al fiume Tronto, con Milano capitale) e nel Regno di Napoli. 

Nel Regno Italico [3] 

all’istruzione elementare provvedevano i Comuni in forza dei propri statuti, e gli Ordini religiosi a seconda delle loro costituzioni o per obbligo imposto da particolari fondazioni pie.
Le norme legislative che regolavano le scuole primarie, erano le seguenti: le scuole elementari si dividevano in comunali e private, impartivano gli elementi del leggere e dello scrivere, l’aritmetica e la lingua italiana e latina, che si insegnava in quattro scuole: 
de’primi rudimenti, d’umanità minore e maggiore, e di retorica. Le scuole si suddividevano in superiori e inferiori. Lo stipendio dei maestri inferiori non poteva eccedere le £.1500 annue, mentre quello degli altri poteva raggiungere 2000 lire, col diritto all’aumento del terzo sullo stipendio iniziale, ogni 12 anni. I locali e le altre spese per le scuole erano a carico dei Comuni, i quali avevano il dovere di sorvegliare su di esse per mezzo di incaricati speciali. Le scuole pubbliche gratuite potevano aprirsi con l’obbligo all’insegnante del certificato di moralità. I libri elementari erano determinati dal governo.
Fra le punizioni per gli alunni, si annoveravano: lo stare in ginocchio in mezzo alla scuola, la sospensione e l’espulsione, oltre alla registrazione del nome sul libro nero. Gli alunni si iscrivevano dai 6 ai 12 anni. Ogni scuola ammetteva da 40 a 50 alunni circa. Un ispettore visitava le scuole di un distretto e faceva rapporto alle autorità. La capacità dei maestri era giudicata dall’ispettore e dal reggente del liceo ginnasio, o università, del distretto. I maestri dovevano parlare in lingua italiana. La scuola era di 2 ore antimeridiane e 2 pomeridiane, il corso elementare di 2 anni. Nelle scuole dei Comuni minori lo stesso
 maestro insegnava a due classi con orario diviso. Si faceva vacanza in tutte le domeniche, nelle altre feste di precetto, nel giorno di S. Caterina e in quello del santo protettore.

 Ma è inutile soffermarsi più di tanto sull’effimero (ma fecondo) periodo napoleonico, è più interessante passare a vedere cosa accade nelle scuole preunitarie dopo la Restaurazione per tentare di cogliere cosa resta dell’influenza rivoluzionaria e napoleonica.

LA SCUOLA NELL’ITALIA PREUNITARIA DELLA RESTAURAZIONE

Nonostante ciò che vado dicendo, non si deve pensare che vi fosse un qualche miglioramento sostanziale in termini di quantità di persone interessate al processo di scolarizzazione. La situazione economica generale per un esercito di persone era la miseria più nera ed il degrado totale. I cambiamenti nei modi di produzione, dall’agricoltura alle prime industrie, spostano grandi masse dalle campagne alle periferie delle città. I lavori sono i più degradanti e riguardano lo sfruttamento dei bambini a partire da 4 (quattro!) anni, bambini utilizzati in lavori di fatica in miniere ed in industrie per orari di lavoro che arrivavano alle 15 ore. Neppure parlare di una qualche assistenza. Chi perdeva il lavoro era destinato a morire di fame, chi si ammalava lo stesso. In questa situazione che vedeva tra questa gente un analfabetismo vicino al 100%, pensare a scolarizzare era utopico. Dove la scuola esisteva era in mano alla Chiesa, era bassamente professionale, era bigotta e imbevuta di fanatismo, con maestri scelti perché incapaci di altro lavoro e privi di ogni preparazione e spesso di ogni morale (il problema della difesa dei bambini dagli abusi di ogni tipo venne affrontato dal pedagogista tedesco Froebel che inventò e costituì – 1839 – i primi giardini d’infanzia in gran parte affidati a donne, aprì all’educazione prescolastica ed alla conoscenza dei bambini nei loro processi evolutivi; è inutile dire che tali realizzazioni dovettero scontrarsi con i restauratori del dopo 1848 che le cancellarono). Ma sulla strada di non comprensione dei problemi si posero anche i pedagogisti romantici (tra cui Pestalozzi) che in modo fantasioso pensavano che la scolarizzazione avrebbe migliorato la società. A nessuno di questi venne in mente che la scolarizzazione sarebbe potuta andare avanti di pari passo solo in cambiate situazioni economiche.

Anche quelle poche iniziative del periodo rivoluzionario e napoleonico, vennero cancellate dai governi e sovrani restaurati. Si riaprirono le porte ai gesuiti ed alle varie congregazioni religiose e l’istruzione popolare passa a loro con in più il fatto che lo Stato riconosce come sua l’attività educativa pubblica e quindi inizia a finanziare le scuole anche se confessionali. Si realizza così anche nella scuola la cogestione tra potere del sovrano e potere clericale ma quest’ultimo squalificato a rango di servizio piuttosto che esaltato come riconoscimento del valore educativo della Chiesa. Di questo si rendono conto i curiali che, alla ripresa dei moti rivoluzionari nel 1830 si schiereranno con i liberali (!) che rivendicano libertà di insegnamento contro le ingerenze ed il controllo dello Stato autoritario. Osserva Geymonat [1] che:

la lotta per la libertà d’insegnamento (…) è una disputa nella quale il significato dei termini è usato equivocamente dalle varie parti. Libertà di insegnamento, infatti, può significare:
a) facoltà per enti e privati di istituire scuole ed istituti di educazione.
b) facoltà per il docente di insegnare con la massima libertà di coscienza, di orientamento ideologico, di metodo;
c)Impegno della scuola ad innalzare il livello culturale, morale, civile delle masse, inculcando negli alunni lo spirito di tolleranza, il rispetto delle opinioni altrui, la pratica della libera discussione, la ricerca e la conquista della verità anche attraverso l’errore; in breve: formando delle teste pensanti e non semplicemente delle teste ricettive del pensiero altrui.

e su queste differenze di significato che se si sceglie una accezione se ne escludono altre nascerà un equivoco che ancora oggi è ben presente.

Ma passiamo a vedere la condizione scolastica nei vari Stati italiani preunitari nel periodo della Restaurazione.

Stato Pontificio

Con la Restaurazione, lo Stato Pontificio si era riprese le Marche e la Romagna. Quindi anche in zone dove si era fatto un qualche passo avanti si ritornò indietro. Aveva iniziato (1816) Pio VII a ridare il monopolio dell’educazione ai gesuiti con il fine di creare delle coscienze passivamente obbedienti alla Chiesa. Le scuole primarie (parrocchiali) gratuite erano molto poche, le paghe ai maestri erano ridicole, si insegnavano nozioni strumentali con l’esclusione della storia profana e di ogni scienza. Vi erano poi scuole regionarie private a pagamento (che saranno regolate nel 1825). Inoltre molte attività caritatevoli private insegnavano a leggere ed il catechismo (e lavori femminili alle giovanette, ma non a leggere; chi avesse voluto farlo doveva chiedere dispensa alla parrocchia). Nel 1819 si iniziò (Pesaro e Spello) l’esperienza del mutuo insegnamento (vedi oltre).

Con l’elezione di Papa Leone XII scomparve quasi ogni retaggio della dominazione francese; egli tentò con ogni mezzo di ripristinare le antiche consuetudini, confermando e aumentando il potere ecclesiastico, negò la libertà di stampa e con la bolla Quod Divina Sapientia Omnes Docet (una rielaborazione aggiornata di quanto affermato nel Concilio di Trento) promulgata nel 1824 riduceva ogni forma di istruzione sotto l’esclusivo controllo del clero. Alla bolla si allegava una Constitutio de recta ordinatione studiorum in ditione ecclesiastica che forniva varie regole di una presunta riforma scolastica che riguardava soprattutto l’università, non occupandosi né di scuole secondarie né della formazione degli insegnanti e fornendo solo alcune norme di carattere generale per le scuole primarie. La Constitutio prevedeva che tornasse obbligatorio lo scrivere e il parlare in latino, che non avesse spazio alcuna materia di ordine pratico, ma dominasse incontrastato l’insegnamento del pensiero metafisico. Veniva negata l’istruzione tecnica, scientifica, ginnica e militare, non permessi i congressi scientifici. Venivano chiuse le scuole di mutuo insegnamento.
Con la Constitutio papale, oltre al riordino delle università con la suddivisione in quelle di seria A (Roma e Bologna) e quelle di serie B (tutte le altre),  [3]

 fu istituita la Congregazione degli studi, che presiedeva a tutte le scuole esistenti nello Stato Pontificio, pubbliche e private. Le disposizioni relative erano le seguenti: i vescovi presiedevano alle scuole elementari, e delegavano in ogni Comune un ecclesiastico per la immediata loro vigilanza. I deputati del vescovo dovevano alla fine di ogni anno scolastico riferire sullo stato delle scuole. Era fatto obbligo ai vescovi di visitarle, vacando un posto d’insegnante nelle scuole comunali, il magistrato del luogo bandiva il concorso e sceglieva persone capaci per esaminare i concorrenti. L’esame si faceva alla presenza del magistrato e di un deputato del vescovo. Dopo l’esame si riuniva il Consiglio comunale, con l’intervento di quest’ultimo, ed ascoltati gli esaminatori, si procedeva, da parte del Consiglio stesso, alla nomina a maggioranza di voti segreti. Spettava al solo vescovo confermare in avvenire i maestri eletti. La conferma o l’esclusione da parte dei Consigli si faceva alla fine di ogni biennio nel mese di agosto di ciascun anno.
Il licenziamento fuori termine poteva aver luogo su proposta dei consigli Comunali, i quali dovevano rivolgersi al vescovo, che aveva facoltà di sospendere il maestro, rinviando poi il caso alla sacra Congregazione degli studi per le ulteriori determinazioni. Il vescovo di propria autorità aveva il potere di procedere alla sospensione dell’insegnante, senza che il Consiglio potesse impugnarla o metterla in discussione, salvo la facoltà di ricorrere alla S. Congregazione.
L’anno scolastico iniziava il 5 novembre e terminava il giorno 20 settembre. Per Natale le vacanze duravano dal 24 dicembre a tutto il 1° gennaio; per Carnevale, dal sabato che immediatamente precede la domenica di sessagesima a tutto il giorno delle Ceneri; per Pasqua dalla domenica delle Palme alla terza festa di Pasqua inclusa. Oltre le suddette vacanze ordinarie, il magistrato aveva facoltà di darne altre, quando ne riconosceva la necessità o la convenienza.
Nelle scuole pubbliche gli esami avevano luogo alla fine dell’anno scolastico alla presenza del deputato del vescovo e del magistrato comunale, il quale nominava gli esaminatori. Gli esami di riparazione dovevano farsi prima del 15 novembre.
A proposito degli esami, fra le risoluzioni dei quesiti fatti alla S. Congregazione degli studi intorno ad alcuni articoli della costituzione “
Quod Divina Sapentia“, si trova quella che stabilisce che i maestri potevano essere presenti agli esami dei loro scolari, con la condizione però di non poter dare il loro voto. Altre risoluzioni stabilivano che il Consiglio comunale poteva deputare a suo arbitrio alcune persone a cui affidare la cura delle scuole pubbliche; che il Consiglio aveva il diritto di nominare i maestri provvisori e supplenti, salva sempre l’approvazione del vescovo; che questi non era tenuto a manifestare i motivi per i quali avesse negato la conferma ad un insegnante; che i congedi ai maestri potevano accordarsi dalla magistratura comunale quando non oltrepassassero le due settimane. mentre per un tempo più lungo era necessario il consenso del vescovo. Il 26 settembre 1825, in esecuzione dell’art. 300 della bolla fu pubblicato il regolamento per le scuole private. Anche queste disposizioni sono meritevoli di essere conosciute. Si intendeva aperta una scuola privata, quando nello stesso locale si fossero adunati più di tre alunni. Il permesso di aprirla si accordava in Roma dal Cardinale vicario e nelle città ed altri luoghi dello Stato Pontificio dai vescovi e dagli ordinati. Le licenze si davano in forma di lettere patenti, e dovevano rinnovarsi ogni anno. Per ottenere la licenza, occorreva presentare i seguenti documenti:
1- la cittadinanza nello stato,
2- di avere compiuta l’età di 21 anni e di essere “
di onesti natali“;
3- di avere sempre dato “
saggio di religione e di buoni costumi“;
4- di non essere affetto da alcuna malattia contagiosa o da evidente deformità che impedisse di riscuotere dagli scolari il dovuto rispetto.

[5 – di non essere mai stato inquisito e di non aver esercitato arte vile, ndr].
Oltre a ciò, il concorrente doveva dar prova della sua idoneità ad insegnare per mezzo di un esame da farsi innanzi a tre persone nominate dal cardinale vicario o dai vescovi secondo la rispettiva giurisdizione. Le scuole private dovevano essere affidate ai sacerdoti o ad altre persone non coniugate. Ogni maestro, prima di assumere l’esercizio della scuola, doveva recitare la professione di fede secondo la formula prescritta da Pio IV, da ripetersi ogni anno, al rinnovo della patente.
Le materie d’insegnamento comprendevano la dottrina cristiana, leggere e scrivere, elementi li lingua italiana, rudimenti della grammatica latina, aritmetica, principi di geografia e di storia sacra e profana. Nella patente “
ad annum“, di cui sopra, doveva esprimersi se il maestro fosse abilitato ad insegnare tutto o una parte determinata del programma scolastico.
Nessun fanciullo poteva essere ammesso alle scuole, se non avesse compiuto 5 anni e non fosse sano di corpo. Venivano esclusi quei fanciulli che per “
viziose abitudini” o per qualche altra grave mancanza fossero stati espulsi da altra scuola, qualora non dessero prova di correggersi a giudizio del deputato. Nessun maestro poteva ricevere più di 60 scolari, e quando il numero oltrepassava i 30, era obbligato a tenere un sottomaestro. Il cardinale vicario a Roma e i vescovi in altri luoghi determinavano il massimo ed il minimo dello stipendio mensile che il maestro poteva esigere per ciascun scolaro, e decidevano in ogni controversia economica che insorgesse al riguardo. Era fatto obbligo ai maestri di tenere un registro di iscrizione e giornaliero; di iniziare le lezioni con qualche preghiera, di mettersi d’accordo con i parroci affinché i fanciulli, per quanto fosse possibile, avessero la possibilità di sentire la messa ogni mattina e di controllare che vi assistessero con ogni modestia e devozione e si confessassero almeno una volta in ciascun mese. Nel pomeriggio, sul finire della scuola, si dovevano recitare gli atti delle virtù teologali (fede, speranza e carità) e nei giorni di mercoledì e sabato le litanie della B. Vergine. Si davano prescrizioni sui doveri dei maestri, fra cui l’obbligo di avvisare il deputato, in casi di malattia, entro il termine di tre giorni, affinché si potesse provvedere alla sostituzione. Era obbligo del maestro insegnare la buona creanza, usando un apposito libro da leggersi in un giorno determinato. Fra le punizioni previste era compreso l’uso moderato della sferza, formata di semplici funicelle senza nodi, percotendo la palma delle mani. [Fantini, nel suo L’istruzione popolare a Bologna fino al 1860 – Zanichelli 1971, sostiene che nelle scuole del bolognese era in uso la sferza, i grani sotto le ginocchia, fare croci con la lingua sul pavimento, .. con l’aggiunta che svariati maestri erano finiti sotto processo per lesioni ai loro scolari. Celesia, nel suo Storia della pedagogia italiana – Carrara 1872/74, aggiunge:

Altro metodo d’insegnamento (comune allora, a ver dire, a tutte le scuole italiane) era la sferza… I nostri antichi usavano adoperare contro i più riottosi discepoli ora il flagellimi, or la scutica, ed ora la ferula, a seconda de’ casi: gl’istruttori moderni, massime se chierici, aggiunsero a questi tre generi di battiture nuovi e più brutali argomenti, atti a meglio conquider l’animo de’ giovinetti: come, a mo’ d’esempio, costringerli a segnar con la lingua una lunga tratta di croci sul pavimento: il rilegarli sovra uno sgabello d’infamia che nomavasi banco d’inferno: il porre loro sul capo, in segno di vitupero, la così detta mitria dell’asino, e cotali altre lordure.   ndr].

L’orario giornaliero era di sei ore: tre al mattino e tre al pomeriggio.
Per le scuole delle fanciulle vi era un capitolo speciale. Le maestre dovevano insegnare la dottrina cristiana e i lavori femminili. Volendo insegnare anche a leggere e a scrivere, occorreva una speciale autorizzazione. Era permesso tenere nella stessa classe fanciulli e fanciulle promiscuamente, a patto che:
1 – i fanciulli si tenessero separati dalle fanciulle in una maniera che non potessero “praticare e addomesticarsi fra loro”;
2 – i maschi, appena compiuti i cinque anni, dovessero assolutamente escludersi dalla scuola.
Per l’istruzione femminile il Governo pontificio stabilì speciali disposizioni. La S. Congregazione degli studi il 5 marzo 1828, pubblicò le “Regole per le scuole delle Maestre Pie da stabilirsi nello stato”. Ecco quali erano tali regole.
Le maestre Pie e le loro scuole dovevano essere soggette al solo vescovo. Nell’introduzione si cominciava dal rilevare la grande necessità della buona educazione delle fanciulle, e si proseguiva nell’affermare che se abbondavano insegnanti capaci per i maschi, vi era però penuria di buone direttrici per le femmine. “Per questo motivo, prima in Montefìascone e poi in Roma, si sono introdotte le scuole delle Maestre Pie, affinché le fanciulle fossero con questo mezzo ammaestrate, non solo nei lavori manuali e nell’esercizio di leggere e scrivere, ma, ciò che ne principalmente importa, nei misteri della nostra santa fede, nel modo di frequentare con frutto i santissimi sacramenti della penitenza e dell’eucaristia, nell’obbedienza e rispetto verso i maggiori, nella purità e modestia tanto propria del loro sesso, ed in tutte quelle altre virtù, finalmente, che devono essere la vera norma del vivere cristiano”. Le insegnanti dovevano essere scelte fra le zitelle e non dovevano vestire l’abito da maestre, se prima almeno per sei mesi non convivevano con le maestre medesime, per “sperimentare ed essere sperimentate”. Nel tempo del noviziato dovevano abilitarsi nei lavori manuali e nel modo di fare la scuola. Per essere ammesse nel novero delle maestre, non era necessario portar dote; tuttavia non si vietava di farlo. Obbligatorio era il corredo di biancheria.
A quella che era assegnata loro per superiora, dovevano star soggette tutte le altre. In modo particolareggiato veniva descritta la foggia dell’abito, fissata la qualità e quantità del vitto, determinate le ore di riposo notturno e della ricreazione giornaliera a seconda delle stagioni. “In questo tempo – dicevano le regole – attenderanno a sollevarsi nel Signore con parlare di cose utili e profittevoli, guardandosi specialmente dall’introdurre discorsi che possano offendere la carità del prossimo”.
Nelle feste e nei giorni di vacanza si permetteva loro l’uscire “dovranno però sempre andare nei luoghi di devozione, e dove non sia gran concorso di gente, procurando insieme, per quanto è loro possibile, ritirarsi in casa prima del finire del giorno”.
Vi è un intero capitolo, con le regole dalla X alla XIII, su ciò che dovevano fare le maestre per il loro profitto spirituale. Ed anche qui tutto è determinato e precisato in ordine agli esercizi spirituali, alle orazioni vocali e mentali, alla comunione, all’esame giornaliero di coscienza, alla lettura di libri spirituali, alla recitazione del rosario, alle astinenze, alla messa (che si doveva sentire ogni mattina) ed alla “disciplina da farsi in tutti i venerdì in memoria della passione del nostro Signor Gesù Cristo e dei dolori detta sua santissima madre”. Meritevoli di essere integralmente riportate sono le regole sull’esempio che dovevano dare le maestre:
“XXIV Non andranno mai fuori di casa senza una buona compagnia, quantunque vadano in chiesa; ed occorrendo loro di trattare con persone secolari, non diano in atti di troppa famigliarità e confidenza, ma stiano con gli occhi bassi e ben composti, acciocché ognuno resti edificato del loro procedere.
XXV. Nella scuola stiano sempre decentemente vestite, e non discorrano di cose del secolo ma sempre di Dio e di cose appartenenti alla scuola.
XXVI. Non ammettano uomini in casa, ed occorrendo loro di trattare con essi, non vi restino mai sole, e procurino che per le 24 ore siano licenziati, proibendosi espressamente l’ammettere uomini dopo l’avemaria.
XXVII. Il confessore non si chiami né a casa né alla scuola se non per cagione d’infermità, ed occorrendo che egli debba udire la confessione di qualche maestra inferma, la porta stia sempre aperta, di modo che possano essere osservati. Parimenti il medico non si lascerà mai solo con l’inferma, ma vi resterà sempre un’altra compagna.
XXVIII. Se qualche confessore o altro ecclesiastico venisse non chiamato e senza occasione d’infermità alla scuola, gli faccia civilmente intendere, che ciò non conviene, ed ove ciò non basti, se ne avvisino i superiori.
XXIX. Dovendo le maestre visitare qualche scolara, lo facciano in modo che restino edificati tutti quelli che vi si trovano presenti, ed essendo invitate a bere o a mangiare, lo ricusino modestamente. Occorrendo poi d’avere a mangiare o bere fuori di tavola non
10 facciano senza espressa licenza della superiora quando non vi fosse urgente bisogno.
XXX. Non solo netta scuola e fuori di casa devono le maestre, per esempio delle altre, andar coperte e star composte e modeste, ma altresì useranno questa modestia sì netto spogliarsi che nel vestirsi, come anche nel trattare fra di loro. A tale effetto eviteranno il  dormire nello stesso letto”.
Seguivano le istruzioni sullo spirito di carità che doveva regnare fra le maestre d’una scuola e quelle delle altre; sugli obblighi della superiora, circa il bisogno di ogni maestra, e sui doveri di obbedienza delle insegnanti.
Quelle fanciulle che non avevano buon nome, e che facevano “all’amore” che non dubitavano o disturbavano, dovevano essere licenziate, se non promettevano e dimostravano segni di pentimento.
I castighi per gli alunni dovevano consistere in qualche penitenza o pochi colpi di disciplina, mai però le maestre potevano battere o con collera dar loro degli schiaffi.
Ogni sabato si leggevano alla mensa tutte queste regole, sebbene ogni maestra dovesse tenerle presso di sé e “rendersele famigliari con leggerle spesso per osservarle con più esattezza”.
Si conserva memoria di Scuole Pie a Fermo (scuola istituita nel 1839 dall’arcivescovo Borgia), a Offida (istituita da Maria Syeber nel 1821), a S. Vittoria (risalente al 1781) e a Montottone (scuola Lucarelli).
Per quanto riguarda l’educazione infantile, cioè di bambini di età inferiore a sei anni, nello Stato pontificio, nel 1846 esistevano solo due istituti per l’infanzia. In un articolo pubblicato nel “Museo letterario di Torino” si dice che appena fu eletto papa Pio IX  
[originario di Senigallia, nelle Marche,   n.d.r.] Ascoli si affrettò a chiedergli un Asilo: esso fu concesso e prese il nome di “Scaldatoio per ipoveri bambini”. Altre notizie in merito non si hanno, sappiamo solo che intorno al 1860, il Regio Commissario generale per le Marche, Lorenzo Valerio, insediandosi nella città di Ancona, si rivolse alle signore di quella città, esortandole a promuovere la fondazione di Asili infantili, intesi, quindi essenzialmente come un’opera benefica nei confronti dei più disagiati.

