Roberto Renzetti
2005
LA RIFORMA GENTILE
L’età giolittiana si conclude (1914) poco prima dell’ingresso dell’Italia in guerra (1915 – 1918). Giolitti tornò Presidente del Consiglio tra l’estate del 1920 ed il luglio del 1921 (con Croce alla Pubblica Istruzione cui seguì, mi piace ricordare, Orso Mario Corbino, il ministro che rese possibile la creazione del gruppo Fermi) nel tentativo, auspicato da più parti, di formare un governo autorevole che ridesse ordine all’interno e prestigio all’esterno del Paese. Ma ormai il Fascismo aveva egemonizzato il malcontento e si avviava a prendere il potere con la complicità di Casa Savoia.
Mussolini, insediato dal Parlamento il 17 novembre del 1922, si rese conto che una delle priorità da affrontare dal Governo del Paese era proprio la Scuola. E’ stata sempre ambizione di ogni dittatura avere una scuola asservita che servisse a educare più che ad istruire (nel 1929 infatti il nome del Ministero della Scuola passò da Pubblica Istruzione a Educazione Nazionale; riguardo a quel pubblico, esso non andava bene a Mussolini come non è andato bene a Bassanini e Berlinguer). In epoca di assenza di altri veicoli di comunicazione di massa la scuola diventava strategica. Occorreva ora preparare l’uomo nuovo, il fascista perfetto. E, per far questo, primo fondamentale e urgente obiettivo del fascismo al potere fu quello di ristabilire ordine, disciplina e gerarchia nella società, nei luoghi di lavoro, nelle istituzioni. Lo stesso Mussolini, nel 1923 affermò, in modo ragionevole [2]:
Sono cinquant’anni che si dice che la scuola va riformata e che la si critica in tutti i modi: si è gridato in mille toni che bisogna rendere finalmente la scuola seria, formativa dei caratteri e degli uomini. Il Governo fascista ha bisogno della classe dirigente. Nella esperienza di questi 14 mesi di governo io ho veduto che la classe dirigente fascista non c’è. Non posso improvvisare i funzionari in tutta l’amministrazione dello Stato: tutto ciò deve venirmi a grado a grado, dalle Università […] Non è più il tempo in cui si poteva essere impreparati. Appunto perché siamo poveri ed ultimi arrivati, dobbiamo armare potentemente la nostra intelligenza. È quindi necessario che gli studenti studino sul serio se si vuol fare l’Italia nuova. Ecco le ragioni profonde della riforma Gentile: di quella che io chiamo il più grande atto rivoluzionario osato dal Governo fascista in questi mesi di potere.
Per raggiungere questi obiettivi nella scuola, Mussolini si servì di un liberale di prestigio, di vecchia scuola idealista non iscritto al Partito, Giovanni Gentile che, da anni, lavorava insieme ad altri liberali idealisti, a cattolici ed a qualche socialista cosiddetto realista (Croce, Salvemini, Mondolfo, Lombardo Radice, Codignola, …) a progetti di Riforma della Scuola (non senza opposizione tra i fascisti, opposizione che si farà sentire nelle critiche che arriveranno a Riforma compiuta). Come vedremo la scuola fu riempita, con i ritocchi successivi alla Riforma Gentile, in modo barocco da svariati orpelli (propaganda, emozioni, patria, famiglia, nazione, bandiera, coraggio, obbedienza, ordine, disciplina, moralità, apologia del regime, apologia militare, … e religione) che non ne modificarono la serietà tanto è vero che Gentile fu fatto dimettere (maggio 1924) ad appena sei mesi dal varo completo della Riforma, per cedere il passo o a personalità minori o a fascisti più tosti.
Occorre dare un breve cenno alle posizioni di Gentile, prima di andare oltre. Egli aveva scritto nel 1912 un Sommario di Pedagogia come scienza filosofica in cui sono esposte la gran parte delle idee che ispireranno la sua riforma della scuola. Innanzitutto la pedagogia di Gentile (ma anche di Lombardo Radice, per la parte eminentemente didattica, però) si pone come superamento di quella che egli ritiene semplicisticamente essere la pedagogia positivista, tutto il male possibile riassumibile nel luogo comune: il discente è un vaso di coccio da dover riempire. La scuola, al cui centro vi è l’alunno, deve essere attiva, piena di attività svolte dagli alunni, nuova e progressiva. La tesi di fondo è che lo Spirito è alla base dell’educazione e, dato questo pregiudizio, discendono conseguenze importanti che arrivano a dare il primato alla filosofia con la conseguente cancellazione, tra l’altro, della pedagogia. Dice Gentile [18]:
Se l’educazione è lo sviluppo dello spirito e lo sviluppo dello spirito è l’oggetto proprio della filosofia, la pedagogia, in quanto scienza, non è se non la filosofia. (…)
I problemi educativi sono tutti problemi filosofici perché sono problemi dello spirito. La filosofia stessa diventa pedagogia e la forma scientifica dei singoli problemi pedagogici diventa filosofia.
A queste dichiarazioni di principio, con le importanti novità dell’attivismo pedagogico, seguiranno moltissime incongruenze nell’applicazione pratica che saranno sempre superate con l’imbroglio di abili formule filosofiche che supereranno le antitesi mediante la riduzione dei termini a delle identità. Tre sono i momenti dell’atto educativo dello spirito. Quello estetico che, lungi dal prevedere una particolare disciplina, si esplica nella lettura di classici, nella liberazione dalle regole della grammatica, nella lettura libera, nell’abolizione dei tempi imposti, nella spontaneità del disegno, … Quello religioso, poiché Religione e Filosofia hanno lo stesso oggetto e cioè la Verità. Attraverso la religione è possibile guidare il fanciullo alla comprensione dell’Assoluto. Quello filosofico, che rappresenta la pienezza dello spirito, che solo una minoranza privilegiata per superiori doti intellettuali (e per censo, ndr) può raggiungere. E’ il castello di carta degli idealisti che si coniuga sempre con la limitazione delle libertà, se non con le dittature. Infatti, per Gentile, la libertà può esistere solo se si è nella pienezza della vita spirituale e tale pienezza si raggiunge solo con la filosofia. Nella pratica, poiché la filosofia è solo per pochi eletti, quelli che hanno l’opportunità di utilizzare la palestra intellettuale del Liceo Classico, solo quelli sono liberi e comunque, solo a quelli può essere concessa la libertà. Ed il censo ? Sciocchezze … è inutile perdersi dietro queste banalità … al massimo si può pensare che sono liberi solo i ricchi. E gli altri, quelli cui non è concessa la libertà attraverso la filosofia ? Quelli si devono adattare facendo coincidere la propria volontà con quella dell’autorità, che è quella che s’è potuta liberare con la filosofia. Che fine fa allora, sul piano della didattica, quell’attivismo pedagogico ? Qui vi è una antitesi superata con l’imbroglio delle identità: l’autorità dell’educatore diventa la libertà dell’alunno. Dice infatti Gentile [18]:
noi siamo insegnanti; dobbiamo plasmare anime; non è lecito serrarci dinanzi la porta delle anime, in cui ci spetta di entrare, per il vano rispetto alla cosiddetta libertà degli alunni. La libertà degli alunni è (…) inammissibile.
Di interesse è poi la posizione di Gentile sulla religione e sul suo insegnamento. Da una parte egli sostiene [18]:
«Tutte le religioni educano gli spiriti ad aspettare da fuori e dall’alto quello che l’uomo soltanto da sé e con le forze sue può acquistarsi. Le religioni sono tutte nemiche, perciò, d’ogni sorta di libertà, interna ed esterna, danno mano ai regimi assoluti, a tutte le autorità razionalmente ingiustificabili… ». Sul piano educativo l’azione religiosa assoggetta gli alunni a regole esteriori, a un indottrinamento eversore della libertà e porta alla perdita «della responsabilità morale e intellettuale dell’uomo».
Ed allora, come vedremo, perché la religione entra dappertutto negli insegnamenti, a partire dall’obbligo di essa nella scuola elementare e via via in tutta la scuola ? Quei pochi che raggiungeranno la pienezza dello Spirito attraverso la filosofia sapranno sbarazzarsi della religione, gli altri vivranno bene sotto la sua autorità in particolare e sotto l’autorità in generale. Chiaro, no ? Come è chiaro perché tanta mente abbia aderito al Fascismo, contrariamente a Lombardo Radice e Codignola.
Questo Gentile, in pochi mesi, in qualità di Ministro della Pubblica Istruzione, mise in piedi una Riforma che era già praticamente pronta nelle linee essenziali fin dal 1908, in un libro scritto da Salvemini e Galletti (Salvemini, Scritti sulla Scuola, Milano 1966), libro che nacque dalla partecipazione dello stesso Salvemini, come rappresentante della Federazione Nazionale Insegnanti di Scuola Media (FNISM), alla Commissione Reale per la Riforma della scuola secondaria (nata nel 1905), con il fine di adeguare le nostre scuole ai Paesi europei più avanzati (Francia, Inghilterra, Germania). In questo libro si riportano le infauste posizioni socialiste sulla scuola duale (ricchi privilegiati da una parte e poveri condannati dall’altra) delle quali ho detto nella Prima parte del lavoro oltre ad una raccolta importante di documentazione e ad una vera proposta di Riforma.
Nel complesso il libro del Salvemini rifletteva e portava alla luce con chiarezza esemplare tutti i temi dell’azione politica degli insegnanti: l’esigenza e le indicazioni per una riforma della secondaria, la denuncia della crisi di questo tipo di istruzione e dei suoi aspetti aberranti, come la piaga delle classi aggiunte, il bisogno di una preparazione più specifica per i docenti, ma anche di un maggior rispetto dello stato giuridico appena conquistato, che prevedeva laurea ed esami di concorso. Ne rifletteva anche i limiti, la volontà, non sempre chiara fino in fondo, di trovare dei legami concreti con i partiti socialisti e la classe lavoratrice e insieme la preoccupazione – legittima – ma non socialista, di affrontare i problemi di un rinnovamento e di una selezione più moderna delle classi dirigenti [32].
A questo libro di Salvemini si aggiunsero due tomi della stessa Commissione Reale editi nel 1909. Le vicende politiche non permisero che la cosa andasse avanti. Benedetto Croce riprenderà questi lavori, nel breve periodo in cui sarà alla Pubblica Istruzione. Ma chi li userà intelligentemente sarà proprio Gentile con una abile operazione che coinvolse le posizioni socialiste senza citarle. E non solo socialiste, ma anche liberali. Lo mostra la corrispondenza tra Croce e Gentile. Il 1° maggio del 1923 Benedetto Croce scriveva all’amico filosofo Gentile: ” La tua lettera mi recò grande soddisfazione e gioia. Tu hai provato a tradurre nel campo dei fatti un tuo antico pensiero; ed io mi compiaccio di avere in qualche modo preparata questa attuazione presentando in tempi avversi un disegno di legge, che sapevo senza speranze pel presente ma che poteva essere, come è stato, un germe per l’avvenire“. Croce rispondeva ad una lettera di pochi giorni prima nella quale Gentile l’informava circa l’approvazione della riforma della scuola secondaria, a completamento della riforma dell’intero sistema dell’istruzione, ammettendo con onestà intellettuale il ruolo svolto dell’amico che aveva collaborato alla stesura, iniziando il lavoro quale ministro della Pubblica Istruzione. A sua volta Croce scriveva su Il Giornale d’Italia, il 3 novembre 2003: Mercé l’opera di Gentile, si ha ora … un ordinamento saldo, razionale e coerente, indirizzato al rinvigorimento del pensiero, del carattere e della cultura italiana. La Riforma Gentile, insomma, fu certamente figlia di una dittatura, ma nacque con dei riferimenti filosofici e pedagogici sicuramente autorevoli. Essa nasceva poi senza ostilità manifeste perché, al di là dell’autoritarismo di facciata e del suo doppio canale implicitamente autorizzato dai socialisti, gli unici che teoricamente si sarebbero dovuti opporre, sembrava: dare efficienza alla scuola, rinnovarla culturalmente, inserirsi nel solco dello spirito più evoluto dei primi del Novecento con qualche puntata a ciò che Croce tentò di fare in pochi mesi, riprendere gli aspetti qualificanti della Legge Casati, avere un carattere complessivo e globale, decongestionare la scuola classica da troppi frequentanti, rinnovare in termini pedagogici. Dietro questo insieme di cose vi era anche la volontà di accentrare di più la scuola, di avere insegnanti che fossero insieme più preparati e più obbedienti, di avere dei dirigenti scolastici che funzionassero da severissimi controllori (e che rappresentassero la meta verso cui un insegnante ambisse arrivare a fine carriera, cosa che ad esempio oggi è impedita dai concorsi riservati per i soliti noti), di preparare una classe dirigente fatta di pochi ed altri che sapessero di non essere dirigenti ma diretti. Decisivo in tal senso fu il drastico cambiamento delle competenze e del meccanismo di formazione del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, ridotto nei suoi componenti, divenuti tutti di nomina regia, su proposta del ministro: una politica che eliminava l’elezionismo, considerato elemento corruttore del costume scolastico.
Gentile iniziò la sua azione ad un mese dall’assunzione al Ministero:
– il 25 novembre del 1922 inviò una Circolare alle Autorità scolastiche (La disciplina nelle scuole)
– il 3 dicembre del 1922 ebbe dal Governo pieni poteri in materia di legislazione scolastica
– nel 1923 (da febbraio a dicembre) si susseguirono 12 Regi Decreti che disegnarono la Riforma Gentile (R.D. 8.2.1923 n. 374; R.D. 11.3.1923 n. 635; RR.DD. 27.5.1923 n. 1209 e 7.6.1923 n. 1539; legge 16.7.1923 n. 1763; R.D. 7.10.1923 n. 2132; R.D. 3.11.1923 n. 2453; R.D. 31.12.1923 n. 2996. Regolavano l’ordinamento degli studi i seguenti RR.DD.: 6.5.1923 n. 1054; 30.9.1923 n. 2302; 1.10.1923 n. 2185; 31.10.1923 n. 2410; 31.12.1923 n. 3106; 31.12.1923 n. 3126).
Lo spirito autoritario con il quale Gentile affrontò il suo compito emerge dalla sua prima Circolare [6]:
nella scuola dello Stato e della coscienza nazionale uno degli organi più delicati, prima che altrove debbono prontamente inculcarsi e praticarsi il rispetto della legge, l’ordine, la disciplina, l’obbedienza illuminata sì, ma cordiale e devota all’autorità statale
Si imponeva inoltre agli insegnanti e agli studenti
l’adesione cordiale e l’obbedienza scrupolosa al nuovo ordine che deve cominciare a instaurarsi anche nella scuola se vogliamo che si consolidi nel Paese
A tal fine
Qualsiasi atto rivolto comunque a turbare il normale funzionamento del magistero educativo o a insinuare negli animi sfiducia e indisciplina verso l’autorità dello Stato venga subito e severamente punito dalle SS.LL, le quali saranno ritenute responsabili della inadempienza di questa disposizione.
La cosa era perfino più chiara in suoi interventi pubblici e nei testi di varie sue conferenze
Oggi, “restaurare” è la nostra parola d’ordine: restaurare lo Stato.[…] Lo Stato non si restaura se non si restaura la scuola. [A sua volta] la scuola non si può restaurare se non si restaura la famiglia. [Scuola e famiglia sono la prima la continuazione della seconda.] La scuola è la continuazione naturale della famiglia (Terzo Congresso delle Donne italiane, 4 maggio 1923)
Ogni forza è forza morale in quanto si rivolge sempre alla volontà, e, qualunque sia l’argomento adoperato, dalla predica al manganello, la sua efficacia non può essere che quella che sollecita interiormente l’uomo e lo persuade a consentire. Ogni educatore sa quale mezzo concreto (predica o manganello) usare, secondo le circostanze (Levana n° 2, 1924)
C’è subito da osservare che nel primo brano c’è una pratica che ancora oggi funziona bene per la destrutturazione della scuola. Intanto si utilizza quel termine, naturale, che non significa nulla ma che, anche oggi, è abusato soprattutto dalla Chiesa. Ma poi si crea una sorta di circuito (Stato, famiglia, scuola, Stato) che coinvolge le famiglie nella nella responsabilità della scuola fatto che è sempre stato utilizzato in modo reazionario. Osservano Natale, Colucci, Natoli [6]:
È nota anche la continuità, che va oltre il regime fascista, del rapporto complementare tra scuola e famiglia a scopo politico-sociale di conservazione, sempre perseguito dalla classe dirigente italiana in perfetta alleanza e convergenza d’interessi con la Chiesa cattolica.
Altra osservazione riguarda il fatto che la Riforma ha inizio con i pieni poteri al Ministro, come nel caso della Legge Casati.
E vediamo per grandi linee in cosa consiste la Riforma, iniziando dall’ordinamento

Fonte: Giovanni Genovesi – Storia della scuola in Italia dal Settecento ad oggi – Laterza 2000.
degli studi (vedi figura). Schematicamente tale ordinamento prevede [6]:
– Scuola materna: è chiamata Grado preparatorio dell’istruzione elementare per bambini dai 3 ai 6 anni (non obbligatoria né gratuita). Si tratta del primo impegno organico dello Stato in questo settore. Ma non si va oltre l’affermazione di principio.
– Scuola elementare: di 5 anni, divisa nel grado inferiore (I, II e III classe) e nel grado superiore (IV e V classe). Il superamento di un esame permette il passaggio da un grado all’altro.
– Scuola media inferiore: 6 tipi:
1) Corso integrativo delle elementari di 3 anni (VI, VII, VIII classe), chiuso in se stesso.
2) Scuola complementare, che sostituisce la vecchia scuola tecnica. Di tre anni; chiusa in sé e « di scarico », non da possibilità di sbocco in alcun tipo di scuola secondaria superiore (col regio decreto 6 ottobre 1930 n. 1379, sarà trasformata in scuola secondaria di avviamento professionale).
3) Istituto magistrale inferiore di 4 anni.
4) Istituto tecnico inferiore di 4 anni.
5) Ginnasio inferiore di 3 anni. (Al grado superiore di queste tre ultime scuole si accede superando un esame)
6) Scuola d’arte.
– Scuola media superiore: 5 tipi:
1 ) Liceo femminile di tre anni, chiuso in sé.
2) Istituto magistrale superiore di tre anni, che da l’accesso soltanto alla Facoltà di magistero.
3) Istituti tecnici superiori di 4 anni, che danno l’accesso a due o tre facoltà universitarie.
4) Liceo scientifico di 4 anni al quale si può accedere, mediante esame, da una qualunque scuola media quadriennale. Non permette l’accesso a due facoltà: Giurisprudenza, Lettere e Filosofia.
5 ) Ginnasio superiore di due anni – Liceo classico di tre, con un esame di passaggio. E la scuola secondaria superiore per eccellenza. Il diploma di maturità classica apre tutte le porte dell’Università e degli alti studi. È la scuola, per antonomasia, della classe dirigente.
– Università e Istituti superiori: di 3 categorie:
a) a carico dello Stato;
b) a carico dello Stato e degli Enti pubblici locali e privati;
e) « liberi », cioè privi di alcun contributo statale. Lo scopo è quello di ridurre il numero di Università.
Da un primo confronto con l’ordinamento Casati (vedi relativa figura nella Parte Prima) si nota una razionalizzazione ma una struttura molto simile. Dopo le elementari vi sono i Corsi integrativi e la Scuola complementare che significano un blocco a qualunque avanzamento ulteriore. Gentile sopprime infatti la vecchia e non disprezzabile scuola tecnica che permetteva a molti giovani della piccola borghesia e del proletariato più avanzato di avere un minimo di titolo ai 14 anni ed eventualmente di proseguire, pur tra grandi difficoltà, negli Istituti Tecnici e financo nell’Università. Non vi è ancora una scuola media unica come la conosciamo ma vi sono indirizzi individuali che partono tutti dopo le 5 classi delle elementari. Il numero degli anni scolastici dopo le elementari è di 8 anni (a parte l’Istituto Magistrale che è di 7 anni come era fino a qualche tempo fa). Gli istituti tecnici sono di due tipi, quelli che oggi conosciamo come Ragioneria e Geometri con accessi a determinate facoltà universitarie. Gli Istituti tecnici di tipo industriale restano fuori dalla Riforma. L’industria non è degna di avere rappresentanze culturali e pertanto ha una dipendenza dal Ministero dell’Industria. Un cenno merita anche il Liceo femminile, vera iniziativa reazionaria, che fu il più grande insuccesso di Gentile e non ebbe seguito. Esso era pensato come una scuola per l’alta borghesia che doveva servire a togliere di torno dal Liceo Classico le ragazze ed intrattenerle fino al loro diventare mogli e madri con programmi non ben definiti. Si può dire che, almeno da questo punto di vista, la Riforma Gentile è un adeguamento ai tempi della Legge Casati con la differenza che ora si tentano motivazioni teoretiche di carattere filosofico là dove Casati aveva dovuto operare sotto la spinta di esigenze politiche. La filosofia e la sua storia sono ora a fondamento dello spirito degli allievi che si accingono a diventare classe dirigente (degli altri interessa poco lo spirito e si dimenticano così le scienze che sono, per gli idealisti, delle mere tecniche, delle brute e mute formule che nulla danno al raggiungimento dell’Io e dell’Assoluto e quindi allo Spirito. Ma non ci si stupisca più di tanto, se si è letto quanto ho scritto nella prima parte, siamo in piena continuità con la storia della nostra scuola e anche con il pezzente positivismo italiano). Fra gli altri cambiamenti nei programmi del ginnasio-liceo [32]
vi furono l’abolizione della storia naturale nel ginnasio, introdotta nei programmi del 1882 da una scelta evidentemente positivistica, gli abbinamenti di storia e filosofia e di fisica e matematica. Entrambi questi abbinamenti portano, marcato, il segno della cultura idealistica. Oltre ad avere come giustificazione una concezione didattica sconcertante, che tendeva al raggruppamento delle materie per realizzare meglio il colloquio ideale fra docente e discente (poi – sottese – c’erano le solite ragioni finanziarie del risparmio), questi abbinamenti artificiosi sacrificarono quasi sempre o l’una o l’altra materia. Inoltre favorivano oggettivamente una storia slegata dalla geografia, dall’economia, dal diritto, da tutte le discipline concrete, a cui almeno l’aveva ancorata il positivismo, per riportarla nell’ambito della retorica, della manipolazione nazionalistica, della pura ideologia. (…) Del pari, l’abbinamento matematica e fisica rifletteva in qualche modo la scarsa considerazione delle discipline sperimentali, le cosiddette pseudoscienze [così definite dagli idealisti italiani, ndr].
Il risultato fu però che la legge Gentile ebbe risonanza politica e non filosofica e trascese completamente il regime che pensava di averla generata. Vi sono degli elementi che potrebbero essere fascisti e cioè l’autoritarismo (in tal senso si riprende lo spirito originario della Casati) e la selezione fortissima di classe, introdotta come meritocrazia, più volte reclamata dallo stesso Gentile. Osserva acutamente Genovesi [2]:
Il fascismo, non solo per la scarsa propensione teoretica della sua classe dirigente, ma proprio per le sue stesse finalità di coinvolgimento emotivo delle masse e di mantenimento del potere a prescindere da qualsiasi merito, non comprende e non può comprendere una simile costruzione meritocratica. Accetta e fa propria la riforma perché non ha nessuna alternativa coerente e difendibile. Del resto, anche le altre forze politiche non hanno vere e proprie alternative: accettano o subiscono la riforma gentiliana semplicemente perché non hanno nulla di altrettanto compatto e coerente da opporle.
