http://www.cronologia.it/mondo38v.htm
Introduzione
di GIAN LUIGI FALABRINO
Lo studio di Giacomo Scotti sugli eccidi del settembre 1943 in Istria è volutamente limitato nel tempo e nei luoghi: non considera infatti le deportazioni e le foibe delle quali furono vittime goriziani e triestini nel maggio 1945, né lo stillicidio di vittime in Istria in mezzo ai due terribili periodi. Ma, forse appunto per queste autolimitazioni, è documentato e preciso, e presenta tre grandi meriti. Il primo è di situare la tragedia del settembre 1943 nel contesto storico più ampio del dominio fascista sulla Venezia Giulia, dal 1922 al 1943, con le proibizioni dei partiti, delle scuole, dei giornali di sloveni e croati, l’interdizione all’uso delle loro lingue, le sentenze del tribunale speciale ecc., cui si aggiunge poi la repressione antipartigiana in Slovenia e in Dalmazia nel 1941 – ’43. In ciò Scotti è molto vicino alle tesi di Teodoro Sala, autore di volumi e saggi sul fascismo e la Jugoslavia, sintetizzata su L’Espresso del 19 settembre 1996.
Certo, va detto che le colpe degli uni non giustificano le colpe degli altri, e Scotti ne è ben consapevole specialmente quando parla di alcuni delitti particolarmente efferati, quali l’uccisione di Norma Carretto, colpevole di essere figlia di un fascista, o delle tre sorelle Radecchi, di 17, 19 e 21 anni. Ma il giudizio storico non si preoccupa tanto delle giustificazioni, quanto delle spiegazioni. Comprendere non è perdonare, ma sbaglia chi, da una parte o dall’altra, ancora adesso, a cinquant’anni di distanza, crede che le vittime siano da una parte sola. Il secondo merito è di avere posto, con la chiarezza della propria tesi, il problema se le foibe siano state o no un atto di genocidio. Scotti lo nega, e per il settembre 1943 sarebbe difficile credere il contrario. Semmai il problema si pone per il 1944-’45, ma con Scotti, anche Galliano Fogar sembra contrario ad ammettere il genocidio: “Non fu un piano di sterminio etnico” (in “Lettera ai compagni” del settembre 1996).
Secondo Fogar, il leader del partito comunista sloveno, Kardelj, aveva dato la direttiva di “epurare non sulla base della nazionalità ma del fascismo”; però per fascismo, chiarisce lo storico, s’intendevano “tutti gli oppositori politici, nazionali, ideologici”, compresi gli uomini del CLN di Trieste e Gorizia in quanto non comunisti e oppositori delle annessioni alla Jugoslavia. Questo chiarimento di Fogar sembra dare ragione alla tesi estensiva di Nicola Tranfaglia (L’Unità del 22 agosto 1996): “Si tratta di azioni di terrorismo nazionalista che non hanno nulla da invidiare, quanto a metodi e conseguenze, ad ogni altro eccidio di quegli anni e non hanno alcuna giustificazione storica”.
Del resto, anche in forme meno cruente ma certamente odiose, le intimidazioni anti-italiane continuarono anche dopo la guerra e, in quella piccola parte dell’Istria che con Trieste avrebbe dovuto costituire il Territorio Libero, addirittura fino al 1954. Del resto Milovan Gilas in un’intervista a Panorama (21 luglio 1991) aveva dichiarato: “Nel 1946 io e Edward Kardelj andammo in Istria a organizzare la propaganda anti-italiana. Bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo”.
Il terzo merito del saggio di Scotti sta nel dare un contributo, preciso e documentato, al riesame delle vicende della regione orientale, che l’Italia sembra scoprire soltanto adesso, dopo che nell’agosto 1996 Stelio Spadaro, segretario del Pds di Trieste, ha reso pubblico un suo documento “revisionista” nel quale, fra l’altro, affermava: “La sinistra italiana ha rimosso a lungo la vicenda, ora deve fare i conti con la storia”.
Allora scoppiò un putiferio, la sinistra si divise, gli storici locali dimostrarono che non avevano mai ignorato le foibe, il Corriere della Sera rilanciò la questione con un editoriale, e molti intervennero con opposte interpretazioni, sia dei fatti, sia del vero o presunto silenzio della sinistra. Ci fu davvero il silenzio della sinistra? E se fu un silenzio non fu anche degli altri settori della politica e della cultura? Sono sicuro che la rimozione ci fu, e che fu generalizzata, non soltanto della sinistra, non soltanto sulle foibe, ma sull’intera vicenda della Venezia Giulia e degli esuli del 1945 – ’54, ignorati o respinti come seccatori, come viventi promemoria delle conseguenze del la guerra fascista che tutti volevano dimenticare. Nella sua evidente verità, appare perfino ingenua la rivendicazione dei politici e degli storici giuliani, che dicono di non aver mai dimenticato.
Claudio Tonel, dirigente del Pds triestino, il 23 agosto 1996 aveva dichiarato “Non è vero che le vicende siano state dimenticate dalla sinistra. Forse nel resto d’Italia, ma non qui. Io stesso ho curato una decina di volumi in materia e ho organizzato convegni”. E Fogar ha rivendicato il molto lavoro svolto dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione di Trieste. “A Trieste le foibe sono all’ordine del giorno da più di quarant’anni”. Ma guai se non fosse così, in una città che ha avuto molte vittime, che ha la foiba di Basovizza nella propria periferia carsica, e che ha visto alcuni processi per le foibe, come quello del 1948 al gruppo di Villa Segré, che aveva coinvolto il celebre comico dialettale Cecchelin. Ma quando si parla del silenzio, non ci si riferisce, evidentemente, ai convegni e alle riviste locali; si parla di tutta l’Italia al di qua dell’Isonzo, dei partiti, dei giornali, dei libri si storia. le parole più chiare e convincenti le ha scritte proprio uno storico, Nicola Tranfaglia: per lui, che si dissocia da quanti cercano di difendere i massacri dei nazionalisti jugoslavi e di trovare una giustificazione storica, “la storiografia di sinistra italiana deve scontare ancora un notevole ritardo sui problemi e sui delitti dello stalinismo”.
Ma chi ha vissuto quegli anni con l’interesse e con la sensibilità di chi era a Trieste fra guerra e dopoguerra, sa che il silenzio non fu soltanto della storiografia e non soltanto della sinistra. Tutto lo schieramento democratico lasciò la memoria delle foibe e dell’esodo dei 300 o 350mila istriani all’interessata propaganda dei neofascisti. Questo naturalmente diffuse un velo sulle colpe fasciste e operò quella strumentalizzazione delle vicende giuliane, che Scotti giustamente deplora. Ma la responsabilità di aver lasciato soli i missini è di tutti gli altri, anche dei governi, imbarazzati, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia (sul Corriere della Sera del 23 agosto) “per i numerosi episodi di feroce rappresaglia compiuti dalle truppe italiane che avevano occupato la Jugoslavia dal ’41 al ’43.
Alla richiesta di Belgrado, subito dopo la fine delle ostilità, che fossero estradati come criminali di guerra un certo numero di ufficiali italiani che di crimini del genere ne avevano quasi sicuramente commessi davvero, parve politicamente avveduto rispondere mettendo la sordina, da parte nostra, sulle atrocità commesse a loro volta dai partigiani titini nei confronti delle popolazioni italiane”.
L’analisi è acuta e probabilmente veritiera; ma forse le cause di una rimozione così generalizzata non possono esaurirsi nella furbizia governativa, ma debbono essere più ampie. Un’ipotesi è che l’identificazione compiuta dal fascismo di sé stesso con la patria, la riduzione fascista della storia del Risorgimento alla storia del nazionalismo, avessero portato a quel generale rifiuto del concetto di nazionalità, d’italianità, che ci ha distinti in questi cinquant’anni rispetto agli altri popoli europei. Buttare via il nazionalismo dopo l’orgia fascista era più che giusto; confonderlo con il senso, anche culturale, della nazionalità ha creato il vuoto del quale si è cominciato a discutere in Italia soltanto da quando il secessionismo di Bossi ha dato una sgradevole sveglia. (GIAN LUIGI FALABRINO)
FOIBE E FOBIE
di GIACOMO SCOTTI
Rapidissima premessa. Il fenomeno degli infoibati, e cioè del seppellimento di persone (fucilate o in altro modo giustiziate) nelle cave carsiche dette foibe e nelle cave di bauxite ad opera degli insorti guidati dal Movimento resistenziale sloveno, croato e italiano in Istria e nella Venezia Giulia, conobbe due periodi e due territori distinti. Il primo riguarda l’Istria e va dal 9 settembre al 13 ottobre 1943 e cioè subito dopo l’armistizio firmato da Badoglio, quando quasi tutta la penisola incuneata fra Trieste e Fiume cadde sotto il controllo degli insorti, rispettivamente dei partigiani di quella regione; il secondo periodo va dal 1° maggio alla metà di giugno 1945 e riguarda le città di Trieste e Gorizia con i rispettivi territori conquistati ed amministrati per 45 giorni dalle truppe jugoslave.
Questo lavoro si occupa dell’Istria e del primo periodo presentando nel contesto anche alcuni documenti finora inediti o scarsamente conosciuti.
Quando terminò la prima guerra mondiale e nell’Istria ex austro-ungarica sbarcarono le truppe italiane, nella regione risiedevano circa duecentomila croati e sloveni autoctoni (ne erano stati registrati 225.423 nell’ultimo censimento austriaco nel 1910) e cioè il 58 per cento della popolazione totale. Era una popolazione, quella slava, composta in prevalenza da contadini; la popolazione italiana invece era composta da lavoratori dell’industria, da artigiani, da commercianti e proprietari terrieri presenti più o meno compattamente nelle cittadine costiere quali Capodistria, Isola, Pirano, Umago, Cittanova, Parenzo, Orsera, Rovigno, Dignano, Pola, Albona e in alcuni centri maggiori dell’interno o poco lontani dalla costa quali Buie, Montona, Pinguente e Pisino.
Ancor prima della firma del Trattato di Rapallo del 1920 che assegnò definitivamente l’Istria all’Italia, quando ancora la regione era soggetta al regime di occupazione militare, la popolazione dell’Istria si trovò di fronte allo squadrismo italiano in camicia nera, parzialmente importato da Trieste, che in quella regione si manifestò con particolare aggressività e ferocia, servendosi non soltanto dell’olio di ricino e del manganello.
Gli stessi storici fascisti, tra i quali spicca l’istriano G.A. Chiurco, vantandosi delle gesta degli squadristi e glorificandole nelle loro opere, hanno abbondantemente documentato i misfatti compiuti dagli assassinii di antifascisti italiani quali Pietro Benussi a Dignano, Antonio Ive a Rovigno, Francesco Papo a Buie ed altri alla distruzione delle Camere del lavoro ed all’incendio delle Case del popolo, alle sanguinose spedizioni nei villaggi croati e sloveni della penisola, ecc. Questi misfatti continuarono sotto altra forma dopo la presa del potere a Roma da parte di Mussolini, con la creazione del regime fascista. Ancora una volta il risultato fu disastroso soprattutto per gli “allogeni” istriani: furono distrutti e/o aboliti tutti gli enti e sodalizi culturali, sociali e sportivi della popolazione slovena e croata; sparì ogni segno esteriore della presenza dei croati e sloveni, vennero abolite le loro scuole di ogni grado, cessarono di uscire i loro giornali, i libri scritti nelle loro lingue furono considerati materiale sovversivo; con un decreto del 1927 furono forzosamente italianizzati i cognomi di famiglia (in alcuni casi il cambio dei cognomi fu attuato con tale diligenza che due fratelli, o padre e figlio, ricevettero due cognomi diversi), furono italianizzati anche i toponimi; migliaia di persone finirono al confino (Tremiti, Ustica, Ponza, Ventotene, S.Stefano, Portolongone, Lipari, Favignana, ecc.) o nel migliore dei casi, se dipendenti statali, specialmente ferrovieri furono trasferiti in altre regioni d’Italia; nelle chiese le messe poterono essere celebrate soltanto in italiano, le lingue croata e slovena dovettero sparire perfino dalle lapidi sepolcrali, queste stesse lingue furono cacciate dai tribunali e dagli altri uffici, bandite dalla vita quotidiana. Gli allogeni o alloglotti furono discriminati perfino nel servizio militare, finendo nei cosiddetti “Battaglioni speciali” in Sicilia e Sardegna. Alcune centinaia di democratici italiani, socialisti, comunisti e cattolici che lottarono per la difesa dei più elementari diritti delle minoranze subirono attentati, arresti, processi e lunghi anni di carcere inflitti dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato. I principali “covi sovversivi” furono Rovigno, Pola e il bacino carbonifero di Albona-Arsia.
Per gli slavi il risultato fu la fuga dall’Istria di circa 60.000 persone, metà delle quali trovò rifugio nelle due Americhe e l’altra metà nell’ex Jugoslavia. Sul piano ideologico il risultato fu che nella stragrande maggioranza questi esuli istriani slavi si schierarono sui fronti di due estremismi: andarono a rafforzare le file comuniste oppure quelle nazionaliste degli ustascia e oriunasci, due fronti opposti ma accomunati dall’odio contro l’Italia.
Il movimento comunista jugoslavo, sia notato per inciso, era di per sé sostenuto da una forte tendenza nazionalista e questa tendenza fu nutrita anche da un forte sentimento anti-italiano nelle organizzazioni del PC croato e sloveno, come dimostra la politica condotta nei riguardi dell’Istria, della Venezia Giulia e Dalmazia da alcuni leader di quei due partiti negli anni della Resistenza e in particolare dal massimo esponente del comunismo sloveno Edvard Kardelj. (2a) A questa tendenza ed a questa politica nazionalista-espansionista e non all’ideologia comunista vanno addebitati alcuni “eccessi” compiuti in Istria immediatamente dopo l’armistizio del settembre 1943 e le cosiddette “deviazioni” verificatesi sempre in Istria dopo il maggio 1945 con il ritorno anche degli esuli croati di tendenza nazionalista.
La conseguenza di tutti gli “errori”, “deviazioni” e, in genere, di una politica della mano pesante, fu l’esodo di 200-250.000 persone, italiani, croati e sloveni insieme, senza distinzione. Uno di questi esuli, il rovignese prof. Sergio Borme, attualmente a Pavia, ha scritto (Il Piccolo, Trieste, 17 settembre 1996): “…la questione delle foibe. Molti commentatori hanno ritenuto di poterla indicare nell’ideologia comunista dimenticando che il “confine sul Tagliamento” era stato l’obiettivo del nazionalismo slavo molto prima che il regime jugoslavo nascesse. Facendo proprio quell’obiettivo, l’ideologia si metteva al servizio del nazionalismo e non viceversa. (…) Alla guida della Croazia e della Slovenia troviamo oggi personaggi che erano stati le colonne portanti del regime, ma una metamorfosi così repentina e radicale sarebbe stata impossibile se l’adesione all’ideologia (dell’internazionalismo comunista) fosse stata reale e convinta”.
Purtroppo a rafforzare il nazionalismo anti-italiano nelle file del Movimento partigiano di liberazione e dei partiti comunisti sloveno, croato e montenegrino fu ancora una volta il fascismo mussoliniano che nella seconda guerra mondiale portò l’Italia ad aggredire i popoli jugoslavi.
Quell’aggressione tra il 6 aprile 1941 e l’inizio di settembre 1943 fu caratterizzata come documenta lo storico triestino Teodoro Sala (“L’Espresso”, Roma, 19 settembre 1996) non soltanto dalle brutali annessioni delle Bocche di Cattaro, di larghe fette della Croazia e di una parte della Slovenia, ma anche da una lunga serie di crimini di guerra compiuti da speciali reparti di occupazione, fra i quali si distinsero per ferocia le Camicie Nere, per ordine dello stesso Mussolini e di alcuni generali: “si giunse alle scelte più draconiane dei comandi militari italiani”, Ne derivarono “rapine, uccisioni, ogni sorta di violenza perpetrata (…) a danno delle popolazioni”. Decine di migliaia di civili furono deportati nei campi di concentramento disseminati dall’Albania all’Italia meridionale, centrale e settentrionale, dall’isola adriatica di Arbe (Rab) fino a Gonars e Visco nel Friuli, a Chiesanuova e Monigo nel Veneto. In quei lager italiani morirono 11.606 sloveni e croati. Nel solo lager di Arbe ne morirono 4.000 circa, fra cui moltissimi vecchi e bambini per denutrizione, stenti, maltrattamenti e malattie. A proposito ecco un documento del 15 dicembre 1942.