Una notazione d’interesse è relativa a cosa si richiedeva alle maestre che ambivano ad insegnare nelle scuole femminili: dottrina cristiana ed osservanza delle pratiche religiose.

Per capire ora quanti erano interessati a questa restaurazione nello Stato Pontificio è utile il testo di Pivato che studia la situazione in Romagna e così scrive [4]:

A testimoniare  i bassi tassi di scolarizzazione dello Stato pontificio alla vigilia dell’annessione al Regno d’Italia rimangono i dati esibiti dalla Formiggini Santamaria secondo i quali nei sei circondari delle due province romagnole la popolazione scolastica costituiva appena il 2,69 % sul totale della popolazione (tab. 1).
Provvedimento portante della legislazione scolastica dello Stato pontificio era stato il regolamento sull’ordinamento delle scuole emanato il 25 settembre 1825 dalla Sacra congregazione degli studi istituita l’anno precedente da Leone XII con la bolla 
Quod Divina Sapientia. Suddiviso in sei titoli, quel regolamento contemplava nei primi quattro le disposizioni concernenti le scuole maschili, nel quinto prendeva in esame le norme relative all’istruzione femminile e nell’ultimo venivano stabilite le modalità di esecuzione.
Particolare attenzione era rivolta al problema del reclutamento dei maestri e degli obblighi cui questi erano sottoposti nell’esercizio delle loro funzioni. La loro nomina, subordinata all’approvazione del vescovo, cui spettava anche la facoltà di concedere le licenze all’insegnamento previo accertamento della professione di fede, era vincolata ad una serie di obblighi e di doveri la cui osservanza era demandata alla sorveglianza dei deputati². Il titolo terzo si soffermava sulla ammissione dei fanciulli alle scuole stabilendo il minimo di età ai cinque anni e prescrivendo che in caso di “viziose abitudini” il fanciullo potesse essere ammesso a frequentare solo se avesse dato prova di “emendamento”.
Circa l’insegnamento delle materie, il regolamento distingueva fra quelle da impartire nelle scuole maschili, descritte nel secondo titolo, e quelle delle scuole femminili contemplate nel quinto titolo. Per i maschi le materie prescritte erano dottrina cristiana, lettura, elementi di lingua italiana, rudimenti di grammatica latina, aritmetica, calligrafia, principi di geografia e di storia sacra e profana. Le materie dell’insegnamento femminile si restringevano a due: dottrina cristiana e lavori. Una speciale approvazione era poi richiesta per quelle maestre che intendevano istruire le fanciulle anche nella lettura e nella scrittura.
L’insieme di queste norme avrebbe costituito la base legislativa di tutto il sistema scolastico dello Stato pontificio fino alla sua caduta. Scarse e di poco rilievo infatti le innovazioni introdotte dai successori di Leone XII i cui innesti legislativi sul Regolamento del 1825 avrebbero mirato a renderlo ancor più fiscale, soprattutto per ciò che riguardava il reclutamento degli insegnanti. Pio VIII avrebbe infatti prescritto, nel 1829, alcune restrizioni volte a diminuire il numero dei maestri laici ritenuto eccessivo rispetto a quello degli ecclesiastici, e dettato criteri più rigorosi circa l’adozione dei libri di testo. Ad un criterio ancor più restrittivo dei precedenti si sarebbe poi ispirato il decreto della Sacra congregazione degli studi del 2 settembre 1833 che, dettato dalla preoccupazione di vigilare sulla “morigerata condotta” dei maestri, subordinava l’approvazione all’insegnamento al parere della Sacra Congregazione.
Neppure sotto il governo di Pio IX la legislazione scolastica subiva modifiche di rilievo. Se non pochi documenti della Sacra congregazione agli studi ci rivelano che il problema dell’istruzione cominciava ad essere avvertito con una maggiore sensibilità che in precedenza, è vero però che, alle indagini conoscitive sullo stato dell’istruzione elementare promosse da Pio IX, non fecero seguito provvedimenti concreti per una sua più ampia diffusione.




Tab. 2 – L’analfabetismo in Emilia-Romagna dal 1861 al 1881
Provincie186118711881
Bologna77,871,656,1
Ferrara81,777,166,9
Modena78,072,661,1
Parma82,578,066,3
Piacenza83,077,863,5
Reggio Emilia81,975,462,6
Ravenna84,180,467,7
Forlì86,881,472,2
Emilia Romagna81,276,564,0
Italia78,873,761,9
.

Animata non già dal proposito di estendere l’istruzione ma, piuttosto, da una volontà restauratrice la legislazione scolastica pontificia era dunque improntata a quella “chiusura misoneista di fronte alla prospettiva di un sia pur minimo innalzamento di istruzione delle classi subalterne” che alcuni storici hanno indicato come una delle caratteristiche di fondo della scuola preunitaria.

Tuttavia, le carenze dello Stato pontificio in materia scolastica spiegano solo in parte lo stato di arretratezza dell’analfabetismo in Romagna. L’applicazione della legislazione scolastica del nuovo stato unitario avrebbe scontato ritardi ed incongruenze che non poco avrebbero pesato sullo sviluppo successivo dell’istruzione primaria. La volontà del governo provvisorio di procedere con estrema cautela nella estensione della legislazione del nuovo stato unitario avrebbe infatti comportato il mancato adeguamento della legislazione scolastica delle provincie della Emilia e della Romagna a quella unitaria.

I provvedimenti in materia di istruzione sanciti dal governo provvisorio sembrano infatti soffrire di quella stessa diffidenza avvertibile su un piano legislativo più generale .
Il timore di cambiamenti troppo repentini e le ampie riserve dei moderati romagnoli condussero, infatti, non già alla subitanea promulgazione della Casati  [vedi oltre, ndr] ma alla emanazione di una serie di frammentarie disposizioni. È pur vero che il provvedimento più consistente del governo provvisorio, ossia il decreto Albicini del 25 ottobre 1859, ricalcava a grandi linee i provvedimenti casatiani, tuttavia di quelli non mutuava gli aspetti più innovativi.

Dalla legge Casati il decreto Albicini sembrava aver ereditato la scarsa attenzione dedicata ai problemi della scuola primaria poiché si soffermava in particolare sulla istruzione secondaria e su quella universitaria. Inoltre il decreto Albicini eludeva la proclamazione del principio dell’obbligo, contenuto, invece, sia pure con non poche incongruenze, nella Casati.

    Tuttavia, il pur considerevole sviluppo delle strutture scolastiche nei primi anni postunitari non arrivava che in misura assai limitata a soddisfare il processo di scolarizzazione. In effetti secondo i calcoli prodotti dal prefetto Campi risultava che, nell’anno scolastico 1863-64, ancora i tre quinti dei fanciulli fra i cinque e i dodici anni della provincia forlivese non frequentava le scuole. Se il processo di scolarizzazione fosse proceduto con la stessa intensità del primo quinquennio unitario – queste le conclusioni cui giungeva Campi – sarebbero occorsi ancora quindici anni affinché tutta la popolazione infantile avesse potuto essere pienamente scolarizzata. La stima, per quanto sconfortante, si sarebbe però ben presto rivelata come improntata ad un eccessivo ottimismo. Negli anni successivi infatti il processo di scolarizzazione non solo non sarebbe proceduto con la stessa intensità dei primi anni postunitari, ma almeno per certe zone, avrebbe mostrato segnali di preoccupante regresso. (…) Più analiticamente gli annuari della pubblica istruzione mostravano che se fino al 1864 il numero delle scuole e degli insegnanti era andato progressivamente aumentando, a partire dall’anno 1865-66 esso era diminuito in maniera preoccupante. Poco confortanti anche i dati relativi alla popolazione scolastica che indicavano una diminuzione del numero degli alunni (…).

I motivi di uno sviluppo ritardato

    Una delle cause che più pesantemente influivano sui ritardi del processo di scolarizzazione va individuata nelle spesso dolenti condizioni delle finanze comunali sulle quali gravava infatti l’onere maggiore dell’istruzione primaria, secondo quanto prescritto dalla legge Casati. Il disagio economico di gran parte dei comuni avrebbe per anni condizionato negativamente gli sviluppi della scolarizzazione.

    Alla luce di questi dati se apparivano giustificate le sollecitazioni che i prefetti rivolgevano costantemente alle amministrazioni comunali quelle critiche tendenti ad individuare esclusivamente nella “inerzia delle municipali rappresentanze […] consigliate o da ristrettezze di vedute, o da ciechi pregiudizi […] e finalmente da una mal intesa economia” le cause che compromettevano “miseramente l’avvenire delle popolazioni nella parte più nobile che è quella dell’istruzione e della moralità” erano perlomeno viziate da una eccessiva mentalità inquisitoriale.

    La lentezza e l’incertezza degli sviluppi dell’istruzione in quei primi anni unitari emerge con maggiore chiarezza quando si vanno ad esaminare separatamente alcuni fenomeni. Primo fra tutti quello dell’istruzione femminile. Il ritardo della scolarizzazione femminile appare con femminile e quella maschile se si vanno ad esaminare le spese per le istruzione nei bilanci comunali dei municipi romagnoli. (…)

    Il lento procedere del processo di modernizzazione della scuola primaria in Romagna era testimoniata anche dalla occasionalità del reclutamento della classe insegnante. L’improvviso sviluppo della scolarità all’indomani della caduta dello Stato pontificio aveva trovato in gran parte impreparate le amministrazioni comunali nel provvedere al reclutamento dei maestri. La legge Casati aveva tuttavia previsto tale ostacolo e indicato come, sia pure entro certi limiti le funzioni docenti potessero essere esercitate in via provvisoria da personale non patentato purché ne fosse stata accertata una sufficiente preparazione.

C’è a questo punto da sottolineare che nel 1849 vi fu la breve (cinque mesi) ma intensa esperienza della Repubblica Romana che vide il Papa in fuga esule nel Regno di Napoli. Si progettarono interventi educativi di ampio respiro e la scuola ebbe un posto di privilegio. I documenti che parlano di tali progetti sono:

– il discorso di Mazzini all’Assemblea Costituente del 10 marzo;

– la circolare del 20 marzo del Ministro della Pubblica Istruzione Sterbinetti ai Presidi delle scuole;

– il manifesto alla popolazione del triumvirato del 5 aprile.

Sostanzialmente si parla di libertà di insegnamento, svincolando quest’ultimo dal sistema cattolico-feudale ma non affidandolo alle famiglie perché occorre puntare all’unità morale della Nazione e tale obiettivo non si raggiunge con le famiglie. Occorre anche evitare un eccessivo statalismo e decentrare molto ai comuni. Si disquisisce astrattamente di istruzione ed educazione: lo Stato dovrebbe puntare all’educazione quasi che l’istruzione non avesse un grande valore formativo. Si lascia massima libertà di istruzione e di diffusione delle scienze. In definitiva l’educazione nazionale deve prevedere [18]: un corso di nazionalità, comprendente un quadro sommario dei progressi dell’Umanità, la Storia Patria e l’espressione popolare dei principi che reggono la legislazione del Paese. L’istruzione elementare è tutta affidata allo Stato.

I limiti di tale progetto stanno tutti in una “educazione” non garantita allo stesso modo a tutti, con una discriminazione nei fatti per i ceti meno abbienti. E’ il riflesso dell’aristocratismo di classi privilegiate e colte che tendono sempre ad essere solidali ma da una posizione paternalista di superiorità.

Tornando allo Stato Pontificio, un cenno ai libri di testo è indispensabile prima di passare alla scuola restaurata nel Regno di Napoli. Intanto essi erano rigidamente controllati dall’autorità ecclesiastica quindi [3]

l’istruzione dei bambini iniziava con “La Santa Croce“. Sulla prima pagina c’era una crocetta, seguita dall’alfabeto maiuscolo e minuscolo e dai numeri arabi e romani. Venivano poi le sillabe e la composizione di alcune parole nuove; infine il Credo, i Comandamenti e il modo di servire la Messa.
C’era poi l’
Abbecedario, che era seguito da poche pagine di lettura: massime morali, proverbi, raccontini, favole in versi e in prosa, e, in ultimo, le principali regole di interpunzione. Dal 1857 si aggiunsero nozioni di cronologia, di storia e di geografia, insegnate a domande e risposte.
Dall’Abbecedario si passava alla 
Storia dei SS. Barlaam e Josafatte, una leggenda medievale il cui fine è l’esaltazione della fede cristiana; si faceva leggere anche il Fiore di virtù, di contenuto morale, in forma di ragionamenti, di massime della Bibbia, di sentenze di antichi scrittori. Per l’aritmetica si usava l’Abaco, infine, La dottrina cristiana e il Trattato elementare sui doveri degli uomini.
Nelle scuole femminili erano adottati 
L’ufficio della Madonna e il Leggendario di alcune sante vergini, che raccontava la vita di sante vissute al tempo delle persecuzioni e che glorificava il celibato e la castità.
Nel regno pontificio non c’era la libertà di stampare libri: essi venivano prodotti e venduti dall’Ospizio apostolico di S. Michele, che ne faceva un elenco a cui gli insegnanti dovevano attenersi. I contravventori venivano puniti con la confisca dei libri non approvati e con una multa corrispondente al valore di essi; l’importo delle multe era devoluto per metà all’Ospizio di S. Michele e per l’altra metà all’accusatore o scopritore della merce proibita.

A queste cose si possono aggiungere le osservazioni di Genovesi [2]:

Circa il metodo, era adottato uniformemente «quello tradizionale (normale), trasmesso di generazione in generazione d’insegnanti e scrupolosamente codificato in minuziosi regolamenti. […] Tutto era meticolosamente distribuito di mezz’ora in mezz’ora e ridotto ad un meccanismo nel quale ogni cosa era cronometrata» (…). Questi non erano limiti esclusivi dello Stato pontificio, ma comuni a tutte le scuole della penisola. Semmai lo Stato del papa, più degli altri, era caratterizzato da una calcolata sciatteria nei confronti di una vera istruzione popolare di cui fu per più lungo tempo un accanito avversario. In effetti, anche se la riorganizzazione di papa Leone XII «favorì non poco l’istruzione dei figli del popolo, poiché al miglioramento didattico andò congiunta l’apertura di numerose scuole elementari» (…), lo spirito che domina tale riorganizzazione è quello di carità che mai si incontra con il concetto di diritto. Inoltre il beneficio maggiore si risentì nella capitale, dove furono potenziati orfanotrofi e ricoveri per zitelle e «pericolande» con annessa qualche forma di insegnamento elementare,  scuole per sordomuti e per ciechi, collegi e scuole di parrocchia e rionali sì da accogliere una parte più consistente dei figli del popolo anche se non la totalità come riporta il saggio citato. Nel 1869 le scuole pubbliche, comprese le scuole pie, erano soltanto 20 e non accoglievano che 1.655 alunni e nel 1870 l’intera popolazione scolastica romana, nelle scuole e collegi pubblici o diretti da religiosi, era di 7.941 unità. Di questi alunni, 5.555 ricevevano un’istruzione gratuita (…), all’insegna della carità, ma non del diritto. A partire dalla seconda metà degli anni ’40, superata la netta opposizione dei vescovi, sia a Roma (1848) sia a Bologna, Macerata (1847), Imola (1848), Ravenna (1851), furono fondati asili infantili, scuole della Provvidenza (…) per le fanciulle, effimere scuole elementari a pagamento e fu esteso il «sistema» delle scuole notturne, che già da vari anni riscuotevano una certa fortuna.

Le scuole notturne sorsero nel 1919 per iniziativa privata e tali restarono fino al 1870. Erano gratuite, si occupavano di istruzione professionale, fornivano gli studenti degli strumenti necessari con lezioni della durata di un’ora e tre quarti perfettamente scandite tra le materie (che prevedevano sempre una grande parte alla religione). Visto il loro successo spinsero alla creazione di una scuola per la preparazione degli insegnanti. la scuola aprì nel 1845 e fu chiusa da Pio IX nel 1851. Ebbero il favore della Curia, contrariamente agli asili dove, la Chiesa vedeva maggiori possibilità per i liberali d’infiltrarsi. Poiché erano gestite da privati, era vietato castigare le persone che, se commettevano azioni particolarmente gravi, venivano espulse.

Tali scuole non entrarono mai a far parte di un sistema pubblico. Il Vaticano restò sempre privo di un sistema educativo primario. Più che uno Stato di diritto era uno Stato di carità.Alcune testimonianze possono rendere meglio conto dei bassissimi livelli di indottrinamento delle scuole pontificie. Il mazziniano Giovanni Ruffini, perseguitato dalla Chiesa e perciò esule in Inghilterra, racconta dei certificati che gli venivano richiesti per iscriversi all’Università di Genova [11]:  

1. Certificato di nascita e di battesimo; … 4. Certificato di buona condotta, rilasciato dal prete della parrocchia; 5. Certificato di assiduità agli uffizi della parrocchia tutti i giorni festivi nel corso degli ultimi sei mesi; 6. Certificato di confessione mensile durante i sei mesi precedenti; 7. Certificato di confessione e comunione pasquali, secondo il Comandamento della Chiesa, all’ultima solennità di Pasqua; 8. Certificato provante che i genitori possedevano fondi di valore sufficiente per assicurare ad ognuno dei figli una rendita uguale alla somma fissata dal regolamento; 9. Certificato di polizia, che dichiarasse non aver io preso parte ad alcun movimento costituzionale del 1821.

Di seguito vi è invece la sintesi delle prescrizioni del cardinal-vescovo di Imola, città dello Stato pontificio, nel Regolamento disciplinare intorno alle scuole comunali, del 1854 [11]: 

Prima o dopo della scuola gli scolari ascoltino la S. Messa… Dopo la scuola della sera i Maestri condurranno i loro alunni alla visita del SS.mo Sacramento; dopo la quale si canteranno le Litanie della Vergine santissima. Nei giorni festivi ascolteranno la S. Messa, reciteranno il Mattutino e le Laudi dell’Uffizio piccolo della Madonna, sentiranno la spiegazione del Vangelo. Nei giorni festivi tutti i Maestri accompagneranno i loro scolari nel dopo pranzo alla Chiesa parrocchiale per la spiegazione della Dottrina cristiana.

Regno di Napoli

Dopo le riforme ed i tentativi di Riforma del periodo napoleonico, la Restaurazione borbonica riportò quasi completamente la scuola alla completa influenza clericale. Nel primo periodo si oscilla continuamente tra aperture e chiusure: da una parte si vorrebbe mantenere l’efficienza del sistema scolastico messo su da Murat e dall’altra si ha paura di turbare l’ordine costituito con una scuola troppo avanzata. Si manifesta allora ciò che è ambizione di ogni governo reazionario: da un alto avere cittadini istruiti ma non troppo, dall’altro avere una scuola che serva più per indottrinare che per istruire, dall’altro ancora avere una scuola che non crei problemi alla struttura sociale esistente, dall’altro infine avere una scuola che si armonizzi con gli insegnamenti della Chiesa. E, vista la crescita del movimento liberale, i più accesi conservatori lanciavano strali contro la scuola che appariva come la tomba di troni ed altari. Nel 1815 venne istituita una Commissione con lo scopo dichiarato di educare i giovani alla Nostra Cattolica Religione. Nel 1816 gli ordini religiosi si ripresero quasi ogni insegnamento, furono reintrodotte nei programmi questioni attinenti a fede e culto, i parroci erano chiamati alla vigilanza, per praticare qualsiasi professione è necessario un attestato in cui si dichiari, oltre che di saper leggere e scrivere, di conoscere il catechismo. Inoltre, per mantenere quel minimo di scolarizzazione che si era venuta faticosissimamente costruendo negli anni precedenti e per non creare momenti di attrito con la popolazione (che per la verità era almeno indifferente alla cosa), ma anche per abbattere i costi della scuola, si introdusse per la prima volta in Italia il metodo del mutuo insegnamento (1817) secondo il quale gli 

Fig. 1 – L’oratorio di S. Caterina a Milano, dove si utilizzava il metodo del mutuo insegnamento (Torino, Museo del Risorgimento).

alunni più grandi (specie di vicemaestri) e preparati venivano coinvolti dal maestro nell’educazione dei più piccoli ed inesperti; ciascuno dei vicemaestri, sotto la guida dell’insegnante, si prendeva cura, con un ingegnoso sistema di divisioni, di un piccolo gruppo di scolari (molti maestri confessavano infatti che se erano soli ad insegnare, come capitava nei piccoli paesi, non potevano prendersi cura di una classe senza abbandonare la sorveglianza delle altre); non si usavano più pene e castighi e le lezioni si basavano sul metodo della collaborazione (tutti insegnano a tutti) in un processo moltiplicativo che, lo ricordo, sarà anche di Don Milani nella Scuola di Barbiana. Il sistema fu importato in Inghilterra dall’America, dove era stato pensato da A. Bell e G. Lancaster, verso la fine del Settecento. Dall’ Inghilterra passò alla Francia dove Lazare Carnot, ministro rivoluzionario dell’Istruzione, lo adottò ufficialmente, anche se non riuscì a realizzare i suoi piani per la ristrettezza dei tempi. Esso prevedeva che i maestri si impegnassero a studiare, a tenersi aggiornati, a confrontare il loro metodo con quello usato in altre città e, addirittura, in altre nazioni. Oltre alla valenza rivoluzionaria originaria, scuole così organizzate avevano anche la valenza delle “scuole dei poveri”: un solo maestro poteva bastare anche per 50 o 100 alunni perché questi si insegnavano tra loro. Le scuole di mutuo insegnamento, da subito scomunicate dalla Chiesa cattolica, furono consigliata al Re Ferdinando I delle Due Sicilie dall’abate Scoppa, di ritorno da Parigi, ed il Re ordinò di fondarla nel Regio Albergo dei Poveri.  

Siamo ancora al breve periodo di transizione ai moti del 1820 e, ancora nel 1818, la scuola, pur in mano alla Chiesa, era formalmente gestita da una Commissione laica. Tale Commissione emanò un nuovo ordinamento per la scuola pubblica sicilianache quasi si ispirava a ciò che era stato fatto negli anni immediatamente precedenti la Restaurazione [2]

Tutti i comuni furono, infatti, tenuti ad istituire una scuola primaria, «assistita da uno, o più maestri secondo i bisogni della popolazione» per istruire i fanciulli «ne’ primi elementi di leggere, e scrivere correttamente, nell’aritmetica elementare, e nelle istruzioni morali del Catechismo di Religione, e de’ doveri sociali adottati dal Governo»; tutti i maestri furono obbligati a utilizzare il metodo normale [metodo normale o simultaneo che consisteva nell’insegnare contemporaneamente a tutti gli scolari le medesime nozioni, evitando spreco di tempo e migliorando la partecipazione degli scolari stessi, n.d.r.]. Per rendere possibile da parte degli insegnanti l’apprendimento di questa metodologia, la Commissione istituì in tutti i capoluoghi di provincia una Scuola centrale di metodo.