Ma saranno proprio i fascisti a togliergli quel carattere meritocratico, non perché la cosa non interessasse loro, ma per non essere esclusi per primi. E non riuscendo nell’impresa di renderla utile al regime, si aiuteranno con istituzioni parascolastiche quali la Gioventù Italiana del Littorio (GIL) e l’Opera Nazionale Balilla (ONB). Dopo aver forzato Gentile ad andarsene, opereranno tanti ritocchi per tentare correzioni di rotta che danneggeranno l’impianto senza distruggerlo. Di modo che Genovesi può a ragione scrivere questo epitaffio [2]:
Così si istituiscono le scuole di lavoro perché si ha bisogno di mano d’opera per l’industria e per l’agricoltura; si rendono più facili gli esami e gli stessi corsi del ginnasio-liceo perché si ha necessità di farvi adire con successo l’aristocrazia fascista che ha meriti più di braccio che di testa; si accentua, in maniera brutale e poliziesca, specie a partire da De Vecchi, l’autoritarismo di insegnanti, direttori e presidi che, ognuno per il suo ruolo, è capo dei suoi sottoposti non per ragioni culturali ma di disciplina, poliziesche e governative; si fa della scuola un luogo che non deve essere più palestra dell’intelligenza, ma soprattutto di contagio emotivo di un’ideologia dominante, indiscutibile e a cui tutti, nessuno escluso, debbono soggiacere perché si ha bisogno di rinforzare il mito del capo. Tutto questo ribadisce l’ipotesi che il fascismo non ha una sua scuola, perché non ha un’idea di scuola. La prende in prestito da Gentile, ma non sa sfruttarla al meglio per i suoi fini perché, sostanzialmente, non la capisce.
Ma le novità più profonde di questa scuola erano altre e rispondevano, in qualche modo, alla visione idealista (meglio: degli idealisti italiani, ai margini della cultura europea) della scuola. A parte quindi l’elevamento dell’obbligo ai 14 anni (sempre con il problema di rendere operativa la cosa), l’introduzione dell’esame di Stato e il primo riconoscimento statale della scuola d’infanzia, il punto qualificante della Riforma era l’affermazione perentoria di una scuola che si doveva sviluppare su due canali: quello dell’istruzione classica (il solo Liceo Classico con in parte il Liceo Scientifico, un classico senza greco fatto per dare un contentino a chi non gradiva le materie umanistiche del Classico e si sarebbe indirizzato verso professioni dirigenti tecnico-scientifiche ed anche per togliere persone non proprio interessate alla vera fucina di élites che doveva essere il Classico) per i figli della borghesia e dei parvenu fascisti destinati a diventare classe dirigente e quello dell’istruzione elementare più il corso integrativo o la scuola complementare o, in alternativa, quello dell’istruzione tecnica ridottasi di molto e limitata a ciò che chiameremmo oggi, scuola per geometri o per ragionieri (per ciò che riguarda il Ministero della Pubblica Istruzione). Il tutto con un sistema molto selettivo di esami che consentiva l’accesso ai livelli superiori dell’istruzione solo a un ristretto numero di giovani. Si introdusse anche l’esame di Stato alla fine degli studi al fine di rendere più selettivo il corso degli studi (i programmi, anziché essere d’insegnamento, sono d’esame). Per altri versi tale esame era richiesto a gran voce dalla Chiesa che era convinta di preparare meglio gli alunni e di risultare invece discriminata pregiudizialmente dalla scuola di Stato (sembra incredibile tutto questo dopo che per 80 anni abbiamo conosciuto i diplomifici della Chiesa !). D’altro canto Gentile, a chi lo rimproverava di causare con la sua riforma una netta diminuzione degli studenti delle scuole medie e superiori (diminuzione che in effetti ebbe massicciamente luogo nei primi anni successivi alla riforma), rispondeva che questo era esattamente il suo obiettivo. Secondo Gentile, infatti, gli studi superiori dovevano essere [6]
aristocratici, nell’ottimo senso della parola: studi di pochi, dei migliori […] cui l’ingegno destina di fatto, o il censo e l’affetto delle famiglie pretendono destinare al culto de’ più alti ideali umani. La limitazione delle iscrizioni, afferma Gentile, non c’è nella scuola complementare come non ci sarà nella scuola d’arte e nelle scuole professionali; essa è propria delle scuole di cultura e risponde alla necessità di mantenere alto il Livello di dette scuole chiudendole ai deboli e agli incapaci.(…}) Noi abbiamo troppi ed inutili, quando non son valenti, professionisti, ed abbiamo invece molto bisogno di industriali, di commercianti, di artieri, di minuti professionisti… .
In altri termini, per Gentile solo i figli dell’alta borghesia e una ristrettissima minoranza dei ragazzi degli altri ceti sociali, quella più dotata per gli studi, aveva diritto a frequentare le scuole medie superiori, in particolare il ginnasio-liceo; una minoranza di figli del ceto medio poteva inoltre accedere alle altre scuole medie superiori, il liceo scientifico e gli istituti tecnici, mentre tutti gli altri (cioè la grande maggioranza della popolazione giovanile) non dovevano continuare gli studi dopo il raggiungimento dei 14 anni d’età. L’antifemminismo era invece dominante. A proposito dello sfoltimento della scuola media scriveva (1919) che le donne non avranno mai né quella originalità di pensiero, né quella ferrea vigoria spirituale, che sono le forze superiori, intellettuali e morali, dell’umanità e devono essere i cardini della scuola formativa dello spirito superiore del paese.
Una valutazione a parte merita l’iter formativo dei maestri attraverso l’Istituto Magistrale inferiore e superiore (che sostituiscono le scuole normali) con l’eventuale aggiunta dell’Istituto Superiore di Magistero. La nuova scuola è un Ginnasio-Liceo di serie B, o forse C, con il latino e la filosofia come assi portanti (la pedagogia non era considerata una disciplina importante dall’idealismo italiano mentre, come abbiamo visto nella Prima Parte del lavoro, aveva avuto importanti pedagogisti nella cultura del resto d’Europa) e con l’abolizione di alcune materie più professionalizzanti come la psicologia, l’agraria, il lavoro manuale, il tirocinio.
In questo modo il futuro maestro, privato di preparazione professionale e quindi integrato a livello subordinato e subalterno nella struttura gerarchica e di potere, assumerà nel luogo di lavoro un ruolo funzionale alle esigenze e agli interessi dei rampolli delle classi dominanti e refrattario alle istanze, ai bisogni, agli interessi dei figli delle classi lavoratrici, sui quali egli agirà come agente ideologizzatore, manipolatore, controllore e selezionatore secondo la vecchia parola d’ordine di «istruire quanto basta, educare più che si può» [6].
Tutto questo in una scuola che, nei rivolgimenti che si annunciavano, aveva avuto la fortuna di avere la scuola elementare progettata (programmi e metodi), in uno spirito liberale, rinnovatore ed aperto, da Giuseppe Lombardo Radice e resa operativa con i regi decreti del 22 gennaio 1925 n. 432, del 5 febbraio 1928 n. 577 e del 26 aprile 1928. Questa scuola elementare è una solida scuola che ha resistito molto bene almeno fino a questi primi anni del nuovo millennio che sono anni di furia lanzichenecca contro la scuola pubblica. I programmi ed i metodi introdotti da Lombardo Radice, delineati nel suo Lezioni di Didattica del 1912, erano libertari e puerocentrici, tanto che la scuola elementare fu l’unica ad essere criticata dalla Chiesa che intravedeva una sua esclusione là dove non debordava. Fu lo stesso Lombardo Radice che rispose alle critiche all’interno dell’Ordinanza Ministeriale su orari e programmi della scuola elementare del 1923:
Alla religione, che la legge considera fondamento e coronamento degli studi elementari, si fa un posto notevole in molti insegnamenti, in quanto essa li investe necessariamente col suo spirito. Il programma di canto prescrive programmi religiosi; quello di italiano offre frequenti occasioni per ricordare ed esaltare eroi della fede; quello di occupazioni intellettuali ricreative indica come elementi dei racconti del maestro anche motivi religiosi; né occorre dire quanta parte dell’insegnamento della storia sia dedicata a figure ed avvenimenti importanti per la cultura religiosa [11].
Dal punto di vista amministrativo l’intera scuola viene accentrata su Roma al fine del controllo capillare dell’istituzione; tutto ciò che è elettivo o consultivo sparisce; l’insegnante perde ogni minima possibilità di contrattazione e la sua condizione peggiora, anche per i soliti orpelli che gli vengono assegnati. Dell’insegnante deve essere la bella ambizione di prestarsi alle opere integrative della scuola: cassa scolastica, biblioteca degli studenti, feste scolastiche, gite istruttive, serate scolastiche per famiglie, contributi di lavoro giovanile per l’arredamento della scuola, collegamento spirituale della sua scuola con le altre scuole, degli alunni con gli ex alunni . In Il dovere degli insegnanti (Circolare del 23 maggio 1923) [6]. Del Preside è invece la socratica penetrazione (…) qualità essenziale dei duci, la capacità cioè di trasformare le scuole in caserme:
Con questa circolare, più che avvertimenti si danno “consegne”. I Provveditori e i Capi d’Istituto siano le vigili scolte che rispettano come cosa sacra, con militare devozione, con obbedienza pronta, assoluta ed incondizionata, la consegna ricevuta [6].
IL DIBATTITO SULLA SCIENZA NELLA SCUOLA
E’ noto che i disastri che ancora oggi misuriamo nell’insegnamento delle scienze affondano le loro radici nella generale ignoranza scientifica dei nostri riformatori scolastici, oltreché di una classe dirigente, politica, intellettuale che, per un perverso sistema di trasmissione delle conoscenze, illuminata dalle sue certe conoscenze umanistico letterarie e filosofiche, crede sempre di sapere di cosa parla anche in ambito scientifico.
A parte il giudizio che rende la scienza marginale nella formazione degli studenti che ha ricadute importanti nell’organizzazione della scuola e negli orari con conseguente minore presenza di scienziati a scuola rispetto a letterati di varia formazione (con l’ulteriore conseguenza della preminenza nelle alzate di mano), vi è la non indifferente questione dell’accorpamento dell’insegnamento della matematica con la fisica che ancora oggi pesa notevolmente su una corretta formazione scientifica degli allievi. Già Corbino nel 1924, al Senato, si era dissociato con chiarezza e decisione da quanto aveva realizzato Gentile sulla scienza a scuola. La Società Italiana per il Progresso delle Scienze (SIPS), che raccoglieva la gloriosa eredità degli scienziati italiani preunitari, si espresse più volte contro la sistemazione della scienza nella scuola della Riforma Gentile con svariati ordini del giorno dei loro Congressi, a partire da quello di Pavia del 1925 fino a quello di Milano del 1931.
Gentile portava a sostegno dell’accorpamento degli insegnamenti la necessità di [9]
… diminuire nella classe, di fronte allo stesso alunno, il numero degli insegnanti e quindi [per scongiurare] il pericolo e il danno del dissidio, della frammentarietà e dello sparpagliamento incomposto e inorganico della cultura che era principio di devastazione spirituale nella vecchia scuola media, ad eccezione del ginnasio… (Discorso pronunciato all’adunanza del Consiglio superiore della pubblica istruzione il 15 novembre 1923).
E, mentre i matematici non parlavano per ragioni di opportunismo (si creavano per loro posti di lavoro), i fisici tutti ebbero a lamentare quanto bene riassume dal fisico Perucca [9]
Si direbbe che tra le tante cose che lui, filosofo, non capiva, c’era la differenza enorme di metodo e di conseguente forma mentale che occorre tra l’insegnante di matematica e quello di fisica [e di chimica]. (in Dopo mezzo secolo di insegnamento, Conferenze di fisica, vol. I, Feltrinelli, Milano 1974).
E questa cosa non è generalmente capita da chi non è un professionista dell’insegnamento. Tralasciando ogni polemica relativa alla preparazione, resta il dato che i matematici non conoscono, e non per colpa loro, i processi del metodo sperimentale che sono inscindibili da quelli teorici. Per dirla molto in breve: non sono mai entrati in un laboratorio assumendone parte attiva. Ora, poiché esistono molti più matematici che fisici, accade che la fisica abbinata alla matematica è quasi sempre insegnata da matematici che, per quanto detto, ne danno una visione distorta, mnemonica e proprio funzionale al giudizio dispregiativo degli idealisti (quando non utilizzano le ore di fisica per fare della matematica). Ma quanto detto è solo un pio sfogo che non ha mai trovato orecchie attente in ormai 80 anni dalla Riforma Gentile. Il nostro aveva le idee molto decise a proposito di quella frammentarietà reclamata, per la quale introduceva la religione come materia separata, ad esempio, dalla filosofia. Già nel 1905 si era intrattenuto diffusamente sull’argomento [9]:
C’è una scienza frammentaria, che non ci fa vedere il mondo e l’uomo che ne è il centro e lo specchio: una scienza che cresce giorno per giorno quasi per giustapposizione di particelle nuove alle vecchie; e cresce, e cresce sempre, e pur non aggredisce l’anima nostra, non ne acuisce l’occhio a penetrare sempre più addentro all’interno del reale, e girar sempre più largo con lo sguardo che cerca i margini del mondo… Ma questa scienza, questa spiritualità a pezzettini, e quindi, se non morta affatto, nemica certo e senza fiato, questa spiritualità così poco spirituale, ha plasmate di sé le nostre scuole. E ci ha date le scuole piene di grammatiche, di stilistiche, di manuali mnemonici, di retroversioni, di componimenti, di antologie… (in Nuove minacce dia libertà e alla filosofia nell’insegnamento liceale, «Rivista d’Italia», 1905).
Questo brano mostra che anche qui appiana antinomie con le identità. Non si tratta di frammentarietà della didattica ma del suo giudizio a priori sulla scienza che è giudizio di gran parte della supposta cultura italiana. Si è antipositivisti senza essere passati per il positivismo e avendo conosciuto solo indirettamente l’Illuminismo per buona eredità del Processo a Galileo. D’altra parte l’ultimo brano citato è solo una delle posizioni che Gentile mostra di avere sulla scienza. Qualche anno dopo, appena prima della Riforma, Gentile sosterrà una tesi diversa [9]:
Prima di tutto… non gioverebbe distinguere tra scienza e cultura, o tra istruzione ed educazione, pensando che la scuola non è nazionale pel contenuto di sapere scientifico che essa deve accogliere in sé, ma nazionale dev’essere in quanto della scienza fa una cultura, uno strumento formativo di coscienze, e insomma un mezzo di educazione dell’uomo e del cittadino, e movendo dal concetto che la scienza s’integra con una forma d’azione diretta sul carattere e sulla volontà delle nuove generazioni, allevate nel seno di ciascuno Stato, giusta le tradizioni e i fini di questo. La questione così si complica, non si risolve… La nazionalità non consiste nel suo contenuto che può variare, bensì nella forma che un certo contenuto della coscienza umana assume quando si ritenga costitutivo del carattere di un popolo… La nazione, in sostanza, è… la volontà comune di un popolo che afferma se stesso, e così si realizza… coincidendo così con l’idea stessa dello Stato, tanto la nozione è intima a noi e connaturata col nostro essere ; stesso, quanto è innegabile che la volontà universale dello Stato sia tutt’uno f con la nostra concreta e attuale personalità etica. La nostra Italia, la nostra Patria, è quella che vive negli animi nostri, complessa, ricca, alta idea morale, che noi realizziamo… Orbene, intesa così la Nazione, non solo non ci può essere vita d’uomo che non rechi l’impronta della sua nazionalità, ma non c’è neanche scienza vera, scienza, voglio dire, che sia scienza di un uomo, la quale non sia scienza nazionale… La scienza oggi non si concepisce più pura materia indifferente dell’intelletto, ma interesse che investe tutta la persona, celebrazione della stessa persona, e con questa perciò percorrente il ritmo eterno d’uno svolgimento infinito. La scienza non è più pura contemplazione ma coscienza che l’uomo acquista di se stesso, e per mezzo della quale attua la propria umanità. La scienza, – pertanto, non è più adornamento, o suppellettile dello spirito estraneo al proprio contenuto, è cultura, formazione della mente (in La nazionalità del sapere e della scuola, discorso tenuto il 6 aprile 1919 a Trieste ai maestri).
In definitiva questa scienza che è cultura e che serve alla formazione della mente, nella formazione degli studenti avrà solo il tempo per trasferire ciò che Gentile crede essere al scienza medesima, delle tecniche particolari, prescindendo completamente dalla parte formativa che riguarda (e Gentile lo sapeva bene perché aveva impostato la sua scuola sulla Storia della Filosofia, oltreché sulla filosofia) essenzialmente la nascita delle idee scientifiche, il loro evolversi, il loro essere negate o il loro affermarsi in determinate culture, ambienti e società, eccetera. Ma questo non c’era e non c’è nella scuola né di Gentile, né di Berlinguer, né di Moratti. E su questa apparente contraddizione vi è la spiegazione di Besana [9] che ricostruisce il pensiero di Gentile.
Gentile colloca consapevolmente la propria riforma al culmine di un moto continuo caratteristico della cultura italiana, forte di tensione civile, di concezione spirituale della vita e del mondo, consapevole, per la prima volta nella sua storia, del fine che l’attende.
L’operazione è ampiamente motivata e argomentata su questo piano speciale dalla ricostruzione complessiva della cultura italiana operata dal Gentile che non ha incontrato opposizione altrettanto compiuta e compatta.
La scienza, la fisica, la matematica, la chimica, ecc., in tale sviluppo esplicitato sono men che nulla: nessun ruolo specifico, interno ai loro assetti e costrutti, hanno esse avuto nell’accompagnare la faticosa ricerca dell’identità italiana. Esse, permanendo l’alto ufficio di forgiare il paese e adattarlo ai fini che gli si attribuiscono, dovranno trovare il senso e il valore del loro ufficio educativo all’interno di un edificio la cui volta e le cui fondamenta sono costituite dalla grande tradizione letteraria e filosofica italiana. La forza della riforma è tutta qui. Nel porsi e nell’essere in gran parte il frutto di pensieri realmente ed efficacemente presenti nella cultura italiana precedente, nel definire il concetto della scuola dal quale far discendere in armonica successione tutte le pratiche e minute conseguenze, nel partire da un’idea, da calare in una realtà frastagliata, per guidarla e illuminarla, sta la sostanza della riforma.
Ma qui è anche la sua debolezza, la sua tragica reale impotenza, la sua artificialità.
Nell’ipotesi ragionevole della correttezza di tale ragionamento, resta da spiegare come mai si siano fatti passi indietro rispetto a Corbino, come mai a 20 anni dalle grandissime rivoluzioni del pensiero scientifico mondiale, l’Italia della cultura idealista continua ad essere assente ed arretrata ? come mai neppure ci si era accorti (e la cosa ripugna un poco alle cose in cui credo) del grande balzo in avanti dell’industria e dei suoi processi che la scienza aveva permesso all’Italia nel periodo bellico ? come mai non si ricordava quanto il nostro Nobel Camillo Golgi aveva sostenuto al Congresso della SIPS del 1916: “L’organizzazione scientifica delle industrie tedesche non potrà essere battuta che da un’organizzazione scientifica nostra“?
Alla prima domanda una qualche risposta, rozza ed intrisa di prosopopea mista ad ignoranza, venne da L. Talamo un non meglio identificato “scienziato” che scrisse Gli insegnamenti, i programmi, gli orarì: fisica (in Ministero dell’Educazione Nazionale, Dalla riforma Gentile alla Carta della Scuola, Firenze 1941). Dice il nostro [9]:
… questa nobilissima costruzione dell’uomo, che è la fisica, è turbata da qualche decennio da crepe e dissesti che sono vere contraddizioni. Ciò accadde già anche in altri tempi della sua storia, quando, formulata un’ipotesi capace di dar ragione di un gruppo di fenomeni sensibili, se un fatto nuovo veniva scoperto che non si lasciava spiegare da quell’ipotesi, si abbandonava quest’ipotesi, se ne ideava un’altra più adatta e comprensiva, ma senza scandalo alcuno. Senza scandalo, perché le ipotesi erano considerate qualcosa come le impalcature necessa-rie ad una costruzione muraria: fatta la costruzione, in questo caso la scienza, l’impalcatura e cioè l’ipotesi poteva essere abbattuta. Ma questa volta non si tratta di questo: fatti ed esperimenti da un lato, calcoli e ipotesi dall’altro, presentano al fisico d’oggi contraddizioni tanto stridenti da far vacillare in lui perfino principi fondamentali accettati dall’uomo quotidianamente…
ed aggiunge delle considerazioni su in che conto occorre tenere ciò nella scuola
Un conto estremamente attenuato. E giustamente: secondo il concetto di una scuola che non si può rivoluzionare e contraddire e nemmeno deve turbare o inoculare sentimenti che significherebbero sfiducia… Alla fisica i giovani si avvicinano, oltre che con vivo senso di curiosità, anche con aspettazione di certezza: deludere quest’aspettazione sarebbe grave errore, anche perché la leggera dialettica dei giovani non mancherebbe di farne pericolose illazioni in sede morale.
Siamo a questi livelli che non occorre neppure commentare.
Resta l’amarezza di ricordare un pezzo della retorica fascista: eravamo un popolo di santi, di navigatori, di poeti, … e di scienziati… Tutti sono restati, meno gli scienziati che emigrarono e continuano a farlo.