In quella data l’Alto Commissariato per la Provincia di Lubiana, Emilio Grazioli, trasmise al Comando dell’XI Corpo d’Armata il rapporto di un medico in visita al campo di Arbe dove gli internati “presentavano nell’assoluta totalità i segni più gravi dell’inanizione da fame”. Sotto quel rapporto il generale Gastone Gambara scrisse di proprio pugno: “Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo d’ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo”.
Sempre nel 1942, il 4 agosto, il generale Ruggero inviò un fonogramma al Comando dell’XI Corpo in cui si parlava di “briganti comunisti passati per le armi” e “sospetti di favoreggiamento” arrestati. In una nota scritta a mano il generale Mario Robotti impose; “Chiarire bene il trattamento dei sospetti (…). Cosa dicono le norme 4C e quelle successive? Conclusione: si ammazza troppo poco!”. L’ultima frase è sottolineata. Il generale Robotti alludeva alle parole d’ordine riassuntive del generale Mario Roatta, comandante della Il Armata italiana in Slovenia e Croazia (Supersloda) il quale nel marzo del 1942 aveva diramato una Circolare 3C nella quale si legge: “Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato dalla formula dente per dente ma bensì da quella testa per dente”. Una frase che ci fa ricordare l’eccidio di Gramozna Jama in Slovenia dalla quale furono riesumati nel dopoguerra i resti di un centinaio di civili massacrati durante l’occupazione per ordine delle autorità militari italiane. Furono alcune migliaia i civili “ribelli” falciati dai plotoni di esecuzione italiani, dalla Slovenia alla “Provincia del Carnaro”, dalla Dalmazia fino alle Bocche di Cattaro e Montenegro senza aver subito alcun processo, ma in seguito a semplici ordini di generali dell’esercito, di governatori o di federali e commissari fascisti. In una lettera spedita al Comando supremo dal generale Roatta in data 8 settembre 1942 (N. 08906) fu proposta la deportazione della popolazione slovena. “In questo caso scrisse si tratterebbe di trasferire al completo masse ragguardevoli di popolazione, di insediarle all’interno del regno e di sostituirle in posto con popolazione italiana”.
Il figlio di Nazario Sauro (l’eroe della Prima guerra mondiale), Italo Sauro, in un “Appunto per il Duce”, nel quale riferisce un suo colloquio con l’SS Brigade Fuehrer Guenter (v. Bollettino n. 1/aprile 1976 dell’Istituto regionale per la storia del Movimento di liberazione del Friuli Venezia Giulia), lo informava tra l’altro: “Per quanto riguarda la lotta contro i partigiani, io avevo proposto il trasferimento in Germania di tutta la popolazione allogena compresa tra i 15 e i 45 anni con poche eccezioni”, ma i tedeschi dissero di no.
Andremmo troppo lontano se volessimo citare altri documenti, centinaia, che ci mostrano il volto feroce dell’Italia monarchica e fascista in Istria e nei territori jugoslavi annessi o occupati nella seconda guerra mondiale. Gli stupri, i saccheggi e gli incendi di villaggi si ripetevano in ogni azione di rastrellamento. Una documentazione di questi crimini la si può trovare nel mio libro “Bono Taliano” (Italiani in Jugoslavia 1941-43 – La Pietra, Milano, 1977), nel volume “La dittatura fascista” di Autori vari (Teti, Milano, 1984) nel quale Teodoro Sala dedica un corposo capitolo a “Fascismo e Balcani. L’occupazione della Jugoslavia” e in altre opere.
Tuttavia, trattandosi qui dell’Istria, vogliamo accennare rapidamente almeno a pochi episodi che precedettero di pochi mesi i fatti del settembre1943. Nell’estrema parte nord-orientale dell’Istria, alle spalle di Abbazia, le autorità militari italiane intrapresero all’inizio di giugno 1942 un’azione prettamente terroristica contro le famiglie dalle quali risultava assente qualche congiunto, sicché potevano ritenere che avesse raggiunto le file dei “ribelli” (partigiani). Un comunicato del generale Lorenzo Bravarone informò che il 6 giugno erano state arrestate e deportate nei campi di internamento in Italia 34 famiglie per un totale di 131 persone di Kastav/Castua, Marcelji/Marcegli, Rubessi, San Matteo (Viskovo) e Spincici.
I loro beni mobili, compreso il bestiame grosso e minuto, furono confiscati o abbandonati al saccheggio delle truppe, le loro case incendiate, dodici persone vennero passate per le armi senza alcun processo. Ancora più terribile fu la sorte toccata agli abitanti della zona di Grobnik/Grobnico, a nord di Fiume. I maestri elementari Giovanni e Franca Renzi, mandati dal regime a “italianizzare” i bambini croati del villaggio di Podhum annesso alla Provincia del Carnaro nel 1941, erano diventati malfamati nella zona per i maltrattamenti e le punizioni inflitte a quei bambini colpevoli unicamente di non apprendere rapidamente la lingua italiana. Tra l’altro, il maestro, affetto da TBC, soleva sputare in bocca ai disgraziati alunni a lui affidati quando sbagliavano un verbo o un vocabolo. Finirono ammazzati da non si sa chi il 10 giugno 1942. A un mese di distanza, risultati vani i tentativi di individuare gli uccisori dei due insegnanti, e insoddisfatto della spedizione punitiva compiuta il 6 giugno, il prefetto di Fiume, Temistocle Testa, ordinò una rappresaglia sanguinosa: reparti di camicie nere nei quali furono mobilitati per l’occasione anche numerosi giovani fascisti italiani di Fiume, insieme a reparti delle truppe regolari; irruppero nel villaggio di Podhum all’alba del 13 luglio. Rastrellata l’intera popolazione, questa fu condotta in una cava di pietra presso il campo di aviazione di Grobnico, mentre il villaggio veniva saccheggiato e poi incendiato. Il fuoco distrusse alcune centinaia di case, oltre mille capi di bestiame furono portati via, 889 persone finirono nei campi di internamento italiani: 412 bambini, 269 donne e 208 maschi anziani. Altri 91 uomini furono fucilati nella cava: il più anziano aveva 64 anni, il più giovane 13 anni appena. Sempre nella zona di Fiume, il 3 maggio 1943, per ordine del solito Testa, reparti di Camicie Nere e di fanteria rastrellarono il villaggio di Kukuljani e alcune sue frazioni, portarono via tutto il bestiame, saccheggiarono le case, deportarono la popolazione e quindi appiccarono il fuoco alle abitazioni, alle stalle e agli altri edifici “covi di ribelli”, distruggendo completamente 80 case a Kukuljani e 54 a Zoretici. Nei campi di internamento finirono 273 abitanti di Kukuljani e 200 di Zoretici.
Alla luce di questi fatti, dunque, vanno visti gli avvenimenti del settembre 1943 in Istria. Alla notizia della capitolazione militare italiana, diffusasi anche in Istria nel tardo pomeriggio dell’8 settembre, in quella penisola ci fu una generale, pressoché spontanea rivolta popolare che coinvolse in eguale misura le popolazioni italiane nei centri costieri e quelle croate e slovene nell’interno. Nell’uno e nell’altro caso (e fatte le solite eccezioni) gli insorti mostrarono simpatia e solidarietà con le truppe in grigioverde che altrettanto spontaneamente avevano estrinsecato la propria gioia per la “fine della guerra”, mentre la punta offensiva della lancia fu rivolta in alcuni casi contro i Carabinieri, la Polizia di Stato e soprattutto contro i gerarchi fascisti.
Sporadicamente, nell’interno, si fece di tutta l’erba un fascio ed i vocaboli “fascista” e “italiano” ebbero un unico significato. Le strutture militari dello Stato non opposero alcuna resistenza (fece eccezione Pola dove contro i manifestanti fu aperto il fuoco per ordine del Comando di guarnigione e si ebbero tre morti fra i civili), sicché nel giro di pochi giorni entro l’11 settembre le armi dell’esercito e dei carabinieri passarono agli insorti. Senza colpo ferire cedettero le armi i presidi, piccoli e grandi, di Antignana, Lanischie, Pisino, Cerreto, Castel Lupogliano, Rozzo, Pinguente, Canfanaro, Rovigno, Carnizza, Altura, Arsia, Parenzo e via via di altri centri presidiati da reparti di Alpini, di Fanteria costiera, di Carabinieri e Guardia di Finanza. Molti soldati si unirono agli insorti.
Sembrava un trionfo, ma non era così. La svolta si ebbe il 13 settembre. Quel giorno si capì definitivamente che su tutto incombeva la grave minaccia tedesca. Così in piena autonomia, spontaneamente, gli improvvisati capi del movimento insurrezionale di Parenzo, Rovigno ed Albona, tutti italiani, decisero di opporsi con le armi all’avanzata dei Tedeschi. Una decisione presa anche sull’onda di una terribile notizia giunta da Pola. Quel 13 settembre nel capoluogo istriano, con l’aiuto dei loro carcerieri, i detenuti politici e comuni rinchiusi nel carcere di Via dei Martiri riuscirono ad evadere. Inseguiti da pattuglie tedesche con il supporto di manipoli di fascisti, furono in gran parte abbattuti con le armi; gli altri, catturati, finirono impiccati agli alberi di Via Medolino. I primi conflitti a fuoco nella penisola istriana avvennero quello stesso giorno contro due colonne tedesche: una scendeva da Trieste verso Parenzo e Rovigno lungo la costa occidentale con l’intento di raggiungere Pola (dove riuscì infatti ad arrivare); un’altra, partita da Pola, cercava di salire lungo la costa orientale.
I primi caduti fra gli insorti, purtroppo numerosi, furono italiani e croati, massacrati nei pressi di Tizzano, a nord di Parenzo, poi presso il Canale di Leme a nord di Rovigno e infine sulla strada che da Dignano porta a Pola. Gli scontri con la seconda colonna, che invece fu respinta, si ebbero sulla strada tra Arsia e Piedalbona ed a Berdo presso Vines sempre nell’Albonese. Si trattava di distaccamenti della 71ma Divisione germanica, circa 300 uomini. Presso Tizzano i caduti fra gli insorti furono ben 84, dei quali pochi uccisi in battaglia, tutti gli altri trucidati dopo la cattura. Fra i massacrati ci furono alcuni soldati “regnicoli”, tutti gli altri erano giovani croati e italiani del Parentino. Tutti italiani furono invece i 16 caduti rovignesi che tentarono di fermare la colonna dapprima sul Leme e poi nei pressi di Dignano. In gran parte italiani, infine, furono i 43 caduti nelle file degli insorti che, al comando di Aldo Negri, si opposero alla colonna tedesca presso Arsia e Vines nella zona di Albona. Nonostante queste perdite, l’Istria intera ad eccezione di Pola, Dignano, Fasana e isole di Brioni occupate dai tedeschi il 13 settembre grazie al cedimento dei comandi militari italiani, cadde sotto il controllo degli insorti che entro il 14 settembre costituirono ovunque i Comitati popolari di liberazione (CPL), quali organi amministrativi della Resistenza in sostituzione dei Podestà e dei Commissari governativi italiani.
In concomitanza con l’insurrezione, ma soprattutto dopo gli scontri del 13 settembre, cominciarono gli arresti dei gerarchi fascisti, di podestà e di altri funzionari ma anche di semplici iscritti al fascio da parte degli insorti sia per iniziativa di singoli che per ordine dei vari CPL. Fra gli arrestati -e gli arresti avvennero anche su denuncia di persone convertitesi all’ultima ora alla causa del Movimento di Liberazione- vi furono persone indicate come responsabili di collaborazionismo con l’occupatore tedesco per aver guidato, o in altro modo aiutato, le due colonne germaniche nella loro marcia e nel corso degli scontri. I primi e più massicci arresti avvennero nelle zone di Rovigno e di Albona dove il comando del movimento insurrezionale e partigiano fu assunto da comunisti affiliati al PC italiano, a Parenzo e dintorni e nel Pisinese.
La maggioranza degli arrestati era formata da quei gerarchi fascisti locali che si erano meritati l’odio delle popolazioni vittime delle loro persecuzioni e vessazioni pluriennali.
Nel mucchio capitarono però anche “fascisti” che non avevano colpe da espiare o con i quali i delatori avevano antichi conti personali da regolare. I vendicatori, ovviamente, si servirono pretestuosamente degli slogan e dei simboli della Resistenza e del comunismo. Gli arresti, preludio degli efferati anche se non progettati infoibamenti, avvennero quasi tutti fra il 13 e il 25 settembre. A questo proposito per la prima volta in versione italiana, presenterò qui un documento di provenienza croato-ustascia, uscito cioè dagli archivi dell’ex cosiddetto Stato indipendente di Croazia, creato dal Poglavnik ovvero Duce fascista croato Ante Pavelic con l’aiuto di Mussolini e Hitler e durato dal 10 aprile 1941 all’8 maggio 1945. Il documento è stato rintracciato dallo storico Antun Giron di Fiume, da oltre tre decenni impegnato presso il Zavod za povjesne i drustvene znanosti, Istituto di scienze storiche e sociali, dell’Accademia croata di arti e scienze.
Lo studioso ha pubblicato il documento sulle pagine della rivista “Vjesnik PAR” -N.37/1995. Si tratta di un rapporto segreto relativo ai fatti accaduti in Istria nel settembre-ottobre 1943, scritto il 28 gennaio 1944 dal prof. Nikola Zic, un pubblicista croato nato a Villa di Ponte (Punat) sull’isola di Veglia nel 1882. In quel periodo lo Zic lavorava per i servizi di informazione del Ministero degli Esteri dello Stato croato. Secondo Zic, “il popolo considerava la rivolta popolare solamente dal punto di vista nazionale croato”.
La sua relazione continua riandando ai primissimi giorni dell’insurrezione istriana: “All’inizio a nessun Italiano è stato fatto nulla di male. I partigiani avevano diramato l’ordine che non doveva essere fatto del male a nessuno. Ma qualche giorno dopo lo scoppio della rivolta popolare (e cioè il 13 settembre, N.d.T.) alcuni corrieri a bordo di motociclette sidecar hanno portato la notizia che i fascisti di Albona avevano chiamato e fatto venire da Pola i tedeschi in loro aiuto e questi avevano aperto il fuoco contro i partigiani. Poco dopo si è saputo che i tedeschi erano stati chiamati in aiuto anche dai fascisti di Canfanaro, Sanvincenti e Parenzo, fornendogli informazioni sui partigiani. Rispondendo alla chiamata è subito arrivata a Sanvincenti una colonna tedesca. Tutte queste voci hanno creato una grande avversione verso i fascisti. Essi ci tradiranno! si sentiva dire dappertutto. Pertanto partigiani e contadini hanno cominciato ad arrestare e imprigionare i fascisti, ma senza alcuna intenzione di ucciderli. I partigiani decisero di fucilarne soltanto alcuni, i peggiori, ma anche molti fra questi sono stati salvati grazie all’intervento dei contadini croati e ancor più dei sacerdoti”.
A questa affermazione del relatore ustascia va aggiunta una precisazione: per la liberazione delle persone arrestate fu decisivo l’intervento presso i capi partigiani del vescovo di Parenzo e Pola, Mons. Raffaele Radossi. La relazione Zic prosegue informandoci della sorte di coloro che rimasero in carcere – le prigioni principali gestite dai partigiani istriani erano quelle di Albona, Pinguente e Pisino – sottoposti a interrogatori e giudizi dei “tribunali del popolo”. “Purtroppo quando, alcuni giorni più tardi, cominciarono ad avanzare i reparti germanici, i partigiani vennero a trovarsi nell’impaccio, non sapendo dove trasferire i prigionieri fascisti per non farli cadere nelle mani dei tedeschi. In questo imbarazzo hanno deciso di ammazzarli. Ne hanno uccisi circa 200 gettandone i corpi nelle foibe. Tuttavia molti altri fascisti sono riusciti a scappare raggiungendo Pola e Trieste, rivolgendosi ai Tedeschi per aiuto. Stando a quanto si è saputo in seguito, i fascisti istriani avrebbero informato i tedeschi che nella sola Pisino si trovavano 100 mila partigiani; in verità ce n’erano forse in tutto un paio di centinaia. A questo punto il Comando germanico ha deciso di rastrellare l’Istria inviando nella regione alcune divisioni SS corazzate”.