Ciò rappresentava una novità, nel continente non era prevista una tale scuola che era un embrione di unificazione di metodi prima che di contenuti. Nel continente [2],

con l’editto del 21 dicembre 1819 si affidò la nomina dei maestri ai Comuni. Tuttavia si istituirono scuole femminili (scuole caroline) e altre scuole secondarie in diverse città del Regno per cui, nel 1818, l’impegno dello Stato per la pubblica istruzione raggiunse la somma rispettabile di 417.000 ducati. (…) All’inizio degli anni ’20 funzionavano nel regno ben 2642 scuole maschili con 54.226 alunni e 839 femminili con 21.386 allieve […] Come poi funzionassero quelle scuole e chi fossero i loro maestri, lo troviamo coraggiosamente denunciato a Ferdinando II dal consultore di Stato Capomazza, preposto alla pubblica istruzione. Le lezioni si svolgevano spesso nella casa del maestro, in mezzo all’andirivieni dei familiari, dei servi, dei lavoratori di campagna […] Mancavano gli oggetti scolastici: libri, lapis, fogli di carta; peggio: in non poche scuole mancavano gli scanni dove sedere e le tabelle necessarie al metodo normale. Gli stipendi erano di fame e spesso stornati dal Comune ad altro uso.

I moti del 1820, pur nei tempi brevissimi in cui operò il governo rivoluzionario, fecero ipotizzare (Gatti) una scuola apertissima e moderna. [5]

[Gatti era] persuaso che occorresse iniziare l’affrancamento del popolo con l’affrancamento della intelligenza e con una battaglia contro la superstizione. Il Gatti pensa che al lavoratore moderno sia necessario rendersi conto delle condizioni storiche e fisiche dell’ambiente in cui vive; e quindi fra le materie di insegnamento inserisce la geografia fisica, la cosmografia, la storia naturale; e, come fondamento alla preparazione di ogni tecnica manuale, il disegno. Fa obbligo al maestro di ammodernare il suo metodo; raccomanda di far precedere l’insegnamento del vocabolo dall’osservazione diretta degli oggetti o delle immagini, di integrare le lezioni in classe con visite a musei, opifici, orti botanici, aziende campestri. Era fatto obbligo agli alunni di imparare gli articoli della Costituzione « affinché apprendessero di buon’ora i loro diritti e i loro doveri, ed, informati dello  spirito nazionale, sapessero corrispondervi coi lumi e con le virtù necessarie». [5]

Dopo i moti del 1820 si scatena la più sorda avversione verso la scuola ed ogni forma di cultura. Lo stesso re non vuole più sentirne parlare e trasferisce tutto sotto il controllo della Chiesa.

 La pubblica istruzione del Regno viene «omogeneizzata» e messa sotto il controllo ecclesiastico. Nel 1821 è istituito l’indice dei libri proibiti e con i decreti del 13 novembre e del 15 dicembre 1821 si irrigidisce sempre più il clima di chiuso confessionalismo e di gretta sorveglianza poliziesca di insegnanti e allievi, mentre sono soppresse tutte le scuole di mutuo insegnamento perché ritenute contrarie ai principi dell’autorità. [2]

Non vi furono cambiamenti significativi con la successione al trono di Ferdinando II. Una indagine del 1936 in Sicilia parla di completa desolazione e di analfabetismo regnante. Ed arriviamo al 1843 quando Fernando II firma un decreto in cui lo Stato rinuncia completamente all’Istruzione per affidarla alla curia.

Nel 1848 altri moti rivoluzionari che per una breve stagione dettero il potere alla borghesia liberale. Fu subito costituito il Ministero della Pubblica Istruzione che tentò la riorganizzazione della scuola pubblica con particolare riferimento alla scuola primaria (1849) con un progetto di seguito riassunto [2]:

 a) l’istruzione, almeno quella primaria è un diritto di ogni cittadino; 

b) l’insegnamento non può essere una funzione dello stato, ad esso compete invece vigilare tramite gli ispettori per garantirne il buon funzionamento e per garantire la sicurezza sociale; 

c) poiché è un diritto dei genitori educare i propri figli, ai genitori deve essere assicurato il diritto di «entrare nelle scuole, ove viene educato il figlio, di prendere informazioni sul loro andamento, e richiamarsi ancora presso le autorità superiori»; 

d) dell’istruzione primaria devono farsi carico i comuni essendo questi le naturali aggregazioni delle famiglie; 

e) l’istruzione primaria è «un gravissimo interesse sociale» per cui è dovere dello stato «rimuovere ogni impedimento, che nascer possa alla sua diffusione e progresso»; perciò essa è impartita a tutti gratuitamente nelle scuole pubbliche; […] 

f) essendo l’istruzione un bene non ancora compreso dalle masse popolari lo stato la impone a tutti come un obbligo, lasciando però libertà di adire le scuole pubbliche o le private.

Questo delineare una scuola moderna ebbe vita breve, una nuova Restaurazione ancora più feroce fece precipitare tutto in brevissimo tempo. Ancora la Chiesa a gestire il tutto, una Chiesa onnivora ed onnipresente che sarà la migliore alleata dei Borbone, una Chiesa che, all’inizio dell’Ottocento, su un totale di circa 4 milioni di abitanti del regno, aveva ben 120 mila addetti al culto.

Il sistema scolastico che il dominio borbonico si accingeva a consegnare al Regno d’Italia presenta un quadro disastroso: le sue caratteristiche sono l’inefficienza, la scarsissima presenza, il monopolio clericale. Insomma il Regno delle Due Sicilie chiude i suoi giorni facendo registrare un completo fallimento nell’organizzare un sistema scolastico ordinato, controllato dallo Stato e, soprattutto, efficiente. Un fallimento con cui il Regno d’Italia si troverà a fare i conti [2]

dato che il Regno di Napoli, che pure era stato tra i più avanzati e tra i primi a muoversi sulla strada dell’educazione popolare e pubblica, porterà in eredità allo Stato unitario la più alta percentuale di analfabeti. Paradossalmente fu la scuola privata laica che sopperì ai disastri di troni ed altari. Da queste scuole vennero ed in queste scuole insegnarono personaggi fondamentali nella cultura non del Meridione ma dell’Italia, come Puoti, Silvio e Bertrando Spaventa, Francesco De Sanctis, Pasquale Villari, …

I principi precedentemente elencati saranno però alla base della scuola piemontese di Cavour.

Lombardo – Veneto

Alla fine del Settecento, non vi è dubbio che il Lombardo – Veneto è la parte d’Italia più evoluta per la sua economia avanzata che comporta una maggiore evoluzione civile e culturale (più la Lombardia che il Veneto). Merito di ciò è indubbiamente la dominazione – amministrazione austriaca che con il benessere che garantisce fa dimenticare ai più il ferreo controllo assolutistico. Gli austriaci tornano al potere dopo la caduta di Napoleone nel 1814. Da questo momento la scuola torna a ciò che era prima della Rivoluzione con la sopravvenuta necessità di ordinare e sistemare l’esistente. La cosa verrà fatta con il Regolamento Normale per le Scuole Elementari del 1818. Le scuole verranno suddivise in tre categorie, quelle minori, quelle maggiori e quelle tecniche (queste ultime mai realizzate). 

Figura 2 – Scuole di carità per l’infanzia, incisione del 1837 (Roma, Collezione Fainelli).

Le scuole minori erano obbligatorie per tutti i giovani (maschi e femmine) con età compresa tra i 6 ed i 12 anni. Erano organizzate nei centri minori sotto la direzione di un parroco ed avvenivano in classi di fino a 200 alunni (con un paio di aiutanti per ciascun maestro), fatto che le qualifica per la supposta efficacia.

Le scuole maggiori erano organizzate nei centri maggiori per preparare all’ingresso o a scuole tecniche o al mondo del lavoro.

Le finalità della scuola sono ben chiare nel Regolamento:

i maestri debbono avere speciale attenzione ad insinuare agli scolari la gratitudine verso i parenti e l’amore verso l’arte, l’amore verso il Sovrano, e per la patria, l’ubbidienza alle leggi, il rispetto ai magistrati, e la riconoscenza soprattutto, che dovevano a chi loro procurava una gratuita istruzione, e cercava di nobilitare l’animo loro.

Gli insegnanti erano obbligati a frequentare una scuola di metodica ma ciò non era  sufficiente a maggiore qualificazione. Vi era infatti il pregiudizio, che conveniva mantenere per ragioni politiche e di affidabilità, dei preti come migliori insegnanti. 

Come si può osservare la struttura delle scuole del Lombardo – Veneto era seria ed avanzata ma, nonostante ciò, vi era una grossa evasione nella loro frequenza, anche se la frequenza (in Lombardia) era la più alta d’Italia: il 68% di maschi ed il 42% di femmine (in età scolare) con punte del 90% a Bergamo.

Le cose si modificarono di poco dopo i vari moti rivoluzionari e la guerra d’indipendenza. Anche qui aumentò il controllo che divenne sempre più stretto, anche qui la scuola era sempre più affidata alla curia. 

Nel 1851 vi fu una riforma che tentava di promuovere le scuole tecniche. Non ebbe successo e questo perché il male profondo di tutto il sistema (e non solo del Lombardo – Veneto) era la scarsa preparazione che si aveva nelle scuole di base soprattutto quando erano in mano ai curati. Sta di fatto che il Lombardo – Veneto si presentò all’unità con il 64% di analfabeti, appena un 4% in meno che la media italiana.

Anche qui, come nel Regno di Napoli, si fece fronte ai disastri pubblici con iniziative private di grande rilievo da parte liberale (che per gran parte, come per Napoli, interessavano però i figli dei borghesi illuminati). Si misero su le scuole di mutuo insegnamento (1919) sotto la spinta, tra l’altro, di Federico Confalonieri. Sorgeranno poi, sull’esempio dei giardini d’infanzia, gli asili infantili (1929), che si estenderanno rapidamente anche al resto d’Italia, meno che nello Stato Pontificio e nel Regno di Napoli.

Dopo il 1848 la scuola fu sottoposta a maggiori controlli e l’Austria si rafforzò nell’opinione che l’unico fattore coagulante l’istruzione fosse la religione cattolica che era in grado di creare sudditi fedeli alla corona, obbedienti, snazionalizzati ed illiberali.

Granducato di Toscana

La Restaurazione in Toscana non ebbe le caratteristiche di dura repressione che si ebbero negli altri Stati preunitari. C’è da segnalare la chiusura (1817) della Scuola Normale Superiore di Pisa, nata allo scopo di formare insegnanti di scuola superiore, che era nata (1810) ad imitazione delle napoleoniche Écoles Normales Supérieures. E la scuola di base, quella popolare, soprattutto quella elementare, quella tecnica e quella artigianale, era in condizioni di grave arretratezza dal punto di vista dei risultati dell’alfabetizzazione (la riforma del 1827 relativa alle scuole elementari era basata su una precaria alfabetizzazione e sul catechismo), dei locali, degli insegnanti, dell’evasione (circa il 90% dei maschi in età scolare). La scuola è in mano al clero (Scolopi e Vallombrosani) anche se sottomesso allo Stato,  che riceva abbondanti sovvenzioni dallo Stato stesso che garantisce l’istruzione fino a livello secondario per i maschi. Per le femmine le cose non vengono chiarite se non per quelle abbienti che dispongono di almeno un Istituto (SS. Annunziata a Poggio Imperiale) di ispirazione napoleonica.

Anche qui, almeno fino al 1848 con una quieta accettazione di fatto da parte delle autorità dello Stato, fu l’iniziativa privata (Ridolfi, Capponi, Lambruschini, … ) laica a fornire le migliori scuole, quelle di mutuo insegnamento, quelle artigianali e tecniche. Anche gli asili furono costruiti da iniziative private prima a Pisa (1833) e quindi a Livorno (1836). I fini di tali iniziative erano ben illustrati dalla rivista teorica liberale, paternalista  Antologia (“il popolo deve apprendere ad essere volenteroso del lavoro, regolato, morale, religioso, morigerato e deve sapere qual è il suo ruolo e non travalicarlo“) che delinea la scuola popolare, che sarà poi quella unitaria, a partire dal principio che l’educazione migliora i cittadini del medio e basso ceto ed avvia al progresso civile e sociale.

I moti del 1848 convincono il granduca a sospendere una riforma della scuola che dal 1846 era in preparazione e ad abbandonare la questione della scuola popolare pubblica. La scuola, prima gestita da privati e dai Comuni, viene completamente affidata al clero sotto la supervisione dei vescovi (l’articolo 1 della legge del 1852 affermava: “Nelle scuole del Granducato il fine supremo dell’istruzione deve essere l’educazione morale fondata sopra il dogma della religione“).

Ducati di Modena e Parma

La Restaurazione a Modena fece cadere il Ducato in un pesante oscurantismo. Una censura ferrea blocca ogni cosa, compreso Dante. L’istruzione è affidata all’ordine ripristinato dei gesuiti. Quella primaria praticamente non c’è, quella tecnica, proprio perché gestita dai gesuiti, è arretrata e dogmatica. I moti del 1848 trovarono un governo provvisorio che non si occupò di scuola e così, la Restaurazione non dovette prendere particolari provvedimenti. 

Al catechismo del regno d’Italia si sostituì la Dottrina Cristiana del Bellarmino; furono espulsi gli ebrei dalla scuola pubblica […] Nello stato non si parla più di liceo, né di insegnamento di logica, morale, storia, geografia, disegno. Probabilmente si tornò alla scuola del 1774 […] Nel 1819 si stabilì una limitazione e una sorveglianza sulle scuole private, ma le prescrizioni su questo punto furono quasi generalmente trasgredite, e nel 1825 il duca abolì queste scuole; l’ordine esplicito ebbe però in pratica molte attenuazioni. Mancando un regolamento generale per le scuole, e non potendosi applicare quello del 1811-1812 inviso all’autorità ducale, l’istruzione si trovò in una specie di anarchia. [2]

A Parma le cose andarono meglio, grazie all’influenza di Maria Luisa, moglie e poi vedova di Napoleone che riuscì a mantenere una ispirazione francese alle scuole del Ducato. Le scuole furono riportate sotto un rigido controllo e ai principi della morale cattolica che garantiva la governabilità dei principi. Anche qui i gesuiti tornarono in auge, quei gesuiti che avevano in odio l’istruzione popolare. Vi erano scuole primarie solo in alcune città e gli esami annuali erano solo per chi aveva certificati di frequenza al catechismo ed alle varie funzioni religiose. Maria Luisa poté attenuare le ricadute negative di quanto sopra poiché aveva un concordato con la Chiesa e poteva frenare la sua invadenza. Furono istituite scuole per maestri, esami di concorso per accedere all’insegnamento primario e secondario e si introdusse l’uso per tutte le scuole primarie di grammatiche d’italiano (1814). Nel 1818 vi furono interventi sugli stipendi e sulle pensioni dei maestri. La mancanza di questi ultimi fece aprire all’esperienza del mutuo insegnamento. Per le femmine povere vi erano pochissime  scuole che davano un minimo di alfabetizzazione (scuole luigine) e accoglienza di qualche indigente in scuole monastiche a pagamento per persone agiate. Si tentò solo nel 1856 di mettere su una scuola primaria femminile uguale alla maschile con in più i lavori domestici.

Nota positiva fu l’istituzione degli asili, anche se in ritardo (1841). Tale ritardo era dovuto ai liberali locali che volevano capire come s’inseriva tale politica in quella della auspicata unità d’Italia. L’esperimento durò solo 7 anni. Dopo il 1848 gli asili andarono a morire da sé proprio per il sopravvenuto disinteresse degli stessi liberali.

Per concludere si può dire che una scuola elementare gratuita ed obbligatoria non esiste nella pratica tanto è vero che nel 1862, su un totale di 475.876 abitanti, solo 5721 giovani frequentavano le scuole pubbliche.

Regno di Sardegna

La Restaurazione inizierà con aspetti di oppressione e repressione resi molto più efficaci per il maggiore livello organizzativo dello Stato. La scuola, tornò in gran parte in mano agli ordini religiosi e particolarmente ai gesuiti. Lo Stato se ne tiene fuori, anzi, dopo i moti del 1821, stronca con decisione quelle iniziative private che avevano tentato la costituzione di scuole di mutuo insegnamento.  Nel 1822 Carlo Felice varerà un Regolamento che teoricamente prevede cose importanti per la scuola primaria pubblica: scuola obbligatoria e gratuita per maschi e femmine in ogni comune; maestri assunti dopo un esame davanti ad un funzionario dello Stato; insegnamento in lingua italiana (con la messa da parte del latino); ma anche, nonostante la proclamata laicità, con la solita presenza ossessiva della religione [2]:

[Le lezioni, secondo l’articolo 12 del Regolamento], «principieranno alla mattina colla recitazione delle orazioni del mattino, e termineranno coll’agimus tibi gratias. S’impiegherà la prima mezz’ora nell’insegnamento delle lezioni del catechismo della diocesi. La scuola del dopo pranzo principierà colla recitazione dell’actiones nostras, e terminerà con quella delle orazioni della sera. Quella del dopo pranzo del sabbato verrà tutto impiegata nell’insegnamento del catechismo, e della dottrina cristiana, e terminerà colla recitazione delle Litanie della Beata Vergine».[Secondo l’articolo 15] «II Maestro, o Maestri delle scuole comunali si concerteranno col Parroco, affinché o nel luogo della scuola, o nella parrocchia abbino i fanciulli il comodo di sentire la messa prima della scuola, e quello di confessarsi una volta al mese; essi porteranno almeno ogni bimestre la fede di confessione. Nei giorni di festa gli scolari assisteranno al catechismo; ed alle funzioni parrocchiali nella loro parrocchia».

A parte questa parte che sembrava ineliminabile in tutta Italia, qualunque fosse la dominazione anche straniera, il progetto di scuola primaria era di grande interesse … solo che non se ne fece nulla per mancanza di tutto ciò che sarebbe occorso: mancanza di finanziamento statale, mancanza di denaro da parte dei comuni, mancanza di volontà, … La scuola resterà autoritaria, con il bando ad ogni apertura . Come riassume Montespertelli riportato in [2]:

Principio fondamentale della scuola piemontese è quello di un’educazione volta al supremo fine di fabbricare dei sudditi fedeli e obbedienti alla Chiesa e allo Stato, anziché a quello di formare delle personalità intellettualmente e moralmente compiute e capaci. Tutto ciò che ha un lontano sentore di liberalismo o comunque di progressismo, è esecrato e bandito. Vigono i sistemi inquisitoriali più rigorosi; la sferza e la delazione sono in uso legale. Si stimolano gli scolari ad ambire al premio di essere chiamati a sferzare i propri competitori. I pochi insegnanti laici sono sorvegliati rigorosamente e posti sotto la costante minaccia della destituzione per ogni minima causa.

La gestione delle scuole elementari sarà affidata ai Fratelli delle Scuole Cristiane e tale monopolio si manterrà fino al 1848, quando sarà varata in un clima politico cambiato, la Legge Boncompagni che aprirà la strada alla prima legge che poi fornirà il punto di partenza per le leggi nazionali, la legge Casati.

Primi sintomi di cambiamento si avranno con la Raccolta dei sovrani decreti per le scuole varata da Carlo Alberto nel 1834 con i quali si inizierà davvero l’insegnamento elementare in lingua italiana. Inizieranno anche a nascere riviste educative e pedagogiche a cui si accompagnerà la nascita di una scuola di pedagogia. Nel 1840, quando Casa Savoia si orienterà sui principi liberali ed inizierà a porsi come riferimento per il Risorgimento, cambierà la politica scolastica e si metterà mano ad una revisione del Regolamento del 1822 ad opera principalmente di Vincenzo Troya. Successivamente si realizzeranno: scuole di metodo per la preparazione dei maestri laici (1844); Casa di educazione correzionale dei giovani discoli (1844); scuole serali per adulti (1845); norme per le scuole femminili e per gli esami da maestra (1846); fondazione del Ministero della Pubblica Istruzione con il nome di Segreteria di Stato per la Pubblica Istruzione in sostituzione del preesistente Magistrato della Riforma (1847); ammissione alle scuole pubbliche di bambini valdesi ed ebrei (1848); assunzione con il nome di collegi-convitti nazionali dei collegi gestiti dai gesuiti espulsi dal regno nel 1848. Il Regolamento del 1840 aveva allegate delle Istruzioni ai maestri delle scuole elementari. Tali Istruzioni mostrano un importante livello di riflessione sulla scuola che avrà solo pochi cambiamenti nel passaggio prima alla legge Boncompagni e quindi alla Legge Casati. La scuola può essere un motore importante di progresso sociale e civile di uno Stato se riguarda l’intera popolazione. La lacuna più macroscopica di queste pur importanti affermazioni è che la scuola è ancora vista al servizio dello Stato e non [2] dello Stato al servizio dei cittadini e, successivamente, con il loro miglioramento, alla qualità della vita di tutta la società. 

E passiamo ad illustrare la Legge Boncompagni (4 ottobre 1848), dal nome del primo ministro della Pubblica Istruzione del Regno di Sardegna. Con la legge Boncompagni del 1848 che affermava che la Pubblica Istruzione era Uffizio civile e non religioso si passava tutta l’Istruzione compresa l’Università al Segretariato della Pubblica Istruzione e lo si denominava Ministero della Pubblica Istruzione. 

In tale legge l’istruzione veniva divisa in 3 gradi: universitario, classico o secondario (suddiviso in tre corsi: grammatica, retorica, filosofia; in esso vengono insegnate le lingue antiche e quelle straniere, gli elementi di filosofia e di scienze preparatori agli studi universitari), tecnico o speciale (scuole professionali per l’avvio al lavoro; tali scuole avranno considerazione continuamente crescente e saranno sostenute dallo stesso Cavour), primario o elementare (inferiore e superiore, ciascuno di due anni), tutti posti sotto la tutela pedagogica ed amministrativa del Ministero, che subentrava al controllo dei Gesuiti. Per questo la legge Boncompagni fu il primo tentativo radicale di laicizzazione dell’ordinamento scolastico, estendendo il controllo del governo anche alla scuola privata ed a quelle ecclesiastiche ed aprendo ad una problematica che sarà sempre fonte di problemi: la libertà d’insegnamento. Con una circolare del 1851 si istituirono anche le Scuole provinciali di metodo che a loro volta sono suddivise in Scuole di metodo, istituite nelle grandi città al fine di formare i maestri per il corso superiore delle elementari, e in Scuole inferiori di metodo, da istituirsi nei centri minori per la preparazione dei maestri del corso elementare inferiore. Va aggiunto che la Scuola di metodo con tutte le sue ramificazioni è rigorosamente riservata alla formazione dei maestri, anche se si comincia a delineare il problema della formazione delle maestre. Nel 1849, Domenico Berti istruisce privatamente nella sua casa di Torino alcune giovani donne e consegue un tale successo che, l’anno successivo, a causa dell’elevato numero di richieste di partecipazione, deve chiedere al governo dei locali per tenervi lezione. Dal 1852 la scuola di Berti diventa triennale e prevede anche un convitto per le ragazze che non risiedono a Torino. Viene inoltre istituita una biblioteca itinerante e, dal 1854, è annesso alla scuola un corso elementare per le esercitazioni di tirocinio. La necessità di preparare le ragazze all’esame di patente magistrale viene sentita anche a livello statale, tanto che il 21 agosto 1853 il ministro Cibrario emana un regolamento in base al quale le scuole di metodo assumono il nome di “scuole magistrali” e vengono suddivise in maschili e femminili. La preparazione è caratterizzata da un programma di abilitazione all’insegnamento carente ed estremamente ridotto, riconducibile all’istruzione religiosa, a poche ed ormai obsolete istruzioni per insegnare le tecniche del leggere, dello scrivere e del far di conto e, infine, per insegnare il modo di mantenere la disciplina.