LA DIARCHIA: FASCISMO – CHIESA
In tutto ciò che sono andato dicendo sembra sparito un interlocutore che, in Italia, è onnipresente. Ed anche questa volta c’è, per ora nascosto ma operante. Il Fascismo, nonostante le roboanti affermazioni di principio, mai mantenute, nei riguardi della Chiesa (Mussolini aveva sostenuto un esproprio generalizzato di tutto il patrimonio della Chiesa, prima di prendere il potere), lavorò da subito (sic!) per instaurare rapporti di collaborazione con lo Stato della Chiesa. Sia la Chiesa che il Fascismo avevano capito che, pur partendo da motivazioni differenti, si ispiravano e difendevano gli stessi principi, miti, riti ed apparati, principi di ordine, autorità, gerarchia, obbedienza, sottomissione e assolutismo, mito di Roma, apparati e riti esteriori, uso massiccio della psicologia di massa (è interessante notare che anche Pasolini in un suo Scritto Corsaro per il Corriere della Sera dell’1 febbraio 1975, individuava una identità di intenti tra Fascismo e Chiesa). Sembrava quindi miope non collaborare per affermarli. Inoltre si possono facilmente individuare
alcuni nemici comuni quali l’irreligiosità, l’individualismo, l’eresia, l’anarchia, la massoneria internazionale, il protestantesimo e soprattutto il bolscevismo (riuscitissimo fu lo slogan «Roma o Mosca» ) e il liberalismo, negando recisamente ogni concezione agnostica dello Stato e quindi l’idea di una sfera pubblica distinta da quella privata, per riaffermare invece la necessità del riconoscimento di un ruolo civile essenziale della religione ai fini di una crescita collettiva in cui i diritti dell’individuo fossero mezzo per ottenere i fini della società (ricordiamo che, secondo una linea già tradizionale nella dottrina sociale cattolica, per Pio XI il corporativismo – in quanto negazione dell’individualismo – era estremamente positivo).Altri punti d’incontro furono la tutela del costume (specialmente del focolare domestico, per il quale si propose un ideale di famiglia numerosa), la critica all’idea che l’interesse economico fosse il fondamento primo delle vicissitudini sociali, e l’epurazione dei veleni stranieri (materialismo, libero pensiero, democrazia, modernismo, ecc.), tutti fattori inconciliabili col conformismo, col paternalismo, con la mentalità reazionaria e con quell’autarchia materiale e spirituale che – a dispetto degli enunciati e delle pretese universalistiche – era asse portante del mito della romanità. Ma soprattutto, ripetiamo, contò l’analisi che il pensiero cattolico fece delle radici e dell’evoluzione del fascismo; ossia, tolta una minoranza di opposizione radicale (ad esempio Sturzo, Donati) che inquadrava il fenomeno come un coerente e negativo sviluppo della genealogia degli errori, il fascismo fu visto come un allontanamento dalla nefasta tradizione liberale e socialista, un’evoluzione dal laicismo ancora rischiosa, ma anche di fatto avvicinabile alle posizioni del magistero, una possibile fase di passaggio verso il nascere di una nuova e ben più favorevole posizione della Chiesa.[33]
Il primo segnale di Mussolini alla Chiesa fu dato ben prima della sua presa del potere. Egli, rinnegando il suo programma di Sansepolcro del 1919 (Noi vogliamo: … b – il sequestro di tutti i beni delle Congregazioni e l’abolizione di tutte le mense vescovili, che costituiscono una enorme passività per la Nazione, e un privilegio di pochi) contro i beni ed i privilegi della Chiesa, in un discorso del 21 giugno 1921 sostenne: Affermo qui che la tradizione latina ed imperiale di Roma oggi è rappresentata dal cattolicesimo. La cosa fu immediatamente raccolta dal cardinale Ratti che divenne Papa Pio XI il 6 febbraio 1922, al posto di Benedetto XV. Papa Ratti, in seguito accondiscendente anche con il Nazismo, rispose subito a Mussolini benedicendo la popolazione, in occasione della sua elezione, affacciandosi alla loggia di San Pietro che era rimasta chiusa dal 1870. Altro gesto distensivo verso il fascismo che già mostrava essere truce e violento , lo fornì più oltre, quando lasciò al suo destino antifascista il Partito Popolare di Sturzo che, per contrappasso (De Gasperi nel 1921 aveva scritto: …noi non condividiamo il parere di coloro i quali intendono condannare ogni azione fascista sotto la generica condanna della violenza), ebbe la sua dose di bastonate dalle squadracce fasciste il 16 gennaio 1926. Mussolini, per parte sua, continuò a mostrarsi devoto. Battezzò i suoi figli e regolarizzò il suo rapporto con Rachele (1923); dichiarò la sua conversione al cattolicesimo; si fece fotografare più volte in stato di preghiera (con il divieto che tali foto circolassero all’estero); mise al bando la massoneria, all’epoca odiata dalla Chiesa; emanò leggi per le esenzioni fiscali al clero; sperperò moltissimi soldi pubblici per salvare le banche vaticane dal fallimento (storia infinita); vietò la costruzione di una moschea a Roma; pose difficoltà al lavoro delle missioni protestanti in Italia; sanzionò duramente la contraccezione e l’aborto; riaffermò il divieto di divorzio; legiferò contro l’adulterio della donna (frivola, non creativa e inintellettuale) disegnando una famiglia piramidale con la stessa donna sottomessa; sanzionò la bestemmia; tentò il disegno di uno Stato etico di facciata inveendo contro ballo, danze negroidi, costumi da bagno femminili, lunghezza di gonne, cosmetici, tacchi alti, alcoolismo, gioco, spogliarello, … cosa che non gli riuscì per la dissolutezza e la conseguente opposizione dei suoi camerati. Insomma si costruiva la simbiosi del Fascismo con la Chiesa, anche se dichiarazioni pubbliche, a volte, sembravano dire il contrario.
A questa mole di offerte, Mussolini aggiunse ciò che la Chiesa auspicava di più (dopo il denaro, naturalmente): la questione scolastica ed il ritorno alla gestione della scuola. Anche Gentile si prestò all’operazione portato a questo per ragioni teoriche del pensiero idealista, che vedeva nella religione una fase necessaria e preparatoria allo studio della filosofia, un «inizio di sapienza» capace di dare unità e organicità al sapere. Egli, all’articolo 3 del R.D. del 1 ottobre 1923, affermò con ogni solennità:
A fondamento e coronamento dell’istruzione elementare in ogni suo grado è posto l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta nella tradizione cattolica [poiché essa] darà un nuovo senso di serietà alla educazione del fanciullo. (…)
Per l’idoneità ad impartire l’istruzione religiosa così dei maestri come delle altre persone il R. Provveditore agli Studi si atterrà al conforme parere della competente Autorità Ecclesiastica.
Il che praticamente significa, come sostiene Augusto Monti (il Professore antifascista di Cesare Pavese), che ormai, in Italia, un maestro elementare, formato nella scuola di Stato, eletto dopo un esame di Stato, nominato in una scuola dello Stato, potrà dallo Stato essere ammesso a impartire in questa scuola l’insegnamento che è “fondamento e coronamento della istruzione elementare”, solamente quando a ciò sia stato riconosciuto idoneo… dal Vescovo del luogo: se no, no; se non avrà la fede di battesimo, il certificato di moralità cristiana, l’attestato d’idoneità rilasciato dalla Curia, l’ottimo dei maestri italiani non potrà né fondare né coronare il suo insegnamento in una scuola ormai del tutto “statizzata”, e se il Vescovo, poniamo di Santa Severina, dichiarerà, puta caso, che secondo lui nessuno dei maestri insegnanti nella sua diocesi è idoneo a impartire l’insegnamento religioso, nessuno di quei maestri di Stato sarà dal R. Provveditore agli Studi di Cosenza ammesso a insegnar nello scuole di Stato la materia dichiaratevi fondamentale.
Ma Gentile aveva altri fini e con la Circolare suddetta rispondeva ad una sfacciata sollecitazione dell’Azione Cattolica che, nel luglio del 1923, organizzò un convegno dal titolo significativo: “Come approfittare nel miglior modo dei recenti ordinamenti scolastici ordinati dal Prof. Gentile”.
E la cosa proseguì con l’insegnamento della religione cattolica. Con R.D. del 3 aprile 1924 si estende (anche se facoltativamente) l’insegnamento della religione alle scuole complementari ed agli Istituti Magistrali. Subito arriva la festa di Civiltà Cattolica che il 5 luglio 1924 scriveva [6]:
Il fatto veramente importante del ritorno dell’insegnamento religioso nella scuola consiste sostanzialmente in questo, che si è restaurata l’armonia tra la scuola e la Chiesa e la famiglia, ed è stato praticamente rimosso il principio liberalesco del laicismo, che pretende di poter ignorare la famiglia e la Chiesa, alle quali appartiene di diritto il fanciullo, rispettivamente, in quanto figlio e in quanto cattolico.
Si andò allora avanti nel 1926 con l’estensione dell’insegnamento religioso a tutta la scuola secondaria e nel 1928 con il riconoscimento alla Chiesa della nomina degli insegnanti di religione, della scelta dei libri di testo e della vigilanza da parte dei sacerdoti sull’insegnamento nella scuola elementare, con facili e numerose parificazioni (iniziando nel 1924 con l’Università Cattolica di Milano), con l’introduzione di letture di classici graditi alla Chiesa.
Tutto questo fervore di scambi di favori era accompagnato dalla preparazione dei Patti Lateranensi che videro infaustamente la luce nel 1929. Per ciò di cui ci occupiamo è d’interesse l’articolo 36 del Concordato tra Stato italiano e Chiesa cattolica:
Legge n. 810 del 27 maggio 1929, Art. 36: «L’Italia considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica. E perciò consente che l’insegnamento religioso ora impartito nelle scuole pubbliche elementari abbia un ulteriore sviluppo nelle scuole medie, secondo i programmi da stabilirsi d’accordo tra la Santa sede e lo Stato.
Tale insegnamento sarà dato a mezzo di maestri e di professori, sacerdoti o religiosi, approvati dalla autorità ecclesiastica e successivamente a mezzo di maestri e professori laici, che siano a questo fine muniti di certificati di idoneità, da rilasciarsi dall’Ordinario diocesano. La revoca del certificato da parte dell’Ordinario priva senz’altro l’insegnante della capacità di insegnare.
Del detto insegnamento religioso nelle suole pubbliche non saranno adottati che i libri di testo approvati dall’autorità ecclesiastica».
E tale articolo ricalca pienamente la circolare di Gentile del 1923. Ormai il disastro è fatto ed ancora ne paghiamo le conseguenze dopo che l’Assemblea Costituente nel 1948 riconobbe i Patti Lateranensi nella neonata Repubblica Italiana e che Craxi e Casaroli, nel 1984 e 1985, revisionarono il Concordato del 1929, senza modificarne sostanzialmente i contenuti. Il Concordato fu salutato come una grande vittoria della Chiesa. Valga per mostrarlo ciò che disse Pio XI, secondo cui col Concordato, «certo fra i migliori che si sono fin qua fatti», si poteva «con profonda compiacenza» credere di aver «ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio».
Ma la Chiesa ottenne di più: da una parte che le associazioni giovanili fasciste non facessero incontri ed adunate negli orari previsti per le funzioni religiose e dall’altra il riconoscimento delle associazioni cattoliche (ACI) come uniche possibili oltre quelle fasciste.
Iniziò un fausto periodo di esaltazioni reciproche e di benedizioni ad imprese scellerate. La Chiesa si ritrovava nell’Impero a lei caro e ne benediva le imprese imperialiste. I cattolici erano oppressi ma i Cardinali salutavano romanamente
L’Italia era stata « restituita a Dio» e doveva dunque essere considerata totalmente cattolica, come ebbe occasione di dire il 28 ottobre ’35 nel duomo di Milano il cardinale Schuster:
[…] nell’Italia nuova il cittadino si identifica col cattolico, e […] la dottrina insegnata nelle scuole per volontà del legislatore deve insieme identificarsi colla vita vissuta da tutti i cittadini per grazia di Dio e per volontà della Nazione […] Cooperiamo pertanto con Dio in questa missione nazionale e cattolica di bene; soprattutto in questo momento in cui sui campi d’Etiopia il vessillo d’Italia reca in trionfo la Croce di Cristo, spezza le catene degli schiavi, spiana le strade dei missionari del Vangelo! […] Pace a tutti nella verità, nella carità e nella giustizia, secondo la venerata parola del Pontefice Sommo [33].
FASCISTIZZAZIONE DELLA SCUOLA ?
Tutti i maggiori storici e studiosi della scuola sostengono che la fascistizzazione della scuola fu tentata ma certamente non riuscì. Poiché il Fascismo non ebbe una idea di scuola, la pretesa fascistizzazione si risolse nel tentativo di distruzione della scuola stessa. Lo stesso Mussolini, nel 1931, sconfessò l’intero lavoro di Gentile con queste parole dette nel Consiglio dei Ministri [2]:
[La Riforma Gentile] è un errore dovuto ai tempi e alla forma mentis dell’allora ministro.
E questa presa di posizione seguiva un rosario di critiche alla Riforma Gentile. Aveva iniziato Pais al Senato nel 1925 che tacciò la Riforma di improvvida, radicale e contraria agli interessi del Fascismo. La stessa Critica Fascista, rivista teorica del Regime, nel 1927 affermava che il punto dolente della Rivoluzione era proprio la scuola.

Seguiamo le tappe della pretesa fascistizzazione che iniziò dai citati ritocchi, che molti chiamarono controriforma.
Si iniziò con leggine per modificare le scuole inventate da Gentile e disertate dai supposti fruitori: il liceo femminile e le scuole complementari. Seguirono, tra il 1926 ed 1929, leggine e circolari che ponevano sotto maggiore controllo burocratico ed accentravano di più la scuola tentando di adeguarla al Fascismo che diventava regime totalitario. Si costruirono festività, ricorrenze, cerimonie, manifestazioni politiche, … in cui la scuola doveva essere presente, con la conseguenza che la scuola perdeva la sua serietà e diventava ciò che si voleva combattere, la palestra del permissivismo. Si semplificarono i programmi, gli esami ed i concorsi. Per partecipare ai concorsi si richiese l’iscrizione al PNF (Partito Nazionale Fascista) già all’epoca chiamato Per Necessità Familiari (nel 1938, si richiese di giurare fedeltà al Fascismo in ogni ordine di scuola (1929) e nell’Università (1931) dove solo 11 su 1200 rifiutarono. Si andò avanti con le orrende leggi razziali, dopo le quali l’iscrizione al PNF passò in secondo piano rispetto alla richiesta dell’arianità o della non ebraicità. Nel 1925 si introdusse la norma che permetteva il licenziamento degli insegnanti che manifestassero idee contrarie al Regime, anche al di fuori del posto di lavoro. Per il licenziamento bastavano le lettere anonime e le note informative dei presidi ossequienti. Nel 1926 i sindacati dei professori medi e universitari furono sciolti e sostituiti dall’Associazione nazionale degli insegnanti fascisti che si chiamò poi Associazione fascista della scuola, alle dipendenze dirette del partito, alla quale gli insegnanti furono obbligati ad aderire seguì poi l’introduzione del libro unico di Stato e la supervisione sulla scuola affidata all’Opera Nazionale Balilla (nel 1931, poi, tutti gli insegnanti vennero messi alla completa discrezione del ministro). Questi cambiamenti videro tentativi di opposizione di Gentile che non portarono a nulla. Nel 1929 entra la religione cattolica negli orari scolastici ed il Ministero della Pubblica Istruzione diventa Ministero dell’educazione nazionale (denominazione disposta con r.d. 12 settembre 1929, n. 1661) con il chiaro fine di introdurre nella scuola elementi estranei alla didattica ed immediatamente legati alla propaganda di regime. Nel 1929 vengono soppressi i corsi integrativi e la scuola complementare viene trasformata in scuola di avviamento al lavoro e poi (1932) in scuola di avviamento professionale. Ancora nel 1929 viene introdotto il testo unico di Stato per le scuole elementari. Lo Stato accelera la statalizzazione di tutte le scuole elementari (la cosa sarà completata nel 1935). Si organizzano gare di cultura fascista con commissioni costituite da gerarchi. Intanto si aumenta il numero delle scuole secondarie e si alleggeriscono i programmi scolastici. Mentre, prima nel 1934 (ministro Ercole) e quindi nel 1936 (ministro De Vecchi, che introdusse, anche nella scuola elementare, corsi di cultura fascista e rese indispensabile la sufficiente preparazione in religione per essere promossi), vengono modificati i programmi della scuola elementare. Fatto che merita una menzione è l’ascesa al Ministero dell’Educazione Nazionale di uno dei quadriumviri, De Vecchi (1935). Egli non aveva nulla in comune con il mondo della scuola e della cultura, ma portò in essa lo stile militarista del “vero fascismo” attraverso la cosiddetta “bonifica”. I professori antifascisti furono inesorabilmente eliminati e nel 1936 De Vecchi sollevò molti insegnanti non iscritti al Partito. Venne introdotta una censura preventiva sui libri di testo dell’insegnamento secondario, si tentò di ideologizzare le discipline d’insegnamento, si introdusse l’insegnamento della dottrina fascista, quello della puericultura per sostenere la campagna demografica, si esaltò la figura del Duce, ubiquo, unto dal Signore ed inviato sulla Terra per salvare l’Italia (mistica fascista). Il ministro fece redigere anche nuovi programmi che introducevano la cultura militare, con l’aumento delle attività extrascolastiche e delle organizzazioni giovanili. Del resto già nel 1934 un accordo tra Guf (Gruppi Universitari Fascisti) e Milizia aveva gettato le basi di un addestramento militare nell’istruzione media e secondaria. Intanto, a partire dal 1933 si taglia radicalmente la letteratura straniera dai nostri insegnamenti e si rivedono gli autori italiani da trattare. In questo quadro anche la filosofia di Gentile subisce dei fondamentali ridimensionamenti. La lista degli autori (di cui 4 a scelta da studiare) subisce tagli per quelli non graditi (ad esempio, Rousseau ed Humboldt) e nel 1936 viene reintrodotta la storia della filosofia (in luogo della filosofia) con elementi di etica che culminano ne La dottrina del Fascismo di Mussolini.
Fatto di rilievo è che, negli anni 1929 e 1930 lo Stato scoprì, attraverso una indagine del Ministero dell’Educazione Nazionale (L’istruzione industriale in Italia, Roma 1930) il problema dell’istruzione finalizzata all’industria che, come abbiamo visto, non era presa in considerazione da Gentile nell’ambito del medesimo Ministero della Pubblica Istruzione. La cosa sembrava annunciare importanti cambiamenti e si iniziò così a prospettare la necessità d’una nuova riforma. Si trattava di inventare figure professionali più attinenti alla realtà industriale del Paese ed anche alle esigenze delle forze armate. Non è pensabile una situazione di non aggiornamento proprio in quelle scuole che sono più legati all’evolversi ed allo sviluppo della produzione industriale, eppure il regime aveva completamente trascurato il problema affidandosi a quelle inutili scuole complementari. Si trattava ora di riprendere in mano l’intero sistema dell’istruzione tecnica-professionale per unificarla in una qualche scuola di avviamento al lavoro. Tali scuole divennero presto scuole di avviamento professionale. Nei primi anni 30 il Ministero assunse su di sé anche l’onere degli istituti tecnici industriali che ebbero una crescita notevolissima verso la fine degli stessi anni 30, con un’economia di guerra già in marcia, spostando gli interessi di promozione sociale della piccola e media borghesia dai licei e magistrali a queste scuole.
LA CARTA DELLA SCUOLA DI BOTTAI
Si giunse così alla Carta della Scuola [15], una sorta di legge quadro finalizzata a “mettere la scuola italiana (…) sul piano del Fascismo e della sua dottrina“, che il Ministro Bottai, giunto al Ministero nel 1936 (e restatoci fino al febbraio del 1943), fece approvare dal Gran Consiglio del Fascismo nel 1939. Bottai era ministro fascistissimo e quindi razzista. Si era già distinto per la solerzia e l’efficienza con cui aveva fatto applicare le Leggi Razziali nella Scuola. Nel 1938 fece espellere gli insegnanti ebrei, proibì l’iscrizione a studenti ebrei, istituì scuole elementari separate. Con una circolare del 6 agosto egli raccomandò ai Provveditori la massima diffusione nelle scuole primarie della rivista “Difesa della Razza”. Il 15 novembre un testo unico riunì tutte le disposizioni riguardanti la difesa della razza nella scuola italiana. Premesso che la Guerra incombente impedì la realizzazione della Carta (l’unica disposizione adottata fu la scuola media unica istituita nel 1940), merita attenzione il suo contenuto che propone un modello scolastico basato sul principio di far corrispondere ad ogni ceto un tipo di scuola, ad ogni titolo scolastico un tipo di lavoro, ad ogni lavoro uno status nella gerarchia sociale. La Carta è costituita da 29 punti o dichiarazioni che tentano di indicare i principi, i fini ed i metodi per riformare via via l’intera scuola, dalla materna all’università (si diranno cose che sono l’esatto contrario di ciò che nella pratica si vuole realizzare). La Carta, in cui si cita Casati e non Gentile, è costruita guardando alla Carta del Lavoro (1927) che era nata per subordinare il mondo della produzione, sia imprenditoriale che dipendente, al potere dello Stato. I suoi primi 7 punti sono, appunto, la definizione della scuola al servizio del Fascismo e subordinata ad esso. Si enunciano dei principi che restano tali come quello che nell’ordine corporativo la possibilità di studiare non si compra, si merita. Non ci sono gli studenti per censo; ci devono essere solo quelli per capacità Naturalmente si tratta di sciocchezze e vergognose bugie (che trovano in Berlusconi il campione mondiale di oggi), come risulta da ciò che scrisse successivamente lo stesso Bottai: è illusorio pensare che la lotta nel campo della scuola debba realizzarsi a parità di condizioni fra gli alunni delle diverse classi sociali. Lo impediscono le condizioni economiche, che rimangono come una realtà determinante per la scelta degli studi e delle professioni. Tra l’altro i costi per conseguire un diploma nella scuola decretavano proprio una selezione a priori: a fronte di circa 4000 lire per il classico e lo scientifico e di circa 2000 lire per il magistrale, il geometra e la ragioneria, vi erano 50 lire per la scuola di avviamento al lavoro (dati del 1935); tutto questo deve confrontarsi con i seguenti salari mensili in lire: contadino 90, operaio 200, impiegato 270, ragioniere 350, dirigente circa 1000 (dati del 1930). E questo in analogia alla Carta del Lavoro che assegnava uguaglianza giuridica tra i datori di lavoro ed i lavoratori (sic!). Naturalmente, tra i principi di fondo vi è la collaborazione tra famiglia e scuola poiché la formazione, in genere, l’orientamento, in ispecie, dei giovani esigono una stretta solidarietà fra Scuola e famiglia. Non si dimenticano, in questi principi, la scuola come palestra di esercizio fisico e lavoro, con il tutto documentato dal libretto scolastico personale, istituito da Bottai, che sancisce e comprova il prestato servizio nella scuola, nella Gil, nei Guf; e, collegandosi al “libretto di lavoro” serve a documentare, anche ai fini dell’assunzione al lavoro e negli impieghi, il curricolo civile dell’Italiano del tempo di Mussolini. Il lavoro, in modo fallimentare, resta comunque solo nell’ultimo biennio della scuola elementare, , nella scuola artigiana e nella scuola professionale. Da notare che con Bottai si inaugura l’adozione del Giornale dei Professori in sostituzione del Registro di Classe, un unico registro che servirà per tutti gli insegnanti e per tutte le materie, in modo da avere continuamente sott’occhio tutta la figura dell’alunno e non soltanto quella ritagliata entro i confini della propria disciplina (questa e le successive citazioni senza riferimento bibliografico sono di [3]). La Carta prosegue con l’ottava dichiarazione che riassume il previsto ordinamento della scuola, definita fascista. I successivi 7 capitoli (comprendenti le dichiarazioni dalla 9 alla 22) sono ciascuno dedicato ad un ordine di scuole. Si parla degli insegnanti, che devono essere preparati (e per ciò sono previste cure e provvidenze particolari), di esami e di ammissione e di passaggio e di Stato, dell’Ente Nazionale che deve presiedere tutta la scuola media e superiore, dei libri di testo che dovranno prevedere l’imprimatur del Ministero prima della stampa, dell’anno scolastico. Naturalmente vi sono molte dichiarazioni che fanno affermazioni in piena linea con la retorica imperante. Si afferma, ad esempio, che nell’ “ordine fascista età scolastica ed età politica coincidono“. Di supporto alla scuola vengono messe la Gil (a cui è affidato l’insegnamento dell’educazione fisica) ed i Guf (Gruppi Universitari Fascisti).