Il rapporto prosegue enumerando i massacri compiuti dai tedeschi fino alla metà di novembre da un capo all’altro dell’Istria, ma noi per ora ci fermiamo qui. Avremo occasione di tornare al documento in seguito. La cifra riferita dallo Zic è largamente incompleta. Stando a una dichiarazione rilasciata alla fine di gennaio 1944 dal segretario del Partito fascista repubblicano e pubblicata dalla stampa della RSI dell’epoca, in Istria finirono infoibate dagli insorti 349 persone, in gran parte fascisti. Ora è vero che l’alto gerarca ci teneva ad arricchire il martirologio dei “combattenti per la causa” del fascio littorio, ma gli va pur riconosciuto il merito di non aver esagerato come fanno certi “storici” odierni simpatizzanti di quel regime: quella era la cifra che all’epoca si dava per accettabile. Oggi siamo addirittura propensi a considerarla inferiore alla realtà. Un’altra considerazione da fare a proposito della relazione Zic riguarda gli arresti dei fascisti. Essi non cominciarono il 14 o 15 settembre come si potrebbe dedurre da quel documento (e cioè dopo gli scontri di Tizzano, Leme, Albona e Vines) bensì alcuni giorni prima, l’11 settembre; le prime esecuzioni sommarie, invece, ebbero luogo il 18 dello stesso mese. Secondo lo storico Giron, “le fucilazioni venivano eseguite dopo gli interrogatori ed a conclusione di processi sommari collettivi, oppure senza essere preceduti nemmeno da un procedimento istruttorio. I cadaveri dei fucilati venivano gettati nelle grotte carsiche, oppure nelle vecchie cave delle miniere di bauxite”.
Le foibe con i resti mortali di persone uccise tra il 18 settembre e i primi giorni dell’offensiva tedesca (sferrata nella notte tra l’1 e il 2 ottobre) vennero esplorate dai vigili del fuoco di Pola, a più riprese, alla presenza di autorità militari tedesche, a cominciare dalla zona di Vines il 21 ottobre 1943, fino al gennaio 1944 quando si era ormai conclusa l’offensiva “Istrien”, durante la quale le SS, appoggiate da gruppi di fascisti italiani uccisero circa 3 mila persone, appiccando il fuoco a circa mille case e deportando alcune migliaia di istriani, pochi dei quali sono tornati fra i vivi. (Il 7 ottobre, il Comando germanico, comunicando di aver portato a termine il grande rastrellamento, comunicò testualmente: “Sono stati contati i corpi di 3.700 banditi uccisi (…) Altri 4.500 sono stati catturati, fra cui gruppi di soldati e ufficiali italiani”.
Il 13 ottobre un altro comunicato parlava invece di 13.000 banditi “uccisi o fatti prigionieri” . Ma era una esagerazione). Le foibe esplorate dai pompieri di Pola, oltre a quelle di Vines, furono quelle di Barbana, Gimino, Lindaro, Surani, Castellier, Carnizza ed alcune altre. Ma non tutti i fucilati finirono nelle foibe. D’altra parte non va taciuto il fatto che numerose persone arrestate e imprigionate a Pinguente e Villanova (Nova Vas) non subirono procedimenti istruttori né furono fucilate. A Pinguente furono trascinati oltre 100 gerarchi fascisti rastrellati a Capodistria, Isola e Umago il 26-27 settembre dagli uomini della II Brigata istriana: furono tutti liberati alla notizia che stavano arrivando i tedeschi. Nei dintorni di Pisino, invece, agenti dell’OZNA (Distaccamento per la difesa del popolo) fucilarono negli stessi giorni alcuni “narodnjaci” croati che avevano massacrato per vendetta alcuni italiani. Va anche detto che nella zona tra Rovigno, Orsera e Parenzo, e ad Albona, una cinquantina di persone tutti italiani furono arrestate per decisione dei capi “rivoluzionari” italiani del luogo.
A Rovigno, città compattamente italiana etnicamente, i militanti del PC italiano costituirono un “Comitato Rivoluzionario Partigiano” composto da Aldo Rismondo, Egidio Caenazzo, Mario Cherin, Giusto Massarotto, Mario Hrelja, Antonio Braicovich, Paolo Poduje, Pino Budicin, Francesco Poretti, Riccardo Daveggia e Giovanni Pignaton. Una delle misure “rivoluzionarie” prese da quel comitato fu la compilazione di una lista di fascisti locali maggiormente distintisi come persecutori, in tutto 18, che vennero subito arrestati e portati al Comando partigiano nella sede dell’ex Casa del Fascio. Dopo l’interrogatorio sul posto, i prigionieri furono trasportati a Pisino dove insieme ad altri fascisti di nazionalità italiana e croata in precedenza catturati nelle varie località istriane furono condannati a morte dal Tribunale del popolo. Saranno giustiziati alcune ore prima dell’arrivo dei tedeschi all’inizio di ottobre.
Dal volume del Rocchi apprendiamo poi di 55 salme estratte “a grappoli di tre quattro” dalla foiba di Terli scandagliata dai pompieri di Pola il 1° novembre, ma qualche riga più avanti l’autore si contraddice presentandoci cifre diverse: “delle 27 vittime vengono riconosciute 25” e passa ai nomi: tre sorelle Radecchi (Radeki, famiglia croata) di Polje (Lavarigo) presso Pola: Fosca di diciassette anni, Caterina di diciannove e Albina di ventuno, quest’ultima in stato di gravidanza, che erano state arrestate il 1° ottobre (e seguono i nomi degli altri infoibati. N.d.R.).
Tra le salme estratte dalla foiba di Surani c’era quella della studentessa universitaria Norma Cossetto, ventiquattro anni da Santa Domenica di Visinada, figlia di Giuseppe Cossetto, ex segretario del Fascio di Santa Domenica di Visinada e nipote dell’ammiraglio Cossetto che nel 1945 firmerà una lunga testimonianza sul sacrificio della giovane catturata il 25 settembre da un gruppo di uomini che il giorno precedente avevano saccheggiato la sua abitazione. Condotta dapprima a Visignano, fu trasferita a Parenzo e successivamente ad Antignana, dove fu violentata e torturata da diciassette esaltati ubriachi e quindi gettata nuda nella vicina foiba di Surani. Durante gli interrogatori subiti si rifiutò tenacemente di rinnegare la sua militanza fascista (suo padre Giuseppe Cossetto, proprietario terriero, era stato Commissario governativo delle Casse Rurali della Provincia e per lunghi anni Podestà oltre che segretario del Fascio di S. Domenica di Visinada e tra i massimi gerarchi del regime in Istria) e respinse pure tutte le offerte fattele di assumere mansioni direttive nel movimento partigiano. E questo, stando a quanto detto all’autore di questo saggio da un suo parente residente a Fiume, Silverio Cossetto, scatenò il furore dei violentatori.
Il padre di Norma, che poche ore prima era accorso insieme al sottotenente del genio Mario Bellini, suo parente, per chiedere la liberazione della figlia, rimase ucciso insieme all’ufficiale in un agguato, di sera, all’ingresso del paese. I loro cadaveri, come già detto, finirono nella foiba di Castellier di Visinada. Dei diciassette torturatori di Norma, sei caddero nelle mani di un manipolo di fascisti repubblichini istriani nel dicembre dello stesso anno. Costretti a passare l’ultima notte della loro vita nella cappella mortuaria del locale cimitero per vegliare la salma in decomposizione della loro vittima, tre impazzirono. All’alba, senza aver subito alcun processo, furono fucilati insieme ad altri tre a raffiche di mitra.
Finora nessuno, storiografo o no, è riuscito a stabilire neppure approssimativamente, il numero delle vittime dell’insurrezione popolare in Istria nel 1943. Si va da qualche centinaio, o “alcune centinaia”, ad alcune migliaia. All’epoca della guerra le cifre variarono dai “circa 200 prigionieri fascisti” uccisi dai partigiani (relazione Zic) e dalle 349 persone finite infoibate secondo la dichiarazione dell’alto gerarca repubblichino, fino alla valutazione 450-500 vittime fornita da un rapporto dei pompieri istriani che più avanti citeremo.
Nel dopoguerra la danza delle cifre si è fatta invece sfrenata.
Lo storico Mario Pacor afferma che nelle foibe istriane finirono da 400 a 500 persone, ancorandosi così al documento dei vigili del fuoco. Si arriva poi agli “oltre 4000 italiani” deportati, dei quali “molti furono uccisi dopo procedimenti sommari e precipitati nelle Foibe” come si esprime l’Enciclopedia Treccani, la quale però si riferisce anche al periodo maggio-giugno 1945 nelle provincie di Gorizia e Trieste. In periodi a noi vicini, nel volume “Storia di un esodo” curato da C. Colummi bolognese, L. Ferrari e G. Trani goriziani, e G. Nassisi leccese, edito dall’Istituto regionale per la Storia del movimento di liberazione del Friuli Venezia Giulia (Trieste 1980) sono state denunciate: “l’assoluta mancanza di riflessione (in Italia) su ciò che rappresentò il fascismo in queste terre”;
“una radicata diffidenza verso le popolazioni di ceppo slavo”. Anche qui viene nuovamente scritto che gli infoibati furono “alcune centinaia”, vittime di “uno scoppio improvviso di odi e di rancori a lungo repressi”. Negli anni, soprattutto nei periodi di crisi e di aspre polemiche nei rapporti italo-jugoslavi, è accaduto che, mentre da parte jugoslava veniva calata una pesante pietra tombale sulle foibe e l’argomento diveniva tabù, la destra italiana rispolverava gli antichi slogan dell’irredentismo e del fascismo contro gli “slavo-bolscevichi” istriani e riscriveva pari pari quanto la stampa fascista istriana scrisse nel 1943-1944 in occasione dell’esumazione delle salme dalle foibe e quanto i nuovi gerarchi posti dai tedeschi alla testa dei municipi scrissero nei manifesti annuncianti la commemorazione degli istriani “trucidati nel breve, infausto periodo dell’anarchia anti-italiana”. Via via andarono gonfiandosi il lievito delle cifre e inasprendosi le accuse; le esagerazioni, condite anche di menzogne, furono il pane quotidiano delle polemiche. Ai giorni nostri si sono toccati livelli incredibili.
Così oggi, fonti della sinistra concedono che “furono circa 2.100 le persone (militari e civili) eliminate, la maggior parte senza un processo regolare”, comprendendo nella cifra sia le vittime del settembre-ottobre ‘43 in Istria sia quelle del maggio-giugno 1945 a Trieste e Gorizia, mentre la parte politica opposta è arrivata alla cifra “esatta” di 16.500! È quella che si legge nell’”Albo d’oro dei caduti della Venezia Giulia e Dalmazia” nella seconda guerra mondiale, curata da Luigi Papo de Montona, presentata il 28 agosto 1996 nella sede dell’Unione degli Istriani a Trieste. La cifra dei sedicimila e passa si riferirebbe alle “vittime militari e civili, della repressione slavo-comunista tra l’8 settembre ‘43 e il dopoguerra”. Il dato, come ammette lo stesso curatore è basato in buona parte su ” stime approssimative e non sui cadaveri rinvenuti”. Le salme esumate in Istria, Venezia Giulia e Dalmazia nell’intero periodo indicato furono 994. Il Papo vi ha aggiunto “altre 326 vittime accertate, 5.643 vittime presunte e 3.174 vittime nei campi di concentramento”. La somma di 10.317 ottenuta viene ancora “arrotondata” con l’aggiunta di altri 6.363 dispersi! E questi, a differenza dei dispersi che si hanno in tutte le guerre, in Istria e Venezia Giulia diventano ipso facto vittime delle foibe secondo il curatore di quell’Albo che scrive: “Ma sono ben 37 le foibe, le fosse e le cave di bauxite per le quali non è stato possibile alcun accertamento”, quindi si dà per scontato che “anche lì furono compiuti altri massacri” sicché “non possiamo che confermare che le vittime militari e civili per mano slavo-comunista furono non meno di 16.000”.
Di fronte alle esagerazioni ed alle strumentalizzazioni della destra, come si è comportata la storiografia italiana di sinistra? Per quella italiana legata al movimento resistenziale jugoslavo è stato più facile ammettere a più riprese, che anche i partigiani titini commisero “errori” e crimini, in gran parte giustificandoli. E sono state presentate giustificazioni abbastanza accettabili. Di gran lunga più accettabili di quelle che, per lunghi anni, sono venute da parte croata e slovena, direttamente coinvolta e fin troppo criminalizzata, perciò costretta su posizioni di rabbiosa difesa. Emblematica è una circolare diramata il 29 agosto 1944 dalla Sezione italiana del Comitato regionale del Partito comunista della Croazia, nella quale si davano direttive per la celebrazione dell’insurrezione popolare istriana. Nell’occasione fu toccato anche il problema delle foibe e il modo per controbattere la propaganda nemica che da un anno sfruttava l’argomento. Dopo aver minimizzato le stragi e respinto con sdegno l’accusa della propaganda reazionaria secondo cui sul finire dell’estate ‘43 si sarebbe tentato ” di distruggere gli italiani dell’Istria”, la circolare recitava: “Noi sappiamo benissimo che nelle foibe finirono non solo gli sfruttatori e assassini fascisti italiani ma anche i traditori del popolo croato, i fascisti ustascia e i degenerati cetnici. Le foibe non furono che l’espressione dell’odio popolare compresso in decenni di oppressione e di sfruttamento, che esplose con la caratteristica violenza delle insurrezioni popolari “.
Uno storico triestino della Resistenza, Galliano Fogar, va giù duro scrivendo di “violenze di alcuni esponenti partigiani slavi che suscitano il terrore” nell’Istria del settembre 1943. I massacri delle foibe, “dopo sommari processi, hanno il carattere di rappresaglia brutale”. “Nazionalismo e socialismo diventano sinonimi della guerra al nemico”.
“Uno degli obiettivi che alcuni esponenti slavi vogliono conseguire il più presto possibile, è la distruzione della classe dirigente istriana, quasi tutta italiana”. La “responsabilità delle violenze e delle uccisioni indiscriminate ricade generalmente sulla volontà, sulla tolleranza e sulla complicità di singoli dirigenti politici e militari, talora improvvisati, che lungi dal comportarsi come soldati pionieri di libertà e di giustizia, furono apportatori di persecuzioni”.
Tra le vittime ci furono operai, contadini, piccoli funzionari, insieme a gerarchi e manganellatori; quindi scriverà Cesare Vetter “gli infoibamenti furono soprattutto l’esito violento della rivolta contadina contro fascisti e italiani vissuti come padroni” e “furono certamente atti irrazionali e crudeli”. Perfino P. Flaminio Rocchi, che nel suo libro raccoglie il fior fiore della violenza verbale dei cronisti e storiografi fascisti contro i partigiani, e scrive dalla sponda della diaspora istriana antislava, finisce per concludere le sue considerazioni col dire che “si tratta di episodi locali, causati spesso da bande incontrollate” che crearono comunque in Istria un’atmosfera di incubo. E non soltanto fra gli italiani. Tra i documenti da noi consultati c’è un rapporto del 41º Corpo dei Vigili del Fuoco di Pola comandato durante la seconda guerra mondiale dal maresciallo Arnoldo Harzarich, impegnato per diversi mesi, come già accennato, nell’esplorazione delle foibe e nel recupero delle salme.