Di interesse è il riconoscimento che la scuola deve essere diretta da gruppi di persone (Consigli) e non da singoli (anche se la cosa cadrà con la Legge Lanza del 1857) e che, per la prima volta la scuola elementare non è considerata come una cosa a sé stante ma come base per tutti per poter accedere a qualunque altro studio.

 Ma malgrado ciò le innovazioni pedagogiche furono blande, si centralizzò soltanto il controllo, l’insegnamento della religione rimase garantito dalla presenza nelle scuole di un direttore spirituale nominato dal vescovo e le innovazioni chieste dai liberali rimasero inascoltate, inoltre moltissimi insegnanti, soprattutto a livello elementare, erano dei religiosi. Era confermato il primato dell’indirizzo umanistico e delle discipline classiche, furono  appena introdotte le discipline scientifiche e matematiche. Il movimento ideologico che ispirò la legge Boncompagni, avrebbe voluto contrapporre alla pedagogia dei gesuiti una pedagogia di matrice militare sul modello dell’accademia ma ben presto questa si rivelò una mera velleità ed anzi il processo di laicizzazione si mostro più lento del previsto. 

Con la legge Lanza del 20 giugno 1858 viene istituita la scuola normale che, secondo i piani di attuazione previsti, nell’arco di tre anni avrebbe dovuto raggiungere le dodici unità (sei maschili e sei femminili). 

Concludo il paragrafo riportando alcuni quadri statistici relativi alla scuola nei vari Stati preunitari (Fonte: Genovesi, Storia della scuola in Italia dal Settecento a oggi, Laterza 1998):

LA LEGGE CASATI (1859): IL PROGETTO ALLA BASE DELLA SCUOLA DELL’ITALIA UNITA

La Legge organica sulla Pubblica Istruzione o Legge Casati (novembre 1859) fu elaborata, insieme a Casati, da A. Mauri e A. Fava e fu varata, nonostante la sua mole (379 articoli), in soli 4 mesi, dato che non dovette passare per il Parlamento a seguito dello stato di Guerra (Seconda Guerra d’Indipendenza). Fu lo stesso Vittorio Emanuele II a promulgarla. Tale legge raccoglie tutte le istanze della Boncompagni, della Cibrario e della Lanza fornendo un assetto organico e gerarchizzato alla scuola, dall’elementare all’università sotto la dipendenza diretta dal consiglio della Pubblica Istruzione nominato direttamente dal Ministro (spettava al ministero dell’Agricoltura e Commercio l’istruzione professionale; l’istruzione universitaria e classica al potere centrale, la tecnica superiore alle province, l’elementare ai comuni).

Tuttavia le novità della legge Casati non furono poche: venne istituita la prima scuola elementare per tutti, di quattro anni con un biennio inferiore (quello obbligatorio e gratuito) ed uno superiore; si insegnavano materie quali la religione, lettura e scrittura, aritmetica e sistema metrico, la lingua italiana, la geografia elementare e la storia nazionale, scienze fisiche e naturali applicabili principalmente agli usi della vita quotidiana. Un’ulteriore divisione era tra corsi per maschi e per femmine in cui si insegnavano anche i “mestieri donneschi”. Il Regolamento del 1860 affermava che le scuole devono essere salubri, con molta luce, in luoghi tranquilli e decenti. L’istruzione elementare era a carico dei comuni (che doveva anche fornire la legna da ardere ma non l’inchiostro da acquistarsi con il contributo delle famiglie), restando però di competenza del ministero della pubblica istruzione i programmi e le didattiche. I comuni dovevano anche garantire una adeguata istruzione militare agli alunni e fornire loro istruttori ed armi necessarie. La scuola elementare inferiore, come accennato, sarebbe dovuta essere obbligatoria per tutti ma occorrerà attendere sino al 1877 per ribadire il connotato di obbligatorietà. La scuola elementare fu frequentata prevalentemente dai figli del popolo ed in misura ridotta dai figli della piccola borghesia, che attendevano ad attività commerciali, d’artigianato ed a piccoli impieghi. La media ed alta borghesia la disdegnarono a lungo, provvedendo in altro modo ad un’istruzione classica ed umanistica, preoccupati di trovarsi seduti sui banchi con i figli di operai e contadini.

  A similitudine delle scuole elementari, che dipendevano direttamente dia Comuni, le scuole ad indirizzo tecnico e professionali avevano chiaramente la finalità di formare i futuri operai specializzati da avviare nel mondo industriale che si stava lentamente costruendo nell’Italia post risorgimentale. La legge Casati fondava e caratterizzava l’istruzione quasi esclusivamente sul “ginnasio-liceo”, la scuola classica per eccellenza che, si può dire, rimarrà immutata per quasi un secolo. Il liceo era, nella società borghese liberale, il vivaio delle nuove classi dirigenti che poi avrebbero avuto come sbocco naturale l’università. Quest’ultima ebbe varie modifiche tra le quali l’innesto, sul modello delle facoltà di teologia, diritto e medicina, dei corsi di laurea in lettere e filosofia e in scienze matematiche, fisiche e naturali. Con le prime forme d’industrializzazione, con l’introduzione delle macchine, tale modello di scuola rivelò i propri limiti: non preparava i tecnici di cui la società industriale aveva crescente bisogno, soprattutto tecnici intermedi. La scuola in genere, nella sua organizzazione prevalentemente umanistica, non fu in grado di evolversi per corrispondere a tali mutate esigenze, tanto che gran parte delle istituzioni scolastiche destinate a preparare tecnici videro la luce al di fuori della scuola, per iniziativa di diversi ministeri (quello dell’agricoltura, dell’industria e commercio per le scuole agrarie e industriali ecc.), con iniziative che solo nel 1930 verranno riportate nell’alveo del Ministero della Pubblica Istruzione.
La legge Casati, in linea con quanto iniziato dai predecessori, si occupò anche della preparazione del maestro ridefinendo la Scuola normale, poi estesa a tutto il Regno d’Italia, che rimarrà pressoché invariata fino alla riforma Gentile del 1923. Essa stabiliva l’istituzione di scuole normali triennali, ridotte ad un corso biennale per coloro che intendevano insegnare nel corso elementare inferiore, nelle quali materie di insegnamento erano: morale, religione, lingua ed elementi di letteratura nazionale, elementi di geografia generale, geografia e storia nazionale, aritmetica e contabilità, elementi di geometria, nozioni elementari di storia naturale, di fisica e di chimica, norme elementari di igiene, disegno e calligrafia ed, infine , pedagogia. Per accedere a tali scuole normali, bisognava sostenere e superare un esame al quale si era ammessi a 16 anni compiuti, se uomini, o 15 se donne, sanzionando in tal modo la netta distinzione tra scuole maschili e femminili. I problemi della mancanza di insegnanti qualificati si moltiplicavano al crescere dei livelli di istruzione. Nel 1860 solo l’Università di Torino era in grado di licenziare laureati in lettere (ma appena 10). Milano, nello stesso anno, aveva solo matricole (16). Pisa ne aveva 17 e Bologna 1. Tutte le altre Università italiane non ebbero in quel periodo neanche un laureato in lettere. Né più prospera era la situazione dei corsi di laurea in filosofia e in matematica anche per il fatto che tali corsi erano da poco aperti.
Va da sé che il primo ministro che si trovò a gestire concretamente la riforma, Terenzio Mamiani non trovò di meglio, per colmare i troppi vuoti, che procedere a nomine d’ufficio, conferendo patenti abilitanti anche ai non laureati. In questo modo, nel 1860 e nei decenni a seguire, salirono in cattedra gli “amici” del ministero, i patrioti del Risorgimento in attesa di una sistemazione e gli ex preti che avevano scelto di allinearsi con la causa del liberalismo. Solo sul finire del secolo si ebbero i primi laureati in numero ragionevole.

Mentre chiunque avesse compiuto i 25 anni, a patto di possedere determinati requisiti, di adottare i programmi statali e di accettare il controllo statale, poteva aprire una scuola privata, i diplomi e le licenze potevano essere rilasciati solo dalle scuole pubbliche e gli studenti delle private che ambissero tali diplomi e licenze dovevano sostenere esami davanti ad insegnanti di scuole statali.

ALCUNI PROBLEMI CHE SI PONEVANO AL MOMENTO DELL’UNITA’

La riforma Casati era quanto di più avanzato vi fosse in Italia immediatamente prima dell’unificazione. Abbiamo già visto che in gran parte essa era velleitaria perché non aveva né forniva gli strumenti perché si realizzasse. Abbiamo anche vista l’eccessiva enfasi ai portati del Romanticismo, all’educazione classica come asse portante della scuola e alla sua separazione da quelle tecniche e professionali che nascevano male come delle vere cenerentole nonostante vi fosse un grande bisogno di un loro armonico sviluppo in uno Stato in rapida evoluzione che si proponeva alla guida dell’Italia e che vedeva una rapida industrializzazione con mancanza di operai specializzati. Vi era però un peccato di fondo che minava tutto l’impianto: la scarsa considerazione per la scuola di base. Da un lato gli asili infantili, che pure erano una creazione di Ferrante Aporti, esule in Piemonte dal 1848, furono completamente trascurati e dall’altro la scuola elementare trascurata ed abbandonata ai comuni che spessissimo non avevano risorse per farla funzionare. Infine, con l’Unità, questa scuola fu trasferita d’autorità a tutti gli altri Stati con gli infiniti problemi che ne discesero e con la percezione dell’autoritarismo di tale operazione unita all’impreparazione della classe dirigente ad una visione estesa all’intera penisola (non disponevano di studi, di indagini, di statistiche indispensabili per ogni operazione di riforma). Vi era poi un elemento che fece fare molti passi indietro anche ai liberali più aperti: l’emergere in Europa del socialismo. Al di là di altri problemi che vedremo in seguito, i problemi più gravi con i quali l’Italia unita doveva confrontarsi era la completa arretratezza dell’intero Paese che misurava, ad esempio, un analfabetismo di gran lunga maggiore che nel resto d’Europa. Non a caso la Chiesa era stata (e sarà mantenuta) come pilastro dominante dell’educazione). Dalle tabelle seguenti si può cogliere l’abisso di separazione dell’Italia (e della cattolica Spagna) dal resto d’Europa:

Il primo censimento post-unitario del 1861, rivelò e rilevò una media di analfabetismo del 75%, un dato drammatico tanto più si andava a sud e più diffuso tra la popolazione di sesso femminile. Ancora le differenze linguistiche da regione a regione ed i diversi dialetti nell’ambito della stessa regione erano diversissime  e scarsa era la conoscenza della lingua nazionale, parlata solo dai letterati, funzionari, avvocati da quelli insomma che conoscevano anche il latino. Si pensò allora di istituire una vigilanza all’insegnamento della lingua nazionale con la diffusione dei provveditorati agli studi e come modello fondamentale per la didattica fu scelto quello tedesco o prussiano, sia per scelte di matrice politica quali il centralismo e la forte burocrazia ma anche per contenuti e metodi didattici ministeriali cui il cittadino si doveva conformare passivamente con il versamento del tributo. L’impianto didattico prevedeva la divisione in classi per anni di corso, la priorità alle discipline letterarie e classiche anche negli indirizzi tecnici, la svalutazione della scuola di base e la super valutazione di quella secondaria classica ed universitaria, gli orari rigidi e l’eliminazione di ogni attività non prevista dai programmi ministeriali. Altra affinità con il modello della dotta Germania, fu

 il concetto di libertà accademica, in particolare del mondo universitario dalla passata egemonia ecclesiastica dei gesuiti in Piemonte come dei luterani in Germania, infine la concessione classista di separare nettamente la scuola antica classica dalla nuova scuola tecnica ed entrambe ancora dal grado di istruzione elementare, ribadendo il concetto delle differenze sociali dei ceti e della divisione sociale del lavoro.  

Merita il soffermarsi un istante sulle condizioni di vita di gran parte della popolazione in modo si possa meglio cogliere il livello enorme di difficoltà con cui ci si scontrava nell’intervento scolastico. 

Molte famiglie contadine vivevano in stalle «avendo riguardo a lasciare uno spazio difeso dal bestiame, ove si ricoveravano nel giorno le donne e i bambini» (…) e altre in tuguri di pietra con pertugi a mo’ di finestra chiusi con la carta o in catapecchie di legno «spalmato dentro e fuori di creta» con tetti di «canna di sorgo di turco» (…) o in stanze sotterranee, o comunque basse, umide, «con pavimento o in terra o in tavelle rotte e sconnesse, non difese dal freddo, non dal caldo, con le pareti affumicate e sozze di ogni bruttura (…) dove rari entrano i raggi solari, ove esalano disagradevoli e malsani odori, che (…) è necessità far servire a più usi, ove spesso [il povero] deve riposare con la moglie, i genitori, le sorelle, i fratelli» (…) e, in alcuni casi, con vari animali, dalle galline al maiale, all’asino o al mulo. Non mancano addirittura famiglie che vivono «in grotte, od in capanne di sterpi e di mota prive di finestre, o nelle umide cantine dei ‘fondaci’ napoletani» (…).
L’affollamento, in questi locali multiuso e fatiscenti ma costosi – più di un quinto del salario mensile -, dal mobilio ridottissimo e di risulta, con il pagliericcio al posto del letto, con le imposte delle finestre, quando ci sono, che fanno da tavolo durante le ore del giorno, arriva anche a dieci persone. Sono condizioni che per molti milioni di italiani perdureranno fino alla seconda guerra mondiale e oltre e non lasciano dubbi sulle conseguenze negative anche sul piano sanitario, già grave non solo per le generali carenze igieniche, i troppo frequenti matrimoni fra consanguinei, e per un’assoluta mancanza di una vera e propria assistenza medica – del resto rifiutata fino a quando è possibile -, ma anche per i pesanti orari di lavoro (dalle 12 alle 15 ore giornaliere) e per gli endemici stati di denutrizione di una siffatta popolazione di diseredati.
In alcune zone, come quelle della Bassa padana, del Comasco, dell’alto Milanese e del Veneto, i contadini si cibano esclusivamente di mais, che sazia senza nutrire, così come in Puglia «i braccianti non mangiano che pane nero d’orzo» (…). Nella maggior parte delle mense contadine e proletarie la carne è del tutto assente e il consumo di pesce è irrisorio e limitato al merluzzo. Il basso rifornimento di calorie, dovuto a un’alimentazione scarsa di grassi, vitamine e proteine e spesso centrata su un unico cibo, come la polenta, favorisce il diffondersi della pellagra e il permanere di uno stato di denutrizione che depaupera le possibilità lavorative degli adulti e di rendimento scolastico dei ragazzi, quando non porta entrambi a una morte precoce 
[da Genovesi, pagg. 88-89].

La denutrizione porta a rachitismo, a scarsa concentrazione e a problemi agli occhi. Le scuole, quando esistono, sono lontane e difficilmente raggiungibili sia dai fanciulli che dai maestri, le condizioni delle scuole erano insane e molti maestri si ammalarono di tubercolosi (dei fanciulli non si sa perché gli eventuali casi vanno sotto la dicitura: assente).

A margine di queste drammatiche, vicende vi era il dibattito teorico dei liberali sull’organizzazione sociale, sul ruolo della scuola e come essa doveva essere intesa in termini di libertà. Questo dibattito è ben riassunto da Geymonat e Tisato e merita di essere riportato perché è ancora oggi (o forse soprattutto oggi) strumento di riflessione importante [18]:

Di fronte al profilarsi della possibilità di un « monopolio » statale in campo educativo, l’atteggiamento dei liberali « laici » è duplice. Da una parte abbiamo il gruppo degli studiosi e uomini politici che fanno capo al periodico II progresso, fra i quali la figura più significativa è quella di Bertrando Spaventa, dall’altra il gruppo dei collaboratori del Risorgimento e della Croce di Savoia, fra i quali emergono il Farini, il Berti e il Cavour.
Per i componenti di questo secondo gruppo, il cui liberalismo è di derivazione empiristico-anglosassone, la libertà è una tecnica, un metodo capace di assicurare un processo di auto-equilibrazione in ogni settore della vita. Non c’è dunque alcuna valida ragione per accettare il liberismo in campo economico e rifiutare la più assoluta libertà nel campo educativo. (…)

Questi liberisti non si rendono conto del fatto che parlare di concorrenza, a proposito delle istituzioni educative, non significa nulla, se non si precisi il piano sul quale si intende che la concorrenza stessa si attui. In economia le cose sono molto semplici: concorrenti i produttori, giudici gli acquirenti, premio il maggiore smercio della merce che risulta complessivamente meno costosa e migliore. Trasferito il metodo sul piano della scuola, risulterebbero concorrenti le varie scuole « libere » e giudici le famiglie. Ma queste ultime in base a quale criterio valuteranno la bontà del prodotto? In base alla migliore istruzione ed educazione impartita oppure in base alla maggiore indulgenza nel far conseguire i famigerati « titoli » ?
D’altro canto, se la concorrenza si attua fra scuole appartenenti a confessioni, religiose o politiche, diverse, essa viene inesorabilmente declassata a strumento di proselitismo, l’idoneità scientifica degli insegnanti passa in seconda linea di fronte alla integrità, ortodossia e saldezza della loro « fede ». Nell’uno e nell’altro caso, la scuola perde di vista quello che dovrebbe essere il suo vero fine, vale a dire il promovimento di libere e consapevoli personalità 
[sottolineatura mia]. (…)
Ed è precisamente sotto questo punto di vista che il liberalismo dello Spaventa ci appare più consapevole e concreto di quello cavouriano. Lo Spaventa sostiene la necessità di rinviare l’applicazione del principio di libertà al momento in cui sarà stata distrutta la posizione di privilegio tuttora detenuta dal clero; fino al momento in cui si potrà garantire a tutte le scuole private una effettiva parità di condizioni. Ora è chiaro che l’incubo dello Spaventa per le « Orsoline, i Carmelitani scalzi e gli Agostiniani calzati », il suo timore di una monastica coorte dilagante per l’Italia alla conquista della scuola non nasce da un’astratta preoccupazione per il turbamento dell’equilibrio fra i concorrenti. Non il monopolio in quanto tale, ma « quel particolare monopolio » è il nemico dello Spaventa. A questo punto, il problema della libertà di insegnamento, intesa come facoltà concessa ai privati ed agli enti di istituire e gestire scuole, si innesta e si trasforma in quello della libertà della cultura. « Riconoscere la libertà dell’insegnamento è riconoscere la sovranità della ragione nell’ordine del pensiero. » Non si tratta più di sapere dal risultato della concorrenza quale sia la scuola migliore, se quella privata o quella statale, se quella confessionale o quella laica: la scuola migliore è quella che riconosce la sovranità della ragione. Il problema della opportunità o inopportunità di concedere a chicchessia la facoltà di istituire e gestire scuole si trasforma, con lo Spaventa, nel problema di favorire il sorgere e lo svilupparsi di una scuola libera all’interno, una scuola in cui la libertà costituisca il metodo stesso dell’insegnamento. Tale non è, non può essere, la scuola confessionale. D’altro canto, non si tratta di favorire tante scuole di parte quante sono le correnti, giacché in questo caso ognuna educherebbe, con eguale intolleranza, in base ai chiusi principi del suo verbo. La soluzione sta in una scuola aperta alle diverse ed anche alle opposte esigenze educative e tale può essere solo la scuola di Stato.
È sintomatico il fatto che i più accaniti difensori del principio della libertà di insegnamento, come facoltà di istituire e di gestire scuole, siano i cattolici. Non si tratta più ormai di « cattolici liberali », dal momento che il liberalismo cattolico è stato condannato già dal 1832 con l’enciclica 
Mirari Vos e il liberalismo in quanto tale è stato a sua volta colpito con l’enciclica Quanta cura e col Sillabo, nel 1864. Si tratta, anzi, degli ambienti più rigorosamente ortodossi; e ciò rende estremamente palese il carattere meramente « politico » della battaglia ed il significato strumentale che alla libertà viene attribuito.
Quale sia, poi, l’atteggiamento dei cattolici di fronte al problema della libertà « nella » scuola e di fronte al problema della educazione alla libertà è facile stabilire solo che si consideri l’enciclica 
Libertas, promulgata da Leone XIII nel 1888.
« Essendo fuori dubbio che la sola verità debba informare le menti perché in essa sola sta il bene, il fine e la perfezione delle intellettuali creature, l’insegnamento non deve perciò dettare altro che il vero. » Il moderno concetto della libertà di insegnamento è accusato di concedere ugual diritto all’errore e alla verità; pertanto esso è il concetto di « una libertà che lo Stato non può concedere senza mancare al suo dovere».

In questa situazione nasce l’Italia Unita del 1861 e, senza cambiamenti importanti relativamente alla scuola, quella del 1870. 

Prima di concludere questo paragrafo è opportuno un cenno al problema dell’insegnamento della religione cattolica, problema che si riproporrà più volte e che vale la pena discutere ora. Nella Legge Casati (1859) tale insegnamento era al primo posto. Il Regolamento applicativo (1860) prevede l’esonero in un modo contorto e distorto, utilizzando indifferentemente le due frasi seguenti: fanciulli che non professano il culto cattolico e allievi appartenenti a culto non cattolico. Come osserva Manacorda [11] nell’istruzione secondaria, cioè i vecchi ginnasi e licei e i nuovi istituti tecnici, l’istruzione religiosa non figurava nell’elenco delle materie, come nelle elementari, ma l’art. 193 stabiliva che «sarà data da un Direttore spirituale nominato dal Ministro della pubblica Istruzione per ciascun stabilimento secondo le norme da determinarsi con un regolamento»; e l’art. 222, dichiarandone obbligatoria in generale la «frequentazione dei corsi», consentiva:

 Gli alunni però acattolici, o quelli, il cui padre, o chi ne fa legalmente le veci, avrà dichiarato di provvedere privatamente all’istruzione religiosa dei medesimi, saranno dispensati dal frequentare l’insegnamento religioso e dall’in-tervenire agli esercizj che vi si riferiscono. Tale dichiarazione dovrà esser fatta per iscritto e con firma autentica ai Direttori od ai Presidi di questi stabilimenti

Dal che risulta che l’insegnamento religioso comportava anche atti di culto, e che si obbligava a una dichiarazione formale chi volesse esonerarsene. Di fatto, per la facoltà di esonero si pensava allora (e anche poi, fino ai nostri giorni) soltanto agli ebrei ed ai valdesi.

Nella Legge la religione compariva ancora a proposito delle pene disciplinarie a cui potevano essere sottoposti gli insegnanti [11]:

L’art. 106, tra «le cause che potevano portare alla sospensione o alla rimozione di un membro del Corpo Accademico», citava anche «l’aver coll’insegnamento e cogli scritti impugnate le verità sulle quali riposa l’ordine religioso e morale» (…); e l’art. 216 estendeva queste norme anche ai professori dei licei e ginnasi, e il 292 a quelli degli istituti tecnici.