Di rilievo, per la portata che assumerà, è la creazione della scuola media unica, l’unica realizzazione della Carta dall’anno scolastico 1940-1941, naturalmente con i soliti imbrogli linguistici, infatti restano tranquillamente la scuola artigiana e la tecnico-professionale, per non alimentare, con le briciole della cultura, illusorie ambizioni di un inserimento nel rango studentesco che offra la fuga dal lavoro manuale, come scrisse Bottai. Fino ad allora esistevano tre tipi diversi di scuola media, la tecnica, la classica e la magistrale (e solo a queste ci si riferisce per parlare di scuola media unica) e ciò obbligava a scelte precocissime. La cosa non preoccupava più di tanto perché era finalizzata ad avere scuole diverse da subito per dividere in base al censo. Si osserva ora che la diversità tra scuole medie è piccola e che ci si trova di fronte a classi o troppo affollate o quasi deserte, con conseguente sperpero di denaro, a seconda del tipo di media. L’unificazione viene dunque realizzata e, fatto di rilievo, in tale scuola il latino diventa obbligatorio per tutti poiché è con il latino che si disciplina, si organizza e si orienta la mente … c’è veramente nella sua complessità, una continua sollecitazione agonistica …e poiché porre l’alunno di fronte ad esso come di fronte ad una nobile prova, è il più saggio degli accorgimenti didattici. I meno abbienti, provenienti da una società ed una cultura ancora eminentemente contadina, perdono da un lato il ghetto della scuola media ma si trovano di fronte l’estraneo latino che inaugura la sua funzione di selezione in luogo della separazione prima esistente. Accanto alla media unica, come accennato, sono previste le non uniche scuola artigiana (per le campagne e i piccoli centri) e scuola professionale (per le grandi città). Queste permettono ai più capaci l’accesso ai collegi fascisti, che forniscono una formazione militare. Dietro le due scuole suddette vi erano intenti di scuole rurali e industriali, contadine e cittadine. Il tutto doveva da un lato preparare all’industria bellica senza disamorare all’agricoltura. Ho già detto che la Carta non diventò riforma ma alcuni provvedimenti, passarono in regolamenti e circolari. Vengono introdotte nuove materie d’insegnamento come “Storia e cultura fascista”, “Bella scrittura” e “Igiene e cura della persona”. Le esercitazioni di lavoro, sono inserite nella scuola perché lavoro e studio debbono integrarsi “vita mentale e attività manuale sono così intimamente connesse che dall’una si può inferire il comportamento dell’altra…il lavoro deve essere sottolineato per il suo valore sociale e nazionale. ..ogni settimana, perciò,il docente di classe od altro designato dal Preside, parlerà o farà parlare gli alunni della loro esperienza di lavoro, con riferimento anche all’esperienza del lavoro nella famiglia. I Presidi disporranno delle visite aziendali mensili. ..senza escludere visite in quartieri operai, artigiani, contadini, case di riposo, colonie, ospedali. ..Nel campo specifico del lavoro femminile i programmi metteranno l’accento sulla famiglia come unità di lavoro, di cui la donna è motrice. Nelle classi si formeranno delle squadre di alunni, affinché il giovane abitui il suo spirito a quel senso di organizzazione gerarchica. ..che vuole dire unione degli sforzi dei singoli sotto la guida dei più capaci…che il giovane ritroverà poi… nel plotone e in tutte quelle attività che occuperanno la sua vita da adulto. ..Largo spazio deve essere riservato al lavoro agricolo, che meglio si armonizza con la prevalente ruralità delle famiglie…Del pari adatte in tutte le scuole le diverse forme di lavoro artigiano e industriale.” Tali esercitazioni al lavoro diventeranno visite rituali a fabbriche o campi di lavoro, chiacchiere. Nella nuova scuola nulla deve essere trascurato “puntualità, ordine, pulizia, correttezza di comportamento e di linguaggio, tono di voce, urbanità, soprattutto di coloro che sono a contatto con il pubblico. ..affinché ogni scuola possa offrirsi, in caso di visite di autorità, agli sguardi dei visitatori come un reparto perfettamente inquadrato. ..informa agilmente militare“.
Riguardo alla storia, si abbandona l’uso del testo che conosciamo ed in sua vece vengono adottate antologie di brani scelti atti a suscitare l’interesse ed il culto della nostra storia. Le tasse d’iscrizione, d’esame, di frequenza, alle singole classi sono differenziate per sesso: le ragazze pagano circa un 30% in più perché sia possibile fin dall’inizio della scuola media … avere un mezzo efficace per regolare l’afflusso delle donne alla scuola. In tal modo si realizza una accentuazione dell’antifemminismo di Gentile e del Regime. I testi scolastici, i diari, i quaderni, le pagelle, accentuarono l’ esaltazione del Fascismo e del Duce attraverso scritti ed immagini. In termini di propaganda Bottai capì l’enorme potenzialità della Radio della quale introdusse l’ascolto nella scuola. Di seguito vi sono alcune immagini e testi di propaganda.

Fonte [3]: Il libro della IV classe elementare, Roma anno XIV

Fonte [3]: Il libro della IV classe elementare, Roma anno XIV

Fonte [3]: Il libro della IV classe elementare, Roma anno XIV

Fonte [3]: Frontespizio del testo di puericultura.

Fonte [3]: Frontespizio di una pagella scolastica dell’ anno scolastico 1934-1935, Anno XIII

Un poco di fisica fascista.
In termini di propaganda si scende a livelli impresentabili per rozzezza e stupidità. Nella quinta classe elementare, ad esempio, risaltano per originalità problemi geometrici del tipo: calcolare la superficie complessiva delle province italiane della Libia o calcolare le bombe sganciate da un aereo da guerra. In meccanica il moto uniforme era spiegato con l’esempio del passo dell’oca (vedi ultima figura). La grammatica veniva insegnata proponendo l’analisi logica di frasi come “Io ho lavorato con piacere tutto il giorno” o “I nemici si affrontano con coraggio“. Le letture infine trattavano svariati temi d’attualità, come “La razza latina“, “Gli ebrei“, “Parla il Duce” o “L’emigrazione“. Il libro di lettura della III elementare di Adele e Maria Zanetti parla delle guerre coloniali italiane in Africa così: In Africa c’era un vasto impero con una popolazione ancora barbara, dominata da un imperatore incapace e cattivo: l’Abissinia. E gli Abissini ci molestavano: danneggiavano, invadevano le nostre colonie e i nostri possedimenti. Questo era troppo. Fu così che il Duce decise la guerra … – Saremo noi a vincere l’Abissinia, – disse il Duce. – L’Italia porterà in quella terra quasi selvaggia la luce della sua civiltà. Nello stesso libro si racconta anche la Marcia su Roma:
In quel tardo pomeriggio del 27 ottobre, sulla strada consolare che correva a breve distanza dal casello ferroviario, c’era stato un andirivieni insolito di veicoli.
Vittorio si era divertito a contare le motociclette, le automobili e gli autocarri che venivano a tutta corsa e rombando così furiosamente, che la casa ne tremava, ogni volta, come per un terremoto. […] Erano carichi di gente armata. Si vedevano gli elmetti, i fez, le camice nere degli arditi di Mussolini.
C’era nell’aria qualcosa di nuovo, di molto straordinario.
– Arrivano i fascisti, – disse il babbo rientrando dopo il passaggio di un treno, – le cose precipitarono.
Staccò dal muro il suo vecchio moschetto. Lo ripulì ben bene e se lo caricò sulla spalla.
– Ci vuol prudenza, – rispose alla moglie che lo interrogava con lo sguardo. – Le campagne sono malsicure. Quei contadini laggiù sono più rossi della loro casa. Vado ancora a perlustrare la strada. Bisogna raddoppiare di vigilanza. […]
Vittorio non era un bimbo ciarliero. Ciò che vedeva e che gli parlava al cuore, custodiva in sé e non dimenticava più. E il suo cuore si faceva ogni giorno più saldo e più ardito.
– Mamma, presto, la bandiera! Mettiamola fuori, – disse, quasi imperiosamente, rientrando. – I fascisti devono sapere che qui ci sono dei veri Italiani. […]
All’umida brezza della sera, la bandiera si gonfiò come una vela, palpitò come una grande ala variopinta, gettando sul paesaggio malinconico la gaia nota dei suoi vividi colori. […]
Il babbo rientrava. Vittorio udì i suoi passi su per la scala e le parole sommesse che scambiò con la mamma nella stanza accanto.
– […] Hanno del fegato quei ragazzi!
– Come piove! – sospirò la mamma. – Se la prendono tutta poveretti!
– Eh, ci vuol altro! E’ la gioventù che non si spaventa del fuoco, figurati se si accorge dell’acqua!
Vittorio aveva ripreso il suo posto di osservazione alla finestra.
La colonna in marcia era interminabile. Le squadre si succedevano alle squadre. Venivano giù quasi di corsa. […]
Lampi frequenti accendevano le nuvole d’improvvisi bagliori: la campagna si rischiarava di luci spettrali, per piombar poi subito nell’oscurità.
In quei fuggevoli momenti, Vittorio intravedeva una scena superba di forza e di audacia. Le colonne si perdevano all’orizzonte. […] A Vittorio pareva di sognare […]
Vittorio tende il braccio nel suo saluto romano. E pare dire: Vedete? Questo almeno lo so già fare.
– A Roma! A Roma! – esclama gioiosamente il giovane col braccio levato.
– Viva i Fascisti! Viva Mussolini! – grida ancora Vittorio, mentre quegli si slancia a gran corsa sulla strada, per raggiungere l’ultima squadra che già si vede lontana.
Allora marciammo su Roma, negli anni successivi la marcia partì da Roma. Non è ancora finita. Nessuno ha potuto fermarci. Nessuno ci fermerà. Mussolini
E così via con interminabili possibili esemplificazioni. E’ da notare che, a sottolineare la continuità tra fascismo e governi democristiani postliberazione, testi in uso durante il ventennio, continuarono imperterriti a riempire di bolsa e lacrimevole retorica le scuole italiane dalle elementari alla maturità. Esempio è il testo di Cesare Paperini, Analisi estetiche e letterarie (SEI 1935 e 1953), che ha imperversato fino agli anni Cinquanta.
Nel quadro dell’interesse per il lavoro e per le realizzazioni pratiche, anche a sostegno dell’autarchia, la scienza e la tecnica tornano di moda (a parole!) e sono di continuo legate al concetto di lavoro. In quest’ambito i programmi di matematica e fisica subiscono degli aggiornamenti. L’oscuro matematico burocrate del Ministero, Alfredo Perna, così commenterà le innovazioni [9]:
La matematica… è forse tra le materie più indicate a scoprire le attitudini negli alunni: qualità di ordine, di disciplina, di fantasia, di ragionamento, di tenacia, di probità sono facilmente individuabili… Intanto sappiamo, e non possiamo non esserne soddisfatti, che l’insegnamento della matematica nella scuola della Carta mussoliniana non avrà più la pesantezza che l’ha fatto condannare in passato, non sarà più una serie di proposizioni, e talvolta di rompicapi, asfissianti, sconfortanti; ma collaborazione intima tra professori e alunni, riduzione della materia a ciò che è veramente essenziale per la formazione spirituale del giovane e per l’individuazione delle sue attitudini specifiche.
Anche qui parole e basta. Riguardo alla fisica ed alle critiche che la Sips aveva rivolto all’impostazione gentiliana, si criticherà l’aver bandito:
… dalla scuola un elemento altamente educativo che doveva più tardi essere riammesso con tutti gli onori, quando una più completa visione educativa dell’uomo e più maturi tempi lo consigliavano: la primigenia e insostituibile attività umana del lavoro, che la fisica sperimentale è anche lavoro manuale.
Bottai si rese anche conto che la piccola e media borghesia che aveva aiutato il regime a prendere il potere, era stata poi penalizzata da una scuola che in gran parte le escludeva. Occorreva provvedere ed il Fascismo iniziò la nefasta politica del Pubblico Impiego, delle migliaia di posti creati nel terziario, posti ai quali ebbe accesso anche la Milizia Volontaria di Mussolini che, una volta sciolta, contribuì da sola a 200 mila unità di impiegati dello Stato.
Con Bottai termina comunque il tentativo di fascistizzare la scuola. Al di là dei numerosissimi ritocchi, credo si possa dire che la scuola veniva mano a mano smantellata e si possa concludere come iniziato: se per fascistizzazione si intende distruzione della scuola, allora ci fu fascistizzazione. In accordo con il fatto che il Fascismo non ebbe nai un’idea di scuola. Dice uno storico della scuola, molto attento ed accurato, come Genovesi [2]:
Da quanto detto, risulta che, se non ci lasciamo intrappolare dalla fallace categoria del consenso, la fascistizzazione della scuola è un fenomeno tutt’altro che scontato, e senz’altro non lo è sul versante di una sua compiuta realizzazione. (…)
D’altronde, non è difficile ipotizzare che durante il fascismo ci troviamo davanti non solo a una doppia scuola, quella ufficiale e quella comunque «contrabbandata» dai singoli docenti in ragione della loro cultura e del loro impegno etico-civile (…), ma, addirittura, a molte scuole. Si tratta di scuole dovute anche ai «vari» fascismi e soprattutto a una certa accidia e sciatteria del fascismo stesso, che finisce ben presto per accontentarsi delle parole d’ordine e delle affermazioni roboanti più che dei fatti, quasi in un’illusoria o astuta e comunque fatale fiducia che quanto ha voluto il capo dovrà comunque accadere. Resta il fatto che l’irrazionale e il provvisorio, cause determinanti di marcata disfunzionalità, hanno il sopravvento e porteranno la scuola e tutto il Paese alla violenza e alla distruzione.
LA SCUOLA REPUBBLICANA NELLA TRANSIZIONE
La guerra tragica e disastrosa è finita. L’Italia è distrutta negli impianti industriali e nelle infrastrutture. Resta la parte contadina arretrata da sottofondo ad un Paese che ricomincia.
Gli Stati Uniti, che sono stati la forza preponderante contro i nazifascisti con bombardamenti a tappeto che hanno prostrato i nemici e distrutto l’Italia, hanno stabilito a Yalta, insieme agli altri vincitori (URSS, Gran Bretagna, Francia), che l’Italia è dalla parte Occidentale. Per mantenere il controllo sul nostro Paese, gli USA hanno patteggiato con la mafia al Sud, hanno fatto accordi con i fascisti ed i repubblichini al fine di scongiurare il pericolo socialcomunista, che pur restava la forza più organizzata ed armata del Paese nella Resistenza. Gli scellerati accordi di cui sopra hanno evitato all’Italia i processi di Norimberga e Tokio con la conseguenza che, a parte qualche fucilazione ed esecuzione dei primi momenti, tutto l’apparato fascista e repubblichino rimane indenne (in questo aiuterà moltissimo anche l’amnistia che Togliatti fece approvare, quale Ministro della Giustizia, nel 1946, amnistia che svuotò le carceri da fascisti e repubblichini e le riempì di partigiani indisponibili a cedere le armi in una situazione ancora critica). Per la rilevanza che ha nella nostra storia, va ricordata l’esecuzione di Giovanni Gentile, ormai fascista ai margini, il 15 aprile del 1944, esecuzione che ebbe il seguente commento sull’edizione napoletana dell’Unità il 23 aprile: Parlando di Giovanni Gentile, condannato a morte dai patrioti italiani e giustiziato come traditore della patria, non riesco a prendere il tono untuoso di chi, facendo il necrologio di una canaglia, dissimula il suo pensiero e la verità col pretesto del rispetto ai morti…Giovanni Gentile non è stato soltanto il traditore volgarissimo…scompare con Giovanni Gentile uno dei responsabili o autori principali di quella degenerazione politica e sociale che si chiamò fascismo. Né io riesco, nel dare questo giudizio, a distinguere il pensatore dal bandito politico…dal camorrista, corruttore di tutta la vita politica italiana. A parte, appunto, isolati episodi come quello accennato, la burocrazia ministeriale, l’esercito, la magistratura, la diplomazia, la polizia, … tutto questo va cambiando nome ma resta quasi completamente ciò che era prima della guerra.
Il Vaticano, l’altra forza determinante per le sorti dell’Italia, vive un breve momento di paura per il supposto avvicinarsi dei socialcomunisti al governo. Il regime con il quale avevano vissuto in simbiosi si era apparentemente disfatto. Ben presto si capirà che ogni timore è infondato anche per il dispiegarsi della classe politica cattolica che, mantenuta protetta tra le mura dei palazzi apostolici, ora può uscire ed iniziare la rapida marcia al potere. L’atteggiamento del Vaticano è ben descritto da questi piccoli eventi:
10 maggio 1944 – Pio XII riceve in udienza privata il generale delle Ss Karl Wolff. Durante l’incontro, propiziato da Virginia Agnelli, si parla fra l’altro della “difesa dei valori della città cristiana, contro l’attacco facilmente prevedibile del comunismo”.
23 giugno 1944 – Il rappresentante americano presso il Vaticano, Myron Taylor, informa il presidente Franklin Delano Roosevelt sul contenuto di un colloquio avuto con Pio XII: “Il problema dell’atteggiamento della Russia verso la Chiesa cattolica, la mancanza di fiducia nella parola di Stalin e in particolare il pericolo del comunismo in Italia causano a Sua Santità grande preoccupazione…Sua Santità sostiene che la presenza degli alleati in particolare, e di forze americane in numero ragionevole in tutto il paese è essenziale per un lungo tempo, per salvare l’ordine e scoraggiare le attività radicali che potrebbero rovesciare il governo esistente…Grazie a questa presenza si genererà nella massa della popolazione un sentimento di sicurezza. Ciò potrebbe compiersi su base volontaria, a spese della nazione italiana”.
9 gennaio 1945 L’Oss (poi CIA) riporta le direttive impartite dal Vaticano ad Alcide De Gasperi “vicinissimo a monsignor Giovanbattista Montini, segretario di Stato, con cui dibatte ogni questione politica… 1) collaborare a tutti i costi con i partiti dell’ordine; 2) guadagnare tempo ad ogni costo con i sei partiti per evitare avventure rischiose, ma al momento opportuno troncare di netto con la sinistra.
Sulla scuola, argomento di cui ci occupiamo, il Vaticano interverrà sui governi provvisori con petulanza per mantenere ed ottenere le cose a cui tiene. Questi governi si mostreranno subito estremamente accondiscendenti (con la fattiva collaborazione di Benedetto Croce che, come Pera oggi, raccontava al prossimo del perché non possiamo non dirci cristiani), come le brevi note che seguono, mostrano:
17 aprile 1944 – Ad Andria, il vescovo Di Donna scrive a Vittorio Emanuele III per esprimere la sua “protesta contro il grave attentato recato all’unità spirituale dell’Italia cattolica e al Concordato dalle disposizioni del ministero dell’Educazione nazionale nei nuovi programmi scolastici per la scuola media…nei quali si annuncia come facoltativo l’insegnamento religioso cattolico”.
27-28 aprile 1944 – A Lecce, nel corso della riunione dei vescovi pugliesi, l’arcivescovo Marcello Mimmi riferisce che il ministro dell’Educazione nazionale, Cuomo, gli ha assicurato che tutti i componenti del governo “non potevano non guardare all’insegnamento religioso come ad una delle leve più potenti della rinascita spirituale della Patria”. I vescovi, comunque, dinanzi alla formazione di un governo in cui per la prima volta sono entrati a far parte i comunisti, incaricano “S.E. di scrivere una lettera di ringraziamento, in cui si esprime la fiducia che la Legge sull’insegnamento religioso sarà rispettata anche dal nuovo Governo di Unione Nazionale, e si esprime l’augurio che la facoltà attribuita dal nuovo Piano di studi al professore di lettere, in materia di Storia delle Religioni, non crei dualismo pericoloso tra insegnanti e incidenti penosi per la coscienza religiosa degli alunni e la serenità della scuola”. Nel corso della riunione, inoltre, i vescovi pugliesi decidono di riaffermare “il dovere di denunciare e combattere teorie apertamente anticristiane. Quanto all’atteggiamento pratico da seguire nel momento attuale, in cui si è attuata come una specie di tregua di partiti di Governo e nelle Amministrazioni locali, si riconosce la delicatezza della situazione e si ritiene inopportuna e pericolosa l’iniziativa da parte del clero di una lotta aperta e rumorosa contro singoli partiti”.
6 maggio 1944 – Su “Civiltà cattolica”, padre Barbera scrive che il diritto educativo della Chiesa è “sopraeminente” e quello della famiglia “anteriore” al diritto dello Stato. E invita pertanto quest’ultimo a “lasciar libero l’esercizio agli aventi diritto educativo, la Chiesa e la famiglia”.
25 maggio 1944 – Il segretario generale del ministero degli Esteri scrive, a nome del maresciallo Pietro Badoglio, al vescovo di Andria, Di Donna: “Sono lieto di comunicarle di aver portato a conoscenza di Sua Eminenza Rev.ma il Cardinale Segretario di Stato, per il tramite del R. Incaricato d’Affari presso la Santa Sede, l’assicurazione di S. E. Omodeo che nulla è stato innovato, né si intende innovare, all’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche”.
24 ottobre 1944 Il ministro della Pubblica istruzione De Ruggiero vara il decreto che reintegra nelle loro funzioni gli 11 docenti universitari allontanati dall’insegnamento per non aver giurato fedeltà al regime fascista. Il decreto però è condizionato ad una valutazione caso per caso, espediente adottato per impedire il reingresso nell’Università a Ernesto Buonaiuti, inviso al Vaticano perché ex sacerdote per il quale la Curia pretende la definitiva estromissione dall’insegnamento.
Queste vicende erano comunque marginali rispetto alla massima preoccupazione vaticana: il riconoscimento da parte dello Stato che stava nascendo dei Patti Lateranensi. Dopo estenuanti trattative vi fu un improvviso cedimento ai cattolici dei comunisti (e la Chiesa li ringraziò scomunicandoli l’ 1 luglio 1949) e, nell’Assemblea Costituente, passò l’articolo 7:
Art. 7 – Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi.
Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.
al quale si aggiunsero, in tema di scuola, gli articoli 33 e 34
Art. 33 – L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.
La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.
Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.
La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali.
È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale.
Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.
Art. 34 –
La scuola è aperta a tutti.
L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.
Discuteremo oltre di come si è vanificato l’articolo 33, ora basta osservare che ancora oggi l’articolo 34 è una pia dichiarazione di principio e che la Chiesa viene esaudita nelle sue maggiori impellenze.
E vediamo ora come la scuola viene adattata alla nuova realtà che nasceva dalla Liberazione. Intanto vi fu un intervento nei programmi nel 1945. Il problema principale, presente a tutti gli attori, CLN, alleati, partiti politici che si ricostituivano o nascevano, era la defascistizzazione che, nella scuola, non poteva comunque avvenire con un colpo di mano. Ci si limitò a modifiche nell’organizzazione, a verifiche sulla preparazione degli insegnanti e sulla loro disponibilità democratica, a revisione del libri di testo. Ci voleva del tempo per riorganizzare il tutto ma intanto si poteva intervenire sui programmi. La cosa fu realizzata da una Commissione per la redazione dei programmi operante sotto differenti ministri dell’Educazione Nazionale (il Ministero ancora non aveva cambiato nome), Adolfo Omodeo, Guido De Ruggiero, Vincenzo Arangio-Ruiz, con la partecipazione della Sottocommissione Alleata all’Educazione (la Education Subcommission dell’Acc) presieduta da Carleton Washburne, un esperto del problema scolastico proveniente da Winnetka, una delle punte della scuola attiva americana, dove si era definita e sperimentata, tra l’altro, quella nuova strategia didattica che è il Mastery Learning. Prima di ciò vi erano stati interventi parziali sui programmi sia dal Comando alleato, dopo lo sbarco in Sicilia, per l’anno scolastico 1943-1944, sia da parte del Governo partigiano dell’Ossola nel 1944. La Commissione ebbe a che fare con la posizione USA che spingeva per la continuità opponendosi ai cambiamenti invece auspicati da tutti i rappresentanti italiani. I programmi furono pubblicati a febbraio del 1945 e divennero operanti a maggio dello stesso anno. Vi è un recupero dei programmi liberali con l’aggiunta dell’insegnamento della religione. Le materie previste, ad esempio, nell’insegnamento elementare nel 1945 sono: 1) Religione; 2) Educazione morale, civile e fisica; 3) Lavoro; 4) Lingua italiana; 5) Storia e geografia; 6) Aritmetica e geometria; 7) Scienze e igiene; 8) Disegno e bella scrittura; 9) Canto. Per quanto concerne le votazioni, l’Educazione morale, civile e fisica comprende anche la condotta. Non si assegnano voti di Lavoro, Storia e geografia, Scienze e igiene, Canto nelle prime due classi. Nel 1934 erano: 1) Religione; 2) Attività intellettuali ricreative; 3) lavori donneschi; 4) Lingua italiana; 5) Storia e Geografia; 6) Aritmetica e Geometria; 7) Scienze ed igiene; 8) Disegno, Bella scrittura e Recitazione; 9) Canto; 10) Nozioni di diritto ed economia.