Intanto va precisato che l’Harzarich, dopo aver abbandonato Pola verso la fine di aprile del 1945, nel momento in cui le truppe jugoslave dilagate in Istria avanzavano verso la città dell’Arena, raggiunse Trieste e successivamente il territorio amministrato dal Governo Militare Alleato in Italia. Tornò a Pola quando la città fu ceduta provvisoriamente agli alleati (giugno 1945-estate 1947), ed ai funzionari del Governo Militare Alleato rilasciò una lunga testimonianza su tutte le operazioni di recupero delle salme dalle foibe compiute dal suo reparto. Quella testimonianza – “Relazione di un sottufficiale dei VV.FF. del 41° Corpo di stanza a Pola” fu stilata dall’Ufficio “J” del Gma in data 12 luglio 1945 (si trova negli archivi dell’Istituto per la storia del Movimento di liberazione del Friuli Venezia Giulia a Trieste) e risente fortemente del clima dominante nel periodo in cui fu dettata, contrassegnata da accesi scontri politici fra filotitini e loro avversari, un clima nel quale, per esigenze propagandistiche, furono rispolverati anche gli eccidi delle foibe.
Nella sua relazione, peraltro “tecnicamente” corretta, Harzarich si servì anche dei documenti di provenienza fascista dello autunno 1943, epoca in cui le esplorazioni delle foibe furono fortemente pubblicizzate dalla radio e dalla stampa nazifascista anche per giustificare i massacri delle SS nella penisola e per sviare l’attenzione da quei sanguinosi rastrellamenti. Il rapporto di Harzarich menziona pressoché tutte le foibe esplorate da Vines, Terli, Castellier, Gimino, Surani, Cregli, Carnizza alle altre. Alcune risultarono vuote, in altri casi furono trovati i resti mortali di persone scomparse o arrestate dagli insorti nel settembre-ottobre 1943 ma anche carcasse di animali. Complessivamente furono estratte 203 salme, delle quali 121 identificate. Sempre secondo quel documento, tuttavia, le vittime istriane della rivolta popolare erano da calcolare a “non meno di 460 e non più di 500″.
Queste cifre, spiegava il testimone, si ottenevano sommando agli infoibati le persone date come disperse nelle varie località istriane, 19 civili fucilati e gettati in mare nei pressi di Santa Marina di Albona e un numero approssimativo di corpi che non avevano potuto essere recuperati dalle cavità carsiche in quanto in alcune di esse, le più profonde, era stato impossibile raggiungere tutte le salme per insormontabili difficoltà tecniche. Il recupero fu parziale per le foibe di Cregli, di Barbana (Carnizza), di Semi (Semici) e di Castel Lupogliano. Più volte, a proposito di foibe, è stata posta la domanda se le condanne a morte seguite da fucilazioni e infoibamento di cadaveri o in altro modo barbaro – scaturirono da processi o no.
Fornirò in proposito le risposte date da due storici fiumani, l’italiano Luciano Giuricin e il croato Antun Giron, gli unici che, insieme al sottoscritto, hanno finora affrontato l’argomento in Croazia. Raccolsi e pubblicai le loro dichiarazioni sul tema nel già citato testo “Cadaveri scomodi”. Antun Giron ricorda che il Governo partigiano, ovvero “il Consiglio antifascista di liberazione della Croazia (Zavnoh) raccomandava nelle sue direttive la celebrazione dei processi”, che però non sempre avvenivano perché in quella guerra guerrigliata “con il nemico alle spalle, si aveva il fiato corto e si ricorreva a soluzioni rapide”.
Consultando i pochissimi documenti finora disponibili in Croazia ci si rende conto – è sempre Giron a dirlo – che “non veniva applicata una procedura univoca” a carico delle persone catturate, facendo capire che molte di esse venivano liquidate sol perché un commissario o chi per lui troppo “rivoluzionario” e poco scrupoloso decideva che bisognava liquidarle e basta.
E questa è una delle ragioni per cui “si stenta a fornire interpretazioni di quei tristi fatti”. Dice ancora Giron: “Bisognerebbe scavare nei documenti e nei resoconti dei servizi informativi che per conto dello Zavnoh operavano durante la resistenza”. Documenti tuttora inaccessibili. A sua volta Giuricin, percorrendo anche sentieri interpretativi indicati già nel corso della Resistenza, spiega: “Le violenze del 1943 in Istria esplodono sull’onda di un’insurrezione popolare per molti aspetti spontanea, densa di entusiasmo patriottico nazionale e di riscatto sociale, che assume risvolti di una tipica rivolta contadina per le masse croate, ma anche proletaria nelle zone minerarie, industriali e cittadine dove prevale l’elemento italiano, contro l’odiato stato fascista appena crollato e come risposta alla ventennale politica di sopraffazione e snaturalizzazione. La resa dei conti, considerata necessaria da tempo da tutti i partiti antifascisti italiani in esilio e in particolare dal Movimento popolare di liberazione, si fa subito sentire con i primi arresti, anche indiscriminati, avvenuti in quasi ogni località dell’Istria sotto la pressione dei rivoltosi e di non pochi elementi estremisti e facinorosi, approfittando del vuoto di potere e del caos venutosi a creare quasi dappertutto”.
Ricorda che nella sua Rovigno un gruppo di estremisti di sinistra si autodeterminò “Guardie della Rivoluzione”, costituendo una specie di corpo di polizia denominato “Ceka” sull’esempio della polizia segreta bolscevica creata durante la rivoluzione d’ottobre in Russia: “I massimi esponenti del comitato partigiano rovignese, con Pino Budicin e Giusto Massarotto in testa, ebbero un bel da fare per neutralizzare l’azione di questi avventurieri e far sì che gli arresti fossero limitati ai soli fascisti responsabili di precise colpe durante il ventennio”.
Le persone arrestate a Rovigno, stando sempre alla testimonianza di Giuricin, che all’epoca era un giovanissimo partigiano ed agiva sul posto, “dopo attento vaglio furono inviate a Gimino e quindi a Pisino dove dovevano essere raggruppate a quelle provenienti da tutta l’Istria e giudicate da appositi tribunali popolari”. Un tanto era stato concordato e garantito in precedenza sulla base delle disposizioni dello Zavnoh e delle raccomandazioni del Cpl regionale istriano del 13 settembre, secondo le quali la punizione dei criminali fascisti doveva essere decisa mediante regolari processi, “impedendo giustizie arbitrarie e vendette personali”. Queste direttive “furono eseguite solo in parte” a causa della rapida e sconvolgente avanzata delle truppe motorizzate tedesche che tutto travolgono davanti a sé, seminando la morte e distruzioni, con barbari eccidi, incendi, fucilazioni in massa di inermi cittadini nella seconda metà di ottobre.
In questo momento di panico generale, con le unità partigiane appena costituite, allo sfascio e disperse, alcuni comandanti di reparti minori decidono di “liberarsi dal peso dei prigionieri”, e vengono compiuti quelli che Giuricin definisce giustamente “gli orrendi misfatti delle foibe da parte dei carcerieri e degli uomini senza scrupolo incaricati di eliminarli al più presto senza lasciare traccia”.
Sull’argomento esiste una relazione testimonianza dell’allora capitano del Poc (Partizanski obavjestajni centar), il Servizio informativo partigiano, Zvonko Babic che, per incarico del Comando del Litorale croato e dell’Istria compì un giro di ispezione nella penisola subito dopo l’offensiva nazista. Nel suo rapporto, datato 6 novembre 1943, egli scrisse che “la lotta contro i nemici del popolo” era stata condotta in maniera “radicale” in certe zone, in altre fiaccamente, evidenziando però anche “deviazioni“. Così in certe località erano stati gli stessi comandi partigiani ad impedire le esecuzioni, al punto da inviare informazioni che affermavano l’avvenuta liquidazione dei condannati, cosa che non rispondeva al vero; là dove le liquidazioni erano veramente avvenute, non tutti gli arrestati erano finiti nelle foibe, ma erano stati liberati dalle truppe germaniche oppure erano rimasti uccisi sotto i bombardamenti tedeschi.
Risultò ancora che gli incaricati diretti della cattura dei fascisti non conoscevano affatto i veri “nemici del popolo”, e mancavano dati precisi sulla loro colpevolezza. Le zone meglio “ripulite“, sempre secondo la relazione Babic, risultarono quelle di Gimino e l’agro Parentino. Il Babic sottolineò pure che tra gli arrestati figurava un sacerdote che era stato rimesso in libertà dopo l’intervento diretto del vescovo di Parenzo e Pola, monsignor Raffaele Radossi. Secondo Giron, è da escludere che il movente di una parte degli arresti e delle liquidazioni di “nemici del popolo” sia stato l’odio nazionale, ovvero il sentimento anti-italiano di certi capi partigiani croati. Su questa base, non ci sarebbero state vendette. Sta il fatto, però, che nel settembre 1943, di fronte alle violenze compiute dagli insorti si diffuse una grande paura fra larghi strati della popolazione di etnia italiana in Istria, come viene rilevato anche dalla relazione del dott. Oleg Mandic, nativo di Abbazia presso Fiume, esponente dello Zavnoh, inviato nel 1944 in Istria dal governo partigiano della Croazia.
Ancora in quell’anno egli scrisse “una certa dose di timore gli italiani l’avevano al ricordo del giudizio sommario a cui i partigiani sottoponevano i fascisti e di cui queste popolazioni sono state testimoni involontari”. Qui si parla di fascisti, nel rapporto del Babic di “nemici del popolo“. Nessuno dei due scrive a chiare lettere che, purtroppo, finirono uccisi anche degli innocenti, vittime di basse vendette personali, e tuttavia la relazione Babic lo fa capire. In essa si afferma che da una foiba furono estratte, fra le altre, le salme di tre giovani sorelle fra i diciassette e i ventun anni, una delle quali incinta, insieme al cadavere di un ragazzo diciottenne trucidato insieme al padre. Il riferimento è alla foiba di Lindaro. Tra gli infoibati di Albona troviamo Giacomo Macillis, noto per essere stato uno degli esponenti della rivolta antifascista dei minatori del bacino carbonifero di Arsia nel marzo-aprile1921. Più tardi verrà liquidato pure Lelio Zustovich, massimo dirigente dell’organizzazione albonese del Partito comunista italiano sin dalla sua costituzione, “colpevole” per essere venuto in contrasto con gli esponenti del Partito comunista croato e da essi, perciò considerato un ostacolo allo sviluppo della “linea” del Movimento popolare di liberazione in Istria.
Abbiamo già detto che i drammatici episodi delle foibe furono reclamizzati con descrizioni a tutta pagina dai giornali fascisti che seguirono giorno dopo giorno le esplorazioni delle voragini carsiche compiute dai vigili del fuoco, cercando di attizzare l’odio antipartigiano e di mobilitare nuove reclute nelle sparute file repubblichine al fianco dei nazisti.
Non mancarono tuttavia preoccupazioni e denunce in seno allo stesso Movimento di liberazione. Nella prima conferenza dei comunisti istriani svoltasi a Brgudac nel novembre 1943; presenti 500 delegati, il massimo esponente italiano del Mpl istriano e membro dello Zavnoh, Pino Budicin, rivolse una dura critica ai dirigenti del Partito comunista croato per i selvaggi infoibamenti e, come si esprime Giuricin, per “alcuni altri incresciosi incidenti di stampo nazionalista”, anti-italiano, registrati durante l’insurrezione istriana. Quegli “incresciosi incidenti” stavano causando “un certo disorientamento tra l’elemento italiano dell’Istria”, sostenne Budicin, “e non pochi danni al Movimento di liberazione stesso”.
Alle critiche di Budicin fu risposto che non era quello il momento di spargersi la cenere sul capo e di dare la caccia a quei partigiani che si erano macchiati di colpe. Bisognava invece salvaguardare l’unità del movimento resistenziale, senza sacrificare nessun attivista e dedicare tutti gli sforzi unicamente alla lotta contro i nazisti e i loro collaborazionisti impegnati nell’operazione delle Divisioni SS “Prinz Eugen” e “Leibstandarte Hitler”, unità queste che stavano mettendo a fuoco l’Istria intera devastando, incendiando, saccheggiando, massacrando e deportando.
Sul caso delle foibe prese la parola in quell’occasione anche Antonio Vincenzo Gigante detto Ugo, brindisino, già membro del Cc del Pci, riparato in Istria dopo essere fuggito da un campo di internamento insieme ad alcuni croati. Pur condividendo le tesi del compagno connazionale istriano, “Ugo” concluse: “Lasciamo stare, ora è il momento di battere i tedeschi!”. Uno dei punti all’ordine del giorno della consultazione era, infatti, la “mobilitazione degli italiani nel Movimento popolare di liberazione”. Pochi mesi dopo, l’8 febbraio 1944, Giuseppe Budicin -Pino ed Augusto Ferri detto il Bolognese, anche questi alto dirigente della Resistenza istriana, ex ufficiale dell’Esercito italiano di occupazione in Croazia, caddero in mano ai fascisti repubblichini per la spiata di un collaborazionista croato in camicia nera, subirono inenarrabili torture dai fascisti rovignesi e sotto le torture morirono. Qualche mese dopo, nel luglio 1944, l’argomento foibe fu sollevato anche dal Clnai, il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, presso il quale era accreditato in rappresentanza dell’Esercito popolare di Liberazione jugoslavo lo sloveno Anton Vratusa-Urban.
Inviando al Clnai una relazione di risposta sull’argomento “Urban” parlò di “singole irregolarità” verificatesi nei giorni di settembre 1943 in Istria, definendole “fenomeni marginali dovuti in maggioranza a singoli elementi locali irresponsabili, infiltratisi nel nostro movimento”. Relazione reticente; è chiaro. Ma gli infiltrati certamente ci furono in Istria e altrove. Gli infoibamenti, tuttavia, non furono semplici “irregolarità“. Riscrivo qui il breve racconto apparso sul quotidiano “La Voce del Popolo” di Fiume il 26 luglio 1990, a firma di “lama” (Laura Marchig) sotto il titolo: Storia di Libera e di suo padre:
“Nella memoria della gente della valle di Cepic è rimasta la figura di Libera Sestan, una giovane donna di Novako, un paese del comune di Pisino. Era nata nel 1919 e all’epoca aveva 24 anni. Libera era bellissima e, raccontano, aveva un animo dolce e sensibile. La sua era una famiglia benestante che certo suscitava l’invidia di molti. Si era sposata con un ufficiale dei carabinieri e aveva due figlie piccole. Era solita recarsi molto spesso a Pisino, per fare compere o concludere qualche affare, abitudine che gli abitanti delle campagne attorno alla cittadina hanno mantenuto anche oggi. Questo però fu sufficiente e pretesto a un suo parente, Veljko Sestan, partigiano, per dichiararla spia e nemica del popolo. Andò a prelevarla a casa, con un manipolo di suoi collaboratori, trascinando via con lei anche il padre. Dicono che li pregasse in ginocchio di permetterle di rivedere per un’ultima volta le sue piccine, ma le fu negato. Prima di gettarla viva, insieme al padre, nella foiba di Chersano, la malmenarono e le bruciarono i capelli. Il delitto non restò impunito. Un altro suo cugino, Ervin Sestan, che le era molto affezionato, impazzì quasi dal dolore. Subito dopo quei fatti, si unì per vendetta e per disperazione all’esercito tedesco. Dopo qualche tempo arrivò insieme ai tedeschi a prendere Veljko in casa. Veljko appena li vide tentò di scappare scavalcando la finestra sul retro e correndo via per i campi, ma Ervin sparando con una pistola dalla finestra riuscì a colpirlo alla testa e ad ucciderlo”.
I nomi di alcuni feroci massacratori spacciatisi per partigiani a quell’epoca corrono ancora oggi sulla bocca degli istriani rimasti in Croazia. Il primo che raccolgo è quello dell’albonese Mate Stemberga, nato a San Bartolo. Si dice che sia stato lui a infoibare personalmente un avvocato di Albona, Pietro Milevoj (classe 1897), militante del partito fascista. Nell’intervista concessa alla giornalista de “La Voce del Popolo” Laura Marchig all’inizio di agosto 1990, una donna anziana di Vines così si espresse sullo Stemberga: “No ghe mancava niente, el gaveva l’America a Vines. La sua era una famiglia molto ricca, erano possidenti, ma lui, non so perché, odiava i benestanti, i borghesi in genere, odiava tutti, e divenne il carnefice del movimento partigiano. Dicono che sia stato Stemberga il primo a gettare la gente nelle foibe. Ma mica solo nelle foibe: in mare, nelle grotte d’acqua salata vicino a Fianona. Ammazzava la propria gente. Fu lui, a capo di uno squadrone della morte, a raccogliere per le case di Albona parecchie decine di italiani, scelti fra quelli che egli conosceva, tra quelli che appartenevano alla piccola borghesia albonese. Diceva che questi, una volta arrivati i tedeschi, avrebbero potuto collaborare con loro. Li vennero a prendere di notte, li legarono insieme con del filo di ferro e li caricarono su una barca, poi li trasportarono al largo. Lì, a ognuno un colpo in testa e, via, in mare. Mate Stemberga era un criminale, ne ha accoppati tanti, ma tanti! Ha rovinato anche la mia famiglia”.