Con il ministro Coppino, nel 1867, non si forniscono indicazioni per l’esonero. Il 29 settembre del 1870, a soli nove giorni da Porta Pia (ormai obsoleta e nella sola attesa della rotazione di 180° della statua del bersagliere di bronzo), il ministro Correnti invia una circolare a tutte le scuole affermando che la religione dovrà essere impartita solo a chi ne faccia richiesta. La Legge Coppino del 1877 non farà cenno all’insegnamento della religione nella scuola e pone al primo posto tra le materie obbligatorie, quello occupato nel 1859 dalla religione cattolica, l’insegnamento delle prime nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino. Ma il non dire è fonte di equivoco, fatto che è alla base degli atteggiamenti di gran parte della classe politica. E da qui sorgeranno molte controversie che vedranno impegnate le varie istituzioni. La cosa fu presa in mano da Leonida Bissolati (1908) che, in Parlamento, presentò una mozione in cui invitava il governo ad assicurare il carattere laico della scuola elementare, vietando che in essa venga impartito, sotto qualsiasi forma l’insegnamento religioso. Il Parlamento bocciò la mozione con soli 60 voti a favore su 407 parlamentari. Dopo gli scioperi del 1904 vi è una convergenza tra laici e clericali che prepara il Patto Gentiloni (l’enciclica Il fermo proposito di Pio X del 1905  rappresentava un superamento del non expedit di Pio IX del 1874, che impediva ai cattolici la partecipazione alla vita politica italiana, e le gerarchie si accordarono con Giolitti perché i cattolici votassero quei candidati liberali che non avrebbero sostenuto leggi antireligiose, al fine, per Giolitti, di sostenere i liberali al potere contro l’avanzata delle sinistre) ed i Patti lateranensi del 1929.

Per parte sua la Chiesa continuerà a sostenere le sue ragioni che, naturalmente, sono quelle vere. Si susseguiranno in tal senso, dopo il Sillabo (1864) e l’enciclica Aeterni Patris (1868) di Pio IX, le encicliche Libertas (1883), Immortale Dei (1885) di Leone XIII e la Pascendi (1907) di Pio X. In tali scritti si sostiene che la scuola è libera di insegnare la verità e ciò che è buono e che il giudizio su ciò che è vero e ciò che è buono spetta solo alla Chiesa. I liberali vengono utilizzati come ha sempre fatto la Chiesa che si muove su un doppio binario: dove è al potere tenta di trasformare lo Stato in confessionale, mentre dove si trova in minoranza reclama il diritto alla tolleranza, alla libertà educativa, alla libertà di culto.

In particolare c’è il Sillabo che faceva esplicito riferimento alla scuola, lanciando [11]

il suo anatema contro tre affermazioni: che «tutto il regime delle pubbliche scuole può e deve essere affidato alla civile autorità», cioè allo Stato; che «l’ottimo andamento della società civile richiede che le scuole siano sottratte all’influenza moderatrice o all’ingerimento della Chiesa»; e che «ai cattolici può essere accetto quel sistema di educare la gioventù, il quale sia separato dalla fede cattolica e dalla potestà della Chiesa». Come spesso avveniva, ad esempio con certi rapporti polizieschi sui moti liberali o socialisti, il Sillabo enunciava così, al negativo ma con perfetta chiarezza, e solo per lanciare contro di essi il suo medievale anatema, i principi liberali della civiltà moderna. E questi tre punti – limitazione della scuola statale, presenza della Chiesa nella scuola statale, scuola confessionale per i cattolici – sono esattamente quello che i nuovi clericali rivendicano ancora oggi.

Oltre a ciò vi erano queste tolleranti prese di posizione papali [11]:

ecco Pio VII definire lupi rapaci i maestri laici, e i aggiungere: «Spingeteli fuori e sterminateli immantinente»; ecco Pio IX dichiarare che i libri erano «da distruggere completamente, bruciandoli»; e denunciare i «mostruosi e fraudolenti errori delle astutissime società bibliche», e «l’orribile infezione delle dottrine pestilenziali e la sfrenata libertà di pensare, di parlare, di scrivere», e «i perversi insegnamenti che corrompono in modo compassionevole la gioventù e le somministrano fiele di drago nel calice di Babilonia». Altro, dunque, che libertà d’insegnamento! E finalmente Leone XIII, con l’enciclica Libertas del 1888, tagliò corto, rifacendosi ad altre dichiarazioni dei suoi predecessori: «La libertà d’insegnamento è al tutto contraria alla ragione e nata per pervertire totalmente le intelligenze». Questa era dunque, nonostante tutte le confusioni verbali, la posizione cattolica, ripetuta del resto a ogni pié sospinto sulla stampa clericale colta e popolare. E, a scanso di equivoci, Leone XIII aggiungeva: «Non esser lecito concedere illimitata libertà di pensiero, di stampa, di insegnamento e di culto»; e conseguentemente chiedeva che queste libertà fossero «legalmente represse». Un bel programma poliziesco, da parte di un papa esaltato oggi come un innovatore quasi liberale e democratico. Il quale, per togliere ogni dubbio, dichiarava infine che la Chiesa «attendeva tempi migliori per valersi della libertà sua». E questi tempi migliori verranno,

basta aver pazienza, con Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Ruini e consoci.

Infine la Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti, segnerà tutto il periodo prefascista con commenti come il seguente [2]:

Chi ha detto che il pane dell’anima sia l’alfabeto ? Il pane dell’anima è la verità; e l’alfabeto può servire per la verità e per la bugia (1872).

Da prendere in considerazione vi è anche la funzione dei libri di lettura (il libro di testo verrà più tardi, per ora è del solo maestro) che viaggiano in modo del tutto separato da quanto si programma. A lato di benemerite edizioni di libri di divulgazione scientifica (Hoepli, Treves e Sonzogno) che comunque sono per veramente poche persone, in epoca di Positivismo, vi è un ottuso attacco a tutto ciò che è razionale, domina l’antipositivismo ed il clericalismo. In tali libri, soprattutto a livello elementare, non è mai venuta meno l’esaltazione patriottarda, quella del Dio – Patria – Famiglia. La storia viene vista come un portato di Dio, si esalta acriticamente il Risorgimento e la nostra discendenza dall’Impero Romano, dominano i buoni sentimenti tra i quali una retorica della Patria che non si confronta mai con le esigenze del cittadino. La Provvidenza è poi onnipresente e guida il mondo. La Chiesa, esclusa dalla scuola, ricompare attraverso i libri martellando con campagne reazionarie ed oscurantiste. Una di queste riguarderà ad esempio l’evoluzionismo (ma stiamo o no parlando di oltre 100 anni fa ?). Ma anche la fabbrica, l’industria, è qualcosa di negativo, un portato della scienza e come tale da rifiutare. Si esalta il lavoro sottomesso, l’aiutati che Dio t’aiuta, la felicità di lavorare, la disciplina, il rifiuto dell’ozio, il timore di Dio, il peccato, il sapersi organizzare da solo in modo si possa anche fare a meno della scuola. Il giudizio su questa criminale opera di indottrinamento è tutto al lettore.

Questi atteggiamenti erano anche delle numerosissime riviste cattoliche che insistevano invece su astratti buoni sentimenti [11]:

la rivista cattolica La donna e la famiglia, nel recensire un libro di un sacerdote per , le scuole, commentava: «Per poter bene educare, bisogna che Dio intervenga. Oh! l’istruzione sì, io la voglio e divulgata dovunque; ma l’istruzione non è educazione; l’istruzione sola getta sul popolo raggi sinistri per lui e per gli altri». Mirabile osservazione, dove è da osservare che il riferimento è però solo al popolo. E ancora, altrove: «L’istruzione da sola scalza la fede religiosa e fomenta l’odio verso i padroni, perché insegna a confrontare con rancore il loro vivere comodo e lieto col proprio di stenti e privazioni». La scuola dell’alfabeto, per il fanciullo (e la fanciulla) del popolo fanciullo, era in gran parte semplice scuola di catechismo e di conformismo; senza contare che per la quasi totalità degli alunni era un’assurdità distante dalle loro iniziali esperienze di vita e dalle loro aspettative, un’acculturazione forzata.
La donna e la famiglia continuava, estendendo le sue riflessioni dalla scuola all’intera vita sociale: «Forse non mai, più distintamente di adesso, si appresentó la battaglia tra il Bene e il Male. Da una parte Dio, la Famiglia, la Patria; dall’altra l’ateismo, il comunismo, l’Internazionale; da una parte il cattolicismo, la figliolanza divina, la civiltà; dall’altra il libero pensiero, la discendenza dalle scimmie, il petrolio che incendia biblioteche, musei e cattedrali». Qui la semplificazione delle contrapposizioni era assoluta: ma per quanto tempo ancora sentiremo, e anche da più alte cattedre, simili prediche, in un linguaggio identico a questo della vulgata popolare!

Sempre nel 1878, un’altra enciclica di Leone XIII (Quod apostolici muneris) affermerà i principi fondamentale della convivenza dal punto di vista della Chiesa, soprattutto in relazione ai barbari Socialisti, Comunisti, Nichilisti che cospirano nel mondo [6]:

« disuguaglianza tra gli uomini», « diritto di proprietà e di dominio », obbedienza alla Chiesa e allo Stato dei padroni. Cellula e modello della vita sociale è la famiglia fondata «sopra l’unione indissolubile dell’uomo e della donna», sulla subordinazione delle «spose » ai « mariti », dei figli ai padri, «imperocché, stando ai cattolici insegnamenti, nei genitori e nei padroni si trasfonde l’autorità del Padre e del Padrone Celeste, la quale perciò come in essi prende da Lui l’origine e la forza, così necessariamente ne partecipa anche la natura, e da quella nell’esercizio s’informa».
Consapevole di possedere « tanta virtù per combattere la peste del Socialismo, quanta non ne possono avere le leggi umane», la Chiesa offre il suo sostegno allo Stato moderno e all’ordine capitalistico-borghese chiedendo in cambio l’indispensabile «condizione di libertà».

La Chiesa chiede quindi ufficialmente delle contropartite ai liberali di destra ed a Giolitti, ed esse, in cambio del sostegno della Chiesa con il gregge dei cattolici pronto ad uscire dai recinti, vengono date. Inizia il cammino che, per mere ragioni di potere della Chiesa, degli agrari e degli industriali più arretrati, porterà ad alleanze che prepareranno dei disastri clamorosi.

Mario Alighiero Manacorda commenta in modo condivisibile [11]:

E davvero l’Italia moderna e laica ha reso un grande servizio alla fede cattolica, quando con la presa di Roma del 1870 l’ha liberata dalla sua identificazione con lo Stato pontificio, in presenza delle cui vergogne nessun papa potrebbe oggi dare lezioni di morale e di democrazia a noi e al mondo.

LA POLITICA DELLA SCUOLA NEI PRIMI ANNI DEL REGNO D’ITALIA

Da quanto abbiamo visto nel precedente paragrafo, il problema di gran lunga più importante che dovettero affrontare i primi governi fu quello dell’abnorme situazione dell’analfabetismo del Paese con punte drammatiche nel Meridione. Questo problema era strettamente connesso ai rapporti dello Stato con la Chiesa: senza Porta Pia non si sarebbe mai potuto affrontare. La cosa ebbe un qualche sviluppo per i pochi anni che divisero l’Unità d’Italia dal Concordato. Poi …

Se si analizzano in modo storico-critico le vicende che portarono alla nascita dello Stato unitario ci si rende subito conto che il problema è sempre stata la Chiesa che, a seconda delle esigenze, sfruttava ora le divisioni interne tra gli Stati preunitari ora reclamava l’intervento di Paesi stranieri. In questo modo l’Italia restava divisa e cioè restava un ottimo terreno di pascolo per le greggi della Chiesa. Così si accentuava una dicotomia solo nostra (la Spagna viveva problemi diversi per essere stata un Paese imperiale): da una parte i più illuminati (non nel senso di Illuminismo) interpreti del Risorgimento si rendevano via via conto che occorreva, con l’Unità, colmare il divario tra l’arretratezza italiana e l’esuberanza dell’Europa e si rendevano conto del ruolo importante che la scuola avrebbe potuto avere non certo per l’educazione alle lettere ed alle arti; dall’altra ci si doveva confrontare con posizioni paleoculturali che tentavano la difesa solo di privilegi di casta e presuntamente dinastici, privilegi che si sarebbero presumibilmente conservati solo nel mantenimento della popolazione in uno stato di totale ignoranza. Questa dicotomia fu dapprima espressa in termini politici dallo scontro tra clericali e liberali, e subito dopo dallo scontro dei primi con una parte dei liberali (visto che gli altri erano stati cooptati dal clero). In tutto questo era proprio la scuola, o meglio la sua mancanza, che permetteva l’agile dispiegarsi dei rappresentanti politici da una parte dello schieramento all’altra in quella stagione, mai morta, del trasformismo. Sullo sfondo di scelte politiche che, all’epoca, sarebbero state cruciali, non vi erano mai le questioni economico-sociali da sole ma anche e forse soprattutto le questioni metafisiche. Questa contraddizione non è un’anticaglia messa in soffitta: ancora oggi la paghiamo in termini di arretratezza, emigrazione intellettuale e scarsa competitività del nostro Paese. Su questi temi, purtroppo non secondari, ebbero ad esprimersi le migliori menti del nostro Risorgimento. Alessandro Parravicino, nell’epoca entusiasmante dei Congressi degli Scienziati Italiani (SIPS, Società Italiana per il Progresso delle Scienze) iniziata a Pisa nel 1839 e mal sopportata da ogni governo preunitario, sostenne al V congresso (1843) [7]:

Ciò che resta ancor più a desiderare è un perfezionamento alle arti italiane, che le abiliti a produrre presto e bene quelle merci che, pagando noi il tributo dell’ignoranza all’industria degl’Inglesi, de’ Francesi, de’ Belgi, de’ Tedeschi, ci costano milioni e milioni di lire ogni anno. Chi in Italia sa applicare il gas all’illuminazione? Chi la forza gigantesca del vapore alle arti? Chi sa costruire le macchine più utili alle manifatture del lino e del cotone? Pochi forestieri; e più pochi de’ nostri. Mercé le scuole tecniche sparse nelle città più popolate d’Italia abbiam bisogno di farci nostro comune patrimonio questi importanti trovati; abbiam bisogno di fortificare colla scienza, in questa universale gara di produzioni, le speculazioni del manifattore, del commerciante, dell’agricoltore.(…)

Senza scuole tecniche secondarie, la tecnologia non può diventar popolare; e le vostre dotte opere, o Signori, saranno ammirate dai sapienti nelle biblioteche, ma non entreranno nelle officine, se le scuole tecniche non avranno apparecchiato le menti degli operatori a comprenderle.

E della cosa, applicare il lavoro alla scienza, si preoccupava anche Cattaneo  nel Politecnico dove più volte aveva sostenuto:

[Occorre] promuovere ad un tempo lo studio delle scienze e il perfezionamento dell’industria e dell’agricoltura coordinando ad un medesimo intento le braccia degli artefici e le menti degli studiosi.

E le cose che sosteneva Cattaneo non era delle mere invocazioni di buona volontà ma rivendicazioni che nascevano da studi ed analisi approfondite. Nota, in proposito, Lacaita [7]:

Nella sua concezione democratica l’espansione dell’istruzione e di quella tecnico-professionale in particolare assumeva il valore e la funzione di elevare a nuova dignità civile le « umili fatiche dell’officina » e di liberare gli operai dalla « condizione di semoventi ordigni d’un’arte non intesa ». Ma ciò che va ulteriormente aggiunto in questa sede è che il Cattaneo si preoccupò anche di dimostrare l’importanza dell’apporto dato allo sviluppo dall’istruzione, la cui diffusione era perciò da lui sostenuta non con generiche e astratte perorazioni, ma con ben fondate analisi dei vantaggi sociali e individuali, sia di ordine economico che di ordine civile. Calcolando nel 1839 il costo dell’istruzione elementare dei fanciulli lombardi in età scolare, notava che il paese « nel contribuire per tre o quattro anni all’istruzione d’un fanciullo del popolo, colloca a frutto circa una trentina di lire, ossia investe una rendita perpetua di forse mezzo centesimo al giorno ». «Ora — continuava lo scrittore lombardo — si consideri quanto valga di più un operaio, od una madre di famiglia, che sappia leggere, scrivere e conteggiare, in confronto d’un essere idiota! Si consideri se la sua giornata non vale il mezzo centesimo e non lo ammortizza! Ora tutto quello che vale di più, è tanto di guadagnato per il paese e per il lavoratore ». E concludeva: «Se gli uomini fanno le cose, ogni miglioramento delle cose deve aver principio da un miglioramento negli uomini ». Dove non è soltanto affermato l’incremento della produttività del lavoro dovuto all’istruzione, ma, col «miglioramento degli uomini» è richiamata globalmente la sua teoria dei fattori non « fisici » dello sviluppo, dal pensiero alla volontà, dalle invenzioni tecnologiche e scientifiche all’intraprendenza degli individui, dalle istituzioni sociali ai movimenti culturali e ideologici, tutti direttamente o indirettamente influenzabili e modificabili mediante l’istruzione.

A queste elaborazioni avanzatissime rispetto al substrato culturale ed ai nemici del progresso civile, si accompagnavano moltissime pubblicazioni che iniziarono a rendere edotti i ceti medi e gli strati popolari più evoluti della necessità di una educazione tecnico-scientifica. Per parte loro i reazionari, nobiltà e clero come sempre, si esprimevano come il conte Monaldo Leopardi [7]:

Ci è forse necessità sbracciarsi per ficcare in ogni angolo di tutti i cervelli umani i teoremi e corollari delle scienze e non ci vorremo mai persuadere che è d’uopo sapere con sobrietà e che la tanta diffusione dei lumi deve finire con l’abbruciamento della casa? Forse i nostri padri, da sessanta secoli in qua, non sono andati calzati e vestiti perché i sarti e i calzolai non conoscevano le regole della meccanica? […] Noi crediamo che in addietro le cose siano andate abbastanza bene ed adesso vadano abbastanza male e crediamo che chiunque presiede al governo dei popoli debba porre attenzione a quel diluvio di miglioramenti sociali che ci fa stare ogni giorno peggio di prima e debba guardare con occhio estremamente sospetto qualsivoglia aspetto di novità.

e come il cardinale Lambruschini rivolgendosi a suo nipote [7]:

Quanto avreste fatto meglio se invece di aprire una scuola di Geometria per li poveri di Figline ne’ dì festivi […] li aveste invece raccolti per udire in tali giorni pie e sode istruzioni che insegnasser loro ad essere buoni e perfetti cristiani! […]
L’amore indiscreto che si mostra oggidì di generalizzare l’istruzione e la cultura mira non a migliorare la società, ma a infelicitarla. Si accenda pur l’orgoglio delle classi ultime (destinate dalla Provvidenza ad esercitare arti e mestieri) con un superficial sapere e si vedrà quali frutti produrrà un così calcolato sistema.

Abbiamo già visto che la Legge Casati non affrontava in alcun  modo questo problema e che scarsi furono le novità nelle legislazioni immediatamente successive sempre perché in Italia occorreva guardare al corno metafisico del problema.

Abbiamo già detto che il fondamento di tutto era la trascurata scuola elementare e che essa era stata affidata ai comuni. Ma che entità erano i comuni negli anni 60 dell’Ottocento ? Vi erano in Italia 8789 comuni, dei quali 7807 avevano meno di 5000 abitanti. Certamente non si disponeva di risorse per mantenere una scuola dell’obbligo. Inoltre questi comuni erano in mano a sindaci reazionari (si tenga conto che nel 1865 in Italia solo il 4% della popolazione aveva il diritto di voto esercitato da circa il 30% degli aventi diritto) che male vedevano l’emancipazione popolare. Il contributo dello Stato era infimo e, sul territorio nazionale, divenne di circa il 13% delle spese complessive solo nel 1904 che rappresentava solo il 3,9% delle uscite complessive dell’intero bilancio dello Stato. Ancora nel 1910 Francesco S. Nitti sosteneva che occorreva arrivare almeno ad un spesa di 5 lire per abitante mentre essa era ferma ad una sola lira e, per molti comuni, anche meno.

Con la caduta della destra storica al governo del Paese, nel 1876 si cimentò con la scuola la sinistra, con la Legge Coppino (luglio 1877). La novità più saliente di tale legge, rispetto alla Casati, era il prevedere delle sanzioni nei riguardi delle famiglie che non  rispettavano l’obbligo scolastico (che da due anni passa a tre) e dava delle norme precise per i comuni. I fondi messi insieme dalle multe per l’evasione dall’obbligo andavano a costituire un fondo per assistere gli alunni diligenti. Qui nasce subito una contraddizione. Chi evade è il più povero ed il più diligente è il più delle volte un benestante: i poveri agevolano gli studi ai ceti medi. La contraddizione viene sanata in un modo pietoso: nel Regolamento applicativo (ottobre 1877) viene esplicitamente previsto che le famiglie più povere sono esonerate dall’obbligo scolastico! In definitiva questa norma annulla in gran parte l’impatto positivo della legge che pure ha effetti importanti nelle regolamentazioni per i comuni.

I risultati delle nuove regolamentazioni, a sei anni di distanza, nel 1883, saranno i seguenti: sul totale dei comuni indicati precedentemente, 90 risultavano ancora privi di scuole, 306 avevano adempiuto parzialmente all’obbligo, solo 1814 avevano le scuole elementari di grado superiore (il secondo biennio). In totale 1.351.490 fanciulli in età scolare non erano in grado di frequentare la scuola elementare dell’obbligo. Si era passati però, in circa 20 anni di Italia unita, da un 37 ad un 58% di iscritti, tra i 6 ed i 12 anni, alla scuola elementare, ad un aumento delle aule pari ad un terzo e ad un importante incremento delle attrezzature.

A dieci anni dalla Coppino, un regolamento del 1888 (Programmi Gabelli), permette la costituzione di Patronati scolastici da parte delle persone più importanti del comune scolastici con il fine di dare aiuto (abiti, libri e materiale vario,  offerto o acquistato dal comune e dalla carità delle istituzioni e dei cittadini) ai fanciulli meno abbienti nella frequenza scolastica (osservo di passaggio che, mentre nella Legge Coppino si parlava solo dei doveri dei cittadini, nei Programmi Gabelli si parlerà dei diritti e dei doveri del cittadino). In 10 anni i Patronati dettero poca prova di sé: se ne misero su 844 e la carità era l’unica cosa che furono in grado di fare. Dietro l’operazione vi erano scelte politiche poco rassicuranti. I poveri dovevano accettare la loro condizione, sottomettersi al ricatto, assumere atteggiamenti di gratitudine verso gli abbienti. Il Ministero considerava i Patronati degli strumenti di pacificazione sociale. Ciò è detto più brutalmente da varie relazioni che arrivavano al Ministero dalle periferie del Regno [6]:

E’ dunque assolutamente necessario che le classi povere non si lascino trascinare; è assolutamente necessario che esse si abituino a riconoscere nel governo e nelle autorità costituite i propri e veri legittimi rappresentanti e tutori. (…)

[I meno abbienti non devono in alcun caso pensare che] l’aiuto delle autorità e degli abbienti verrà ad essi tanto più largo e spontaneo, quanto meno essi vi pretenderanno come a cosa loro dovuta

Ed il ricatto non è un mero esercizio teorico, una vaga minaccia, se dall’ispettore di Bologna arriva questa comunicazione:

Il lavoro di propaganda per i patronati, che già con qualche successo erasi cominciato in buon numero di comuni del basso bolognese, fu sospeso a cagione degli scioperi che vi scoppiavano, i quali indisposero i ricchi e gli agiati contro i poveri. 