Si può notare che apparentemente cambia poco, ma vi sono cose importanti che si modificano nell’approccio, come indicato dall’ampia premessa introduttiva cose immediatamente contraddette dalle avvertenze introduttive alle singole discipline. Queste novità di principio possono essere così riassunte: eliminazione della differenza tra scuole rurali e scuole cittadine; eliminazione della differenza tra scuole maschili e femminili; la pedagogia di base diventa comunitaria e cessa di essere competitiva; sparisce il razzismo sostituito con un approccio di fratellanza universale; la parte religiosa vira dal catechismo al Vangelo. Nei fatti, oltre a quanto detto sulle avvertenze, il tutto va in mano a dei maestri che non sanno bene come comportarsi, resi estranei a qualsiasi processo di formazione. Occorrerà attendere la riforma (ministro Ermini) dei programmi del 1955 per una sistemazione della scuola elementare in senso clericale e reazionario [11]:
Dichiarando che si trattava di «suggerimenti desunti dalla migliore esperienza didattica e scolastica», la nuova legge affermava che la scuola elementare «educa le capacità fondamentali dell’uomo, e ha, per dettato esplicito della legge, come suo fondamento e coronamento, l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica». Come dire che le capacità fondamentali dell’uomo sono quelle dell’uomo cattolico. Era indicazione ineccepibilmente e stupidamente legittima, replicando il testo del Concordato fascista, divenuto legge dello Stato repubblicano grazie all’art. 7 della Costituzione.
e proseguendo ignobilmente:
La vita scolastica abbia quotidianamente inizio con la preghiera, che è elevazione dell’anima Dio, seguita dalla esecuzione di un breve canto religioso dall’ascolto di un semplice brano di musica sacra. Nel corso del ciclo l’insegnante terrà facili conversazioni sul segno della croce, sulle principali preghiere apprese (Padre nostro, Ave Maria, Gloria al Padre, preghiera dell’Angelo custode, preghiera per i Defunti), sui fatti del Vecchio Testamento ed episodi della vita di Gesù desunti dai Vangeli.(…)
Contemporaneamente si avvii il fanciullo alla pratica acquisizione delle fondamentali abitudini in rapporto alla vita morale, al comportamento civile e sociale, all’igiene, nella famiglia, nella scuola, in pubblico.
e comunque si avrà un accavallarsi di provvedimenti che non saranno altro che il prosieguo della politica dei ritocchi e degli aggiustamenti che erano funzionali all’attendismo che nulla mai risolve della DC. Osservo a questo punto che la DC avrà il monopolio quasi esclusivo del Ministero della Pubblica Istruzione (MPI) per moltissimi anni, intervallato solo da qualche liberal-reazionario come Valitutti.
A livello di scuola dell’infanzia (e non solo) vi è il disinteresse della sinistra occupato ampiamente dai cattolici e dalla pletora di organizzazioni che fanno loro capo, che si preoccupano di non applicare l’articolo 33 della Costituzione per la parte riguardante le scuole dell’infanzia che, secondo quell’articolo, dovrebbero essere promosse dallo Stato. Questa negligenza manterrà e darà tali scuole alla Chiesa per ancora molti anni (fino al 1968), con in più il significativo cambiamento del loro nome in scuole materne (è da notare che per molto tempo anche le scuole magistrali saranno in gran parte gestite dalla Chiesa: la Liberazione diventa anche una Restaurazione del pre 1870). Solo alla fine degli anni Cinquanta vi saranno dei progetti di legge per l’istituzione di scuole materne statali, quelli del socialista Pieraccini del 1959 e della comunista Nicolosi del 1960 (l’opposizione inizia a muoversi sul tema scuola, lasciato fino ad ora a personalità come Concetto Marchesi, sostenitore della netta separazione scolastica). Naturalmente vinse il governo DC (presieduto da Fanfani) che nel 1958, oratore Zoli, esaltò in Parlamento la gestione clericale della scuola materna. A parte la gravità della cosa in sé vi è da sottolineare le conseguenze che derivarono da questo fatto: la Chiesa che avrà il pratico monopolio di tali scuole, potrà sostenere di rendere un servizio allo Stato e potrà iniziare a pietire per essere finanziata (per il favore che gli è stato fatto). L’articolo 33 vietava questo ma (facendo un salto in avanti), i DS, eredi del PCI, sapranno scavalcare questa difficoltà con un imbroglio che si sono inventato nella modifica costituzionale del 2001. In tale riforma è stato inserito un marchingegno del quale pochi si sono accorti. Nel nuovo articolo 55 della “nuova” Costituzione (Riforma del Titolo V) si legge: “La Repubblica Italiana è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Regioni, dallo Stato“. Quindi lo Stato è uno tra i tre enti. In pratica, se i soldi provengono dalle Regioni e non dallo Stato il finanziamento pubblico diventa lecito.
Sarà il governo Moro (Ministro Gui) a presentare un progetto di legge per l’istituzione della scuola materna statale. Il Parlamento non approvò e Moro si dimise (20 gennaio 1966). Con lievi modifiche, che prevedono tra l’altro la contropartita di finanziamenti alle scuole materne non statali (confessionali), lo stesso progetto passerà il 18 marzo 1968 (stesso governo ricostituito) accompagnato un anno dopo dagli Orientamenti per la scuola materna statale. Lo spirito con cui queste scuole nascevano non è dissimile a quanto abbiamo visto per i programmi Ermini del 1955 delle scuole elementari [11]:
«Detta scuola si propone fini di educazione, di sviluppo della personalità infantile, di assistenza e di preparazione alla frequenza della scuola dell’obbligo, integrando l’opera della famiglia»: concezione, si sa, clerical-democristiana. E nei programmi si leggono di nuovo espressioni di mistica vacuità: «La bellezza e l’armonia della natura, ogni volta che siano ravvisabili, e la presenza in essa di innumerevoli forme di vita, possono costituire motivo per sviluppare sentimento di rispetto e di amore per tutte le creature e di riconoscimento di Dio creatore». Insomma, l’osservazione della natura per convalidare l’ipotesi creazionistica e per venerare Dio, ovviamente secondo la dottrina cattolica.
Comunque, nella pratica, l’istituzione vera sul territorio nazionale di tali scuole sarà lentissima ed ancora oggi lungi dall’essere completata.
Nessun cambiamento importante si avrà invece sia a livello di scuola media inferiore che superiore. Vi saranno delle proposte al Parlamento che non saranno mai discusse: quella del 1951 che tendeva a dare alla scuola un carattere più prossimo al modello gentiliano (nella versione Bottai) e più apertamente clericale (ministro Gonella) e quella del 1959 per riformare la secondaria con l’istituzione del liceo magistrale quinquennale (ministro Moro). Si cambieranno più volte gli esami di maturità, spesso in modo più selettivo. La Chiesa avrà la torta più importante nelle maglie dei continui ritocchi [11]:
facilitazioni per la Scuola magistrale di formazione delle maestre d’asilo, quasi tutta privata cattolica; Scuole popolari affidate all’Associazione italiana maestri cattolici; Centri didattici nazionali, di origine bottaiana, rivivificati e affidati a pedagogisti cattolici; Consiglio superiore con inseriti gli insegnanti di religione cattolica, non previsti dalla legge; istruzione professionale, in gran parte privata e cattolica, riassunta nel ministero dell’Istruzione con una sua Direzione generale, e così via amministrando. Il tradizionale rapporto tra scuola statale e scuola privata, quale era stato posto nell’Ottocento liberale, ne risultò alterato a vantaggio di quest’ultima.
Nella figura seguente è riportata la struttura del sistema scolastico italiano dal dopoguerra al 1963:

Fonte: Giovanni Genovesi – Storia della scuola in Italia dal Settecento ad oggi – Laterza 2000.
Il 31 dicembre 1962 vi è una delle cose più importanti e qualificanti della Repubblica fino a quel momento, l’istituzione della scuola media unica (questa davvero tale) e, quindi, l’elevamento dell’obbligo ai 14 anni di età. Fu un grandissimo successo della sinistra (la parte progettuale di sinistra fu del PCI) che mise questa legge nel piatto della bilancia delle trattative con la DC per l’ingresso al governo del PSI di Nenni. Dalle scuole elementari non si è più precocemente costretti a scegliere tra il triennio dell’Avviamento Professionale chiuso in se stesso ed il triennio della scuola media che apre al proseguimento degli studi anche fossero solo tecnici o professionali avanzati. Tutti devono entrare in una scuola triennale obbligatoria (fino ai 14 anni), alla fine della quale potranno scegliere (?, ndr) quale sorte seguire. E’ una conquista democratica anche perché tale scuola nasce come orientatrice e non per selezionare. A tal fine si introducono nuove e diverse discipline che via via passeranno da facoltative ad obbligatorie (1977) e si abolirà il latino come lingua a sé stante (ad una prima iniziativa di introduzione di classi differenziali per alunni con difficoltà, si sostituì nel 1977 una attività di recupero). Nel frattempo, con l’approvazione dei Decreti Delegati (DD) del 1974 (vedi oltre), la gestione della scuola diventa collegiale (docenti, famiglie, forze sociali, studenti nella scuola superiore).
Una cosa è subito da dire. Questi cambiamenti furono fatti senza alcuna preparazione degli insegnanti che subivano cose senza esserne preparati. E qui la cosa era estremamente delicata. Altra questione cui occorre accennare è quell’abolizione del latino come lingua a sé stante. La cosa di per sé andava benissimo se si fosse parallelamente continuato ad insistere su quelle discipline che sono analisi logica e grammaticale. Ma, inopinatamente anche queste sono cadute quasi fossero solo finalizzate al latino. La cosa creò grossi danni (ed oggi lo riconoscono in molti) perché per strutturare il pensiero, i ragionamenti, non restò che la matematica ed in particolare la geometria, con la conseguenza che questa fu la materia ghetto, da odiare e, in quanto propedeutica ad altri studi scientifici (anche perché, ad esempio, in varie scuole, l’insegnamento della matematica era abbinato a quello della fisica), all’origine del rifiuto di molti per le materie scientifiche (una esauriente discussione sulle questioni solevate dalla didattica del latino e della geometria si trova in [9] nel lavoro di L. Besana e M. Galluzzi dal titolo: Geometria e latino: due discussioni per due leggi, pagg. 1287-1306). Altra vicenda è proprio la cattedra preposta per le materie scientifiche alla scuola media, matematica ed osservazioni scientifiche, assegnata ad un solo insegnante che poteva (e può) essere della più varia provenienza di laurea (matematica, fisica, chimica, biologia, geologia, scienze naturali, …). Fin qui nulla di male se si fosse pensato ad un qualche momento che unificasse la preparazione di tali insegnanti che tende, sempre ed inesorabilmente, a privilegiare la sua materia a scapito delle altre e con la solita aggravante del matematico che con le scienze ha molto poco a che fare. Si è così accentuata quella divaricazione tra scuola e società [faccio notare che questa analisi è valida a maggior ragione oggi con la completa anarchia produttiva ed il trasferimento di capitali dal mondo produttivo a quello finanziario]
che ha portato da una parte una scuola “sempre più democratica”, ma dall’altra parte “sempre più a sé stante”, e “sempre più dequalificata”. Contraddizione quest’ultima che nasce da compromessi non chiari a livello politico. Infatti una scuola razionale, e per questo qualificata, richiede il numero chiuso. Ma numero chiuso vuol dire garanzia di occupazione che nessuno si sente di dare. Infatti il senso del numero chiuso in questa società significherebbe solo una rigenerazione dei ruoli, un perpetuare sulla carta la divisione in classi sociali, un far ricadere la selezione solo su chi non ha alle spalle una struttura economica e culturale adeguata. E’ facile allora giungere a quell’identità tra scuola di massa e scuola dequalificata che non si potrà cambiare se non cam bieranno gli equilibri politici.
Ho solo accennato ad alcuni problemi più volte posti e mai posti al centro di un dibattito e di una riforma. Ciò ha comportato la progressiva decadenza culturale di questa scuola media, decadenza da tutti denunciata … e basta. E la situazione non migliorò con la pubblicazione nel 1963 dei programmi per tale scuola, programmi frutto di mediazioni e spinte contrapposte delle varie lobbies professionali degli insegnanti. Questi ultimi poi non riuscirono a cogliere, nella gran maggioranza, lo spirito della riforma e nessuno, come detto, glielo spiegò mai. Si aggiunga a ciò la becera posizione di pedagogisti che avevano circolato in ambito fascista ed ora si erano riciclati in ambito liberale, come Luigi Volpicelli, professore alla facoltà di magistero di Roma. Questo personaggio che educava futuri maestri scrisse addirittura un libro dal significativo titolo: Contro la scuola unica, Armando 1960. Il libro era diretto al progetto di Scuola Unica del Ministro Medici, precedente quello di Gui. La collana su cui fu scritto il libro era diretta da Salvatore Valitutti, un altro liberale che varie volte e per molto tempo sarà Ministro della Pubblica Istruzione. Ma anche a sinistra si avevano idee poco chiare e questa volta a proposito di cattedre cumulative. Imputano agli insegnanti un difetto di fon do della cattedra stessa, la messa insieme di cose che non possono stare insieme, come abbiamo già detto nella prima parte di questo lavoro. Anche persone altrimenti molto lucide, come Banfi che sostenne (1941) [9]:
… se si parla di riforme scolastiche (in senso culturale complessivo)… esse sono da iniziare dal Liceo. Dove la scienza è insegnata, e senza colpa degli insegnanti, proprio nel senso più contrario alla cultura scientifica: la matematica come un’arte calcolatoria; le scienze naturali come un sapere sperimentale, di cui non si vedono esperimenti, ma solo formule matematiche di cui resta ignoto il metodo e il senso di applicabilità all’esperienza. E tutto l’insegnamento, non parliamo di quel caos orrendo che sono le così dette «scienze naturali», ove chimica, biologia, astronomia, geologia e non so che altro ancora s’accumulano senza metodo, è dogmatico, senza la più lontana eco di senso critico e storico
e Lucio Lombardo Radice che scrisse (1946) [9]:
È il metodo aristotelico che regna ancora nell’insegnamento delle scienze: ed è il metodo che conta nella scuola, non le nozioni. Cosa importa che si parli di leggi e di programmi, invece che di «enti» e di «virtù», che si facciano apprendere risultati esatti invece che nebulose fantasie, quando la legge, la proprietà, il risultato scientifico restano nozioni puramente verbali, parole scritte sui manuali che bisogna mandare a memoria.
C’è da dire che se uno non è passato a lavorare in una scuola per le discipline in ogetto, non sa di cosa parla.
La figura seguente riporta la struttura del sistema scolastico italiano a partire dal 1963:

Fonte: Giovanni Genovesi – Storia della scuola in Italia dal Settecento ad oggi – Laterza 2000.
Comunque, alla data dell’approvazione della legge, dopo 20 anni di immobilismo democristiano, qualcosa si muoveva nel senso della modernizzazione. E pensare che dal lancio dello Sputnik, il Paese guida della DC, gli USA, misero in moto un gigantesco piano di modernizzazione dei loro insegnamenti. Nel 1968, lo stesso ministro Gui, lamentò però l’incapacità dei governi che si erano succeduti dalla Liberazione di aver messo mano ad una riforma organica della scuola, riforma che ormai sorgeva come forte esigenza sociale dalle più disparate parti. La modernizzazione neppure sfiora le mente dei cattolici.
Strutture programmi e metodi della scuola media superiore sono rimasti immobili e l’ottimismo ufficiale contrasta con le sempre più vivaci agitazioni che dagli atenei si vanno estendendo al grado secondario.
Gli studenti discutono problemi di cui fino a pochi anni fa erano inconsapevoli, chiedono di partecipare attivamente e addirittura di gestire una riforma radicale capace di eliminare il carattere classista, autoritario, burocratico del sistema scolastico, di realizzare veramente il diritto allo studio, di fruire di una cultura viva attuale, impegnata; si pronunciano contro il riformismo che tende a perpetuare perfezionandolo l’ordinamento vigente merito-cratico e selettivo, contro la separazione del mondo della scuola da quello del lavoro, cercano l’aggancio con la classe operaia ed assimilano la loro condizione a quella degli sfruttati di tutto il mondo. [2]
Pasolini, come già accennato, darà nel 1975, poco prima di essere ammazzato, un giudizio sprezzante sulla commistione del potere DC con la Chiesa. Nelle sue Pagine Corsare sul Corriere della Sera del 1° febbraio scrisse:
La continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta. Taccio su ciò, che a questo proposito, si diceva anche allora, magari appunto nel “Politecnico”: la mancata epurazione, la continuità dei codici, la violenza poliziesca, il disprezzo per la Costituzione. E mi soffermo su ciò che ha poi contato in una coscienza storica retrospettiva. La democrazia che gli antifascisti democristiani opponevano alla dittatura fascista, era spudoratamente formale.
Si fondava su una maggioranza assoluta ottenuta attraverso i voti di enormi strati di ceti medi e di enormi masse contadine, gestiti dal Vaticano. Tale gestione del Vaticano era possibile solo se fondata su un regime totalmente repressivo. In tale universo i “valori” che contavano erano gli stessi che per il fascismo: la Chiesa, la Patria, la famiglia, l’obbedienza, la disciplina, l’ordine, il risparmio, la moralità. Tali “valori” (come del resto durante il fascismo) erano “anche reali”: appartenevano cioè alle culture particolari e concrete che costituivano l’Italia arcaicamente agricola e paleoindustriale. Ma nel momento in cui venivano assunti a “valori” nazionali non potevano che perdere ogni realtà, e divenire atroce, stupido, repressivo conformismo di Stato: il conformismo del potere fascista e democristiano. Provincialità, rozzezza e ignoranza sia delle “élites” che, a livello diverso, delle masse, erano uguali sia durante il fascismo sia durante la prima fase del regime democristiano. Paradigmi di questa ignoranza erano il pragmatismo e il formalismo vaticani.
Siamo al 1968.
IL 1968
Non pretendo di esaurire, neppure per sommi capi, l’ampio dibattito che innestò il 1968 in tutti i campi della società italiana. Solo vorrei dire due cose dal punto di vista non dell’osservatore esterno e magari dei giornali, ma da quello di chi ha partecipato attivamente al Movimento rivendicandone ancora oggi, pur nelle molte contraddizioni, la potenza modernizzatrice che rivoluzionò fino in fondo perfino il costume del Paese. Rivoluzionò tanto che si penso bene, reazionari italiani e servizi segreti USA, a far terminare quella stagione con le bombe di Piazza Fontana e con la strategia del terrore che da lì cominciò.
Il Movimento iniziò da una profonda insoddisfazione che era provata, con motivazioni e spinte diverse, da moltissimi giovani. In relazione anche a momenti di tensione internazionale, al proseguire delle violenze di gruppi fascisti all’Università che precedettero e seguirono l’assassinio dello studente Paolo Rossi a Roma nel 1966, a molteplici motivi di autoritarismo da parte della gran parte dei baroni universitari, dalla presa di coscienza di una scuola di classe che escludeva i più e tramandava perfino le cattedre per via di nepotismo (se non per meriti politici), partì l’occupazione delle Università che si estese rapidamente a tutto il Paese (analogo sommovimento ci fu in tutto il mondo).
Le prime rivendicazioni degli studenti si riferivano proprio alla loro condizione: studi molto cari, libri carissimi, professori latitanti, autoritarsimo, oggettività dei programmi, aule superaffollate, lezioni solo cattedratiche, valutazione, testi, contenuti obsoleti rispetto alle sollecitazioni del mondo allora contemporaneo, … Si iniziò con una protesta durissima per il diritto allo studio e contro la scuola di classe (ma anche con lavori di gruppo, con controcorsi, con didattiche differenti). Dice Ricuperati [32]:
Questo discorso didattico e politico ha percorao per qualche tempo la scuola italiana e ha permesso la realizzazione di alcune esperienze importanti, negli spazi aperti dalle lotte degli studenti e di una parte dei docenti. Poi, lentamente, al primo riflusso del movimento studentesco, nonostante le resistenze, le vecchie strutture, rimaste sostanzialmente immodificate, hanno ripreso in gran parte il sopravvento. E qui si rivela la funzionalità politica di una struttura legislativa apparentemente anacronistica come quella che si è cercato di descrivere: in momenti di ripiegamento delle lotte sociali essa permette di ritornare indietro e di riprendere ogni piccola conquista, ricollocandola — svuotata — nella vecchia dimensione della scuola, autoritaria e deresponsabilizzante.
Erano slogan ? Eh no! Chiunque pensa questo non sa come l’opulenta Italia del miracolo economico, trattava i figli dei lavoratori di tale miracolo. Una sola tabella rende conto della situazione scolastica della opulenta Italia [6]:

Siamo solo nella prima elementare ed abbiamo questi dati agghiaccianti. Il Fascismo non c’è più da 25 anni e la politica DC è la perfetta conservatrice di tutti i suoi ideali di classismo ed oppressione sociale. E noi eravamo certamente ingenui ma non impreparati e queste cose le conoscevamo bene anche perché molti di noi provenivano da zone dove l’evasione dall’obbligo, le bocciature alle elementari, la necessità di lavoro precoce per i bambini, … erano dei dati vissuti. Come vissuto era il sistema duramente selettivo degli studi superiori che molti studenti dovevano pagarsi con il proprio lavoro. Il sistema del presalario che era stato introdotto era buffonesco e assegnava denaro solo ai figli di papà che evadevano le tasse e risultavano quindi bisognosi se non nullatenenti. E questo poteva avvenire perché il presalario si assegnava a posteriori, alla fine di un anno, quando chi aveva dovuto lavorare non era riuscito ad ottenere valutazioni analoghe a quello che aveva solo potuto studiare. Il sistema degli esami era micidiale. Non solo si era esaminati in tutte le materie, ma addirittura sui programmi dei tre ultimi anni, con tutti gli scritti e gli orali del caso. Entrare all’Università era una vera impresa e, una volta entrati, occorreva pagare tasse elevate, ammucchiarsi in 700 in aule per 350 persone, non avere mai il piacere di vedere un professore se non quando in due minuti ti bocciava deridendoti. Molti erano poi fuori sede, con l’ulteriore carico o del trasferimento quotidiano o della costosissima permanenza in un lettino subaffittato, senza avere neppure un posto dove studiare. Beh, non dico altro, spero si sia capito.