“Per rappresaglia, quando vennero, i tedeschi ammazzarono la sua donna che era incinta. Suo fratello Tommaso morì anche lui, nelle carceri di Pola. Un altro fratello, Ive, e Katica moglie di Ive, finirono a Dachau. La madre invece rimase a Pola, come ostaggio, in prigione, fino a quando non acciuffarono il figlio e lo uccisero. L’unica ad essere stata risparmiata della famiglia Stemberga fu la cognata, moglie di Tommaso, che era incinta. Mate Stemberga morì come un cane. Lo presero mentre si nascondeva in una casa di Carbune dalle parti di Cepich. Si era infilato nel camino, ma gli videro i piedi che penzolavano e spararono”.
La donna che ha fatto questo racconto ha voluto mantenere l’anonimato, ma ha aggiunto, tra i criminali infiltratisi nelle file partigiane, anche il suo ex marito, Mate Skopac, all’epoca Matteo Scopazzi. “Lui stesso raccontò un giorno a mio nipote Rino di non sapere quanti ne aveva buttati in foiba. L’unico suo cruccio era di non essere riuscito ad ammazzare anche me, sua ex moglie… Tanti misfatti sono stati compiuti per odio, per vendetta. L’episodio più brutto che ricordo è lo sterminio della famiglia Faraguna, composta da cinque persone, di cui una bambina di pochi mesi. I Faraguna, detti Bembici, furono ammazzati dai Kos, una famiglia di Ripenda, un villaggio vicino. La solita apparente lotta fra comunisti e non comunisti, ma il motivo vero era l’invidia e l’odio. Accusarono i Faraguna di avere un tedesco in casa, il Paris, secondo marito della figlia. Li catturarono e li portarono a Smokvica, dalle parti di Fianona. Là li uccisero e gettarono i cadaveri nelle caverne con acqua salata che ci sono da quelle parti. A perdere la vita furono padre, madre, la loro figlia e il secondo marito di questa, La bambina invece l’ammazzarono più tardi, il corpicino fu trovato a parecchi chilometri di distanza”.
Il racconto dell’anonima torna sull’ex marito, lo Skopac-Scopazzi, al quale la donna imputa pure l’assassinio di una certa Emma di Fianona, sposata con un italiano di Napoli che era sospettato di collaborare con i tedeschi. “Mario li andò a prendere con un camion, ve li caricò e li portò via. Spariti”. Anche lo storico Luciano Giuricin ha fatto i nomi di alcuni “criminali infiltrati nel movimento partigiano”, fra questi Mate Stemberga, “un vero e proprio sadico assassino”, ed il rovignese Gregorio Budicin detto Trigambe “degno compare del primo” ed altri avventurieri che a guerra finita, scoperti, pagheranno il fio dei loro nefandi misfatti. Ciò detto, “non possono essere sottaciute – afferma Giuricin – le responsabilità di non pochi tra i massimi esponenti del Mpl di allora, effettivi mandanti” dei massacri.
L’esule istriano Gaetano La Perna, da molti anni collaboratore dei giornali della diaspora istriana ed autore del già citato libro “Pola Istria Fiume 1943-1945” (La lenta agonia di un lembo di terra) amplia il ventaglio dei nomi di cosiddetti malfattori e di responsabili. Secondo lui i principali “inquisitori, accusatori, giudici, carnefici, aguzzini e sicari che si resero tristemente famosi in tutta l’Istria per la loro azione” di liquidazione degli avversari furono: Ivan Motika, “il principale giudice del Tribunale del popolo di Pisino”; un non meglio identificato Beletich detto “Drago“; una lattivendola dei dintorni di Pisino di nome Tonka Antonia Surian.
E ancora: l’ex sergente dell’esercito italiano e già studente universitario a Padova, Ciro Raner con le sorelle Nada, Vanda e Lea; il rovignese Giusto Massarotto; il gobbetto Ivan Kolic detto il “terrore di Barbana” e Rade Poropat, barbanese pure lui; il maestro elementare Joakim Rakovac di Racozzi; i fratelli Silvio e Antonio Bencich di Sanvincenti (il primo sarà ucciso in un’imboscata da un tenente dei carabinieri); il capo della polizia partigiana dell’Istria centrale Giovanni Maretich e il suo collaboratore Benito Turcinovich (che sarà uno dei primi comandanti del battaglione partigiano italiano “Budicin“) e l’immancabile Matteo Stemberga, “contrabbandiere molto noto nella zona” di Albona che “verrà ucciso per vendetta dal fascista Francesco Mizzan di Pisino la sera del 6 novembre 1943 a Villa Carbune in Valle di Pedena”.
Dai documenti e testimonianze finora raccolti risulta: tra i giustiziati nell’insurrezione istriana ci furono anche non pochi innocenti, vittime di odi, rancori e vendette personali, ma nella loro maggioranza gli arrestati, sommariamente processati, giustiziati e gettati nelle foibe, lo furono non perché fossero italiani (alcuni certamente anche per questo semplice fatto) ma per aver commesso violenze e soprusi durante il ventennio – chi semina vento raccoglie tempesta – o per essersi macchiati di collaborazionismo e di spionaggio a favore degli invasori tedeschi all’inizio dell’insurrezione; fra i giustiziati vi furono numerosi croati; fra i “giustizieri” di italiani, fascisti e no, vi furono anche degli italiani.
I documenti e le testimonianze dimostrano ancora, senza ombra di dubbio, che i massimi organismi del movimento partigiano croato, a cominciare dallo Zavnoh, e gli stessi capi dell’insurrezione istriana sin dall’inizio diedero chiare direttive sul comportamento da tenere in Istria verso gli Italiani: evitare persecuzioni, non fargli alcun male. Poi, tra il dire e il fare… ci si misero i delinquenti infiltrati. Altrettanto abbondantemente dimostrato è il fatto che le pubblicazioni sulle foibe e gli elenchi dei cosiddetti infoibati e giustiziati di provenienza nazionalistica e neo e/o post-fascista italiana contengono inesattezze, esagerazioni e perfino falsificazioni; in altre parole, evidenziano la strumentalizzazione di cui è stato e continua ad essere oggetto oggi quel drammatico periodo della storia istriana. La strumentalizzazione, favorita dal lungo silenzio dell’altra parte, ha inevitabilmente fatto delle foibe il monumento alla divisione, al razzismo, all’intolleranza documenti e le testimonianze, esibiti dalla parte croata negli ultimissimi anni, anche se parziali, dimostrano d’altra parte che il problema delle foibe non è una mostruosa montatura dei fascisti, ma una reale, dolorosissima ferita ancora aperta (sulla quale i fascisti hanno speculato e speculano), un problema che merita la massima attenzione, studio, giudizi equilibrati, anche se non si possono mettere sullo stesso piano coloro che per decenni praticarono la violenza e infine la scatenarono, e quanti a quella violenza reagirono, talvolta con ferocia , nel momento storico della svolta.
È inaccettabile la tesi di coloro i quali mettono sullo stesso piano l’eccidio compiuto dai tedeschi alle Fosse Ardeatine di Roma e le vittime dell’insurrezione istriana di settembre.
Nel primo caso furono trucidati degli ostaggi chiaramente innocenti, estranei al fatto bellico per il quale furono massacrati. Nel caso dell’Istria furono per lo più arrestati, e poi giustiziati nelle circostanze dell’offensiva nazista, quei gerarchi, funzionari ed altre persone che, nell’imminenza della prevista calata dei tedeschi nella penisola istriana, sarebbero certamente passati al nemico, avrebbero collaborato (come molti, infatti, collaborarono) all’azione di sanguinosa repressione e di sterminio delle colonne d’invasione.
Va pure detto, infine, che – considerate nel contesto globale delle tragedie legate alla seconda guerra mondiale – le foibe istriane “hanno un peso marginale”, a dirla con le parole dello storico triestino Giovanni Miccoli in una conferenza tenuta il 24 settembre 1996 a Opicina. Certo, valutato nel ristretto ambito dell’area istro-giuliana il fenomeno diventa una tragedia di ben altra portata. Tuttavia condivido il parere di Miccoli:
“E’ necessario ridimensionare questo terribile capitolo storico” sul quale si è fatta “tantissima confusione“. Una confusione favorita da quel silenzio mantenuto per oltre mezzo secolo dalle autorità dell’ex Jugoslavia e dalla chiusura pressoché totale degli archivi dei servizi segreti che operarono durante la guerra. Appena in questi ultimissimi anni anche nelle repubbliche di Slovenia e Croazia hanno cominciato a tirare fuori gli scheletri dagli armadi. Presso l’Istituto per la storia croata (Institut za hrvatsku povijest) di Zagabria è in corso di realizzazione da circa un anno un progetto di ricerche dal titolo “Vittime della seconda guerra mondiale”. Le ricerche, il cui coordinamento è stato affidato allo storico Mihael Sobolevski di Fiume, riguarda le vittime del nazifascismo e del comunismo, comprese le vittime istriane delle foibe.
Vogliamo sperare che, tenendo pur conto dei non pochi misfatti compiuti ai danni dei croati e sloveni istriani prima e durante la guerra, tenendo conto ancora del caos provocato dall’armistizio italiano e dalla insurrezione istriana nel quale non sempre fu possibile separare i colpevoli dagli innocenti, sia tuttavia fatta piena luce, tenendo pur conto dei non pochi misfatti compiuti ai danni dei croati e sloveni istriani prima e durante la guerra, tenendo conto ancora del caos provocato dall’armistizio italiano e dall’insurrezione istriana nel quale non sempre fu possibile separare i colpevoli dagli innocenti, sia tuttavia fatta piena luce.
Il mio vuol essere un modestissimo contributo agli sforzi tendenti a scoprire la verità, per amara che sia, superando ogni sorta di omissioni e reticenze, ogni specie di tabù, pregiudizi, preconcetti e velleità di strumentalizzazione dall’una e dall’altra parte del confine, dando così inizio a un esame sereno e rigoroso del caso foibe, disegnandone l’esatta dimensione storica.
Si smetta di dire, da una parte e dall’altra, che le vittime innocenti, pulite e rispettabili stanno tutte dalla propria parte, e si operi da parte di tutti come già auspicato nel dicembre 1989 alla tavola rotonda di Capodistria per eliminare le condizioni che alimentano la violenza e tutti i fattori che di essa si servono.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
* Rossa una stella, di Giacomo Scotti e Luciano Giuricin – Rovigno 1975
* Confine orientale. Questione nazionale e resistenza nel Friuli-Venezia Giulia, di Mario Pacor, – Milano 1964
* Sotto l’occupazione nazista nelle provincie orientali, di Galliano Fogar – Del Bianco editore, Udine 1968
* Dall’Irredentismo alla Resistenza nelle provincie adriatiche, di Gabriele Clocchiatti – Udine 1966
IL DRAMMA IN ISTRIA
La politica di snazionalizzazione attuata in territorio giuliano dal movimento e dal regime fascista.
Cominciò con l’ascesa al potere. Quando il Duce disse…
“QUESTI SLAVI BARBARI E INFERIORI
PARLERANNO SOLTANTO ITALIANO”
di FERRUCCIO GATTUSO
Venezia Giulia tra deslavizzazione e foibe.
Solo da pochi anni, la storiografia del nostro paese sta cominciando a gettare il proprio sguardo sul tragico evento detto delle foibe. Ragioni di opportunità politica, più spesso di pavidità, hanno consigliato che – sul massacro sistematico compiuto tra il maggio e il giugno 1945 dalle forze tito-comuniste nei confronti dei gruppi di nazionalità italiana in territorio giuliano – calasse una cappa di silenzio.
Il crollo del comunismo, con il conseguente mutamento dei ruoli sulla scena internazionale, ha portato a una situazione favorevole al raggiungimento della verità. Prima il rapporto di alleanza tra forze comuniste italiane e iugoslave, poi il ruolo strategico che poteva svolgere la Yugoslavia di Tito, ribelle a Stalin e all’URSS dal 1948 e quindi utile all’Occidente, fecero sì che vincesse la politica degli “occhi chiusi”.
Le foibe – le fenditure carsiche nelle quali vennero gettati, morti e vivi, legati fra loro, fino a diecimila italiani (ma sulle cifre persistono controversie), in una vera e propria mattanza etnica ad opera dei partigiani titoisti – sono rimaste, così, un “imbarazzo” tra Italia e Yugoslavia, uno scheletro da lasciare nell’armadio, magari spiegandolo sommariamente come una “naturale” reazione alla politica e alle persecuzioni fasciste, anti-slave, nella regione di confine.
Data questa premessa sulla necessità di dare una giusta dimensione alla tragedia delle foibe, e auspicando che la loro cruda verità possa un giorno essere insegnata nelle nostre scuole, con questo articolo vogliamo compiere un viaggio, per quanto sintetico, proprio negli eventi precedenti, e cioè nella politica di denazionalizzazione e deslavizzazione attuata dal movimento e dal regime fascisti in territorio giuliano, sin dalla sua ascesa al potere. In qualche caso, ancora prima. Precisando che questi fatti non costituiscono – in alcun modo, per nessun motivo – una scusante o un’attenuante per l’incubo delle foibe che seguì.
Italia liberale e regime fascista: politiche di confine
Basti in questa sede un accenno alla percezione che la popolazione slava ebbe, all’indomani della Prima guerra mondiale, della presenza del governo italiano in territorio giuliano e in genere nel Nord-Est. La storiografia slovena non fa infatti molta differenza tra le strategie attuate dal governo liberale che emerse vittorioso dal conflitto del ’15-’18 e il successivo regime fascista: l’azione delle autorità militari italiane fu comunque quella di limitazione delle attività degli intellettuali sloveni e della chiusura di molte scuole di lingua slovena. La storiografia italiana imputa la presenza delle misure “anti-slave” adottate come un segno di impreparazione e di pressappochismo delle autorità locali regie, che avrebbero dovuto attenersi alle direttive di Roma – miranti ad un inserimento morbido e graduale di queste terre nel Regno – e che si videro condizionate dall’atteggiamento aggressivo dei nazionalisti e dei militari presenti sul territorio.
L’impresa di Fiume, compiuta da Gabriele D’Annunzio, sebbene distaccata dalla cornice giuliana, contribuì indubbiamente ad esacerbare gli animi e a radicalizzare la situazione. Un altro elemento importante fu l’accostamento tra antislavismo e anticomunismo, in un quadro schematico che riemergerà, più vivo che mai, nel secondo dopoguerra, questa volta a danno degli italiani. Per i partigiani titini “italiano e fascista” sarebbe divenuto una tautologia. In ogni caso, le forze socialiste italiane si dimostrarono sempre solidali con le popolazioni slave e, in specifico, slovene, e il fascismo ebbe gioco facile nel coniare terminologie come “slavocomunista”.
A sostenere l’operato antislavo del movimento fascista, e delle compiacenti autorità locali di ispirazione nazionalista, vi era anche la carta scritta: quella del Trattato di Rapallo del novembre 1920, che avrebbe dovuto regolare un certo equilibrio tra le varie comunità di nazionalità differenti nella regione, ma che alla fine risultò essere (non dimentichiamo che gli italiani vi parteciparono da vincitori del conflitto mondiale) uno strumento per arginare gli slavi: l’Italia non si vedeva obbligata a particolari misure di tutela delle minoranze slovena e croata, mentre otteneva particolari diritti e strumenti di difesa per la comunità italiana in Venezia Giulia. È questa quindi l’atmosfera nella quale accadono gli eventi dell’Hotel Balkan.