La spinta delle organizzazioni politiche della sinistra, spingerà al cambiamento di queste cose. Credaro, il futuro ministro, farà istituire a Pavia la Cassa per la Refezione scolastica degli alunni poveri delle scuole elementari accompagnandola da una relazione che, tra l’altro, diceva:

nella sua caratteristica fondamentale non è beneficenza, sibbene integrazione necessaria [della] lezione del maestro (…). Il nuovo istituto scolastico non deve essere frutto di sentimentalismo o di vaga pietà della miseria umana, ma il portato della nuova pedagogia scientifica, il soddisfacimento razionale di una necessità didattica e sociale e un calcolo finanziario. 

E sarà proprio Credaro, divenuto ministro, che nel 1911 trasformerà i Patronati in enti di diritto pubblico che i comuni dovranno istituire obbligatoriamente. Anche qui vi sarebbe da discutere sul ricatto che si trasferisce … ma accettiamo questo come un sostanziale passo avanti.

L’ultimo ventennio del secolo, non si può far finta che la cosa non sia esistita, è un periodo di profonda crisi economica. La disoccupazione aumenta vertiginosamente, soprattutto nelle campagne, inizia la tragica, malinconica e massiccia emigrazione italiana verso l’America, Paesi europei più ricchi, ma anche dal sud al nord e dall’est all’ovest d’Italia. A questo disastro si accompagnano le emergenti necessità dell’industria manifatturiera che richiedono proprio bambini per le loro produzioni (piccola statura e piccole dita  per infilarsi nelle macchine e per sbrogliare con le loro mani fili che si intrecciassero). Ma vi era anche il motivo principe che richiamava i bambini nell’industria: i bassi salari e la docilità della mano d’opera. Solo nel 1886 una legge vietò il lavoro ai bambini minori di 9 anni ! Tale limite nel 1902 passerà a 12 ma queste leggi passarono del tutto inapplicate in modo che poté continuare l’atroce abuso del lavoro dei fanciulli (Giolitti). Vi fu un crescendo di lotte operaie che, a fine secolo (1898), portò ad eccidi di piazza ed alla definitiva diffidenza padronale nei riguardi del popolo che, intanto, si era organizzato nel Partito Socialista e nei Fasci siciliani. Ciò ebbe come conseguenza l’avversione degli abbienti reazionari verso l’istruzione popolare (nel 1894 gli industriali siciliani richiesero esplicitamente l’abolizione delle scuole elementari). Tale avversione portò alla bocciatura della Legge Baccelli (1898) che realizzava un collegamento più stretto tra scuola elementare e scuola tecnico-professionale. La borghesia vive una grande contraddizione: per il suo sviluppo occorrono operai specializzati ma specializzare degli operai è preparare degli antagonisti al suo potere. Ma anche i socialisti fanno cose incomprensibili. Come spesso loro accade debbono fare i realisti, molto più del re. La posizione del Partito Socialista sulla scuola popolare venne enunciata nel 1897 al Parlamento da Agostino Berenini: la scuola elementare doveva essere nettamente differenziata secondo le classi. Il punto principale del suo programma per la scuola era la separazione degli studi in due filoni, uno per coloro che continueranno a studiare, l’altro esclusivamente per le classi lavoratrici. Ed il doppio binario che diventerà legge (1904) verrà salutato come un successo delle masse proletarie (i socialisti pensavano che una scuola unica avrebbe rappresentato un aggravio pesantissimo per il bilancio dello Stato, che sarebbe stato pagato soprattutto dai lavoratori che, in compenso, non avrebbero guadagnato un granché).

Altra vicenda  che sarebbe da seguire è quella sugli orari che discese dalla Legge Coppino come contenzioso con la Chiesa (ancora!) relativamente all’insegnamento della religione. La riporto testualmente dal testo di Manacorda di bibliografia [11] e non aggiungo altro:

Il 17 maggio 1878, il Consiglio di Stato, su ricorso di genitori cattolici di Genova, dichiarava che sull’insegnamento della religione non si era abrogata la legge Casati, ma soltanto lo si era reso facoltativo per gli alunni. E i successivi Regolamenti del 16 febbraio 1888 e del 9 ottobre 1895 interpretavano la sentenza nel senso che toccasse ai comuni organizzarlo quando i genitori ne facessero richiesta: una soluzione che non soddisfaceva né i genitori cattolici né i comuni. Cosi l’8 maggio 1903, su ricorso del comune di Milano (si ricordi che la scuola elementare era affidata ai comuni), una nuova sentenza del Consiglio di Stato dichiarava tacitamente abolita con la legge del 1877 l’istruzione religiosa, confermando però l’obbligo imposto ai comuni dal Regolamento del 1895, finché non fosse abolito. Ma quando le Commissioni chiamate a interpretare questa sentenza decisero di abolirlo, il Consiglio di Stato, mutando parere, lo confermò.
In seguito, dopo la legge Orlando del 1904, di riforma della scuola elementare, il nuovo Regolamento del 6 febbraio 1908 prendeva una decisione intermedia, prescrivendo all’art. 3: «I comuni provvederanno all’istruzione religiosa di quegli alunni i cui genitori la richiedano», ma potendo lasciarne la cura ai padri di famiglia, e solo mettendo «a disposizione i locali scolastici». Ma non era finita: il 21 dicembre 1909, la Commissione consultiva ribadiva che l’istruzione religiosa «non entra più nell’ordinamento didattico della scuola elementare» e, intervenendo anche sulle modalità per le richieste dell’insegnamento cattolico, dichiarava «illegale il sistema di distribuire ai padri di famiglia da parte dell’amministrazione comunale moduli per la richiesta dell’istruzione religiosa», perché ciò «tende ad eccitare una risposta da lasciare invece libera e spontanea». Ma si continuò a discuterne anche in Parlamento in occasione del nuovo Regolamento del 1910 del ministro Rava; e finalmente, il 6 aprile 1911, il Supplemento al Bollettino P.I. confermava la decisione del Regolamento del 6 febbraio 1908. In sostanza, l’insegnamento religioso «essendo facoltativo per gli alunni, non può impartirsi nelle ore destinate allo svolgimento degli insegnamenti obbligatori»: il diritto all’insegnamento religioso facoltativo non doveva impedire di «dedicare allo studio delle materie obbligatorie tutte le ore comprese nell’orario normale».
C’era stata dunque, tra molte incertezze, un rimbalzare di decisioni tra gli enti locali, la magistratura e l’amministrazione centrale dello Stato, concluso infine da decisioni rispondenti a una ispirazione laica e liberale che oggi pare del tutto scomparsa.
Nell’insieme, il passaggio dalla legge Casati del 1859 alla legge Ceppino del 1877 con tutti i corollari che abbiamo visto, significò per l’insegnamento cattolico che, se prima occorreva una richiesta per dispensarsene, ora occorreva una richiesta per giovarsene, e lo si consentiva nei locali scolastici ma fuori dall’orario scolastico e a cura degli stessi interessati: un regime che direi di ovvia libertà, che potrebbe valere per qualsiasi altro interesse culturale. Nel 1912 il Morgana, nel suo Dizionario storico di legislazione scolastica, interpretava: «Non entra più nell’organismo didattico della scuola elementare». E il Masi commentava: «Non sarà questo un gran male; sembra invece poco conveniente che lo Stato si mantenga in una condizione di incertezza, che scredita lo stesso insegnamento che si vuoi dare e non dare ad un tempo, e che, ad ogni modo, è impartito malamente». Non aveva torto: ma sentiremo da lui altri commenti meno felici.
Quando nei nostri anni si riaccenderà la disputa sulla collocazione oraria dell’insegnamento cattolico, nessuno mostrerà di ricordare quale peso abbia avuto questa questione un secolo fa, e come le condizioni si siano oggi rovesciate a vantaggio di quell’insegnamento e a svantaggio non solo di chi non lo voglia, ma della stessa vita scolastica. Insomma, abbiamo stoltamente ripetuto, rovesciandole, vicende di un secolo fa, senza nemmeno saperlo.
Non si può davvero dire che la storia sia maestra di vita: almeno quando proprio non la si conosce.

Insomma, mi pare chiaro che l’andazzo di leggi non chiare sia storicamente affermato in Italia. Da qui discende in modo evidente la non incertezza del diritto nel nostro Paese e quindi il dominio dell’arbitrio e la mancanza di democrazia reale.

L’ETA’ GIOLITTIANA

Giolitti fu un grande conservatore ed un abile reazionario (Gramsci) che rappresentava gli interessi della borghesia industriale del Nord contro le forze ultrareazionarie dei grandi proprietari terrieri, soprattutto del Sud. Egli lavorò per mettere la struttura dello Stato al servizio di quella borghesia e la scuola non rappresentò un’eccezione. Si trattava di scegliere tra le due possibili politiche padronali verso l’istruzione: o il controllo sociale attraverso l’istruzione medesima o il controllo sociale attraverso l’ignoranza. Alla borghesia industriale interessava più la prima forma di controllo e la legislazione scolastica si aggiornò in modo da favorire l’istruzione. Occorre tener conto che i primi anni del secolo videro una importante espansione delle industrie del Nord e che, fatto abbastanza dimenticato, erano iniziate le rimesse dei nostri emigrati che erano notevolissime e che furono il vero motore dell’aumento importante di scolarizzazione nei primi anni del Novecento. Tra l’altro, sotto la spinta delle organizzazioni operaie, era venuta maturando la consapevolezza del valore formativo di base ed anche di promozione sociale della scuola e, da ora, non si potrà più parlare di disinteresse o addirittura avversione popolare verso la scuola, come abbiamo detto esservi stata nei primi decenni dell’Unità. La cosa è testimoniata dall’ Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia di Francesco Saverio Nitti (1910). Vi si legge [7]:

Vi era in passato una grande indifferenza da parte delle classi borghesi per la diffusione dell’alfabeto: era in molti comuni una vera diffidenza.
Ora tutto ciò è mutato, sopra tutto coll’emigrazione. Se ancora i galantuomini sono spesso diffidenti o indifferenti, è spesso il popolo che reclama una migliore istruzione […]. Molti contadini, invece di dolersi delle sofferenze materiali che li affliggono, si dolevano della poca istruzione […] si dolevano che le scuole andassero male o per incuria del municipio, o per deficienza di locali, o per colpa del personale insegnante […]. Molto progresso vi è rispetto alla frequenza delle scuole elementari ed alla coscienza di esigere questo servizio dal municipio. Ciò si deve […] all’emigrazione. Gli emigrati scrivono dall’America alle loro mogli di mandare i figli a scuola. Si deve a questo se le aule scolastiche sono oggi affollate ed insufficienti, in molti comuni, a contenere gli alunni.

Ed anche Salvemini, in una inchiesta analoga svolta in Calabria,testimonierà che:

il desiderio dell’istruzione si è manifestato ovunque ardentissimo da dieci anni a questa parte per effetto dell’emigrazione negli Stati Uniti.

La politica di Giolitti fu improntata ad un consistente programma di riforme tese a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori. Era ormai una acquisizione della grande borghesia la necessità di avere un popolo istruito per lo stesso sviluppo industriale del Paese e Giolitti si adoperò ad una maggiore diffusione sia dell’istruzione elementare sia di quella tecnica. La prima legge che affrontò le nuove esigenze fu la Legge Orlando del 1904.

Con tale legge si elevò l’obbligo scolastico fino al dodicesimo anno di età realizzati in due possibili modi: o 4 anni di scuola elementare ed il passaggio alla media (attraverso un esame di maturità), o 4 anni di scuola elementare seguiti da 2 anni di un corso popolare destinato a coloro che si avviavano al lavoro (queste suddivisioni furono salutate come un successo politico dai socialisti!). Furono potenziate le scuole serali e festive per gli analfabeti; fu incrementata la refezione scolastica a carico dei comuni; furono migliorate le condizioni economiche dei maestri, tra l’altro, con l’abolizione delle differenze tra insegnanti di grado inferiore e superiore; fu creata la Direzione Generale della Scuola Elementare, fatto che mostra l’accresciuto peso di tale scuola e l’accresciuto interesse per essa da parte dello Stato.

Seguirono nel 1905 i nuovi Programmi e le relative Istruzioni per la scuola elementare. In particolare si estese lo studio della storia fino al regicidio di Umberto I del 1900 ma con toni di profondo rammarico [11]:

L’ultima pagina di questa storia, macchiata dal sangue innocente del più buono [quello che aveva fatto cannoneggiare da Bava Beccaris i cittadini di Milano che protestavano per le loro miserevoli condizioni n.d.r.], del più leale dei re, sia letta con orrore e raccoglimento, e ricordi a tutti il dovere di fedeltà e di onore.

Venne poi la legge 15 luglio 1906 con la quale si incrementarono ancora le scuole serali e festive, si crearono varie direzioni didattiche, si istituì la Commissione Centrale per il Mezzogiorno per la lotta contro l’analfabetismo.

Abbiamo infine la Legge Daneo – Credaro del 1911 con la quale, dopo aver sostenuto che la scuola elementare è un servizio pubblico statale, essa venne sottratta ai comuni minori (scuole avocate), per la loro impossibilità economica di mantenerle, e passata allo Stato. Le scuole elementari furono lasciate solo ai comuni capoluogo di provincia e ad alcuni altri (scuole non avocate). Si istituirono mille nuovi circoli di Direzione Didattica; si fecero diventare obbligatori in tutti i comuni i Patronati Scolastici; si istituirono scuole per militari (scuole reggimentali) e per carcerati; si finanziarono biblioteche popolari, scolastiche e magistrali; si finanziarono scuole per handicappati e nuovi asili (Credaro nel 1914 emanerà i primi programmi per l’educazione prescolastica).

Pur nei limiti annunciati precedentemente, siamo al massimo livello di scuola laica che, occorre sottolineare, non nasce dal nulla ma da una spinta sempre più consapevole, oltre che delle organizzazioni operaie di cui ho accennato, dei maestri e delle loro organizzazioni professionali che, da inizio secolo, andarono costituendosi. Occorreva battersi per salari degni  e per terminare con la mistica del lavoro missionario che, per la verità continua anche oggi, perfino come convinzione masochistica degli operatori scolastici. La prima associazione fu la Unione Magistrale Nazionale (1901) di ispirazione laica, sotto lo slogan né servi né ribelli e sotto la guida del futuro Ministro della Pubblica Istruzione, Credaro. 

E se i maestri levarono presto la voce per invocare uno stato giuridico che assicurasse loro stabilità occupazionale e minimi retributivi sufficienti a vivere, essi cominciarono ad auspicare altresì una più seria formazione iniziale e in itinere. Una prima risposta la si ebbe con l’istituzione delle cosiddette Scuole Pedagogiche (legge del 1904), ovvero di corsi organizzati presso le Facoltà di Lettere e Filosofia, aperti a tutti i maestri interessati, con valenza culturale e professionale.

Va detto che alle migliori fra le maestre era già da oltre vent’anni offerta la possibilità di iscriversi, previo esame di ammissione, all’Istituto Superiore di Magistero con sede a Roma e a Firenze, con prospettive di carriera nelle Scuole Normali o tecniche femminili sia come insegnanti sia come personale direttivo. Ai maestri tale opportunità era stata negata, ed essi non mancarono di lagnarsene ripetutamente. Queste Scuole Pedagogiche, che al termine di un corso biennale rilasciavano diplomi utilizzabili per la carriera direttiva e ispettiva sempre nell’ambito dell’istruzione primaria, tentavano un potenziamento delle competenze professionali. Le cose, nella pratica, andarono poi diversamente, sia per il pressappochismo con cui tali corsi vennero organizzati e sia per la loro impostazione ex cathedra, dunque molto distante da quel carattere sperimentale auspicato.

Altra associazione di insegnanti fu la Federazione Nazionale Insegnanti di Scuola Media, fondata da Gaetano Salvemini e Giuseppe Kirner (1901) che riuniva gli insegnanti di scuola secondaria (di ispirazione socialista) al fine di innalzare il costume politico e democratizzare la vita pubblica, l’amministrazione e i partiti politici: una forma di impegno civile che andava oltre l’ambito ristretto della rivendicazione di categoria. L’azione della Federazione fu diretta a legare la sorte degli insegnanti a quella delle altre categorie di cittadini esposte a sfruttamento e a vessazioni. Gli insegnanti impararono ad associarsi e a legare l’aspetto economico-giuridico a quello culturale. Cominciò così a definirsi una nuova figura di insegnante: legata ai problemi generali del paese, aperta verso le altre categorie, consapevole delle implicazioni politiche della scuola, attenta alla portata sociale del titolo di studio.

Qualche anno dopo (1907) la Chiesa fece nascere l’Associazione Magistrale Nicolò Tommaseo, al fine di farsi portatrice della difesa del principio cristiano cattolico e del principio nazionale della scuola, che significa il non volere la scuola pubblica per riportarla all’alveo della curia.

In definitiva, al 1914, nonostante tutti i limiti che ho tentato di evidenziare, si erano fatti  molti passi avanti sulla strada di un’educazione popolare laica, obbligatoria e gratuita. Gli analfabeti erano calati di circa 2 milioni di unità, anche grazie alla legislazione sul lavoro dei fanciulli e delle donne. Ma già il Patto Gentiloni (1913) era pronto in funzione antisocialista.

Ora, la Grande Guerra impedì per vari anni di pensare alla scuola (anche se vi furono addirittura polemiche relative alla vittoria: c’era chi sosteneva che si era vinto per l’istruzione che si era estesa e chi invece affermava che l’istruzione ci aveva portato fino a Caporetto).

Nel dopoguerra il dibattito riprese tra tre interlocutori: il neonato Partito Popolare di Don Sturzo, espressione diretta della Chiesa in politica; il Partito Socialista, già in procinto di dividersi in due partiti; il neonato Partito Fascista. Ma la vera lotta politica era nella società. Scoppiarono moti di protesta per la disoccupazione ed il carovita. Furono occupate le fabbriche e si instaurò un clima prerivoluzionario (biennio rosso) ad imitazione di quanto era appena accaduto in Russia. Ma in Italia il Partito Socialista non si pose alla testa del movimento dei lavoratori e lo lasciò disfarsi con la conseguenza di consegnarlo alla rassegnazione, alla frustrazione e presto al Fascismo. 

Il Partito Popolare sosteneva con Don Sturzo tesi molto aperte, in accordo con il fatto che la Chiesa,quando non ha il potere, vuole che lo Stato le faciliti la vita. Diceva Don Sturzo [11], continuando con il luogo comune dell’aggettivo “naturale” che NON ha alcun significato:

Ad uno Stato accentratore vogliamo sostituire uno Stato che riconosca i limiti della sua attività, rispetti i nuclei e gli organismi naturali – la famiglia, le classi, i comuni – rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private.[Chiediamo] libertà d’insegnamento senza monopoli statali.

Il Partito Socialista, attraverso Rodolfo Mondolfo, enunciava su Critica Sociale (1922) i seguenti principi:

Scuola pubblica, perché funzione pubblica, il cui fine è lo sviluppo spirituale degli educandi, il cui mezzo è la libera responsabilità degli insegnanti; non scuola privata, arma di parte, in cui maestri e scolari si riducano a strumenti di una finalità partigiana.

E polemizzava con quei socialisti che, contro il rischio di un’imposizione statalistica di tradizione liberale e al pari dei popolari, sostenevano «il diritto assoluto dei genitori, che è negazione della libertà spirituale dei figli». E concludeva: «Libertà nella vita, libertà nella scuola». Ed in quel semplice “nella” che sostituisce il “della” vi è l’evidenza dell’avvicinamento dei socialisti ai clericali: sulla scuola, alla fine, vanno convergendo.

Il Partito Fascista, per la penna di Mussolini su Il Popolo d’Italia (1921) fece un fritto misto di quanto sostenevano liberali, socialisti e cattolici, affermando di volere scuole media ed universitaria libere, una collaborazione con l’alta borghesia imprenditoriale, una selezione a livello nazionale.

Intanto il trasformismo delle idee vedeva Croce modificare il suo prebellico duro giudizio sulla Chiesa (tutrice di forme invecchiate e morte, d’incultura, d’ignoranza, di superstizione, di oppressione spirituale), il liberale Giolitti imbarcare i fascisti al governo e il liberale Gentile passare con i fascisti per i quali preparerà la sua Riforma della scuola (1923).

SCUOLA SECONDARIA CLASSICA E TECNICA

Data la grande rilevanza del problema dell’alfabetizzazione, dell’istruzione di base, della scuola popolare obbligatoria e gratuita, della preparazione degli insegnanti, eccetera, fino ad ora mi sono prevalentemente occupato di scuola elementare.

E’ ora d’interesse fare un qualche passo indietro per vedere cosa accade nella pratica e nella legislazione della scuola secondaria, con riferimento alle scuole tecniche che erano da più parti auspicate per sostenere la crescita industriale del nostro Paese. Dice Lacaita [7]:

Se il problema della scuola elementare fu il più grosso, quello della scuola secondaria fu il più complesso e aggrovigliato per la molteplicità delle questioni che vi erano implicate: questioni di natura culturale e insieme sociale, economica e politica, perché era chiamato in causa accanto al concetto stesso di cultura, quello della sua funzione nella società e del suo ruolo nello sviluppo economico del paese. (…)

La prima questione riguardava il rapporto fra l’istruzione classica (conducente alle scuole superiori scientifiche e letterarie, destinate a « educar l’intelletto alla manifestazione del bello, od alla investigazione del vero ») e l’istruzione tecnica ( conducente alle « industrie » e intesa a fornire la cultura più adatta a quanti volessero appunto dedicarsi alle arti della produzione materiale). Gli interrogativi che ricorsero costantemente su questo problema furono i seguenti: a) la distinzione fra i due tipi di studi deve essere realizzata subito dopo la scuola elementare? b) deve essere completa, totale, per cui insegnamenti, metodi, mezzi, norme scolastiche, strutture amministrative devono essere nettamente diversi e separati?
La seconda questione verteva sullo scopo e lo sbocco dell’istruzione tecnica: questa — si diceva — deve insegnare solo e immediatamente « l’arte »? Il suo insegnamento, cioè, deve dividersi subito in tanti rami speciali, corrispondenti alle diverse forme del lavoro manuale, o deve essere per un certo periodo « generico », sebbene appropriato per l’indole e per il metodo degli studi a chi deve dedicarsi alle attività pratiche e industriali?
La terza, infine, strettamente dipendente dalle precedenti, riguardava i rapporti (e quindi le possibilità di passaggio) fra i vari gradi e ordini di scuole secondarie e fra il livello elementare, quello medio e quello superiore dell’istruzione.
Le risposte date a questi problemi furono diverse sia in sede di dibattito culturale e politico, sia in sede governativa e amministrativa; il che in primo luogo è da attribuire alla composizione della classe dirigente italiana post-unitaria.