Le lotte furono molto intense e dure. Il Movimento fu oggetto di una violenta repressione del governo. Le iniziali simpatie dell’opposizione si tramutarono presto in aperta ostilità (il PSI era al governo ed il PCI non tollerava e mai ha tollerato che qualcuno respirasse alla sua sinistra). Questi fatti fecero passare il Movimento dall’opposizione su temi corporativi a quella generalizzata, fino alla proposizione di un potere politico diverso. Eda a tal fine uscì dalle Università per collegarsi fattivamente con le fabbriche. Si innestò una unità di azione fecondissima che morì, appunto, con la Strage di Piazza Fontana.

Il volantino del Movimento Studentesco dopo Valle Giulia a Roma
Ma come rispose il potere DC e dei suoi alleati almeno alle rivendicazioni corporative ? Il fine del governo non era quello di risolvere i problemi ma quello di disinnescare la protesta e così le cose che fece furono vergognosamente populiste, demagogiche, piccole negli intenti, prive di prospettive, cialtrone nella sostanza e misero in moto un vero disastro nella scuola. Si confusero cause con effetti e si credette di risolvere e tacitare il malcontento generalizzato con quella ‘riforma’ sulle uscite (quindi sugli esami) piuttosto che prevedere una rimessa in discussione dell’intero impianto scolastico. Tralascio l’Università perché non ne ho mai parlato e mi riferisco solo ai provvedimenti che furono presi per la scuola.
Nel 1969 furono varati i seguenti provvedimenti (governi Rumor):
– riforma degli esami di maturità (febbraio, ministro Sullo);
– con i corsi integrativi biennali, gli istituti professionali diventano quinquennali e sono così equiparati ad ogni altra scuola media superiore (ottobre, ministro Ferrari Aggradi);
– si aprono le porte di tutte le facoltà universitarie ai diplomati di tutte le scuole medie superiori (dicembre, ministro Ferrari Aggradi).
Ad una scuola che diventa di massa si risponde in modo vergognoso accreditando il fatto che non può esistere scuola di massa insieme a scuola qualificata. L’apertura degli accessi all’Università agli studenti di ogni provenienza secondaria, senza una minima ristrutturazione dell’Università stessa, ha portato all’esplosione dell’Università accreditando l’equazione: scuola di massa = scuola dequalificata. Gli esami che fino ad allora si erano fatti su tutte le materie di studio con scritti ed orali (ed importanti incursioni sull’ultimo triennio di studio), si facevano ora su due soli scritti e due materie su quattro possibili (una indicata dal candidato e la seconda, date le circolari ministeriali che invitavano le commissioni a favorire e non penalizzare i ragazzi, praticamente pure). Si tenga conto che questo esame era stato introdotto sperimentalmente e sarebbe stato cambiato nell’arco di due anni che, con disinvoltura, sono diventati 30. Si può capire che cambiare l’esame senza cambiare il tipo di corso di studi è, a parte ogni altro giudizio, profondamente errato didatticamente: l’esame deve essere funzionale ad un qualche obiettivo che ci si prefigge. Dato che qui non venivano esplicitati obiettivi, c’è da dedurne che l’unico obiettivo era politico e cioè quello di calmare la protesta con un contentino che, alla lunga, è stato esiziale per la scuola. A lato di ciò vi erano altre spinte che confluivano nella stessa direzione: una sorta di ‘filosofia’ cattolica (alla quale spesso si è associato il pensiero di qualche marxista immaginario) che, partendo non da Don Milani ma da Maria Montessori , vedeva lo studente come una sorta di vaso di cristallo che non poteva essere toccato senza il rischio di romperlo. Fatto ancora più importante era relativo all’uso della scuola come momento di parcheggio per disoccupati potenziali che doveva estendersi sempre di più.
Le sperimentazioni cui si dette il via a partire dagli anni ’70 (anche se nascevano con il fine di rendere più accettabile la scuola ai figli di papà), quando sfuggirono di mano al ministero (dalla sperimentazioni sui contenuti si era passati a quelle sulla gestione della scuola stessa), furono immediatamente e drasticamente affossate (senza per altro che nessuna memoria di esse fosse fatta circolare nelle altre scuole). Nel frattempo quelli del ’68 erano entrati nella scuola come professori ed a loro furono dovute tutte le lotte di quegli anni sulle sperimentazioni, sulla gestione democratica della scuola, ancora sul diritto allo studio, sui corsi abilitanti, sull’eliminazione del precariato nella scuola, sull’aggiorna.mento degli insegnanti. Da allora è iniziato il linciaggio dei professori, responsabili di tutti i mali della scuola. Intanto, quando passarono i Decreti Delegati, molti di noi avvertirono che era una manovra per affossare le lotte degli studenti e dei professori (lottavamo insieme, o fate finta di non ricordarlo ?). Le infinite discussioni senza un bilancio adeguato che potesse poi rendere operative le decisioni fece perdere la fiducia nella democrazia .
Concludo con Ricuperati [32]:
Perché quanto si è detto non appaia una meccanica sovrapposizione di una scelta politica personale a un’analisi storica partita dall’ultima riforma globale (quella Gentile), varrà la pena di citare un documento ufficiale come il Rapporto del CNEL (Milano, 1970):
Se la domanda sociale di istruzione e del rapporto fra occupazione e istruzione può portare a pili approfondita coscienza di alcuni dei nessi significativi fra sviluppo della società e sviluppo dell’istruzione, va anche detto che sarebbe illusorio continuare a parlare oggi del rapporto scuola-società nei termini di questi ultimi anni. Il 1968 ha rappresentato in questo senso una svolta profonda nella faticosa ricerca di un collegamento con lo sviluppo sociale che il sistema scolastico in fondo richiede, da quando nei fatti ha perso la sua coerenza (di scuola selettiva, formatrice di classe dirigente, portatrice di certi valori, ecc.) con la tradizionale società italiana. Chi esamini infatti le vicende del 1968 non può non rimaner sorpreso dall’ambiguità di un anno: che ha visto esplodere, e giungere al calor bianco nel corso della primavera, la critica e la constatazione del divario e del dissidio fra scuola e società: e che è finito poi in un riflusso degli interessi (culturali, politici legislativi) verso problemi puramente categoriali, interni alla gestione del sistema formativo, con l’annullamento di ogni aggancio più o meno dialettico con la realtà sociale. In realtà si può dire che proprio l’anno in cui la consapevolezza della perdita di coerenza fra scuola e società è giunta al più alto e drammatico grado nella coscienza sociale e nell’opinione pubblica, si è assistito a un riflusso rapidissimo della tensione a ricercare ed attuare collegamenti funzionali fra scuola e società, e di converso a un altrettanto rapidissimo aumento delle istanze, delle tensioni tipicamente particolaristiche delle singole categorie interessate, dagli studenti, agli insegnanti, agli amministratori. In questa situazione è evidente che vanno in crisi non soltanto aspetti specifici (quali il rapporto occupazione-istruzione) ma tutta la tensione (durata in fondo dieci anni dal primo piano della scuola a oggi) a stabilire un rapporto costante fra lo sviluppo dell’istruzione e la profonda trasformazione economica e sociale che la nostra società va attraversando. È stata forse la primavera del 1968 l’apice di una presa di coscienza – sociale e politica insieme – della necessità di rompere i vecchi schemi scolastici ed aprirli a quanto di nuovo, in tensione culturale, si era andato maturando nella società. Ma la cosa è durata forse addirittura pochi giorni. Poi la contestazione giovanile ha abbandonato la scuola come suo obiettivo e si è rivolta, in senso globale, contro la società nel suo insieme, nelle sue caratteristiche e nei suoi meccanismi attuali … La contestazione alla società finiva per essere una vittoria della vecchia scuola italiana, dei suoi valori, dei suoi parametri formativi, dei suoi rancori e sospetti verso la società moderna.
I DECRETI DELEGATI
Gli anni 70 vedono l’affermarsi nella scuola italiana dei sindacati confederali e di vari movimenti che mettono al centro della loro azione la scuola democratica, pubblica ed il diritto allo studio. Molti aderenti a tali sindacati provengono dalle lotte del 1968 all’università. Vanno ad ingrossare una scuola fatta di pochissimi insegnanti di ruolo e moltissimi precari. I sindacati confederali gestiscono nei confronti del Ministero la richiesta di passaggio in ruolo da parte di tutti questi docenti immessi in forma provvisoria nella scuola per far fronte alla scolarizzazione di massa e qui mantenuti in uno stato precario. Sono ancora questi sindacati ad ottenere i corsi delle 150 ore per gli studenti lavoratori (inizialmente del comparto metalmeccanico) nel ’73. Si inizia ad uscire dal corporativismo, inefficienza, corruzione e reazione dei sindacati autonomi (che pur restano in piedi ancora oggi come interlocutori fidabili della burocrazia ministeriale dalla quale sono ricambiati con favori) e si sgonfiano di molto le organizzazioni cattoliche degli insegnanti e dei genitori. Ma anche i sindacati confederali ebbero vari scontri con la base in quasi tutte le assemblee. Al solito, le lotte degli insegnanti nei primi anni 70, trovavano mediatori al ribasso che accettavano maggiori carichi di lavoro per il personale della scuola senza contropartite economiche con l’inesorabile avvio alla dequalificazione dell’insegnamento stesso, sempre più rifugio a basso prezzo per chi non trovava di meglio. I corsi abilitanti, istituiti nel 1971, furono un prodotto di quei tempi.
Ad ottobre del 1972 si viene a conoscere il contenuto di una legge delega, preparata dal ministro Misasi, e presentata al Parlamento dal successore Scalfaro. La legge delega riguardava, tra l’altro, lo stato giuridico degli insegnanti, un miglioramento economico e l’unificazione dei ruoli nella scuola (allora erano 3: A, B e C). Per quel che riguarda lo stato giuridico, il Parlamento dette delega al Ministro di preparare una legge in cui si fissassero le norme su: libertà d’insegnamento; attribuzioni, diritti e doveri connessi con la funzione docente direttiva e ispettiva; orario di servizio obbligatorio; prestazioni straordinarie (si prevedeva un aggravio di 29 ore per i maestri e di 22 per gli insegnanti della scuola secondaria); reclutamento; valutazione del servizio; trasferimenti; congedi, aspettative, comandi; cessazione del rapporto di lavoro; procedimenti e sanzioni disciplinari; tutela delle libertà sindacali. A fronte di ciò vi erano ridicole compensazioni salariali. I sindacati autonomi entrarono in agitazione parlando genericamente di [6]:
ristrutturazione dei ruoli «diversa da quella prevista dalla legge e che sia più razionale e salvaguardi i diritti acquisiti»; di agganciamento alle retribuzioni delle altre categorie di dipendenti statali; chiedevano il ragguaglio della pensione al 100 per cento dello stipendio e la riduzione a 35 anni di servizio del periodo massimo pensionabile. Richiedevano inoltre « una più sicura tutela della libertà d’insegnamento »; « la rivalutazione morale ed economica del personale direttivo e docente » e la « tutela della dignità personale e dell’effettiva libertà dei diirigenti e docenti attraverso una diversa struttura democratica degli organi collegiali ». A parte la richiesta di miglioramenti economici superiori a quelli concessi, gli altri punti della piattaforma risultavano generici e contraddittori.
I sindacati confederali, oltre a richiedere miglioramenti economici, contestavano la visione democristiana della libertà d’insegnamento (si diceva: nel rispetto della coscienza morale e civile degli alunni, qual’era tale coscienza in una società stratificata ? quella della Chiesa ? quella degli abbienti ? quella dei lavoratori ? …), l’insufficiente chiarezza nell’unificazione dei ruoli e chiedevano [6]:
– un primo livello intermedio di unificazione dei ruoli (abolizione del ruolo C; in attesa di equiparazione tra A e B dopo l’equiparazione dei titoli di studio); – per tutti un livello o un corso di specializzazione post-laurea con conseguente eliminazione degli esami abilitanti e dei concorsi a cattedra;
– aumenti inversamente proporzionali agli stipendi in godimento, in maniera da ridurre le differenziazioni salariali e muoversi così nella direzione della unificazione dei ruoli;
– l’elettività dei presidi (con funzioni di coordinamento e di animazione, trasferendo i loro poteri agli organi collegiali) e l’abolizione dei ruoli direttivi e ispettivi in coerenza con la gestione sociale della scuola;
– l’abolizione di ogni forma di valutazione (le famigerate note di qualifica) e di controllo burocratico sul lavoro scolastico con l’introduzione dell’autonomia nella definizione collettiva (insegnanti e studenti nella scuola secondaria di secondo grado) dei piani di lavoro da discutere e verificare negli organi collegiali;
– la pubblicazione di tutti gli atti della scuola e l’abolizione del segreto d’ufficio con conseguente diritto del dipendente di discutere all’interno e all’esterno della scuola l’attività e le decisioni che riguardano la vita scolastica;
– la definizione tassativa ed esplicita dei doveri del personale in modo da limitare il potere discrezionale dell’amministrazione evitando cosi comportamenti discriminatori;
– il diritto alla difesa e alla tutela sindacale a tutti i livelli col riconoscimento dell’applicabilità dello Statuto dei lavoratori;
– l’assemblea in orario di servizio aperta agli studenti, alle famiglie, ai lavoratori, ai rappresentanti dei sindacati;
– l’abolizione della normativa fascista sulle sanzioni disciplinari;
– l’effettiva democrazia nella composizione degli organi collegiali con partecipazione a tutti i livelli delle forze sociali e possibilità d’intervento autonomo del sindacato per il confronto e la verifica su tutta l’attività degli organismi scolastici.
Vi furono scioperi importanti, anche generali (12 gennaio 1973), sostenuti dall’intero sindacato confederale con il tema del diritto allo studio. E davvero, più volte, si paralizzò il Paese. Il governo reagì concedendo nelle trattative gli aumenti salariali che acquietavano i sindacati autonomi, con la solita tattica del dividere il fronte avversario. Alcune votazioni sulla legge delega videro il MSI a sostegno del governo che comunque fu più volte battuto. Alla fine passò la legge delega ma con due qualificanti (per il governo) motivazioni bocciate: trattamento economico ed organi collegiali. Si aprì una trattativa tra governo e vertici confederali che arrivò ad un accordo il 17 maggio 1973. Le assemblee di base, pur con moltissimi dissensi e poteste, votarono a favore dell’accordo.
La valutazione complessivamente positiva derivava dal fatto che l’accordo contemplava (peraltro en passant) gli aspetti sociali che toccavano gli interessi di tutti i lavoratori e dei loro figli, come il diritto allo studio e l’edilizia scolastica; riconosceva il diritto alla contrattazione triennale e stabiliva la immissione in ruolo degli abilitati con incarico a tempo indeterminato. Sul significato politico dell’assegno perequativo si registrava una grande confusione d’idee. Pochi, in effetti, compresero che l’assegno non andava nella direzione dell’unificazione dei ruoli e della restrizione del ventaglio salariale. Contava molto ancora, per la massa dei lavoratori della scuola, il fatto di avere ottenuto un aumento superiore a quello proposto dal governo.
L’altro aspetto fondamentale della trattativa riguardante gli organi collegiali appariva assai mortificato nonostante l’introduzione del Consiglio di distretto al posto del Consiglio regionale previsto dal progetto Scalfaro. Presidi, provveditori, ministro rimangono a capo degli esecutivi. Gli organi deliberativi (Consiglio di scuola, d’istituto o di circolo; Consiglio di distretto; Consiglio provinciale e nazionale) sono privi di poteri decisionali.
La rappresentanza dei sindacati negli organi collegiali viene riconosciuta solo a livello di distretto mentre viene esclusa, insieme a quella degli Enti locali, nei Consigli di circolo e d’istituto. In questo caso si verifica addirittura un arretramento rispetto al disegno di legge bocciato al Senato dalle sinistre che non volevano concedere in questa materia la delega al governo. Comunque, gli ampi margini di manovra, lasciati al governo in questo campo, hanno messo seriamente in dubbio la reale volontà politica dei vertici sindacali di portare avanti la battaglia per la riforma della gestione scolastica in senso effettivamente democratico. [6]
In definitiva si era soddisfatti di aver avuto un aumento salariale, dell’abolizione delle note di qualifica, dell’immissione in ruolo per gli abilitati con incarico a tempo indeterminato, … Nel 1974 vengono approvati i cinque decreti delegati sul riordino dello stato giuridico, sugli organi collegiali, su sperimentazione e aggiornamento ecc.; decreti che, nel rispetto della legge delega approvata l’anno precedente dal Parlamento, fondano le figure giuridiche degli operatori scolastici, definendone anche i legittimi strumenti, i diritti e i doveri, le specifiche competenze all’interno di un cambiamento globale di gestione della scuola (gli organi collegiali riconoscono un ruolo imprescindibile a genitori ed alunni). Osservo un fatto che iniziò a disamorare profondamente gli insegnanti alla scuola. A fronte di un carico di lavoro raddoppiato, i salari restavano gli stessi. Vi era un altro Decreto Delegato, quello per la parte economica: non fu mai discusso né tantomeno approvato. Si reintroducono i concorsi per le immissioni in ruolo pensandoli momentanei, fino alla riforma universitaria che doveva prevedere dei corsi speciali per chi sceglieva l’insegnamento. L’immissione in ruolo degli insegnanti viene programmata a scadenze fisse, dopo il periodo di prova. Si rinuncia a considerare gli insegnanti come altri lavoratori, per i quali si applica lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori. Si perde in conseguenza l’assemblea in orario di lavoro che deve avvenire per un massimo di 10 ore mensili fuori orario di servizio. Si creano difficoltà ad assemblee comuni con studenti e genitori anche per il fatto che gli organi collegiali funzionano in ore pomeridiane. Inizia il rosario delle infinite, estenuanti ed interminabili riunioni che occuperanno ormai tutto l’arco della giornata in assenza di programmazione di tali riunioni. Restano aperti una grande quantità di problemi [6]:
– mancanza di asili nido;
– insufficienza di scuole materne pubbliche e mantenimento, con congrui finanziamenti, degli asili gestiti da organizzazioni religiose (il 50 per cento dei bambini dai 3 ai 6 anni non frequenta la scuola materna);
– assenza di una politica democratica per l’infanzia dai 3 ai 6 anni (una scuola infantile che non sia « parcheggio »
dei bambini né semplicemente preparatoria della scuola elementare, ma un momento importante dello sviluppo fisico, intellettuale e culturale dei bambini);
– mancanza di un razionale piano di sviluppo dell’edilizia scolastica che da luogo al fenomeno dei doppi e tripli turni e delle pluriclassi;
– non funzionalità degli edifici alle esigenze di movimento e di organizzazione del lavoro e dello studio;
– affollamento delle classi come fenomeno generalizzato anche nella scuola superiore;
– non gratuità dell’obbligo scolastico (libri di testo, trasporti, mense, biblioteche);
– non istituzione del tempo pieno mai preso in seria considerazione, tanto è vero che si cerca di chiudere anche i doposcuola;
– classi differenziali o cosiddette « speciali », autentici ghetti per i figli dei poveri;
– mancato prolungamento dell’obbligo fino ai sedici anni;
– non attuazione della riforma della scuola secondaria;
– mantenimento di tutte le norme fasciste sulle sanzioni disciplinari per studenti e lavoratori della scuola;
– mancata riforma delle forme di reclutamento e di aggiornamento degli insegnanti (quest’ultimo pressoché inesistente);
– mancanza di un qualsiasi programma per l’educazione permanente e per il recupero della scolarità da parte dei lavoratori;
– mancata riforma universitaria.
Ai problemi qui accennati i decreti delegati non rispondono.
PROPOSTE DI CAMBIAMENTO, SPERIMENTAZIONI
Gli anni 70 si coniugano anche con un grande fervore di cambiamento della scuola. Moltissime iniziative si susseguono a partire da una di esse che ha fatto storia e che data proprio all’anno 1970 (per concludersi nel 1972). A Villa Falconieri (Frascati, Roma), sotto l’egida del Centro Europeo dell’Educazione (noto come CEDE ed oggi INVALSI, in accordo con il Principe Salinas) e dell’OCSE-CERI, si riunirono un gruppo di esperti internazionali sotto la presidenza del repubblicano Oddo Biasini (da questi incontri di Frascati nacque nel 1971 la Commissione Biasini). Le proposte che vennero fuori erano avanzatissime e, sembrava, addirittura condivise dal ministro Misasi convertitosi a ciò che allora si discuteva, il biennio unitario dopo la scuola dell’obbligo. Si era in linea con il meglio del Progetto 80, scaturito da uno studio del Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica (sotto la direzione di Giorgio Ruffolo quando erano ministri Giolitti e Pieraccini del PSI) del 1968 e pubblicato nel 1970 (che, tra l’altro, si occupava della democratizzazione del sapere e della modifica dei modelli di vita in vista della sostenibilità ambientale). In generale le iniziative di riforma riguardano la scuola secondaria di secondo grado e la scuola elementare. Colpevolmente si lascia fuori una scuola fondamentale per la transizione, quella media che, ancora oggi, abbisognerebbe di grandi revisioni.
Le linee scaturite a Frascati, note come i 10 punti, possono essere così riassunte: per la prima volta nelle sedi ufficiali prende corpo un’ipotesi di “scuola comprensiva”, una scuola cioè con struttura unitaria (allungamento esteso al biennio post scuola media del percorso comune degli studenti nella scuola), articolata al suo interno in un sistema di materie comuni, opzionali ed elettive e completamente estranea a finalità professionali.
Alla sperimentazione che aveva portato alla quinquennalizzazione di tutti gli ordini di secondaria si affianca quella di ordinamento che avrebbe dovuto anticipare il nuovo assetto degli studi.
I LICEI SPERIMENTALI: IL LUS
Ispirandosi ad esse nacquero delle scuole sperimentali dette di sperimentazione ed innovazioni di ordinamenti e di strutture (di programmi, di gestione collegiale e d’indirizzo) di grande portata che produssero molto ma furono lasciate in un ghetto dallo stesso Ministero, senza che mai i risultati venissero fatti conoscere. Si sperimentò a Rovereto, Milano, Roma ed in tutta la Val d’Aosta). In particolare a Roma si ebbero quattro sperimentazioni, quella detta del Liceo Manin (ex Giulio Cesare), quella del Mamiani, quella del Virgilio e quella detta del Liceo Unitario Sperimentale (LUS) di Via Livenza (poi via Panzini, poi via della Bufalotta)(*).

La sede del liceo Unitario Sperimentale (LUS) all’IRASPS di Via della Bufalotta
A lato di queste nacquero delle sperimentazioni di soli programmi e di loro coordinamento, dette metodologico-didattiche (inserimento di nuove discipline, spostamento di esse, propedeuticità differenti, scuola a tempo pieno, …) che furono certamente importanti ma che, al solito, mancavano di coordinamento centrale al Ministero in modo da riavere poi le informazioni dell’efficacia o dell’insuccesso di determinate scelte. Tralasciando queste ultime sperimentazioni (tra cui l’Istituto clericale per ricche fanciulle, il Pio VII o Assunzione), quelle che più piacevano al Ministero che, contrariamente alle altre, le concedeva con estrema facilità, in quanto per realizzarle sarebbe stato solo sufficiente l’accordo dei vari organi interni della scuola, meritano almeno un cenno gli obiettivi generali che ci si proponeva di conseguire (le cose che seguono sono tratte dal documento che si consegnava alle famiglie di chi si iscriveva per illustrare la nostra scuola, appena 25 anni prima dei ridicoli POF:
Obiettivi generali
1) una formazione il meno possibile nozionistica che abbia un immediato riscontro nella realtà e che dia gli strumenti necessari per una corretta analisi e critica autonoma dalla realtà stessa.