Fiamme all’Hotel Bakan
Si può dire che il primo atto che segna l’approdo del fascismo in terra giuliana sia l’incendio dell’Hotel Balkan, a Trieste. È il 13 luglio 1920, e l’atmosfera è resa elettrica da poche ore: a Spalato, il giorno prima, alcuni ufficiali della Marina italiana appartenenti alla nave “Puglia” si erano impossessati di una bandiera iugoslava, generando scontri con la popolazione dalmata. In questi scontri non mancarono i morti, su entrambi i fronti. Lo scenario, da qualche mese, esattamente dalle prime settimane dello stesso anno, si era radicalizzato con l’arrivo nel Nord-Est di un uomo di Mussolini, l’attivista Francesco Giunta, laziale, completamente avulso dalla conoscenza del territorio, dei complessi equilibri sociali ed etnici. Una scintilla, in una polveriera. Fu proprio Giunta a raccogliere a Trieste, in Piazza Unità, una moltitudine di fascisti e di gruppi d’ispirazione nazionalista italiana per una manifestazione dichiaratamente antislava. Il comizio tenuto da Giunta è di quelli che accendono gli animi: non è certo l’arma della retorica che manca ad un attivista come lui. In Piazza Unità si registrano così le prime intemperanze, che vedono la morte di un giovane italiano di nome Giovanni Nini.
Le cronache non furono mai chiare sull’accaduto, ma c’è più di una probabilità – come ricorda Gianni Olivia nel suo “Foibe” – che l’incidente fosse stato “provocato ad arte per scatenare la folla”. L’effetto è quello di scatenare gli squadristi fascisti che, in massa, si dirigono vero quello che, per gli italiani, era conosciuto come l’Hotel Balkan, e per gli slavi il Narodni Dom, letteralmente “casa del popolo”. Tra queste mura venivano ospitate tutte le principali organizzazioni economiche e culturali della comunità slovena triestina, divenendo di conseguenza il simbolo più importante degli slavi della zona. Quando gli squadristi irrompono nell’Hotel Balkan, l’edificio è fortunatamente vuoto ma ciò che ne seguirà – un’impressionante devastazione sistematica – viene ricordata dallo stesso Renzo De Felice nel suo “Mussolini il rivoluzionario” “il vero battesimo dello squadrismo organizzato”.
Le “prove” all’Hotel Balkan, oltre a segnare un momento tristemente importante nella storia del fascismo di confine e della politica di deslavizzazione, furono la base sulla quale il movimento fascista organizzò tutte le sue azioni successive, a cominciare dalle “cacce” ad opera della camice nere nelle campagne padane.
L’Hotel Balkan viene incendiato, e gli squadristi impediscono l’intervento dei vigili del fuoco: nelle fiamme del “Narodni Dom” salgono al cielo archivi, testimonianze, libri, la memoria della comunità slovena triestina. Vi sono delle vittime: le uniche persone all’interno dell’edificio sono lo sloveno Hugen Roblek e sua figlia, che si gettano dal primo piano. Roblek muore sul colpo, la figlia sopravvive.
Nelle ore e nei giorni che seguono, la violenza fascista non si arresta: squadracce di camice nere assaltano la tipografia del giornale “Edinost”, le sedi delle banche slovene, studi e uffici di professionisti sloveni, nell’indifferenza delle autorità regie e delle forze dell’ordine. Il futuro Duce avrebbe definito l’operazione “il capolavoro del fascismo triestino”. Il fascista Rino Alessi, che avrebbe diretto il quotidiano “Il Piccolo” negli anni del regime, commentò così quei giorni: “Le grandi fiamme del Balkan purificano finalmente Trieste, purificano l’anima di tutti noi”.
La “vittoria mutilata”, terreno fertile per il fascismo Non vi è dubbio che il movimento fascista poteva contare su diversi fattori ad esso congeniali per esacerbare la situazione in territorio giuliano: il tema della “vittoria mutilata” si rivelò fondamentale. Il patto di Londra stipulato nel 1915, alla vigilia dell’intervento bellico dell’Italia al fianco degli Alleati, aveva comportato alcune promesse, che nel dopoguerra sembravano smentite da Francia, Stati Uniti e Inghilterra. L’Italia avrebbe dovuto espandersi nei territori di Trieste, Gorizia e Istria.
La creazione di uno stato iugoslavo indipendente – decisa alla Conferenza di Pace di Parigi – crea però un caso internazionale non indifferente: il principio dell’autodeterminazione dei popoli avanzato dal presidente americano Wilson risultava essere una miccia in una polveriera: quale confine dare all’Italia? Alla fine, per oltre trecentomila sloveni, l’annessione al Regno sabaudo verrà sentito come un’imposizione. Il repertorio, in questi casi, è purtroppo noto: in attesa della definizione dei confini, le autorità italiane cercano di nazionalizzare a forza determinate aree, presentandole come indubbiamente italiane. Se gli sloveni ambiscono ad unirsi al Regno iugoslavo indipendente che sta per nascere, gli italiani favoriscono tutte le possibili manifestazioni nazionaliste. E, in questo quadro, i fascisti nuotano come pesci in un acquario:
“Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava – commenterà Mussolini nel settembre 1920 durante un suo “tour” in Friuli e Venezia Giulia – non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani”.
Gli eventi che seguiranno a queste parole sono il consolidamento della federazione fascista di Trieste – che nella primavera del 1921 diventa la maggiore di tutta Italia, con quasi quindicimila iscritti – e le operazioni squadriste in occasione delle elezioni politiche del maggio dello stesso anno: le camice nere entrano in azione in tutto il territorio giuliano e friulano, a Trieste, come Gorizia, Monfalcone, Pordenone, in definitiva nei maggiori centri urbani industriali, dove la maggioranza restava italiana. Le operazioni delle squadracce si allargano a macchia d’olio, poi, verso la campagna, a maggioranza slava, slovena e croata. Vengono colpite tutte le associazioni e in genere tutte le strutture di aggregazione slave, i circoli del dopolavoro. In occasione dell’appuntamento elettorale, il già citato Giunta, l’uomo del Duce, tiene saldamente le redini del movimento ed è il boss locale incontrastato. Tutto è pronto, ora, per l’opera di definitiva deslavizzazione. Con alle spalle un governo, finalmente fascista.
Il fascismo al potere: la politica del regime nel territorio giuliano
Per il nuovo regime fascista che si instaura nell’ottobre 1922, la politica del cosiddetto “fascismo di confine” diventa una bandiera da sventolare in nome del nazionalismo e dell’italianità. Una politica aggressiva nel Nord-Est, e nei Balcani era naturalmente nell’ordine delle cose, e nella natura della dittatura che, nei mesi a seguire, si sarebbe progressivamente instaurata. La politica di deslavizzazione partiva dall’assioma che le comunità slovene di confine non avessero mai condiviso un sentimento di unità nazionale, essendo state appartenenti all’ormai dissolto Impero austro-ungarico.
Tra le prime misure locali del governo Mussolini ci sono gli effetti della Riforma Gentile del 1923: nelle scuole pubbliche di stato l’unica lingua ammessa è l’italiano. Questo provvedimento mira ad una deslavizzazione linguistica a lungo termine (e difatti il regime si rivelerà alquanto efficiente con interventi sulla toponomastica della regione). Un altro provvedimento attuato dal governo Mussolini è la creazione dell’Ispettorato speciale del Carso, un’istituzione che avrebbe controllato militarmente le campagne slovene. Poste sotto la guida di Emilio Grazioli, le squadre fasciste attuano operazioni di intimidazione, che si fanno via via sempre più crude con il consolidarsi del regime.
Dopo il 1925, la politica di snazionalizzazione corre a passo spedito: viene proibito l’uso di lingue diverse dall’italiano nei tribunali, e negli uffici amministrativi. Successivamente, in tutti i negozi e in tutti i luoghi pubblici. Si proibisce che in suddetti luoghi si canti o si discuta in lingua slava. Come detto, i nomi delle località vengono tutti italianizzati, le insegne dei negozi in lingua croata e slovena vengono rimosse. Ulteriore provvedimento, quello che colpisce la stessa identità della persona: il regio decreto del 7 aprile 1927 sentenzia l’italianizzazione dei cognomi. Per fare solo un esempio, il comunissimo cognome Vidalich diventa di conseguenza Vidali.
Nel giugno 1927 il regime fascista, attraverso il Ministero dell’Interno stringe il cerchio intorno agli elementi più significativi della cultura slava: quasi tutte le organizzazioni culturali ed economiche slovene e croate della Venezia Giulia vengono soppresse, i beni vengono confiscati, e si lasciano esistere solo alcune società di assistenza e di mutuo soccorso. Condizione che durerà solo fino alle porte degli anni trenta. Dopodiché qualsiasi presenza slava – che il regime definisce, con termine spersonalizzante, “allogena” – scompare.
Evidentemente, nella scuola l’operato della politica fascista di deslavizzazione si rivela inesorabile: i giovani sono la classe dirigente del futuro, e la proibizione delle lingue “allogene” in qualsiasi situazione scolastica, come detto, è la cosa più scontata. Non solo: ogni scuola slava viene chiusa (l’ultima a chiudere è la scuola privata slovena del quartiere San Giacomo a Trieste, nel 1930). Legato al tema dell’istruzione è quello dell’interpretazione e lettura degli avvenimenti storici: tutto passa sotto l’occhio revisionista e “normalizzatore” del nazionalismo italiano. A guidare questa politica è il provveditore di Trieste, il siciliano Giuseppe Reina, autore del bollettino intitolato “Scuola di confine”, che porta alla chiusura di ogni istituto non italiano e alla rimozione di qualsiasi insegnante “allogeno”.
Un altro fronte sul quale il “fascismo di confine” combatté la sua battaglia di deslavizzazione fu quello del clero e dei rapporti con la Chiesa cattolica: dopo l’insegnate, il prete parrocchiano così come la dirigenza ecclesiastica della regione giuliana andavano “normalizzati”. Nel clero la società rurale (e quindi a maggioranza slava) si identificava per tradizione: e proprio i preti vengono visti come la minaccia primaria, nella loro difesa dei valori culturali delle genti slovene e croate. Ovviamente, i primi ad essere colpiti sono i sacerdoti sloveni e croati: gli squadristi non perdonano, e si rendono protagonisti di aggressioni fisiche e, intimidazioni nei casi più innocui, e di attacchi a canoniche. A queste azioni formalmente irregolari degli anni prima del 1922, si sostituisce la politica sistematica del regime fascista.
Lo Stato – secondo disposizioni del 1925 – non può permettere che, in queste zone di confine, vi siano sacerdoti che officino la messa in lingua croata o slovena. Il congresso dei fascisti istriani di quello stesso anno afferma che “il fascismo poggia su tre cardini: Dio, Patria, Famiglia”. Tuttavia, precisa in un documento, “noi affermiamo che in Italia si può pregare solo in italiano”. La posizione del regime mette in chiara difficoltà la comunità cattolica italiana, che si vede costretta tra la “necessità” del patriottismo e il credo universalistico.
Il Concordato del 1929, si può dire, aggrava la situazione: la Chiesa è venuta a patti con Mussolini e, per assicurarsi vantaggi di posizione, accetta di mettere in condizione di non nuocere alcune figure rappresentative giuliane, come l’Arcivescovo di Gorizia, Monsignor Borgia Sedej, e il Vescovo di Trieste, Monsignor Luigi Fogar. Questi due importanti personaggi cercano di difendere l’autonomia della Chiesa dal regime fascista, così come il diritto delle comunità croate e slovene di potere celebrare messe in lingua slava.
Tra il 1931 e il 1936, Sedej e Fogar vengono allontanati, e sostituiti con figure più malleabili e accondiscendenti verso il fascismo. All’interno del clero si creano fronti contrapposti: alti prelati come Monsignor Antonio Santin, o Monsignor Giuseppe Nogara – il primo Vescovo di Trieste, il secondo Arcivescovo di Udine – affermano senza mezzi termini la necessità del nazionalismo nella regione. Nelle campagne, però, molti sacerdoti continuarono a officiare messa in croato e sloveno, generando attriti che, a questo punto, si trasformavano in lotte di potere gerarchico all’interno del clero.
Nella stessa società giuliana, poi, il regime fascista mette in campo tutte le tecniche di ogni sistema totalitario: polizia segreta, delatori, capillare controllo sociale. La comunità slava reagisce con organizzazioni clandestine, soprattutto composte da giovani, come il “Tigr” (dalle sigle slovene di Trieste, Istria, Gorizia e Rijeka, N.d.R.), di orientamento a sua volta nazionalista, collegata ai servizi segreti iugoslavi e disposta la terrorismo. La repressione fascista che seguiva agli atti terroristici era evidentemente durissima. Accanto ai nazionalisti, non mancano i comunisti: la “Borba” (letteralmente, “lotta”), praticava sabotaggi a impianti militari e delle comunicazioni, così come incendi a scuole italiane e a sedi fasciste. Tra le figure più combattive del “Tigr” va menzionato Pinko Tomazic, giovane intellettuale sloveno. Che cercò di coniugare nazionalismo e internazionalismo di differenti colori politici nella comune lotta antifascista. Tomazic troverà la morte nel 1941, con l’accusa di cospirazione armata, in seguito alla sentenza del Tribunale Speciale convocato a Trieste nel mese di dicembre.
Una strategia di più ampio respiro si rivela quella dell’allontanamento fisico delle popolazioni slave dalle proprie terre, quindi una vera e propria “bonifica etnica”, che il regime fascista attua: tra il 1928 e il 1930 vengono sciolte tutte le cooperative di acquisto e vendita e le casse rurali, di tutti gli istituti finanziari dei quali si avvalevano i contadini croati e sloveni. Gli istituti finanziari italiani propongono tassi di interesse proibitivi e così non resta che l’esodo. Oltre ad una crisi economica prodotta, si può dire, ad arte, e che avrà ripercussioni su tutta l’area balcanica, per molti anni a venire. Gli agricoltori sloveni e croati devono mettere all’asta le proprietà, arraffate da speculatori senza scrupoli. Il regime rende “scientifica” questa operazione istituendo l’Ente per la rinascita agraria delle Tre Venezie, che rileva le terre messe all’asta degli “allogeni” e le assegna ai coloni italiani. Eppure, la presenza slava nella regione resterà mediamente alta: molti agricoltori preferiranno passare da proprietari a dipendenti dei nuovi padroni italiani, piuttosto che abbandonare la terra.
Non c’è dubbio che la politica fatta di soppressioni e intimidazioni del fascismo di confine abbia contribuito a rafforzare nelle popolazioni croate e slovene locali l’equazione italiano/fascista, che avrebbe portato successivamente, alla metà degli anni quaranta ad esiti tragici, durante la guerra di liberazione.
Il partito comunista italiano, poi, seppe inserirsi benissimo in questa situazione, alleandosi con i “compagni” slavi e realizzando un’intensa campagna propagandistica nella comunità croata e slovena. Italiani e slavi, sotto le bandiere del comunismo e dell’internazionalismo, avrebbero combattuto nazisti e fascisti (nella primavera del 1941 le truppe dell’Asse avrebbero infatti invaso il regno di Yugoslavia, smembrandolo).
L’imbarazzo sarebbe venuto solo molti anni dopo, nei giorni dello scisma tra Tito e Stalin, nel giugno 1948: la fratellanza tra comunisti italiani e iugoslavi diventava “eresia”, e anzi Tito sarebbe stato considerato a capo di una “cricca fascista”. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.
BIBLIOGRAFIA
* Foibe, di Gianni Oliva – Le Scie Mondadori, Milano 2002
* Il Partito nazionale Fascista a Trieste – Uomini e organizzazione del potere 1919-1932, di Dario Matiussi – * * * Quaderni Istituto Regionale per la Storia del movimento di liberazione in Friuli Venezia Giulia
* Venezia Giulia: lotte nazionali in una regione di frontiera, di Roberto Spazzali – Istituto giuliano di Storia, Cultura e Documentazione
QUANDO TRIESTE
RISCHIÒ LO STRAPPO DALLA MADRE PATRIA

di GIAN LUIGI FALABRINO
Nei primi giorni del luglio 1946, il Consiglio dei Ministri degli Esteri delle grandi potenze decideva definitivamente la creazione del Territorio Libero di Trieste (T.L.T.), stabilendo che tutti i territori ad est della cosiddetta “linea francese” venissero ceduti dall’Italia alla Jugoslavia, e che il territorio ad ovest della stessa linea venisse costituito in Territorio Libero e, pertanto, sottratto anch’esso alla sovranità italiana.