La questione aveva anche una portata molto più vasta e riguardava, almeno nei primi anni postunitari, la laicizzazione dell’insegnamento. La cosa è ben descritta da Gabelli in un suo articolo su Nuova Antologia del 1 ottobre 1888 in cui si occupava di insegnamento classico [7]:

Nel 1866 c’erano in Italia fra pubblici e privati, 727 ginnasi e 326 licei, cioè insieme 1.053 istituti di istruzione secondaria classica. Questa eccessiva abbondanza, che il pedagogista veneto riconosceva come un aspetto patologico della scuola italiana, era in grandissima parte eredità del passato.
In Italia — proseguiva infatti il Gabelli — fino a trenta anni fa l’istruzione classica era, si può dire, la sola che esistesse. Avevano scuole tecniche i paesi soggetti all’Austria e il Piemonte, ma nelle altre parti il latino e la filosofia costituivano gli studi obbligatori per tutti. D’altro lato la Chiesa, sempre intenta a impadronirsi dell’educazione, aveva disteso sopra l’Italia una rete di ben 400 seminarii ai quali conviene aggiungere poco meno di 200 altre istituzioni venute su a loro somiglianza per opera di benefattori privati, che avevano voluto raccomandare ai posteri il loro nome, dotando di un ginnasio il loro paese. Dal canto loro poi alcuni dei Governi cessati avevano cercato di emanciparsi dalla Chiesa e dai privati aprendo istituti propri. Così lo Stato italiano si trovò sulle braccia nel venire al mondo tanta copia di istituti classici da superare di tre e quattro volte le nazioni meglio fornite ed a competere con quella degli Stati di mezza Europa riuniti insieme. E tuttavia fu costretto a farne degli altri, perché nei paesi dove mancavano gli istituti governativi, sarebbe stato impossibile abbandonare tutta l’istruzione ai seminari o ai privati; e quelli che fece non bastano ancora.

Questa urgenza di neutralizzare l’influenza del clero sull’educazione e di contrastare le tendenze antiunitarie delle scuole private clericali, fu una delle principali preoccupazioni dei primi legislatori della scuola, anche se la laicizzazione della cultura poteva essere anche e più efficacemente realizzata, come in effetti avveniva altrove, attraverso il potenziamento dell’istruzione scientifico-tecnica, nell’ipotesi che si avesse chiaro di cosa si trattasse (vedi paragrafo seguente). Ma questa strada, per un cronico e storico arretramento culturale del nostro Paese, soprattutto nel campo delle scienze e della loro comprensione in termini culturali complessivi, anche degli illuminati, non fu seguita. Solo alcuni, tra gli intellettuali meno provinciali e più avanzati, erano convinti che, come avvenuto nei Paesi del Nord Europa, l’istruzione ci avrebbe permesso di superare quella che ineluttabilmente era data come nostra vocazione, la agricola. Su Il Politecnico (1860), ad esempio, G. Rosa si lamentava dei figli degli industriali nostri che la nostra scuola manda alla tortura del latino e del greco, in luogo di munirli di chimica industriale. E la cosa ebbe un seguito negli anni successivi, dopo che Alessandro Rossi e Giuseppe Colombo, di ritorno dall’Esposizione Universale di Parigi del 1867 iniziarono a sostenere con forza l’industrializzazione del Paese cercandone i motivi di fondo ed i punti di forza. A Parigi emergeva con chiarezza che le industrie continentali stavano recuperando rapidamente terreno con la Gran Bretagna. Colombo, dopo un esame della situazione delle realtà dei vari Paesi europei espositori, deduceva che una spiegazione di questa rapida crescita che aveva portato a tali successi risiedeva nel sistema di educazione tecnica di cui i Paesi emergenti si erano dotati che risultava di gran lunga superiore a quello esistente in Inghilterra che, tra l’altro, non si era preoccupata di organizzare tale istruzione in modo strutturale ed aveva imboccato una via liberista (l’azione del governo deve farsi piccola, eclissarsi più che è possibile davanti all’iniziativa privata) che stava rapidamente entrando in crisi. Esemplificazione opposta all’Inghilterra, era rappresentata in modo particolare dall’impetuoso emergere della Prussia a lato della Germania che si erano date un sistema di educazione obbligatorio, selettivo sulle capacità e fortemente fondato sul sostegno dello Stato ai meno abbienti mediante un efficientissimo sistema di borse di studio.

In Italia eravamo ancora ai dibattiti. Vi era un apprendistato selvaggio che era soprattutto in mano ad opere pie, ad orfanatrofi, a iniziative caritatevoli. Si imparava il mestiere imitando chi esercitava la professione, con sistemi che andavano bene per l’artigianato e non certo per l’industria. Occorreva pensare delle scuole che andassero bene per l’industria nascente. E qui sorse un importante dibattito tra almeno due posizioni: la prima voleva una scuola dove si imparasse il particolare officio che l’allievo avrebbe dovuto replicare nella fabbrica, la seconda, più articolata e lungimirante (anche se perdente allora ed oggi), è ben riassunta da queste parole (1886) del chimico milanese Luigi Gabba (di ritorno da una visita alle scuole di chimica austriache) [7]:

non contribuiranno mai a far progredire le applicazioni della scienza all’industria quelle sedicenti scuole pratiche dove l’allievo non fa altro che riprodurre, o tentare di riprodurre, in piccolo le operazioni che si fanno in grande nelle officine. Tractant fabrilla fabri; che è quanto dire che la pratica industriale, non si può imparare nella scuola, ma, quando si è ben famigliari colle basi scientifiche dell’industria, l’esercizio pratico di quest’ultima non presenta difficoltà alcuna, né esige un lungo tirocinio nell’officina.

Serve scienza e null’altro che scienza, solo un personale tecnico fornito di solida cultura scientifica può far progredire l’industria.

Ed aggiungeva:

E’ ormai generale l’accordo intorno alla necessità di appoggiare la pratica alla teoria, di affratellare, cioè, l’industria alla scienza; è parimente unanime l’opinione che uno dei mezzi più efficaci per favorire il progresso industriale risieda nella maggior possibile popolarizzazione delle scienze, e che l’istituzione di scuole apposite dove si insegnino le scienze nelle loro applicazioni all’industria sia una necessità urgente, se si vuole davvero affrontare con speranza di successo la gara dell’attività industriale e riuscire, almeno in alcuni rami, a rendersi indipendenti dall’estero.

Era infatti quella l’epoca di una totale dipendenza dall’estero oltre che per materie prime e sistema del credito, per manodopera qualificata, tecnici, capireparto e direzione degli impianti. La risposta a questa invasione era stata il protezionismo al quale, già nel 1888, uno degli ambienti scientifici e tecnici più evoluti, la Società d’incoraggiamento d’Arti e Mestieri di Milano, così rispondeva [7]

vano sarebbe il lottare colle tariffe doganali a difesa della produzione nazionale, vano creare alla frontiera barriere protettive contro le merci straniere se la principale forma di protezione, la più legittima, quella che mediante l’istruzione agguerrisce l’opera produttrice nel capitale che natura  ha fornito all’uomo, non prendesse assetto conforme ai bisogni del tempo e del paese. Occorre in ultima analisi  prendere atto — aggiungeva Alessandro Rossi, pensando all’anacronistico sistema educativo italiano — che  la civiltà di un popolo non si valuta più oggimai alla sola stregua della sua coltura classica o dal suo progresso nelle arti belle, ma principalmente dal potere di resistenza che posseggono le sue istituzioni economiche e sociali nella lotta per la vita.

Come per ogni altra questione riguardante la scuola, fu la Legge Casati, a seguito di un dibattito che era nato almeno nel 1859, a dare le prime linee strutturali della scuola secondaria. C’è subito da dire che lo stesso accentramento che riguardò la Scuola Elementare fu anche almeno di un parte della Scuola Secondaria, quella ad indirizzo classico, la disinteressata e varia, (il sistema ginnasio – liceo, 5 + 3 anni dopo la scuola elementare, che permetteva l’accesso a qualsiasi facoltà universitaria) che era quella destinata a formare le classe dirigente. Quella ad indirizzo tecnico professionale, la utilitaria e parziale, non trovò una chiara sistemazione normativa in Casati. Con la Legge Coppino si chiarì almeno che si avevano due ordini di studi secondari e due specie di istituti che vi corrispondono, i classici ed i tecnici. La scuola normale, quella per la preparazione dei maestri ed alla quale si accedeva dopo i due più due anni (biennio inferiore e biennio superiore) di scuola elementare, venne inclusa tra le scuole secondarie nel 1896, quando si istituì la scuola complementare triennale quale suo corso 

Fonte: Giovanni Genovesi – Storia della scuola in Italia dal Settecento ad oggi – Laterza 2000.

propedeutico dopo la scuola elementare (in pratica la sua durata era di 6 anni senza possibili accessi universitari). Vi erano poi gli istituti nautici, anch’essi inseriti tra le scuole secondarie. Vi erano infine le scuole tecniche in senso stretto (comune, agraria, industriale, commerciale) della durata di tre anni. Tra queste solo l’ultima prevedeva l’accesso ad un quarto anno di specializzazione (su cosa non si capì mai). Tra le specializzazioni, solo quella fisico-matematica permetteva l’accesso all’università, solo ad ingegneria attraverso un biennio di matematica.

Come si può vedere nella tabella allegata, solo il sistema ginnasio – liceo era articolato. Dopo un triennio di ginnasio inferiore, si divideva in indirizzo classico o moderno (ambedue costituiti da 2 anni di ginnasio superiore + 3 anni di liceo). Dopo il ginnasio superiore era possibile (nei due casi) scegliere il corso magistrale di due anni che non dava però accesso all’università. Dico subito che la differenza tra l’indirizzo classico e moderno consisteva nell’assenza del greco nell’indirizzo moderno e l’introduzione, in suo luogo, del disegno e di una lingua moderna (osservo che la Legge Casati aveva fatto importanti ma parziali modifiche ai programmi per la scuola classica con l’introduzione in essa dell’insegnamento della matematica, della chimica e delle scienze naturali !).

Quanto ho illustrato era la scuola della quale si disponeva prima della Riforma Gentile. Per arrivare a tale sistemazione ci vollero molti anni e molti aggiustamenti qua e là che sarebbe lungo e poco utile in questa sede analizzare (più oltre darò qualche cenno). E’ invece interessante capire in base a quale linea di pensiero si cercò di strutturare la scuola in un modo piuttosto che in un altro.

Intanto vi era un dato: come già accennato, l’istruzione classica era per le famiglie abbienti, per proseguire gli studi all’università, per venire incontro alle esigenze di coloro che si fossero avviati alle attività intellettuali e alle professioni liberali, per formare la classe dirigente del Paese. La scuola tecnica e professionale era invece destinata alle classi subalterne, quando non si fermava agli stadi precedenti (dopo il primo biennio elementare, dopo i due bienni elementari, dopo i tre trienni elementari, l’ultimo triennio essendo stato proprio pensato per chi non proseguiva gli studi). La diversa destinazione dei due tipi di scuola ha un chiaro riflesso anche nei finanziamenti. Il ginnasio – liceo è finanziato dallo Stato ed ha, compatibilmente con l’offerta, i migliori professori. Le scuole tecniche sono finanziate dai comuni (scuola tecnica) e dalle province (istituti tecnici). Gli orari scolastici sono simili a quelli delle scuole elementari: si frequenta mediamente 170 giorni l’anno con all’incirca 880 ore per classe.

Per capire come erano intesi professionalizzanti in termini bassamente utilitaristici gli istituti tecnici ci si può riferire ai giorni di lezione occupati dalle discipline tecniche: 137 sui 170 suddetti. Inoltre vi era una incredibile parcellizzazione di discipline: erano 76 nell’arco del corso, da confrontarsi con le 9 del sistema ginnasio – liceo (qui, conseguentemente, vi sono molte maggiori possibilità di approfondimento, di elaborazione, di comprensione). Inoltre l’articolo 283 della Legge Casati non dava certezza sull’apertura di questo tipo di scuola; la riservava ad una possibilità legata al bisogno che il movimento industriale e commerciale avesse manifestato.

Anche il classico, pur essendo quello con maggiori risorse ed il più pensato, ha dei grossi problemi dovuti alla scarsa preparazione di coloro che lo hanno progettato. La filosofia, ad esempio, è insegnata solo nel liceo per due ore a settimana ed è filosofia elementare senza nessun suo inserimento in una qualche prospettiva storica. Si dispone invece di 4 ore per storia e geografia storica considerate insieme.

L’indirizzo tecnico merita una discussione un poco più approfondita. Intanto c’è da osservare l’ampia divaricazione tra dibattiti teorici e realizzazioni pratiche. Come vedremo, da una parte si discuteva in modo approfondito delle esigenze dell’industria nascente, dall’altra, nel far questo, si pensava non all’industria italiana ma a quella tedesca, francese, britannica, si pensava cioè a ben altre realtà produttive e culturali con storie molto importanti e con tradizioni ormai sedimentate. Era l’arretratezza culturale della maggioranza dei nostri industriali, che restavano comunque una minoranza nella borghesia imprenditoriale, che portava a queste conclusioni. La scienza e la tecnica erano intese come un qualcosa che dovesse servire subito, come appendice alla produzione, senza una qualche loro individualità ed autonomia che permettesse loro di crescere. A questo proposito commenta Lacaita [7]:

Scopo dell’istruzione nella concezione degli industriali era, in ultima analisi, quello di creare non già dei soggetti capaci di scegliere e di decidere dentro e fuori la fabbrica, ma degli abili e obbedienti esecutori. Lo affermava senza mezzi termini « L’Industria », che del nuovo ceto imprenditoriale settentrionale era uno degli organi più autorevoli: ciò che si vuole che l’operaio abbia è una « abilità consistente nella precisione della manualità e non  nel raziocinio »; per cui inutile e pericolosa sarebbe un’istruzione di grado più elevato e di carattere teorico: « la massa operaia da alcune nozioni teoriche non ricaverebbe alcun vantaggio per il suo lavoro, e si illuderebbe solamente di poter cangiare posizione […]. Che cosa gioverebbero ai soldati nozioni di tattica e strategia, dacché i capi non si possono scegliere fra le loro file? ». Lo stesso discorso vale anche per gli anelli superiori della catena produttiva, per quegli « abili tecnici » per es., da formare nelle scuole secondarie, in modo che dopo i « buoni studi preparatori, possano abituarsi di buon’ora al lavoro pratico e paziente degli stabilimenti».

Così si andò a parare a scuole tecniche usa e getta, coloro che le frequentavano potevano contare su occupazioni provvisorie non risultando preparati a nessun tipo di flessibilità. Non a caso, la gran maggioranza di tali scuole non dipendeva neppure dal Ministero dell’Istruzione ma da quello dell’Agricoltura, Industria e Commercio. Ed unitamente alle posizioni ufficiali vi erano quelle della borghesia aristocratica e reazionaria che neppure si vergognava di sostenere la divisione verticale tra istruzione classica e tecnica con argomentazioni come la seguente [7]:

in una scuola dove fossero raccolti giovanetti di varie classi sociali, ci sarebbe pericolo che quelli degli strati più bassi non avessero ad esercitare malefiche influenze sugli altri e guastarli e corromperli. (Dalla Relazione della Commissione reale per l’ordinamento degli studi secondari in Italia, Roma 1909).

A queste sciocchezze si opponevano i democratici come Cesare Correnti che, ancora nel 1870, scriveva [7]:

Ci pare  che la divisione fra le discipline letterarie e le tecniche sia degenerata ormai, con infelice progresso, in opposizione e contraddizione manifesta. Ci pare che le scuole dell’adolescenza, ove veramente si edificano le anime e onde esce l’uomo e il cittadino, non abbiano a contrapporsi duramente le une alle altre, quasiché siano destinate a preparare due caste diverse, a crescere da una parte i fuchi aristocratici e dall’altra le api operaie. (Dagli Atti della Camera dei Deputati, Legisl. X, Sem. 2, Documenti n. 70).

La scuola normale (quella che serviva per la preparazione dei maestri), per parte sua, era in deprecabile abbandono e formava in modo totalmente insufficiente chi doveva poi essere il maestro della Scuola Elementare. Si saltellava su argomenti (neppure si parla di discipline) come canto corale, disegno, educazione fisica, geografia, storia patria, aritmetica, storia naturale, agraria, italiano, pedagogia, morale, religione, … Anche qui si ipotizzava un utente, il fanciullo, che nella pratica non esisteva. Si puntava alle nozioncine sparse, si frequentava un numero di ore minore, circa il 60% delle ore erano suppostamente professionalizzanti del tipo lavori donneschi e agraria (per i maschi). Si credeva insomma che non servissero maestri preparati. Intanto si pensava a quel ruolo soprattutto per le donne che saprebbero trasferire con la dolcezza e la pazienza che le contraddistingue quelle infarinature di cui prima. Questo luogo comune si manterrà per moltissimi anni. Si trattava di un  pregiudizio che ha dietro altri pregiudizi (la donna non è in grado di essere molto preparata) e che provocava conseguenze deleterie: per insegnare alle elementari e soprattutto ai meno abbienti non serve avere una grande preparazione, né da un punto di vista didattico né da un punto di vista culturale. Comunque si voglia guardare questa situazione deprimente, resta il fatto che coloro che uscivano da tali scuole erano assolutamente impreparati sia didatticamente che culturalmente.

E’ che l’Italia è Paese distorto nella sua crescita, condizionata da una lunga storia di ingerenza ecclesiastica. Ricordavo, con Gabelli, ad inizio del paragrafo la vicenda della deriva classica che abbiamo ereditato al momento dell’Unità. E, ad un certo punto, ci si è ritrovati con una scuola che sfornava più tecnici e più laureati di quanto non necessitasse. Ma questo non inganni. Da noi le cose andavano in senso opposto a quanto accadeva nel resto dei Paesi Europei: non è la crescita del Paese che provoca il fenomeno suddetto, è invece il fatto che il sistema economico e produttivo non riesce ad assorbire la manodopera qualificata che si crea con l’illusione dell’emancipazione. Di fronte alla crescente disoccupazione si aprono sempre più  gli accessi alla scuola secondaria, con particolare riguardo a quella tecnica.  Quest’ultima si dequalifica sempre più in modo da creare un circuito perverso nel quale i meno abbienti continuano ad essere le vittime, i disoccupati nel serbatoio senza sbocco della scuola. La scuola liberale smentisce nella pratica i suoi propositi teorici. Non ci si emancipa in questa scuola ma è la sanzione ufficiale della differenza di classe. E ciò che dispiace è l’adesione, almeno iniziale, allo status quo di personaggi come Salvemini e gran parte del Partito socialista. Scriveva infatti Mondolfo in Critica Sociale, illustrando i tre punti del programma socialista sulla scuola (1908) [7]:

L’obbligo di provvedere all’istruzione elementare prima che ad ogni altra, il bisogno di scuole che seguano e aiutino lo sviluppo della vita economica nazionale e perfezionino le abilità tecniche dei lavoratori, la necessità di un ordinamento che spinga in alto i migliori e dia la possibilità di scegliere in tutta la grande massa sociale quelli che dovran compiere funzione direttiva,

con quel terzo punto che faceva finta di nulla a proposito del fatto che solo coloro che provenivano dal classico risultavano i migliori in quanto solo loro potevano accedere all’università e comunque a funzioni dirigenti. E’ la visione fatalista dei socialisti che vedono l’evoluzione sociale, più positivista che marxista, determinata proprio dai quei rapporti di produzione che affermano di voler modificare, con gli operai ed i loro figli che continueranno a fare i loro uffici senza neppure pensare di poter diventare classe dirigente. Occorrerà aspettare il primo dopoguerra per un radicale cambiamento di queste posizioni, ad opera di Gramsci ed anche dei riformisti ravveduti, come Mondolfo che, nel 1920 scriveva su Critica Sociale [7]:

L’interesse vivo, che oggi mostrano ai problemi dell’istruzione le organizzazioni della classe lavoratrice,  non può […] fermarsi nell’ambito della scuola primaria, sia pure estesa nella sua durata, e integrata con le professionali, perché limitandosi a queste, si verrebbe a considerare definitiva quella preminenza della borghesia (accedente alle scuole medie e superiori) sul proletariato (ristretto nell’ambito delle inferiori ), che oggi invece il proletariato aspira ad abbattere in una società senza differenze di classi. E in preparazione di quella appunto preme al proletariato di conquistare quelle capacità non esecutive soltanto ma direttive, non di lavoro materiale ma intellettuale, che solo i gradi più alti dell’istruzione posson dare.

Ma è inutile recriminare sulle posizioni socialiste prebelliche se si pensa che, alla fine, tutti (liberali, cattolici ed idealisti) accettarono la scuola classica imperniata sulla filosofia come portante e nessuno si oppose all’aumento dell’iniziativa privata nell’impresa scolastica (scuola e sua organizzazione). Solo in concomitanza del periodo del decollo industriale (primi anni del Novecento) si avrà un qualche impulso delle scuole tecniche professionali. Ma i dati mostrano che la cosa avviene dopo, mostrando che è l’industria che traina e non la scuola. In ogni caso, l’età giolittiana mostrò maggiore attenzione ai problemi del raccordo della scuola con l’industria. In questo periodo (1903), un politico molto avanzato, Nitti,  recepì in pieno le istanze dei più evoluti sostenitori di moderne scuole tecniche come il Rossi ed il Gabba che affermavano un fatto di rilievo che non fu mai recepito

l’insegnamento tecnico può essere solo promosso in larga misura dallo Stato, che deve seguire i bisogni della produzione e che solo può sacrificare per lo sviluppo generale fondi rilevanti.

Occorre aggiungere che sulla strada del potenziamento delle scuole tecniche professionali si stavano muovendo sia i cattolici militanti del movimento sociale pratico, sia il partito socialista che quello operaio. I primi  pensavano tali scuole, che la carità dei più abbienti doveva realizzare come iniziative private, con fini caritatevoli ed assistenziali per colmare l’abisso scavato dalla rivoluzione tra il povero e il ricco (come diceva il conte Stanislao Medolago Albani nel 1878). Gli altri pensavano allo Stato per l’emancipazione e la trasformazione dei lavoratori in un proletariato industriale paragonabile a quello degli altri Paesi europei. In questa emancipazione aveva un ruolo importante anche la scienza come mezzo più idoneo per

intendere le cose di questo mondo nel loro complesso, cioè nell’intima relazione che esse hanno fra loro e nello scopo universale a cui mirano (dal quotidiano del Partito Operaio, il Fascio Operaio del 12 agosto 1883).

I successi relativi di queste spinte, come accennato, vi furono in concomitanza con il decollo economico quando si ebbero sia il potenziamento che un maggiore finanziamento di queste scuole. La borghesia italiana era solo in piccola parte industriale, molta di essa era ancora agraria, legata alla rendita immobiliare ed alla speculazione finanziaria. Furono fattori esterni che dettero un contributo decisivo alla comprensione del problema ed all’avviamento della sua soluzione. Innanzitutto la crisi economica di fine secolo che, a seguito di una rottura con la Francia, ci privò dei suoi tecnici lasciandoci impotenti di fronte all’incapacità di mettere in moto svariati processi industriali; il fallimento della dura repressione di fine secolo mostrò l’impossibilità di governare contro gli operai e le loro organizzazioni; il farsi strada del convincimento che occorre sostituire la repressione con il confronto. E proprio a fine secolo iniziò il sorpasso dei finanziamenti all’istruzione tecnica, rispetto a quella classica. Tale primato crebbe di molto anche successivamente con le necessità indotte dalla guerra e dal dopoguerra (le scuole governative triplicarono, quelle private raddoppiarono gli iscritti). Le scuole tecniche inizieranno ad essere frequentate anche da piccola e media borghesia che iniziava ad intravedere sbocchi non meramente subordinati a salari di fame. La tecnica comincia ad entrare nella cultura popolare come elemento neutro, da non disprezzare. Gli insegnanti videro migliorare le loro condizioni economiche, furono varate iniziative per far crescere la professionalità degli insegnanti, le dotazioni dei laboratori crebbero, nacquero istituti di coordinamento, si sottrassero molte iniziative alle opere pie per riportarle allo Stato, si raccordò meglio la scuola tecnica professionale con quella elementare, si potenziarono le scuole nel Mezzogiorno che erano in grave ritardo per difetti di nascita (ricordo che la Legge prevedeva che le scuole tecniche potevano nascere solo dove vi fosse una realtà industriale).