2) Una cultura formativa e unitaria di base che non crei già nella scuola una discriminazione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale.
3) Una scuola che attraverso l’abolizione dei costi (biblioteche scolastiche e di classe, mensa gratuita, ecc.,) arrivi ad essere di massa.
4) Una scuola gestita direttamente da studenti, professori e genitori attraverso la cooperazione di queste tre componenti, coinvolgendo inoltre i rappresentanti del mondo del lavoro e degli enti locali. Rientrare nel distretto scolastico organicamente collegati alla specifica realtà sociale; garantire il collegamento con gli istituti regionali.
5) L’elevazione della scuola dell’obbligo a 16 anni, che prevede un biennio in cui il ragazzo possa rendersi conto delle sue capacità e delle sue attitudini, le quali determinano una scelta più responsabile alla fine del ciclo biennale. Un biennio inoltre che dia una formazione di base necessaria sia a chi si immetterà direttamente nel mercato del lavoro, sia a chi continuerà gli studi. L’unificazione dei vari licei ed istituti secondari, peraltro, non deve portare ad una licealizzazione di tutta l’istruzione, ma deve includere ambedue i momenti di formazione: teorico e pratico.
6) La creazione di un triennio che pure se strutturato per indirizzi specifici sia la logica continuazione del biennio. Il conseguimento di questi scopi dovrà essere ottenuto attraverso contenuti e metodologie adeguati. Uno degli espedienti mistificatori attuati nella scuola tradizionale è la settorializzazione della cultura attraverso la drastica separazione tra le materie, impedendo cosi una visione generale della realtà e non dando capacità di analizzare un fenomeno in tutte le sue sfaccettature. Per impedire che questo si verifichi si è ritenuto giusto inserire nella sperimentazione una forma di studio interdisciplinare che si articola in tre momenti principali: metodologia, contenuti, per problemi. Unificare il metodo di studio internamente alle varie materie è il punto di partenza per una corretta attuazione dell’interdisciplinarietà (questa avverrà attraverso gruppi di studio, seminari, ricerche extrascolastiche, discussioni, relazioni, reperimento di documenti per risalire alle fonti originali).
Perché i contenuti delle varie materie non siano slegati fra loro ci si propone di attuare come primo obiettivo la coincidenza cronologica dei programmi.
Si dovrebbero anche realizzare strutture per corsi monografici su problemi specifici in cui confluiscano varie materie (problemi come: condizione della donna, fascismo, imperialismo, capitalismo, ecc.) Importante fattore nella sperimentazione è il tempo pieno che non sia inteso come prolungamento dell’orario scolastico ma tenga conto della necessità di recuperare ad un livello culturale gli spazi del futuro tempo libero dei ragazzi e contemporaneamente costruisca una didattica aperta alla realtà sociale e culturale. Logicamente nel triennio si lascerà ai ragazzi maggior tempo libero per utilizzare autonomamente quegli strumenti di cui si sono appropriati nel biennio:
L’abolizione dei libri di testo dovrebbe comportare la creazione di una cultura che si basi sullo studio delle fonti originali, su documenti e su libri scelti da una commissione con pari rappresentanti di professori, studenti e genitori.
Tutto ciò per non dare una visione distorta o parziale dell’argomento di studio; da qui nasce la necessità di creare biblioteche di classe e scolastiche.
La valutazione didattica è il bilancio dell’attività complessiva (didattica e gestionale) svolta durante l’anno e del contributo dato da ciascuno al livello della classe. La scheda valutativa conclude un anno ed è la base per la programmazione dell’anno successivo. Essa tiene conto del livello di partenza dello studente ed il suo punto d’arrivo, eliminando la selezione automatica che si basa sul retroterra culturale della famiglia, ecc. Accanto a questa valutazione finale dovrà esservi una verifica continua durante tutto l’anno fra studente e professore, studente e classe, professore e classe.
Nella figura seguente sono riportati gli orari scolastici del LUS:

Gli obiettivi specifici di capacità e comportamenti del LUS erano invece:
Sviluppo di capacità
1) Favorire l’acquisizione e la padronanza del linguaggio e correlativamente sviluppare le capacità di comunicazione in tutte le forme.
2) Acquisizione di una padronanza metodologica sia sul piano teorico che operativo e relativo sviluppo di alcune abilità (manuale) acquisizione di una autonomia nella scelta di schemi di ragionamento.
3) Sviluppo delle capacità logiche di analisi (degli elementi costitutivi e dei rapporti), di sintesi.
4) Sviluppo delle capacità di ripensamento e rielaborazione di quanto acquisito per riapplicarlo in situazioni nuove.
5) Sviluppo della capacità di inter-pretazione e di estrapolazione; sviluppo delle capacità creative.
6) Sviluppo delle capacità critiche al fine di consentire l’analisi problematica delle situazioni e una valutazione personale delle stesse.
Stimolazione di comportamenti
1) Saper lavorare in gruppo, confrontare e verificare le proprie idee con quelle degli altri, ogni forma di cultura con le altre.
2) Saper affrontare correttamente un esperimento scientifico, saper eseguire e interpretare un grafico, ricercare e analizzare le fonti, utilizzare una corretta terminologia specifica, saper costruire schemi di ragionamento alternativi.
3) Saper individuare i presupposti e le implicazioni di una problematica non lasciandosi imprigionare da miti e schemi precostituiti.
4) Saper individuare le strutture e i punti significativi onde affrontarla costruttivamente operando quei collegamenti che impediscono di settorializzare la cultura.
5) Saper interpretare i dati e i risultati di un problema anche formulando ipotesi non necessariamente contenute nei dati.»
6) Sapersi sottrarre alla trasmissione acritica, e dogmatica della cultura, analizzando e confrontando più fonti e i presupposti ideologici che le hanno ispirate.
I piani di lavoro del LUS sono schematicamente riportati di seguito. Naturalmente potevano variare, a seconda delle ricadute sperimentali dell’anno precedente:
Per l’attuazione degli scopi fondamentali che abbiamo enunciato, si procede annualmente alla compilazione di piani di lavoro di classe (che tengono presente la situazione ed il tipo di organizzazione del lavoro della classe), di solito le strutture di base di orari e materie restano invariate per vari anni (per avere una verifica scientifica delle novità introdotte).
Linee indicative per le materie nell’area comune del biennio.
Italiano: Rafforzare negli alunni la conoscenza ed il corretto uso parlato della lingua e dell’espressione scritta; sviluppare capacità logiche di analisi e sintesi: Esercizio continuo del leggere dell’esporre oralmente e per iscritto: Testi letterari del novecento costituiran no lo spunto di questo esercizio di lingua.
– Lingua straniera: La lingua deve assolve re nel biennio alla:
— funzione di strumento di comunicazione e di conoscenza di realtà diverse da quelle d’origine;
— alla funzione di fornire l’abilità di af frontare la lingua nella sua interezza e per saper autogestire ulteriormente l’approfondimento e la pratica della lingua in maniera personale.
– Tecniche grafiche ed espressi ve: conoscenza di base dei vari linguaggi ed anche ovviamente gli strumenti critici necessari per la formazione di un gusto personale: Importante tener presente gli sbocchi professionali nel campo della pubblicità, della grafica ecc., dopo opportuni corsi regionali.
Linee Indicative per l’area opzionale nel biennio.
L’area orientativa ha la funzione di indirizzare gli allievi all’espressione per forme, immagini, gesti: esercitazioni pratiche, visite a mostre e musei, allestimento di mostre fotografiche e di altri grafiche, spettacoli teatrali, esperimenti di animazione, e-sercitazioni musicali: Per ciò che riguarda il teatro si dovrebbe centrare l’attenzione degli studenti sul concetto di fisicità, di movimento, del coordinamento gesto-parola. Per la fotografia, oltre all’apprendimento delle nozioni base per l’utilizzazione di questo mezzo, si parlerà delle varie applicazioni della fotografia nei vari campi professionali. Considerato che si vive in un mondo sempre più dominato dall’immagine, si tratterà quindi di sviluppare capacità creative e di gusto, sia come fruitore, che come produttore di immagini:
– Storia: Si svolge sui documenti dopo una relazione introduttiva che via via fornisce il quadro in cui muoversi. Si approfondirà il periodo compreso tra le due guerre mondiali e quello, fino ai giorni nostri.
– Scienze sociali ed economia: Comprensione dei fenomeni e dei problemi sociali più rilevanti della nostra società: E’ importante legare lo studio teorico alla ricerca sul campo o nell’ambiente socio-economico in cui è inserita l’esperienza scolastica.
– Civiltà classica: Obiettivo principale è la conoscenza delle nostre radici economi-che-filosofiche-culturali passate, togliendo a questa disciplina quel carattere di élite che ha avuto fin’ora.
– Scienze Integrate: I corsi comprendono fisica, chimica, scienze biologiche, con e-sercitazioni di laboratorio, ed hanno come obiettivo l’acquisizione di un metodo d’indagine e della sua utilizzazione nei vari campi della scienza:
– Matematica: «scoperta» delle principali strutture e concetti matematici come strumento d’interpretazione della realtà, l’acquisizione di un linguaggio formalizzato e rigoroso.
Organizzazione gestionale (partecipazione di base e pariteticità)
Il carattere repressivo dei decreti delegati, tendente a dominare il movimento degli studenti attraverso una sviluppata rete burocratica (basata sul concetto di delega) si dimostra ancor più ridicolo all’interno dei licei sperimentali, dove, pur rappresentando un passo indietro, vengono ugualmente imposti. Il L.U.S., volendo da una parte collegarsi alla realtà complessiva della scuola, e dall’altra non rinunciando al patrimonio di esperienze acquisite, ha proposto una serie di modifiche in seno alla legge, in favore di una maggiore partecipazione degli studenti e una partecipazione più democratica in generale, .(inutile dire che il ministero è stato contrario): I punti principali sono:
1) Ruolo di dibattito e di controllo democratico dell’assemblea generale (delle 3 componenti) sui problemi complessivi della
scuola e della verifica che essa compie sull’operato di tutti gli organi di gestione (Compreso il consiglio d’istituto).
2) Partecipazione paritetica delle tre componenti nel Consiglio d’Istituto e in quello di classe (e nelle altre strutture).
3) Decentramento di alcune mansioni rispetto ad alcuni compiti relativi al funzionamento interno della scuola, in apposite formazioni (Commissioni) che prevedono elezioni interne, con partecipazione paritetica delle tre componenti. Per quest’anno ne sono previste sette:
Commissione biblioteca: (funzionamento della biblioteca, scelta dei libri da comprare secondo le esigenze espresse dai consigli di classe; si muoverà tenendo conto di una prossima apertura della scuola al quartiere)
Commissione tecnica didattica: decide e comunica i tempi delle assemblee richieste dagli studenti, evitando che si accavallino, ad altri collettivi o riunioni. Si occupa delle supplenze, degli avvisi interni e comunica le attività esterne (dibattiti incontri conferenze). Gestisce il ciclostile. Partecipano 10 membri per componente.
Commissione per i laboratori: bada al materiale e prepara esperienze per le singole classi.
Commissione redazione. La sua funzione principale è di propagandare questa sperimentazione e raccogliere materiale sulle altre esperienze per dare anche la base a rapporti che si devono aprire con queste. Elabora documenti sulla sperimentazione, raccoglie e pubblicizza gli o.d.g., I verbali, i documenti finali di tutte le commissioni, consigli di classe, consigli d’istituto, assemblee.
Commissione coordinamento consigli di classe, formula l’orario generale e controlla orari, piani di studio e d’insegnamento dei singoli. (7 membri per componente).
Commissione rapporti con l’esterno, altre scuole, enti locali, consigli di zona, di quartiere, di fabbrica. Promuove anche attività esterne proposte dai singoli o dalle classi (6 membri p.c.)
Commissione per la cassa scolastica: Bilancio e gestione dei fondi, deve pubblicizzare il bilancio e raccogliere le richieste provenienti dalle classi, le altre commissioni, l’assemblea ecc. (4 membri P.C.).
Per quanto riguarda la composizione del consiglio d’istituto, la proposta è: 8 rappresentanti per componente, un rappresentante sindacale, uno non insegnante. Le sue funzioni gestionali devono seguire scrupolosamente le indicazioni dello statuto. Questo statuto regolarmente viene redatto ogni anno da una apposita commissione (di studenti, prof. e genitori), scopi principali sono: difesa della sperimentazione, garanzia di democrazia, difesa delle condizioni di studio e di lavoro e del diritto allo studio; regola quindi le assenze, le commissioni, gli spazi politici (assemblee, collettivi ecc: non sono considerati assenze): Deve essere approvato dall’assemblea.
I compiti didattici sono di competenza dei consigli di classe (cioè tutti i docenti + tutti gli studenti + i genitori per ogni studente, di una classe, + il preside) che all’inizio di ogni anno elabora un documento programmatico in cui sono contenuti i seguenti punti:
a) L’identificazione dei problemi che si intende affrontare;
b) la formulazione scientifica dell’ipotesi di lavoro;
e) l’individuazione degli strumenti e delle condizioni organizzative;
d) la descrizione dei procedimenti metodologici delle varie fasi della sperimentazione:
e) le modalità di verifica dei risultati;
f) I elaborazione dei programmi didattici dei quali cura la realizzazione interdisci-plinare, fatta salva la libertà di insegnamento individuale nell’ambito del piano generale di programmazione didattica.
Come e quando nasce questo liceo? (usavamo comunicare a chi si iscriveva le vicende attraverso le quali nasceva il nostro liceo, ndr)
Nel 70 un gruppo di genitori e professori di matrice montessoriana tentano di creare un liceo nuovo in alternativa a quello tradizionale, che dia più spazio alla partecipazione degli studenti, per la ricerca e la verifica di
nuove metodologie didattiche e di gestione, con lo scopo di ottenere anche una maggiore crescita sociale e politica dei partecipanti. Coerentemente con la volontà politica di chi ha decretato la sperimentazione, la vita del L.U.S. (liceo unitario sperimentale, Bufalotta) è stata parecchio movimentata. Nasce in una sede provvisoria a Via Livenza, in quattro aule prestate da una scuola magistrale; nel 72 si trasferisce in una palazzina inadatta ad ospitare una scuola, in Via Panzini (Montesacro alto). Nel 73 si apre la sezione distaccata a Via India (Villaggio Olimpico) in 5 aule prestate dal Liceo Lucrezio Caro.
Il 6 Maggio 74 la sede centrale di Via Panzini è dichiarata inagibile, non si può terminare l’anno. Intanto la preside che per quattro anni aveva seguito e partecipato alla sperimentazione, veniva trasferita, ed oltre metà dei professori non venivano riconfermati nei loro incarichi. Si decide di occupare una palazzina dell’IRASPS (ente regionale) al settimo chilometro di Via della Bufalotta; il tipo di organizzazione interna e di contatti con le realtà sociali, l’appoggio delle forze politiche e sindacali (circoscrizione e zona) fecero sì che la lotta fosse vincente. Durante il periodo dell’occupazione l’attività didattica non è stata interrotta, ma portata avanti autogestendola compatibilmente alle circostanze. Questa situazione che poteva essere estremamente disgregante ha invece rappresentato un momento di crescita e di verifica dell’organizzazione interna.
L’occupazione è partita nell’ottobre 74 e terminata a febbraio 75, quando i locali sono stati ufficialmente riconosciuti sede del L.U.S.
Bisogna dire che nell’effettiva realizzazione dei programmi si possono rilevare molte lacune, sia per i fattori esterni di cui si è già parlato, sia perché sarebbe impensabile una totale presa di cosciènza e chiarezza politica da .parte di un cosi ristretto gruppo di studenti abbastanza isolati dal resto dell’istituzione. Cosicché quando si è proceduto ad applicare i principi enunciati, si sono ottenuti risultati molto interessanti, ma non un metodo lineare ed organico. Le commissioni, importanti e ben strutturate, non sono però costantemente funzionanti. Sicuramente l’abitudine a collaborare tutti alla modifica ed al miglioramento del progetto, è una conquista acquisita, che paga molte delle gravi carenze di questa scuola, permette cioè di superarle.. Quest’abitudine esce anche dall’ambito scolastico e si proietta nel sociale: c’è un’alta percentuale di studenti e professori politicizzati, circa il 50%; se consideriamo però che questa deve essere la scuola di domani, è ancora troppo poco. Anche qui, come negli altri sperimentali, è presente un certo scetticismo rispetto all’utilità della sperimentazione che si rivela in periodi di forte assenteismo sia dei professori che degli studenti. Bisogna altresì tenere presente la composizione sociale di questa scuola (media e alta borghesia) per capire alcuni atteggiamenti di ripiego che si verificano, per esempio l’anno scorso per i primi esami di maturità che lo sperimentale si trovava ad affrontare, c’è stato un forte ricorso alle ripetizioni private. La richiesta degli studenti si indirizza comunque a far i diventare questa una scuola di quartiere (Monte Sacro Alto, Tufello, Valmelaina) che ne rispecchi quindi la composizione sociale.
Uno dei prossimi obiettivi è l’utilizzazione degli altri locali dell’IRASPS per altre scuole ed un asilo nido.
La Commissione Biasini stimola tutte le forze politiche ad occuparsi di scuola che, come abbiamo già detto, è diventato un problema molto sentito dalle forze sociali. A partire dal 1972 i vari partiti iniziano con il presentare dei progetti di legge al Parlamento. Inizia il PCI nel 1972 (progetto che decadrà per la caduta del governo e che sarà ripresentato alla ricostituzione del nuovo governo). Segue un progetto del Ministro Scalfaro (DC) del 1973. Vi è un documento sulla riforma della scuola del Ministro Malfatti (1973-1974). Infine, nell’estate del 1975 (governo Moro), vengono presentati i progetti di legge di DC, PSI, PSDI, PRI, PCI, MSI. Insomma è un fervore di iniziative. Tra queste ve ne sono alcune che sono molto avanzate che, confluendo tra loro, con qualche limatura, potevano dare una scuola moderna ed avanzata. A mio giudizio e di coloro che operavano negli sperimentali erano parzialmente condivisibili molte parti dei progetti PSI, PCI e PRI che presentavano differenze appianabili.
Tutto decadde alla caduta del governo Moro e da quel momento l’instabilità politica divenne cronica. Non fu più possibile presentare progetti organici di riforma. Debbono passare una decina d’anni(**) per avere una iniziativa di grande rilievo, quella della Commissione Brocca (dal nome del sottosegretario alla Pubblica Istruzione che coordinò la commissione ministeriale autrice del progetto), istituita nel 1988 (Ministro Galloni, governo De Mita). All’inizio la commissione Brocca ricevette da Galloni il mandato di “revisionare” i programmi dei primi due anni della secondaria superiore, in vista del prolungamento dell’istruzione obbligatoria al sedicesimo anno d’età. Nel 1989 si ebbe l’elaborazione dell’area comune del biennio. Nel 1991 il mandato fu esteso ai piani di studio del triennio.
Nel 1994 la commissione, che aveva lavorato in realtà all’obiettivo assai più ambizioso di rinnovare sia l’ordinamento, sia i curricula della secondaria superiore, concludeva i suoi lavori. Insomma la Commissione trascende l’ambito ristretto dei compiti iniziali per proporre un complesso di cambiamenti che ambiscono essere riforma.
Vediamo in breve cosa è stata la Commissione Brocca e quali cambiamenti ha comportato. Furono pubblicati due ponderosi volumi e fu possibile, da quel momento, iniziare a chiedere (ed ottenere con una certa facilità) al MPI la possibilità di sperimentare la ‘riforma Brocca’. Mancava qualche dettaglio e la riforma sarebbe passata ma Tangentopoli fece cadere quei governi e di nuovo ci siamo trovati a piedi (con molte scuole che, ancora oggi, portano avanti la sperimentazione Brocca, con a lato altre che sperimentano informatica, ed altre che…). Caratteristica non condivisibile, dal mio e molti altri punti di vista, della riforma Brocca era il fatto che si erano costruiti dei programmi disciplinari esaustivi (tutto lo scibile). Vi era dentro tutto lo scibile ed erano profondamente non realistici rispetto alla situazione che si viveva e vive nelle scuole. Inoltre un altro pezzo che aveva lasciato l’amaro in bocca era la comparsa delle lobby e delle associazioni professionali: ognuna di queste arrivava per fare il mercato delle vacche sul numero delle ore da assegnare ad una data disciplina. Forti si dimostrarono, in ambito scientifico, le lobby dei chimici, dei geografi,….molto meno quella dei fisici.
Vediamo cosa prevedeva il progetto Brocca, iniziando dal primo ponderoso volume dei suoi lavori, quello dedicato al biennio. Il principio a cui ci si ispira è quello di costruire una sorta di continuità con la riforma della scuola media del 1962, puntando sulla centralità non dei programmi, ma dello studente. Ne discende il tentativo di costruire un sapere comune, che va assicurato a tutti, per consentire a tutti di accedere a uno strumentario di base. Pertanto si disegna un biennio unico a tutti i tipi di scuola con alcune discipline comuni (22 ore complessive alla settimana) ed altre di indirizzo (12 ore a settimana) che in qualche modo servono a determinare la scelta del proseguimento degli studi da parte dello studente.
Le discipline comuni sono:religione, italiano, lingua straniera, storia, diritto ed economia, matematica e informatica, scienze della terra, biologia, educazione fisica. Gli indirizzi possibili, a seconda dei quali si faranno le 12 ore di indirizzo sono: classico, linguistico, socio-pedagogico, scientifico, tecnologico, economico, artistico, professionale.
Nel secondo volume del progetto Brocca, quello dedicato ai trienni, ancora più ponderoso del primo, si nota la difficoltà del problema di doversi sbarazzare di una pletora di indirizzi che si sono accumulati negli anni per le scuole professionali e, soprattutto, per gli Istituti Tecnici Industriali (ITIS). A questa situazione davvero insostenibile Brocca propone l’alternativa di un triennio che prevedesse, complessivamente, solo in una ventina di sbocchi o licei. L’insostenibilità della situazione discende dalla rigidità dell’organizzazione scolastica. Nei 45 anni a governo democristiano, ogni minima richiesta dell’industria per un tipo di specializzazione veniva pedissequamente eseguita senza mai porsi il problema complessivo del raccordo e/o integrazione con specializzazioni già esistenti. Così, stancamente ed acriticamente si era arrivati ad accumulare cose su altre anche obsolete. La burocrazia ministeriale fatta di incompetenti direttori generali non aveva mai detto nulla e tutto si trascinava. Inoltre vi era il solito vizio culturale, tipico di chi non ha riguardo per i lavoratori. Io oggi voglio uno che sappia fare questo. Ed il Ministero lo fornisce. Oggi questa persona non mi serve più dice il padrone, perché è cambiato il modo di produzione … e l’intera società ne prende semplicemente atto. A questo vero sfregio si accompagnano le prediche del tipo: serve flessibilità! E dietro la predica vi è il solito imbroglio: dove serve la flessibilità, in entrata o in uscita ? Serve cioè un lavoratore che sia in grado di essere flessibile per cambiare il suo modo di produrre ed essere in fabbrica, o serve una organizzazione del lavoro flessibile che permette ai padroni di assumere per breve tempo e poi licenziare quando quel lavoratore è obsoleto ? Dalle parti nostre si è scelta la seconda strada in accordo con il fatto che noi vediamo sempre la fine di un discorso perché usiamo scambiare cause con effetti. A nessuno è mai venuto in mente di operare non fornendo preparazioni specialistiche e rigide (come erano gli ITIS di qualche anno fa) ma fornendo una preparazione elastica che prevedesse la capacità dell’autoaggiornamento nel momento del bisogno.