(VEDI TESTO INTEGRALE DEL TRATTATO DI PACE DEL 10 FEBBRAIO 1947)
Queste mutilazioni territoriali trovarono quindi accoglimento nel trattato di pace imposto dalle nazioni vincitrici all’Italia; l’allegato VIII del trattato riportò lo Strumento per il regime provvisorio del T.L.T. mentre l’allegato VI ne stabiliva lo Statuto permanente. Il primo dei due documenti permetteva, fra l’altro, che gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Jugoslavia mantenessero nel Territorio proprie truppe, in numero di 5.000 militari per ciascuno Stato, fino a tredici giorni dopo l’assunzione del potere da parte del Governatore previsto dallo stesso Strumento e dalla Statuto.
Secondo quest’ultimo documento il governatore avrebbe dovuto essere nominato dal Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U. e non avrebbe dovuto essere né cittadino italiano, né jugoslavo, né del Territorio Libero. Il confine che correva fra l’Italia e la Jugoslavia, all’inizio della seconda guerra mondiale, lungo le Alpi Giulie, era certamente il confine naturale d’Italia e rappresentava il miglior confine possibile dal punto di vista militare italiano.
Ma era anche tale da non soddisfare i sentimenti degli sloveni e dei croati, poiché esso aveva il torto di inglobare nel territorio italiano troppi dei loro connazionali. Indubbiamente il miglior confine possibile dal punto di vista etnico sarebbe stato quello tracciato dalla linea proposta dal presidente Wilson nell’altro dopoguerra: esso lasciava numerosi sloveni e croati all’Italia, ma in base a indiscutibili criteri di unità economica della regione e di sicurezza militare; dall’altra parte lasciava fuori dei confini nazionali gli italiani di Fiume, Abbazia e Cherso, ma poiché si era trovato modo di unire queste località, insieme al territorio di Postumia, a Susak e all’isola di Veglia, nello Stato Libero di Fiume – assai più esteso e più vitale dell’attuale Territorio di Trieste – anche l’italianità di quella zona sarebbe stata salvaguardata. Subito dopo l’ultima guerra, apparve chiaro che sarebbe stato impossibile rivendicare il confine del 1939 e che Fiume e Zara sarebbero state irrimediabilmente perdute: la linea Wilson appariva allora come il massimo delle nostre aspirazioni, ma purtroppo l’occupazione jugoslava della Venezia Giulia nel maggio 1945, il fatto che la Jugoslavia chiedesse un compenso per la sua partecipazione alla guerra contro l’Asse, l’esasperazione contro la politica autoritaria e snazionalizzatrice svolta dal regime fascista nella Venezia Giulia e, ancor più, l’esasperazione contro l’Italia che nel 1941 aveva annesso la provincia di Lubiana e gran parte della Dalmazia, la politica delle grandi potenze che si contendevano l’influenza nei Balcani blandendo la Jugoslavia, il desiderio sovietico di spostare quanto più in occidente fosse possibile il confine della comunista ed allora alleata repubblica di Tito per imporre all’Italia un confine militarmente inefficace a qualsiasi difesa alle soglie della pianura veneta (buona parte della linea proposta dai russi era molto più ad occidente del confine esistente nel 1866) – tutto ciò, unendosi al vecchissimo e quasi patologico odio degli slavi verso l’Italia e verso gli italiani della Venezia Giulia, rese impossibile la creazione di un confine abbastanza equo.
Alla conferenza della pace furono successivamente respinte la linea Wilson, la linea americana e la linea inglese che almeno salvavano la parte occidentale, cioè la più italiana, dell’Istria; fu accettata solo la linea francese, ma a patto che la piccola porzione di Istria che essa comprendeva non venisse attribuita all’Italia, bensì costituita nel Territorio di cui si è detto.
In sostanza il criterio etnico fu rispettato solo nella regione di Gorizia, poiché ivi veniva a nostro danno; ma in quella zona non fu affatto rispettato il criterio dell’unità economica né tanto meno quello della sicurezza militare, e solo Tarvisio fu lasciata all’Italia in base a considerazioni economiche e geografiche essenziali (vi passa infatti la “Pontebbana”, l’unica ferrovia, mentre quella del Predil e quella di Lubiana si svolgono – in seguito ai mutamenti territoriali – in territorio Jugoslavo sino a pochi chilometri dal porto giuliano). Dove invece il criterio etnico veniva a nostro vantaggio, e cioè in Istria, là esso non fu applicato.
Col trattato di pace, 187.920 italiani, secondo il censimento del 1921, (aumentati probabilmente nel frattempo ad almeno duecentomila) furono posti nella condizione di scegliere fra la permanenza nel luogo accettando la cittadinanza jugoslava, e l’opzione per la cittadinanza italiana comportante l’abbandono del territorio ceduto alla Jugoslavia. Almeno 150.000 persone, tra cui l’intera popolazione di Pola, optarono per l’Italia e per l’esilio.
Altri italiani (265.418 secondo il censimento del 1921) furono sottratti alla Madre Patria, vivendo essi nei confini del Territorio Libero. Il problema del Territorio Libero trovò le sue origini nell’artificiosità di quella costruzione statale non voluta dalla sua popolazione, geograficamente esigua, economicamente insufficiente alla propria indipendenza, occupata da truppe straniere che la dividevano in due zone ben distinte e completamente isolate l’una dall’altra, e nell’impossibilità di nominare un governatore e di dar vita agli organi di governo previsti dallo Statuto.
Per vari anni le grandi potenze cercarono di giungere alla nomina del governatore, ma senza riuscirvi, a causa del conflitto fra i due grandi blocchi democratico e sovietico, delineatosi quasi subito dopo la fine della guerra: la nomina di un governatore filo-occidentale era ovviamente sgradita al governo sovietico, come sarebbe stata invisa agli anglosassoni la nomina di un filo-russo. Italiani e Jugoslavi poi si adombravano a ogni nome proposto dalle varie parti in causa, perché anch’essi temevano sempre la parzialità del probabile governatore a danno o degli uni o degli altri. Dopo varie, inconcludenti trattative, si giunse alla dichiarazione tripartita del 20 marzo 1948, con la quale Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia, osservando che l’accordo sulla scelta del governatore era impossibile e che la Jugoslavia aveva virtualmente incorporata la zona del territorio affidata alla sua temporanea amministrazione, compromettendo l’applicazione dello Statuto, proponevano il ritorno dell’intero Territorio Libero alla sovranità italiana.
La dichiarazione non ebbe alcun seguito, soprattutto per il mutamento sopravvenuto poco dopo nei rapporti fra la Jugoslavia e le potenze occidentali; né poté avere miglior sorte la decisione dell’8 ottobre 1953 con la quale gli Stati Uniti e la Gran Bretagna comunicavano che avrebbero trasferito, nel più breve tempo possibile, la zona da loro amministrata all’amministrazione italiana (non alla sovranità). Le possibilità di risolvere soddisfacentemente per l’Italia il problema del Territorio Libero, erano assai scarse, soprattutto per il fatto che la Jugoslavia occupava una parte del territorio conteso e naturalmente non aveva alcuna intenzione di lasciarlo.
Come ricordavamo più sopra, lo Strumento per il regime provvisorio del T.L.T. permetteva alla Gran Bretagna, agli Stati Uniti e alla Jugoslavia di mantenere proprie truppe nel Territorio in attesa della nomina del governatore e dell’assunzione dei poteri da parte sua. Un accordo fra le tre nazioni interessate stabilì che le truppe anglo-americane avrebbero occupato e amministrato una zona (detta Zona A), comprendente icomuni dell’area triestina già occupati nel maggio-giugno 1945, e che le truppe jugoslave avrebbero occupato e amministrato la restante parte del Territorio (Zona B).
Dopo le incertezze del primo periodo post-bellico, il Governo militare alleato della zona A si è comportato abbastanza obiettivamente fino al 1951 (cioè fino alla nomina del Comandante di Zona, gen. Winterton) rispettando le libertà fondamentali del cittadino e le prerogative comunali, permettendo libertà di stampa e d’opinione, l’attività dei partiti e delle associazioni, elezioni amministrative con pieno rispetto delle norme democratiche, e abrogando la legislazione fascista anti-slava e anti-ebraica.
Nel settembre 1947, uno speciale accordo fra il Governo Militare Alleato (G.M.A.) e il Governo italiano stabilì un regime di unione economica fra la Zona A e l’Italia in attesa della costituzione del T.L.T. Un cambiamento di rotta in senso anti-italiano si è però avvertito nel 1951-52, sia (oltre a qualche minore episodio) in occasione della manifestazione del 20 marzo 1952 (un concerto della banda della Lega Nazionale era stato autorizzato per quel giorno in piazza dell’Unità, ma la folla intervenuta fu caricata e dispersa dalla polizia senza ragione e preavviso: ne seguirono disordini e sassaiole), sia specialmente nelle tragiche giornate 4-5-6 novembre 1953 che videro la ripetuta offesa al Tricolore, al Sindaco e al palazzo comunale, e soprattutto le sparatorie dei “nuclei mobili” della polizia sui dimostranti, che provocarono la morte di sei persone e il ferimento di molte altre. Vi furono poi molti arresti tra la popolazione e due processi in cui fu evitato ogni riferimento alle responsabilità delle autorità militari. Le richieste di procedere a un’inchiesta sulle responsabilità di quegli eventi non furono prese in considerazione dal G.M.A., e neppure dai governi inglese e americano. Dopo i disordini del marzo 1952, era stata convocata a Londra una conferenza italo-anglo-americana che concluse i suoi lavori decidendo la partecipazione dell’Italia all’amministrazione civile della Zona A, ma essa fu praticamente un insuccesso, per le seguenti ragioni:
1) ciò che allora preoccupava i giuliani ed era stato all’origine delle manifestazioni non era la situazione di Trieste, ma quella della Zona B, per cui nulla fu fatto;
2) con l’inserimento di funzionari italiani nel G.M.A. fu offerto il pretesto legale agli Jugoslavi, che fino allora ne mancavano, di estendere ulteriormente e anche formalmente la legislazione jugoslava alla Zona B;
3) i settori più importanti dell’amministrazione della Zona A (pubblica sicurezza, porto, affari legali, informazioni e telecomunicazioni), nonché tutte le responsabilità e i poteri militari, rimasero agli anglo-americani, che furono così sempre in grado di ostacolare e anche annullare qualsiasi iniziativa italiana, mentre d’altra parte gli italiani erano corresponsabili di fronte all’opinione pubblica mondiale di situazioni sulle quali in realtà non potevano affatto influire.
Molto peggiore era la situazione della zona B, praticamente incorporata alla Jugoslavia che vi praticava una politica snazionalizzatrice e conculcava le fondamentali libertà democratiche, specialmente allo scopo di indurre gli istriani a lasciare la loro terra.
Già due volte vi si erano svolte le elezioni amministrative, ma solo una lista poteva raccogliere i voti degli elettori, ed era naturalmente quella degli slavo-comunisti. Fino al 1952, circa 10 mila istriani avevano lasciato la zona B per riparare a Trieste, secondo quanto dichiarò a suo tempo il sindaco della città di San Giusto, ing. Bartoli; all’8 ottobre 1953 questi esuli erano già saliti a 11 mila, cui se ne aggiunsero, dall’8 ottobre 1953 al gennaio ’54 altri tremila (dati del Centro di documentazione della Presidenza del Consiglio dei ministri).
Non è compito nostro ricordare in qual modo i giuliani dimostrarono la loro italianità nella storia, dai triestini Antonio e Domenico Piatti, patrioti e liberali, impiccati a Napoli dalla reazione borbonica del 1799, a Guglielmo Oberdan e al capodistriano Nazario Sauro, da Giacomo Venezian morto difendendo Roma nel 1849 ai 250 giuliani (di cui 105 triestini) morti nel ‘15-’18 per la liberazione della loro terra, dai due dimostranti triestini uccisi dagli austriaci ai portici di Chiozza nel 1868 ai cinque uccisi dalle truppe jugoslave in Corso il 5 maggio 1945, ai sei falciati dal fuoco della polizia civile del T.L.T. nel novembre 1953.
LA SITUAZIONE ETNICA
Il Territorio Libero di Trieste aveva un’estensione di 738 kmq di cui 222,5 costituivano la Zona A e 515,5 la Zona B. La prima comprendeva la città di Trieste, il comune costiero di Muggia e altri quattro piccoli comuni carsici (Duino-Aurisina, Sgònico, Monrupino, San Dorligo della Valle1, e praticamente non è altro che un piccolo arco intorno al porto di Trieste. La seconda comprendeva i comuni costieri di Capodistria, Isola, Pirano, Umago, Cittanova e quelli interni di Villa Decani, Marèsego, Monte di Capodistria, Buie, Verteneglio, Grisignana, e le località Tòppolo in Belvedere, frazione di Pòrtole, comune annesso alla Jugoslavia, e San Sèrvolo, frazione di Erpelle-Còsina, anch’essa passata alla Jugoslavia.
La Zona B altro non era che l’orto di Trieste, e lacittà a sua volta rappresentava il mercato di vendita dei prodotti ortofrutticoli e del pesce provenienti da quei paesi. Molti erano in tempi normali gli istriani che da Capodistria e da Isola si recavano giornalmente a lavorare a Trieste. Fra Trieste e i comuni della Zona B vi erano gli stessi legami d’interessi e di affetti che uniscono, ad esempio, Genova e molte cittadine della sua riviera. Va aggiunto che qualche parte dei comuni di Duino-Aurisina, Monrupino, Trieste, San Dorligo, Villa Decani, Marèsego, Grisignana, Cittanova è stata annessa alla Jugoslavia col trattato di pace, il quale aveva peraltro attribuito al T.L.T. piccole porzioni disabitate di comuni passati alla Jugoslavia: 32 ettari già di Parenzo, 16 già di Visinada, 147 già di Sesana. Nel 1951, la popolazione della Zona A era costituita da 296.229 persone, di cui 271.899 nella sola Trieste, 11.800 a Muggia, 4.800 a San Dorligo, 4.700 a Duino-Aurisina, ecc.
Molto inferiore è invece la popolazione della Zona B che, secondo fonti slovene, sarebbe stata nel 1954 di 66.811 persone. Secondo il censimento del 1936 la popolazione della Zona sarebbe stata di 76.963 persone, così ripartite: Capodistria 11.955, Isola 9.771, Pirano 15.117, Umago 7.112, Cittanova 2.517, Buie 7.293, Verteneglio 3.242, Grisignana 3.977, Monte di Capodistria 4.820, Marèsego 3.518, Villa Decani 6.808, Tòppolo 614, San Sèrvolo 219. Forse la consistenza della popolazione (non calcolando gli esuli) è più vicina a quella indicata dalla fonte jugoslava, dato che quattro dei comuni della Zona B hanno ceduto parte del loro territorio alla Jugoslavia col trattato di pace.
Purtroppo il più recente censimento secondo la lingua d’uso si svolse nel 1921, e bisogna quindi riferirsi ad esso e a quelli ancor più lontani compiuti ai tempi dell’impero austro-ungarico; d’altra parte, se sono avvenuti cambiamenti dal 1921 in poi, essi si erano certamente svolti a nostro favore, fino al 1945 almeno, e quindi sarebbe misura di obbiettività e di prudenza trascurarli. Secondo i dati della presidenza del Consiglio, il censimento pre-fascista del 1921 svoltosi secondo il principio della lingua d’uso, diede i seguenti risultati per i territori costituenti il Territorio Libero:
Italiani | Sloveni-Croati | Altri | Totale | |
Zona A | 211.660 | 32.427 | 18.319 | 262.406 |
Zona B | 54.651 | 16.287 | 212 | 71.150 |
Territorio Libero | 266.311 | 48.714 | 18.531 | 333.556 |
Tuttavia questi dati non tengono conto del fatto, del resto non molto rilevante ai fini statistici complessivi, che alcuni dei comuni del T.L.T. sono stati ad esso attribuiti solo in parte (e sia pure nella maggior parte). Ritengo quindi opportuno riportare i dati del censimento austriaco del 1910 e di quello italiano del 1921 secondo il criterio del prof. Diego De Castro (che li ha esposti alla pag. 281 de “Il problema di Trieste”, vol. I, ed., Cappelli 1952); l’Autore citato, allora consigliere politico italiano presso il G.M.A. di Trieste, ha determinato a calcolo la popolazione dei comuni passati solo in parte al T.L.T. Le differenze, come si vedrà, sono minime.