Ed i professori di tale scuola, come venivano reclutati ? La Legge Casati era chiara: solo i laureati potevano insegnare nella scuola secondaria pubblica (alla laurea universitaria si aggiunse anche un precario e superficiale Magistero). La legge prevedeva un concorso per essere assunti. Superato il concorso si diventava titolari. Vi erano poi i reggenti (con il titolo ma non vincitori di concorso), gli incaricati annuali (cattedre vacanti o discipline complementari o da poco, come  le discipline scientifiche, le lingue straniere, il disegno) e i licenziati universitari (coloro che erano in attesa di concorso ed erano stati assunti perché la scuola era necessitata). Tutto questo sulla carta. In pratica la situazione del Paese era l’assenza di laureati sufficienti a far fronte alla richiesta (solo nei primi anni del Novecento si risolverà il problema del reclutamento degli insegnanti laureati). E così si inaugurò l’infausta stagione della provvisorietà e della discrezione, quest’ultima favorita dalla stessa Legge Casati che prevedeva si potesse assumere anche chi fosse bravo ad insegnare, avesse esperienza di insegnamento, conoscesse bene determinati argomenti, ma non avesse superato il concorso non essendo laureato. Nacque così la categoria degli insegnanti legittimati, la grande maggioranza, assunta in modi spesso clientelari, quasi sempre privi di una preparazione almeno accettabile soprattutto nel settore delle scuole che meno interessavano, quelle tecniche, proprio quelle dove una grande preparazione sarebbe stata auspicabile.

I successivi governi non si preoccuparono mai della preparazione degli insegnanti e tanto meno del loro aggiornamento (oltreché della cronica mancanza degli insegnanti di matematica). A questa pletora di strani personaggi non venivano corrisposti aumenti, se non in quantità ridicole, a salari di fame. Era invece di grande interesse per il Ministero il ruolo dei controllori, dei presidi (scuole classiche) e dei direttori (scuole tecniche)

erano l’occhio, la voce e il braccio del padrone che tutto sorveglia e controlla, tutti ammonisce, riprende e punisce. Essi, puri esecutori ministeriali e figure educativamente squalificate, sono avvertiti dagli insegnanti come una «quinta colonna» da cui stare cautamente alla larga [2].

Con la crescita economica, con l’accesso alla professione di laureati, di provenienti anche da settori della media e piccola borghesia, ai primi del Novecento nacque una minima coscienza sindacale che aveva però dei limiti nel ritenersi il professore diverso dagli altri lavoratori. Egli non si abbassava ai metodi di lotta del proletariato. La sua presunta condizione di privilegiato lo pone piuttosto a fianco dei padroni (solo pochi acquisiranno una vera coscienza sindacale e tra questi Kirner, Mondolfo, Rodolico, Salvemini, …). In ogni caso, di fronte a qualche lotta che si innestò in alcune realtà scolastiche, il Ministero agì come un pessimo padrone, con la serrata dei concorsi: pochissime cattedre bandite sempre più di rado e posti coperti da precari o, peggio, legittimati.

Comunque vi fu chi tentò la realizzazione dell’aggiornamento. Tre scuole presero l’iniziativa, quella degli herbartiani (tra cui Credaro), quella psicofisiologista (tra cui Montessori) e quella idealista, la più consistente (tra cui Gentile, Lombardo-Radice, Codignola). La posizione idealista prevedeva il ricorso allo Spirito che avrebbe ispirato ogni insegnamento. E’ la filosofia che rappresenta la preparazione del docente, niente pedagogie. Fu la scuola di pensiero che, a breve, avrebbe vinto.

LA SCIENZA NELLA SOCIETA’ E NELLA SCUOLA

E’ questo un argomento che richiederebbe un’ampia discussione e che tenterò di limitare ad alcune considerazioni di fondo, forse poco note ed indicative della strada che prenderà successivamente la riforma della scuola che porta il nome di Gentile. Il problema è il tentare di capire come entra la scienza nella scuola e qual è la sua funzione culturale nel senso del progresso e dell’emancipazione sociale. Alcuni cenni già li ho forniti qua e là, ma occorre andare un poco più a fondo.

E’ un fatto che la scienza in Italia era, al momento dell’Unità, praticamente inesistente sia a livello di strutture scientifiche, sia a livello di strutture didattiche, sia a livello di informazione e cultura generale da parte anche degli spiriti più aperti ed emancipati. Dal processo a Galileo, la scienza e gli scienziati si erano mantenuti lontani dall’Italia e solo qua e là nasceva ogni tanto qualche coraggioso che coltivasse questo ramo del sapere, comunque sempre lontano da Roma, dal centro di potere della Chiesa. Per dare un’idea dello stato pietoso in cui fu trovata, ad esempio, la fisica alla Sapienza di Roma nel 1870 è utile ricordare la vicenda della Fisica Sacra.

Nel 1816 il cardinale Consalvi affidava all’abate Scarpellini la cattedra di “fisica sacra” al fine di rimettere a posto le conoscenze “segnatamente nel tempo presente, in cui si abbusa dei progressi delle scienze naturali, o delle nuove cognizioni, per introdurre degli errori a danno della religione cattolica“. C’è dietro la paura della Rivoluzione francese e l’esempio negativo dell’Encyclopédie che aveva permesso la diffusione di un sapere scientifico di massa, diffusione con la quale si poteva trasmettere l’idea di progresso sociale, culturale e politico aborrito dalla Chiesa.

 Nel 1824, Leone XII nella citata “Quod divina sapientia” affermò la volontà di sottoporre ogni organismo educativo ad un ferreo controllo al fine di difendere la religione cattolica.

 Nel 1837, il matematico S. Proja, nel “Giornale accademico di scienze, lettere ed arti” (nº 74, pagg. 106-110), così descrive la cattedra di Fisica sacra di Scarpellini alla Sapienza di Roma:

“In un ramo della pubblica istruzione, che ha per oggetto l’applicazione delle scienze naturali alla considerazione di Dio, non può immaginarsi sistema né più ordinato né più sublime di quello, che la stessa divina sapienza ne tratteggiò laonde con saggio divisamento dal primo libro della Genesi desunse la nostra cattedra l’ordine e la distribuzione delle materie, nonché l’appellazione di FISICA MOSAICA, FISICA SACRA, COSMOLOGIA TEOLOGICA. Pertanto in sei grandi trattati se ne divise l’ampio argomento, essendoché in sei giorni divise Mosè l’opera divina della creazione, ed a ciascun trattato serve di tema ciò che creò Iddio nella corrispondente giornata. Quindi è che il I si occupa della creazione del mondo, o piuttosto della creazione delle sostanze elementari; il II del firmamento, o sia dell’aria, e della divisione delle acque sopra la Terra divisa in continenti e mari; il III della produzione dei vegetabili; il IV dei corpi celesti, e de’ loro uffici; il V della produzione dei pesci e dei volatili; il VI finalmente della produzione degli altri animali e della formazione dell’uomo … “.

La cattedra di Scarpellini durò fino al 1840, ma il suo spirito restò. Esso andava sotto il nome di concordismo, il mettere sempre d’accordo Bibbia con fatti scientifici. E così le scienze erano insegnate in modo aristotelico, con inutili e superficiali classificazioni. Anche quei pochi scienziati (astronomi gesuiti) che tentarono ricerche (Secchi, Pianciani, De Vecchi) dovettero abbandonare Roma nel 1848, a seguito dell’allontanamento della Compagnia di Gesù, per recarsi in Inghilterra e poi negli Stati Uniti. Allo stesso modo l’altro scienziato e valente astronomo, Schiapparelli, non ebbe vita facile. E poco prima che i bersaglieri entrassero in Roma, anche il darwinismo veniva a dare altri colpi al concordismo.

La Chiesa aveva fermato ogni pur minimo tentativo di avanzare nella conoscenza. Si pensi solo che la definitiva autorizzazione all’insegnamento nelle scuole del moto della Terra e dell’immobilità del Sole arrivò con un decreto della Sacra Congregazione dell’Inquisizione approvato da Papa Pio VII il 25 settembre 1822.

In questo clima e con l’enorme influenza che aveva la Chiesa negli statarelli italiani, si può ben capire quale fosse il giudizio comune sulla scienza, ancora nel 1870. Vi era un tessuto importante da costruire ex novo e per farlo servivano intelligenze che sapessero di cosa parlavano. Purtroppo non fu quasi mai così. Anche gli illuminati avevano dei giudizi a priori sulla scienza che servivano ad ulteriore sua denigrazione. Non vi era insomma alcuna visione d’insieme che inserisse la scienza e finanche la tecnica nella cultura come bene comune. E non poteva esservi perché mancava il punto di vista degli scienziati che, a parte casi contati, rappresentavano realtà isolate e mai scuole, tantomeno di pensiero. In accordo con tutto ciò che ho tentato di spiegare, anche qui fu la cultura classica a porsi come elemento d’unità. La scienza compariva di tanto in tanto per quella sciocchezza dell’italianità e compariva in modo del tutto riduttivo solo con qualche biografia di scienziato italiano. Gli stessi scienziati italiani, pur di grande livello come il fisico Ottaviano Fabrizio Mossotti, avevano una visione riduttiva della loro stessa impresa relegandola ad evento marginale [9]

[La fisica] non conduce ad altro che a scoprire la connessione che esiste tra i diversi fatti di natura, ed a salire da quelli che sono più semplici e conosciuti, a quelli che sono più complicati e sorprendenti. I fenomeni propriamente non si spiegano, si può solo riunire varii fatti individuali sotto un sol capo, estrarre da essi un fatto più generale, od un principio comune, ed è nel far vedere come gli altri fatti individuali derivano dall’esistenza di quel fatto generale, che si riduce ciò che si deve intendere per ispiegazione del fenomeno… Questo e nient’altro si ottiene dallo studio della fisica (O. F. Mossotti, Lezioni elementari di fisica-matematica date all’Università di Corfiì nell’anno 1840-41, Firenze 1843, discorso preliminare, p. 2).

Per non parlare dei filosofi come Ardigò (prete e positivista) che sostenevano tesi che si possono solo definire rozze [9]

Ma che è infine la legge [scientifica] se non il fatto?… La legge si distingue dal fatto, non come cosa da cosa, ma solamente, come la cosa considerata in ciò che ha di comune con altre, vale a dire il generale e l’astratto, dalla cosa considerata in tutta la sua particolarità, ossia come individuale e concreta. Dati più fatti dello stesso genere, ciò in cui si rassomigliano è la loro legge. Per dirla in una parola, la legge è la somiglianza dei fatti (R. Ardigò, La psicologia come scienza positiva, Mantova 1870)

cioè: come contraddirsi in poche righe e passare dai fatti alla somiglianza dei fatti. E, più in generale, anche i supposti sostenitori della scienza, i positivisti, tendevano a considerare la scienza come fatti o similia e quindi come dati avulsi da una loro storia, intesa come storia di idee che non crescono mai linearmente ma si modificano in dibattiti continui come ogni impresa culturale. Questa staticità di una scienza intesa come catalogo di oggetti da prendere per l’uso e basta, intesa al più come raccolta di fatti empirici in cui non sarebbe da considerare l’interpretazione non ingenua di essi, era anche alla base della non presa in considerazione della scienza stessa come materia da passare alle future classi dirigenti che si preparavano nelle scuole classiche. Quel poco che si faceva, con la cronica scarsezza di fondi per le più elementari esigenze dei laboratori scientifici, indispensabili per un insegnamento degno di tale nome, non necessitava di aggiornamenti nei programmi ma solo di ridiscussioni tutte interne alle discipline medesime che comunque si svolgevano (e si svolgono) in un arco di ore che non può prevedere la comprensione dello sviluppo delle idee ma solo quella dei risultati della ricerca, intesi appunto come raccolta in una sorta di catalogo, tecniche, tabelle e formule che, si dirà successivamente, non danno nulla all’uomo per il raggiungimento dell’Assoluto.. Conseguenza di ciò è che quando si presenterà il bisogno di pensare una scuola che lavori per preparare tecnici per l’industria, verranno fuori dibattiti surreali, disquisizioni letterarie, pseudoriflessioni che non avevano nulla a che vedere con i dati dell’esperienza e con la conoscenza dell’argomento ma che avevano attinenza con ciò che ognuno pensava fosse tale argomento, dall’alto della sua ignoranza (succedeva allora quello che accade oggi: parlano di scienza i non scienziati che, per di più, cercano di spiegarla proprio agli scienziati).

Ed allora la struttura delle scuole tecniche pensata al Ministero non ha attinenza con le esigenze dell’industria, non si preoccupa cioè degli sbocchi e dell’accettazione sociale, non ha una storia cui legarsi se non l’imitazione di qualcosa che non ci riguarda per tradizione, le scuole dell’Europa continentale. Per capire quanto dico, seguiamo rapidamente i cambiamenti, questi sì empirici, nella struttura delle scuole tecnico professionali. 

Si era iniziato nel 1860 con la strutturazione della scuola tecnica in quattro specializzazioni ritenute allora fondamentali: l’amministrativa-commerciale, l’agricola, la chimica, la fisico-matematica. Le cose cambiavano radicalmente nel 1864 con il Decreto Manna: le specializzazioni diventano 27: agrimensura, agronomia, agronomia e agrimensura, arte ceramica, arte tintoria, arte vetraria, arte vetraria e ceramica, commercio, commercio e amministrazione, concia e rifinizione delle pelli, costruzioni, cotonificio, incisione industriale, incisione e stampa tipografica, industrie dello zolfo, pirite, ecc., lanificio, lanificio e canapificio, litologia, meccanica, meccanica e costruzioni, mineralogia industriale, mineralogia metallurgica, ragioneria, setificio, telegrafia, strumenti fisici. Si moltiplicano gli indirizzi per lo scarso successo dei precedenti non troppo specialisti. Ma a solo un anno di distanza, indietro tutta! L’ulteriore rivolgimento si realizza con il Regio Decreto del 23 maggio 1865 con il quale si passa a solo 8 specializzazioni di carattere, così si dice ma non è, scientifico generale, con insegnamenti di matematica, di algebra elementare, elementi di meccanica, termologia, ottica, elettricità. Con, in compenso non si sa bene di cosa, poco italiano e poca storia. Il tutto dura fino al 1872 quando [9]

Si porta il corso da tre a quattro anni e lo si suddivide in due parti; un biennio comune a tutti, destinato alla «coltura letteraria e alla scientifica generale», e un successivo biennio articolato secondo le tre sezioni: fisica-matematica, agronomica e commerciale. Quest’ultima si trova assegnato un ulteriore anno di specializzazione in ragioneria. Accanto a queste sezioni, viene aggiunta quella industriale, ridimensionata alquanto nelle sue ambizioni primitive, che si prefigge di «educare  i periti costruttori, i meccanici e i chimici». Non sarà fondata, questa sezione, in tutti gli istituti, come le precedenti, ma avrà vita soltanto nei maggiori, mano a mano che se ne presenti il «bisogno». Se teniamo conto che la sezione di fisica-matematica è una scuola propedeutica al biennio universitario di matematica dal quale poi si passa alla scuola di applicazione per gli ingegneri, e che, come indirizzo «speciale», solo quello agronomico e quello commerciale hanno una presenza sistematica, e che quello industriale è ridotto di fatto, e per presenza e per significato, non si può non rilevare il mutamento avvenuto nell’elaborazione della tormentata questione. Si è abbandonata l’illusione di adeguare la scuola all’«industria» italiana, si dà solo la possibilità di farlo là dove è possibile (…)

E tre anni dopo una nuova proposta … Il tutto sempre al fine di avere utenti a queste scuole così che, là dove prima occorreva un’ammissione ora l’accesso diventa libero con comportamenti legislativi che inseguono gli utenti, immaginando un mercato del lavoro che è solo nella loro mente e non certo in quella degli industriali. Scriveva Morpurgo nel 1878, nel suo Studio sull’istruzione tecnica in Italia scritto per il Ministero dell’Agricoltura, industria e commercio [9]:

Lo svolgimento delle industrie è, in Italia, assai scarso comparativamente a quello che si riscontra in Francia, in Inghilterra, nel Belgio, nella Germania e nella Svizzera… i frequentatori degli istituti, appartenenti pel maggior numero alle classi medie, aspirano a conseguire un’istruzione generale sufficientemente elevata, ed a malincuore rinunciano agli studi di cultura letteraria e scientifica, per intraprendere quelli che conducono all’esercizio di una industria speciale; e da queste osservazioni… [si conclude] che una scuola creata a beneficio di una particolare industria o di un gruppo determinato d’industrie affini non avrebbe elementi di vita sufficienti… e che quand’anche si tenga conto soltanto delle principali industrie, le scuole dovrebbero moltiplicarsi fuor di misura benché non siavi speranza di disporre degli insegnanti necessari per le diverse tecnologie… È anche questo uno dei caratteri per cui l’istituto tecnico italiano differisce dalla scuola reale tedesca; e la ragione della differenza risiede forse più particolarmente nelle condizioni dell’ambiente, nei bisogni sociali diversi, nelle differenti professioni, che ai licenziati dell’insegnamento tecnico secondario sono consentite nei due paesi.

E’ una fotografia della situazione che però non ha chi la osservi con attenzione. Ed a questa foto si aggiungevano altre evidenti difficoltà. Come osservava Gallo al Parlamento nel 1891 [9]:

migliorare gli ordinamenti, conservando le Università quali sono, è la quadratura del circolo.

In quanto detto le discipline scientifiche non appaiono in quanto tali ma solo come necessarie perché qualcuno, altrove lo ha detto. Nei programmi, dettagliatissimi che arrivano addirittura fino ad Hertz, si pone l’enfasi sulla fisica che deve avere un carattere decisamente  sperimentale, con l’uso dei laboratori … ma non si capisce davvero se si tratta di buoni propositi o di affermazioni fatte in completa malafede. Intanto mancano i laboratori ed i fondi per attrezzarli, mancano gli insegnanti di fisica, quelli che ci sono non si sa bene se abbiano una preparazione adeguata visto che provengono generalmente (quando va bene) da matematica), manca ogni riferimento alle problematiche che sono legate allo sviluppo di una linea di ricerca o di un’altra nell’ambito culturale delle scienze. Si consigliava, per lo svolgimento dei programmi le seguenti cose [9]:

… un complemento efficace dello studio sistematico della fisica nel liceo letterario potrà essere costituito dalla lettura commentata dei luoghi più notevoli di opere dovute ai nostri più grandi scienziati. Il Trattato della pittura di Leonardo, i Dialoghi delle nuove scienze e il Saggiatore del Galilei, le Opere del Volta potranno fornire ampia materia a questo scopo e l’insegnante potrà anzi trovare occasione per esporre sommariamente agli alunni i punti più salienti della vita di quei sommi che hanno assicurato alla patria nostra una gloria immortale. Si porterà cosi un notevole contributo alla cultura scientifica letteraria dei giovani: gli alunni leggendo le opere di quei sommi, che erano scrittori forbiti ed eleganti, non meno di grandi scienziati e pensatori, potranno sentirsi invogliati ad imitarli nel mirabile esempio che ci porgono di aver saputo riunire i pregi della sostanza a quelli della forma, la eleganza della parola alla precisione dell’idea.

Eravamo a questo punto quando la guerra bloccò tutto. I vari studi che si erano accumulati serviranno a Gentile per la sua Riforma che, naturalmente, per ignoranza di tutti gli attori, non poteva far altro che considerare la scienza come lo era stata fino a quel momento. Portato ultimo ed avvelenato della Chiesa di Roma.


Il lavoro prosegue con:

“Dalla Riforma Gentile alla destrutturazione della scuola di Berlinguer e Moratti” 

che pubblicherò al più presto.


BIBLIOGRAFIA

1 – Ludovico Geymonat (ed altri) – Storia del pensiero filosofico e scientifico – Garzanti 1971.

2 – Giovanni Genovesi – Storia della scuola in Italia dal Settecento ad oggi – Laterza 2000.

3 – Maria Giuseppina Damiani e 3ª B – Scuola e società a Monterubbiano – Istituto Comprensivo di Monterubbiano 2005.

4 – Stefano Pivato – Pane e Grammatica Istruzione elementare in Romagna alla fine dell’ ‘800 – Franco Angeli 1979.

5 – Dina Bertoni Jovine – Storia dell’educazione popolare in Italia – Laterza 1965.

6 – G. Natale, F.P. Colucci, A. Natoli – La scuola in Italia – Mazzotta 1975.

7 – Carlo G. Lacaita – Istruzione e sviluppo industriale in Italia 1859-1914 – Giunti 1973.

8 – Broccoli, Porcheddu, Menzinger – Ruolo, status e formazione dell’insegnante italiano dall’unità ad oggi – ISEDI 1978.

9 – Luigi Besana – Il concetto e l’ufficio della scienza nella scuola in Storia d’Italia. Annali 3, Scienza e tecnica – Einaudi 1980.

10 – Mario Alighiero Manacorda – La scuola degli adolescenti– Editori Riuniti 1979.

11- Mario Alighiero Manacorda – Scuola pubblica o privata ? – Editori Riuniti 1999.

12 – Mario Alighiero Manacorda – Il principio educativo in Gramsci – Armando 1970.

13 – Mauro Laeng – L’educazione nella civiltà tecnologica – Armando 1970.

14 – P.N.F. – Manuale di educazione fascista – Savelli 1977.

15 – P.N.F. – La carta della scuola – Gran Consiglio 1939.

16 – Luigi Volpicelli – Contro la scuola unica – Armando 1960.

17 – Roberto Renzetti – Scienza, Tecnica, Scuola e Sviluppo industriale in Italia dall’Unità alla Seconda Guerra Mondiale – 

18 – L. Geymonat, R. Tisato – Filosofia e pedagogia nella storia della civiltà – Garzanti 1965.

19 – Aldo Agazzi – Pedagogia d’oggi – La scuola 1960.

20 – M. Mencarelli – Il discorso pedagogico del nostro secolo – La scuola 1968.

21 – M. Agosti e V. Chizzolini (a cura di) – L’educatore contemporaneo – La scuola 1953.

22 – G. Catalfamo – I programmi della scuola primaria – Armando 1963.

23 – Docenti Universitari Cristiani (Atti del Convegno) – L’Educazione sociale – La scuola 1962.

24 – Luigi Volpicelli – L’educazione contemporanea – Armando 1966.

25 – Francesco Iesu – L’educazione popolare e la sua organizzazione – O.C.E.A.N. Napoli 1966.

26 – G. Kerschensteiner – Il concetto della scuola di lavoro – Marzocco 1954.

27 – Ministero della Pubblica Istruzione – La scuola in Italia (Rapporto degli anni 1973-75) – I.P.S. 1976. 

28 – AA.VV.  – Giovanni Gentile (1° Convegno di studi) – Editoriale BM italiana 1994.

29 – Cesare Paperini – Analisi estetiche e letterarie – SEI 1935.

30 – G. Gabrielli – Commento ai nuovi programmi didattici per la scuola elementare – Paravia 1946.

31 – Giuseppe Vettori (a cura di) – Duce e ducetti: citazioni dall’Italia fascista – Newton Compton 1975.



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