In questo senso ed in linea di principio (le cose in Italia sono sempre messe insieme nel tempo, tempo nel quale accade di tutto e le eventuali buone intenzioni muoiono all’alba del giorno dopo), la riduzione delle uscite triennali a 20 (ma anche meno) è una ottima iniziativa. Queste uscite, gli indirizzi, sono: classico, linguistico, socio-psico-pedagogico, scientifico, scientifico-tecnologico, chimico, elettrotecnico, informatico-telecomunicazioni, meccanico, tessile, costruzioni, territorio, agro-industriale, biologico, economico-aziendale linguistico-aziendale, trasporti, turistico, artistico-beni culturali, artistico-composizione artistico-comunicazioni.
Nel triennio Brocca, in analogia con il biennio, vengono mantenute le materie comuni (fra cui filosofia presente in tutti i trienni) e le materie di indirizzo. Ed ora si passa a circa il 50% delle une e delle altre. In pratica e per la prima volta si costruisce una scuola secondaria di secondo grado che ha pari dignità per ogni indirizzo.
Le critiche non mancheranno. Si dirà che tale scuola non è professionalizzante, che è una liceizzazione e che è sbilanciata in senso umanistico. Ma a questo rispondeva lo stesso progetto perché prevedeva una delega per la successiva costruzione di uno o massimo due anni strettamente professionalizzanti (segmento formativo post-scolastico), a livello parauniversitario.
Nel 1991, per la parte concernente il biennio, il progetto aveva iniziato ad essere sperimentato in molte scuole (la cosa, come spero aver mostrato parlando degli sperimentali post Frascati, non è mai di buon auspicio in Italia dove sperimentare non vuol dire nulla perché nessuno raccoglie gli esiti di tali sperimentazioni). Nel 1993 si iniziava a sperimentare anche il triennio. Nell’anno scolastico 1994/95 questa riforma virtuale si bloccava per il fatto che la burocrazia ministeriale non convalidava i titoli, ma continuava a dare il titolo della vecchia scuola (se ad esempio ci si scriveva presso un liceo scientifico all’indirizzo Brocca informatico- telecomunicazioni, alla fine del corso, pur facendo esami specifici, si riceveva un diploma di liceo scientifico senza altra specificazione. Solo per dire che in Italia una questione amministrativo burocratica può fermare anche la Rivoluzione). Così molte scuole non chiesero più la sperimentazione, sommerse dalle proteste delle famiglie e degli studenti che avevano investito in buona fede in un certo modo (comunque nell’anno scolastico 1994/95 vi erano in corso 761 sperimentazioni, così ripartite: 578 istituti dell’istruzione classica, scientifica e magistrale, 183 istituti dell’istruzione tecnica ed progetto Brocca si è trasformato in una sperimentazione come tante, malgrado la Commissione fosse stata incaricata di una revisione complessiva del sistema scolastico superiore. L’unico effetto permanente che essa ha prodotto è di natura amministrativa, non politica: la Direzione Tecnica e quella Professionale del Ministero decidevano d’ufficio di istituzionalizzare il biennio Brocca nei rispettivi comparti (istruzione professionale, istruzione tecnico-industriale, biennio ex sperimentazione Igea).
Una importantissima riforma riguardò la scuola elementare (DPR n. 104) con i Nuovi Programmi Didattici del 1985 (Ministro Falcucci) ai quali seguì la vera e propria riforma che vide la luce nel 1990 (Legge 148). Il metodo è sempre deprecabile: non si coinvolgono mai gli insegnanti, neppure a livelli di serio aggiornamento, ma tutto precipita dall’alto (a chi si lamenta dell’assenza dei pedagogisti, conoscendo quelli che circolano sia a destra che a sinistra come vedremo nella Terza parte del lavoro, rispondo che questa è stata una vera fortuna). L’aspetto rilevante della Riforma fu l’introduzione dei moduli ed il mantenimento del tempo pieno (chiamato prolungato) frutto della mediazione tra chi lo voleva togliere (Falcucci) e chi lo voleva mantenere (la deputata comunista Romana Bianchi Beretta).
Le innovazioni introdotte dalla Legge possono essere schematicamente riassunte nelle seguenti:
A) organizzazione del curricolo per ambiti disciplinari e istituzione del “modulo”:
la funzione docente e l’organizzazione del lavoro didattico cambiano poiché scompare l’insegnante unico per lasciare il posto ad un modello organizzativo e didattico modulare con l’assegnazione di tre insegnanti su due classi quando possibile e di quattro insegnanti su tre classi negli altri casi.
B) istituzione del tempo prolungato:
La legge istituisce un tempo lungo di 30 ore settimanali più la permanenza del tempo pieno dove é istituito (40 ore con mensa ed interscuola). Su questo punto lo scontro a livello parlamentare é stato molto duro, con una DC che voleva un orario breve e antimeridiano con il falso scopo di tutelare la funzione educativa delle famiglie e con il vero fine che era quello di far preferire alle famiglie di chi lavora per l’intera giornata scuole a tempo pieno confessionali; e con il PCI che si battevano per un vero tempo pieno, anche pomeridiano. L’orario destinato alle attività didattiche deve essere di 27 ore settimanali elevabili fino a 30 con l’inserimento della lingua straniera; tale orario va distribuito in cinque o sei giorni e ripartito tra mattino e pomeriggio. Nelle classi che si sono mantenute a tempo pieno tale orario arriva a 40 ore. A decorrere dall’anno scolastico 1990-91 potranno realizzarsi, su richiesta delle famiglie, anche per gruppi di alunni di classi diverse, attività di arricchimento e di integrazione degli insegnamenti curricolari”.
C) programmazione educativa e didattica in rapporto al gruppo docente:
l’impianto organizzativo è il seguente:
- la collegialità della programmazione dell’azione educativa e dell’attività didattica;
- le modalità di assegnazione degli insegnanti al modulo e l’affidamento, da parte del Direttore Didattico, degli ambiti disciplinari, attraverso una procedura di ottimizzazione delle risorse umane, basata sulle competenze ed esperienze, patrimonio dei singoli docenti;
- l’aggregazione delle discipline in ambiti disciplinari sulla base di criteri stabiliti dal Ministro;
- la contitolarità e la corresponsabilità collegiale di singoli insegnanti anche nel momento della valutazione;
- la valorizzazione delle competenze e delle esperienze professionali;
- la continuità e la rotazione degli insegnanti nel tempo.
Per il primo ciclo, “per favorire l’impostazione unitaria e predisciplinare dei programmi, la specifica articolazione del modulo organizzativo (…) è, di norma, tale da consentire una maggiore presenza temporale di un singolo insegnante in ognuna delle classi”. Ma la quasi totalità dei collegi docenti italiani, che avevano la facoltà di scegliere, ha optato per un modello di contitolarità paritaria, basato su una distribuzione dell’orario più equilibrata in tutte le classi al fine di evitare la maggiore importanza tradizionalmente attribuita a certe discipline.
Anche i programmi (quelli del 1985) meritano un cenno perché sono molto innovativi sia per l’impostazione, sia per l’autonomia che riconoscono sul piano dei contenuti disciplinari ad argomenti che in precedenza figuravano solo all’interno dei programmi di altre discipline, come le scienze naturali, gli studi sociali, l’educazione al suono e alla musica. Per quanto riguarda l’organizzazione didattica, è confermata l’articolazione in due cicli, introdotta con i programmi del 1955 e approvata da un’apposita legge nel 1957. Il primo ciclo comprende la prima e la seconda classe, il secondo comprende le classi successive. È stato invece abolito nel 1977 l’esame di passaggio dal primo al secondo ciclo. In considerazione dei ritmi di crescita individuale è prevista la possibilità di scansioni diverse nell’arco del quinquennio. Le disciplinesono: lingua italiana; lingua straniera (a partire dal secondo anno); matematica; scienze; storia-geografia-studi sociali; religione; educazione all’immagine; educazione al suono e alla musica; educazione motoria.
Il Collegio dei docenti definisce i tempi settimanali massimi da attribuire alle singole discipline; elabora indicazioni sul modo di organizzare i tempi di compresenza degli insegnanti; mira a un arricchimento dell’offerta formativa e all’insegnamento individualizzato; individua i criteri generali per orientare le decisioni dei gruppi docenti sull’alternanza degli insegnanti e delle attività, sulla distribuzione equilibrata dei carichi cognitivi, sulla valorizzazione dei momenti di accoglienza e di relazione.
Non esistono più voti numerici né pagelle dall’anno scolastico 1978-79, aboliti insieme agli esami di riparazione. La scheda di valutazione illustra lo sviluppo e la personalità dell’alunno. La ripetenza è riservata ai casi eccezionali.
Ma un’altra riforma, questa volta riguardante la scuola secondaria superiore, è apparsa sulla scena, una vera ’riforma’, la più devastante. Viene fatta dal ministro D’Onofrio del primo governo Berlusconi (1994). Con un decretino si aboliscono gli esami di riparazione. Se uno studente risulta insufficiente in modo non grave (?) in un numero ragionevole (?) di materie, potrà essere promosso con dei 6 rossi (o con circoletto) sui tabelloni finali. Egli dovrà recuperare le sue insufficienze nell’anno seguente (non viene specificato come). Così nasce la garanzia alla promozione per uno studente che, ad esempio, decida in un liceo scientifico di non studiare mai matematica e fisica. La strada già abbondantemente aperta alla dequalificazione, diventa ora una autostrada. A questo tentativo di svilimento ed alla tendenza proveniente da più parti di intervenire in modo cialtrone, sul finire degli anni 80, vi è una reazione importante (La Repubblica, 28 settembre 1988), un articolo che merita grande attenzione perché è del futuro Ministro della Pubblica Istruzione, Luigi Berlinguer, primo ministro ex comunista al governo. Nell’articolo, dal titolo Quei professori, guardiani del faro, si dice:
“Ho vissuto momenti di intensa emozione domenica scorsa a Bologna, alla cerimonia conclusiva delle celebrazioni del nono centenario e alla firma della carta delle università europee. C’era l’alta accademia di tutto il mondo, quella mattina, nella mirabile cornice di Piazza Maggiore. I più qualificati rappresentanti istituzionali della cultura e della scienza mondiali, ivi convenuti, erano testimonianza tangibile della sovranazionalità del sapere, ed intenso veicolo anche per i nostri appuntamenti di integrazione europea.
È stato un solenne messaggio di grande valore morale. Il rigore e la severità degli studi hanno così parlato al paese, hanno ribadito la pregnanza civile e la valenza economica dell’università per una società moderna, le sue esigenze di libertà e di autonomia, l’imprescindibile necessità che uno stato che si rispetti destini ad essa le risorse necessarie, anche ingenti, per tutelarne – appunto – libertà ed autonomia.
Mi sono domandato se tutti gli ambienti politici hanno presente questa verità divenuta ormai elementare: se si vuole crescere economicamente, oggi, bisogna investire in ricerca e insegnamento, nell’università e nella scuola, che sono ormai risorse primarie della società. Nel nostro governo mi pare che si manifestino invece tendenze opposte. Singolare davvero, quando si osserva la crescita di consapevolezza della Confindustria in proposito, più volte presente nei discorsi dell’ing. Lombardi e dello stesso avv. Agnelli in questi giorni proprio a Bologna. Al contrario, mi addolora profondamente constatare da tempo la caduta di sensibilità del movimento sindacale ed il suo lungo silenzio su questo tema.
Eppure è chiaro ai più che, per crescere, una società deve investire nell’università e nella scuola; deve sostenere materialmente e moralmente i loro operatori nello svolgimento del delicato compito di studiare ed insegnare. L’attività educativa è praticamente impossibile senza vocazione e motivazione. Non ci si può dedicare all’insegnamento con animo distratto o rassegnato, con la sensazione di essere tollerati o – peggio – combattuti. È regola politica elementare adottare tutte le misure possibili perché i docenti siano motivati nel proprio lavoro formativo, nell’espletamento di questo servizio così indispensabile al paese.
Che cosa sta succedendo invece? Qualche mese fa, in margine all’agitazione degli insegnanti della scuola secondaria per ottenere un adeguato riconoscimento retributivo, si è scatenato un vero e proprio linciaggio della categoria, additata al generale ludibrio solo perché non più rassegnata a tollerare stipendi vergognosi. Si è persino pensato di caricare sul paese intero un’imposta ad hoc per pagare gli aumenti retributivi agli insegnanti, rei in tal modo di aggravare con la loro ingordigia il carico fiscale degli italiani. E poi si è detto che si vuole spedire un po’ di professori a fare i bagnini o i guardiani dei fari.
Di recente sono ripartite – con più virulenza che mai – le fantasie sulla “privatizzazione”, ammantate di modernismo e celate dietro un inaccettabile disfattismo sul presunto sfascio della scuola pubblica. Si confonde autonomia con privato, quasi che il concetto autonomia non fosse un concetto anche e corposamente pubblicistico. Si rimette in discussione il patto costituzionale che cattolici e laici democratici hanno stipulato per impegnarsi nella qualificazione e nelle garanzie pluralistiche della scuola pubblica. Si diffonde l’insana illusione che la salvezza educativa del paese sia nelle mani dell’efficienza di novelli managers privati (che tutti sanno abilissimi nell’attingere continuamente ai fondi dello Stato). Ora poi si racconta che le università – sprecone e inconcludenti – devono procacciarsi da sé i mezzi per lavorare, stravolgendo così una grande tradizione e valori radicati nella storia d’Europa, che hanno fatto libera (e per questo grande) la nostra ricerca. Reaganismo e confessionalismo d’accatto.
Sono solo alcuni esempi di una martellante campagna demolitrice che penetra insidiosamente nell’opinione pubblica con esiti infausti, di cui mi domando quanti suoi promotori siano consapevoli. Si provocano così sconforto e demotivazione fra i docenti, e se ne piangeranno le conseguenze. Comprendo che tutta questa bagarre fa parte di un gioco tattico di punzecchiamento fra i due maggiori partners rivali di governo, ma non posso fare a meno di notare che questo disinvolto strumentalismo rischia di sconvolgere i valori fondamentali della moderna convivenza sociale e dello Stato. Intollerabile.
Il delicato equilibrio su cui si fonda la funzione educativa non può reggere colpi d’ascia né diversivi così rozzi. Esso richiede al contrario che si ponga mano ai molti ed urgenti interventi di cui ha da tempo bisogno. In campo universitario la risposta più urgente è affidata anzitutto ad una rapida definizione legislativa del quadro istituzionale-ministeriale, che sarebbe assai negativo per l’università se tardasse ulteriormente nel suo cammino parlamentare. Ma è affidata anche ad una ben più cospicua disponibilità di risorse pubbliche, e insieme alla corretta disciplina dell’autonomia che responsabilizzi gli amministratori circa i risultati conseguiti, soprattutto di fronte all’opinione pubblica scientifica.
In campo scolastico, va ricordato che il nostro livello è complessivamente sulla media europea. Non mancano tuttavia varie urgenze ormai improcrastinabili, tra le quali segnalerei due carenze a mio avviso di particolare rilievo: l’educazione scientifica e le lingue straniere. Credo che su questi due fronti ci si dovrebbe impegnare con particolare decisione e tempestività, specie in vista del traguardo europeo, per superare un difetto tradizionale della nostra scuola. Le nostre istituzioni educative sono gravemente carenti di cultura e pratica sperimentale e con esse di attrezzature, laboratori, di sostegno tecnico, capaci di diffondere adeguatamente la conoscenza scientifica e quella strumentale delle lingue straniere moderne, in un’azione che non si limiti all’insegnamento tradizionale e scolastico, ma coinvolga gli studenti con adeguate metodologie sperimentali e di diretto apprendimento.
Ho fatto solo alcuni esempi di contenuto fra i tanti che si potrebbero fare, per affacciare in concreto un terreno costruttivo di azione politica per la scuola, senza diversivi e senza diffondere scoramento e demotivazione.”
Si tenga a mente quanto qui scritto quando, nella Terza ed ultima parte di questo lavoro, parleremo delle riforme Berlinguer e Bassanini.
NOTE
(*) La scuola di Via Livenza per me ha rappresentato un momento importante di crescita per aver lavorato in essa per vari anni, fino a quando non fu chiusa d’autorità con un decreto del ministro Malfatti. Essa, nasceva sotto la spinta della Signora Eleonora Moro, moglie di Aldo Moro e Presidente della sezione romana dell’Opera Nazionale Montessori. Molto in breve, i ragazzi che uscivano dalle medie Montessori erano sbandati in corsi normali e la Signora Moro riuscì (e come no?), approfittando del fervore che discendeva dalle riunioni di Frascati, a farsi aprire uno sbocco sperimentale (non solo di metodi e contenuti ma anche di gestione, di tipo di indirizzo scolastico ed addirittura di nuove cattedre con la tanto auspicata separazione dell’insegnamento della matematica da quello della fisica) proprio come sperimentazione delle enunciazioni di Villa Falconieri. La prima sede fu trovata in alcuni locali di un’altra scuola magistrale che si trovava in Via Livenza. Poi la scuola crebbe e ci siamo dovuti trasferire a Via Panzini. La gestione era di una collega di lettere, Anna Maia Perrone Pecchia, che sapeva ben organizzare un gruppo di insegnanti, quasi tutti giovani e scelti (potenza di Moro) al di fuori di ogni graduatoria per meriti legati alla ricerca didattica negli Istituti universitari di Roma. A Via Panzini (Montesacro) la scuola iniziò a sfuggire di mano alla Signora Moro e divenne una scuola avanzatissima innanzitutto in termini di gestione democratica e quindi in termini di materie e programmi di studio. La signora Moro non gradiva e fece una serie di operazioni che dovevano farci morire. La prima fu il licenziamento dell’ottima nostra coordinatrice, Anna Maria Perrone Pecchia (una collega di lettere); e la seconda fu il far dichiarare non agibile l’edificio di Via Panzini. Tutte le componenti della scuola non si scoraggiarono: ci si mise materialmente (girando con motorini ed auto) alla ricerca di un luogo dove continuare la nostra scuola. Individuammo in Via della Bufalotta, al chilometro 7, un vecchio edificio di un ente regionale che era stato sede prima di un manicomio e quindi di un ospizio per anziani. Era in mezzo ai campi, abbandonato e diroccato. Mancavano infissi, bagni, luce, acqua, riscaldamento ed ogni suppellettile. Con il lavoro cooperativo di tutti lo rimettemmo su e iniziammo a lavorare lì (ricordo la ricerca affannosa di un punto corrente con un voltmetro; lo trovammo in una cassetta per la pubblica illuminazione e ci attaccammo senza alcun permesso. Durò qualche anno, finché Malfatti, l’allora ministro della Pubblica Istruzione, della stessa corrente della Signora Moro, fanfaniana, decretò la definitiva chiusura di questa sperimentazione. Purtroppo il ministero non ha mai pubblicato le migliaia di pagine di relazioni sul nostro lavoro e raccontare quella scuola è oggi inutile supposto che una sola persona lo sappia fare. Personalmente ho un migliaio di pagine dei documenti che si preparavano. Leggo oggi quei progetti che sperimentavamo e mi sembrano ancora avanzati, molto di più di quanto non sia la scuola di Berlinguer (neppure parlo delle vergogne Moratti).
Questa scuola ebbe un grande successo tanto che si dovette sdoppiare in una succursale. L’altra scuola sperimentale di Roma che ho conosciuto bene, quella di Via Manin, era annessa ad una scuola media nell’edificio che è anche del Liceo Classico Albertelli. Lavorava come noi, come noi faceva relazioni infinite per il Ministero che non ha mai pubblicato nulla.
Fummo noi ad iniziare la gestione collegiale. La inventammo noi con la sola differenza che la composizione era paritaria (1/3 insegnanti, 1/3 genitori, 1/3 studenti) e le decisioni di tale Consiglio d’Istituto diventavano operative immediatamente. Noi aprimmo, insieme al liceo classico e scientifico, il liceo magistrale, il liceo linguistico, il liceo tecnologico. Noi inventammo discipline, costruimmo dispense, organizzammo laboratori. Era una grande impresa collettiva. L’insegnamento frontale era di 14 ore. L’impegno scolastico era continuo, comprendendo la notte, quando si facevano assemblee su questioni delicate come la droga che all’epoca iniziava ad ammazzare in giro per l’Italia. Ricordo un solo episodio che mi riguardò e che ben descrive l’arroganza, l’ignoranza e l’ipocrisia del potere. Noi avevamo già costruito i nostri organi collegiali, quando arrivarono quelli varati dal governo. Io proposi di continuare a gestire la cosa come avevamo fatto, comunicandolo al Ministero ed aprendo un fronte di contestazione. L’onorevole Battaglia (repubblicano) disse che noi dovevamo dire al Ministero che accettavamo le norme di legge e poi, tra noi, arrangiarci come avevamo sempre fatto. Io risposi che non avrei mai accettato tale cosa. Se si accettava la legge, doveva essere quella la cosa che noi dovevamo adottare (con la conseguenza che molti genitori e studenti uscivano dalla gestione che diventava maggioritaria degli insegnanti). Il Battaglia dovette rassegnarsi ma fece mettere a verbale questa frase che dettò: Renzetti è un giacobino! Altre discussioni dure le ebbi con l’onorevole Eugenio Peggio del PCI. Quando parlavo di scuola di classe, l’economista comunista rispondendomi con sufficienza e derisione mi diceva di quale scuola di classe parlassi in un Paese ricco come l’Italia (mancava solo l’elenco dei telefonini che fa Berlusconi, per avere un quadro idilliaco). Ricordo anche che quando si preparava il decreto di chiusura, organizzammo una manifestazione al quartiere Montesacro che raccolse migliaia di persone e riuscì a collegarsi con i lavoratori del quartiere, tanto che invitarono a parlare un nostro rappresentante ad un loro sciopero.
Quando queste scuole furono chiuse, si disperse un importante capitale di esperienze che servì probabilmente a seminare qualcosa in altre scuole.
(**) Nel 1975 si modificano gli organi collegiali. Nel 1977 si modifica la scuola media unica e si dettano nuove norme per la valutazione, con l’abolizione degli esami di riparazione per la scuola elementare e per la scuola media. Si dettano norme per equiparare i sessi nel lavoro scolastico. Nel 1978 si vara una legge quadro di riforma della scuola professionmale. Nel 1985 entra in vigore il Concordato tra Stato e Chiesa firmato da Craxi e Casaroli, relativamente agli effetti per l’insegnamento della religione cattolica e per i problemi di parità scolastica. Nel 1986 si dettano le norme per avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica. Il 5 giugno 1990 (legge 148, Ministro Bianco) si ha una fondamentale riforma della scuola elementare che mette tale scuola tra le più avanzate del mondo (fino alla lanzichenecca Moratti). E qui siamo alla vigilia dell’ascesa al Ministero di Luigi Berlinguer. Altre cose spacciate per riforme vi furono in quegli anni. Un tentativo fu fatto da Bodrato all’inizio degli anni 80, quindi il ministro Falcucci introdusse l’uso dei computer nella scuola con il suo Piano Nazionale Informatica. Si comprarono moltissimi computer obsoleti alla IBM, ma i risultati non vi furono perché (come al solito) coloro che dovevano essere i portatori di tale nuovo insegnamento (gli insegnanti) furono ‘aggiornati’ in corsi a loro spese ed in pochissime ore. Il diventare poi portatori di questo valore aggiunto non è stato mai considerato un qualcosa da remunerare.
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