Censimento Austriaco del 1910
Italiani | Sloveni | Tedeschi | Serbo-Croati | Altre lingue | Stranieri | |
Zona A | 127.597 | 69.960 | 11.963 | 2.433 | 809 | 35.538 |
Zona B | 48.304 | 16.486 | 285 | 1.751 | 35 | 1.612 |
Territorio Libero | 175.901 | 86.446 | 12.248 | 4.184 | 844 | 41.150 |
Questi dati debbono essere interpretati. In primo luogo va ricordato che nel censimento erano ovviamente compresi i funzionari governativi, i poliziotti, i ferrovieri, ecc. , appartenenti ai gruppi linguistici tedeschi e slavi di altre regioni, da cui l’impero traeva i suoi più fedeli servitori. Nella città di Trieste l’87 per cento degli impiegati dello stato erano slavi: “tribunali, dogane, ferrovie, magazzini generali, poste, telegrafi, luogotenenza, viceprefettura – dice Attilio Tamaro2 – ne rigurgitavano. Si provava così con tutta evidenza che la loro presenza a Trieste era dovuta soltanto all’essere la città soggetta allo straniero e risultava da un travaso artificiale, metodicamente operato per snaturarne il carattere nazionale. Degli slavi più di un terzo proveniva da regioni non giuliane. Nel quartiere di San Vito erano state importate in una sola volta nelle case per loro preparate 700 famiglie di ferrovieri slavi della Carniola con circa 4.000 persone”. In secondo luogo, la maggior parte degli stranieri residenti nel territorio era costituita da cittadini del regno d’Italia, la metà dei quali erano friulani e molti altri nati a Trieste; essi erano sicuramente 30 mila a Trieste e presumibilmente 35 mila nel territorio, complessivamente. In terzo luogo, e questa è l’osservazione principale da farsi, i dati di quel censimento furono scientemente alterati per quanto riguardava la città di Trieste3.Il censimento del 1910 si fondava sulla “Umgangssprache”, cioè sulla lingua parlata. Dopo che il censimento era stato fatto per tutta l’Austria con questo sistema, alcuni esponenti slavi intervennero presso il principe Hohenlohe, luogotenente imperiale a Trieste, che fece fare una revisione dei dati del censimento per la sola città di Trieste: in essa ci si attenne, invece che al criterio della lingua parlata, a quello della razza, cioè indicando come slavi e tedeschi tutti quelli che avevano cognomi slavi e tedeschi e che provenivano da luoghi slavi e tedeschi. In questo modo la popolazione di Trieste risultò così composta:
Italiani | Sloveni | Tedeschi | Serbo-Croati | Altre lingue | Stranieri | |
Trieste | 118.957 | 56.845 | 11.856 | 2.403 | 779 | 38.597 |
Con le correzioni del principe Hohenlohe gli italiani apparvero in numero inferiore di 22 mila persone, mentre figurarono 20 mila slavi in più e 2 mila tedeschi in più. Che la situazione fosse diversa è comprovato dal censimento municipale dello stesso anno:
Italiani | Sloveni | Tedeschi | Italiani del Regno4 | |
Trieste | 142.000 | 36.500 | 9.600 | 30.000 |
I dati corretti del censimento per Trieste sommati a quelli delle altre località oggi costituenti il T.L.T. alterarono quindi la composizione etnica totale del Territorio. Si può ammettere che anche i dati del censimento municipale peccassero di parzialità, ma, considerando la politica anti-italiana del governo asburgico, le alterazioni citate dal Quarantotto non destano meraviglie. Senza di esse, il censimento austriaco avrebbe dovuto indicare per l’intero territorio oggi raccolto nel T.L.T. 198 mila italiani (senza i regnicoli) invece di 176 mila, 66 mila sloveni invece di 86 mila e 10 mila tedeschi invece di 12 mila. Se agli italiani sopra citati si aggiungono anche i 30-35 mila regnicoli si constata che il totale degli italiani abitanti nell’attuale T.L.T. era già allora di circa 230 mila persone. Che questi calcoli siano molto più degni di fede del censimento austriaco, è dimostrato anche dal fatto che la commissione statistica centrale di Vienna dichiarò non corrispondere alla verità i dati riguardanti Trieste, e dalla discussione seguita all’interpellanza del deputato Pitacco al parlamento austriaco, che dimostrò l’illegalità del procedimento adottato dal luogo-tenente principe Hohenlohe.
Censimento Italiano del 19215
Italiani | Sloveni | Serbo-Croati | Ladini | Stranieri | |
Zona A | 211.156 | 31.414 | 30 | 8 | 18.316 |
Zona B | 54.262 | 13.156 | 39 | – | 207 |
Territorio Libero | 265.418 | 44.570 | 69 | 8 | 18.523 |
L’aumento di almeno 35 mila italiani rispetto al loro numero complessivo del 1910 (italiani cittadini dell’impero più regnicoli) è dovuto al fatto che vari italiani già sudditi dell’Austria rientrarono nel territorio triestino dalle altre provincie dell’impero, che altri vi tornarono dalle vecchio provincie del Regno dove si erano rifugiati per sfuggire alle leve militari austriache, mentre alcune migliaia di dalmati e di abitanti dell’isola di Veglia si stabilirono a Trieste dopo la formazione della Jugoslavia; in più si trovarono a Trieste e nel territorio gli italiani venuti dalle vecchie provincie, in maggioranza funzionari statali che sostituirono nella Venezia Giulia quelli austriaci e slavi.
I croati diminuirono di circa quattromila a 69 e gli sloveni da 66 mila (86 mila secondo lo Hohenlohe) a 44 mila sia perché alcuni di essi, come pure vari tedeschi si dichiararono italiani, ma soprattutto per l’allontanamento di molti degli ex funzionari dell’impero che passarono nelle amministrazioni statali dei nuovi organismi sorti dalla rovina dell’Austria e specialmente in Jugoslavia, cui fornirono i migliori quadri della burocrazia della polizia e dell’esercito. Va notato che il censimento pre-fascista del 1921 fu svolto secondo la dichiarazione della lingua d’uso e che non ci furono alterazioni; nemmeno gli jugoslavi hanno mai insistito su questo punto. In particolare, per la città di Trieste e il suo suburbio il censimento diede i seguenti dati:
Italiani | Sloveni | Serbo-Croati | Ladini | Stranieri | |
Trieste 1921 | 203.373 | 18.088 | – | – | 18.122 |
I dati di tutti questi censimenti concordano nel rilevare che la maggioranza della popolazione di ciascuna delle due zone costituenti il T.L.T. e naturalmente dell’intero Territorio fosse italiana. Nella Zona A gli italiani dovevano essere anche più di quanti erano nel 1921, se non altro perché vi si erano rifugiati molti esuli dai territori ceduti alla Jugoslavia. Nella Zona B invece il dopoguerra ha visto uno spostamento di popolazione a nostro danno: quattordicimila persone sono state costrette a rifugiarsi nella Zona A già prima del 1954; questo non avrebbe alterato il profilo etnico complessivo del Territorio se, com’è purtroppo naturale, gli slavi non avessero provveduto a sostituire gli espulsi o i fuggitivi dalla zona da loro occupata con loro connazionali fatti affluire dal territorio jugoslavo.
LA SITUAZIONE ECONOMICA
Le guerre mondiali hanno notevolmente alterato la struttura del retroterra del porto di Trieste, che serviva prima del 1915 un “Hinterland” unitario e vastissimo, composto dai territori oggi costituenti l’Austria, la Cecoslovacchia, parte della Polonia, l’Ungheria (cui apparteneva il porto di Fiume).
Il passaggio di Trieste all’Italia non avrebbe molto danneggiato i suoi traffici portuali se alle spalle le fosse rimasto un solido organismo statale costituente un retroterra unitario e ancora abbastanza esteso.
Disgraziatamente, l’impero austro-ungarico fu smembrato in vari piccoli Stati e il territorio che prima gravitava naturalmente su Trieste fu diviso da varie linee doganali; la parte settentrionale dell’ex-impero (Polonia austriaca e Cecoslovacchia) distolta dal sistema doganale e tariffario austriaco, sentì l’attrazione dei porti dell’Europa settentrionale che vi svolsero spesso con successo una notevole concorrenza ai danni di Trieste.
Ciò nonostante il porto riuscì a difendersi e a riprendere quota: nel 1938 il suo traffico era quasi uguale a quello “record” del 1913. Ma questo brillante risultato era inficiato dal mutamento qualitativo sopravvenuto nel traffico dopo la grande guerra; come tutta l’Europa, Trieste, che era stata un centro notevolissimo del traffico commerciale (cioè negoziato in loco, con evidente guadagno degli operatori economici) risentì le conseguenze della diffusione del sistema di “clearing”, per cui il traffico si andò sempre più avviando verso la semplice forma “di transito”. Nel secondo dopoguerra la situazione è ancora peggiorata, in conseguenza della divisione dell’Europa nei due blocchi contrapposti. La Cecoslovacchia e l’Ungheria sono state inserite nel sistema politico ed economico sovietico, e ciò ha determinato una duplice tendenza per i loro traffici d’importazione ed esportazione: da una parte i loro traffici si orientavano ancora sulle direttrici che si dimostravano le più convenienti dal punto di vista economico, ma dall’altra seguono anche la direttrice politica, indirizzandosi verso i porti della Polonia e della Germania orientale, appartenenti alla sfera d’influenza sovietica.
Inoltre la stessa Cecoslovacchia e l’Austria erano esposte all’influenza anche dei porti della Germania occidentale, in ispecie di Amburgo; nel caso della Cecoslovacchia, Amburgo è favorita dalla situazione geografica, mentre nel caso dell’Austria (molto più vicina a Trieste che non al porto tedesco) i fattori sono più complessi: la tendenza che l’Austria dimostrava ad aumentare i suoi traffici verso Amburgo – nel 1948 vi passarono 6.662 tonn. di merci austriache divenute già nel 1950 tonn. 87.000 – era dovuta, tra l’altro, alla politica tariffaria tedesca e alle speciali tariffe ferro-fluviali, molto convenienti. La speciale situazione politica dell’Europa centrale aveva progressivamente ridotto, insomma, il retroterra di Trieste alla sola Austria, anche questa insidiata dalla concorrenza.
In più questa nazione risentiva ancora molto delle conseguenze della guerra e dell’occupazione militare straniera, e i suoi traffici sono costituiti in maggior parte dalle importazioni, e queste a loro volta dagli aiuti americani e dai rifornimenti militari. Ciò spiega perché, pur essendo nel dopoguerra aumentati fino a superare i dati del 1938 e del 1913, i dati dei traffici portuali triestini non potessero soddisfare gli osservatori attenti alla sostanza delle cose.
C’è infine da notare che gli Jugoslavi tentavano di penetrare sul mercato austriaco e carpire parte dei traffici destinati a Trieste dirottandoli sul porto di Fiume. In tali condizioni non si riesce a capire come molti credessero alle possibilità di vita indipendente del T.L.T. e soprattutto come alcuni credessero o mostrassero di credere, che la costituzione del T.L.T. sarebbe stata un ritorno all’epoca d’oro dell’impero (che non fu tutta un’epoca d’oro, sia detto tra parentesi) mentre il ritorno all’Italia avrebbe accentuato le difficoltà economiche.
Non si riesce cioè a capire quale eguaglianza potesse essere stabilita fra l’impero austro-ungarico, vastissimo e popolato da 70 milioni d’abitanti, e il T.L.T., piccola fascia costiera attorno al porto di Trieste, popolato in tutto da 360 mila persone circa, circondato da una nazione ostile e minacciosa, posto in mezzo a un’Europa profondamente divisa dalla cortina di ferro e dalle barriere doganali, in cui era impossibile ricostruire le condizioni preesistenti al 1914. L’impossibilità di vita del T.L.T. era ancora più evidente se si pensa al contributo dato dall’Italia alla Venezia Giulia e a Trieste in particolare prima dell’ultima guerra e poi alla Zona A.
Dopo il 1918 il governo italiano, constatando la trasformazione in atto nell’economia triestina e la decadenza della funzione portuale, cercò di suscitare nella città una maggior funzione industriale: gli impianti industriali esistenti prima del 1918 furono ampiamente sviluppati (i cantieri triestini hanno prodotto il 16 per cento delle costruzioni navali italiane e la Fabbrica Macchine Sant’Andrea aveva una capacità costruttiva di motori marini pari a un terzo di quella totale italiana), e nuove attività industriali furono avviate: appartengono al periodo fra le due guerre le fonderie dell’ILLVA, le raffinerie Aquila, Standard e Gaslini, il progetto del 1928 per il porto industriale di Zaule con esenzioni fiscali concesse dal governo italiano (nel cui ambito furono costruite le raffinerie citate) e l’inizio dei lavori di bonifica della plaga di Zaule e della costruzione del canale navigabile, interrotti solo con l’armistizio dell’8 settembre. Il processo d’industrializzazione, di cui sono esempio queste grandi industrie ed altre minori, trovò la base e la ragione del suo sviluppo nel mercato italiano.
Le ditte industriali e commerciali che erano 3.628 nel 1927, ammontavano a 13.988 nel 1937 e a 16.694 nel 1952, di cui 4.135 erano aziende industriali con 45.953 dipendenti. E ancora nel mercato italiano trovavano sbocco i prodotti delle nuove industrie sorte nel dopoguerra nel porto industriale di cui si dirà fra poco.
Numerose furono anche le opere pubbliche, eseguite fra le due guerre mondiali, specialmente nel porto di Trieste: qui i lavori principali furono la costruzione e la ricostruzione dei muri di sponda nei bacini doganale e Vittorio Emanuele, la costruzione della calata prospiciente la stazione marittima, il consolidamento di altri muri di sponda, la costruzione di cinque capannoni al molo VI, l’installamento di 35 nuove gru, la costruzione del silos granario al porto Duca d’Aosta, della capacità di 30 mila tonn. di grano, la costruzione della stazione marittima per il traffico passeggeri, dell’Idroscalo civile e del Faro della Vittoria.
A Muggia fu sistemato il piccolo porto. Il governo italiano, subito dopo la prima redenzione di Trieste, pose mano alla costruzione dell’attuale strada costiera fra la città giuliana e Monfalcone, risolvendo un assillante e annoso problema trascurato dal governo austriaco; anche la strada Capodistria-Portorose-Buie fu costruita dopo il 1919, per non dire dell’intera rete stradale della Venezia-Giulia, completamente sistemata dal governo italiano.
Questi provvide anche all’elettrificazione del tronco ferroviario Trieste-Monfalcone-Bivio San Polo-Gorizia (sulla ferrovia pontebbana) e del tronco Trieste C. Marzio-Villa Opicina, nonché di altri situati in territori oggi annessi alla Jugoslavia. In quel periodo fu istituita a Trieste l’Università degli studi, ostinatamente rifiutata dal governo austriaco, per la quale è stata costruita una sede monumentale. L’accordo anglo-italiano del 1921 e l’accordo franco-italiano portarono alla definitiva assegnazione al Lloyd Triestino del naviglio dell’ex Lloyd Austriaco, cosicché in totale le navi rimaste a Trieste dopo la prima guerra mondiale furono 272 per 862.350 tonn., cioè quasi la metà della marina mercantile austro-ungarica.
In quegli anni si verificò l’immissione sempre più sensibile nel movimento portuale del traffico italiano (25%) che dimostrava di essere in grado di sostituirsi a quella parte del traffico transalpino che era venuta a mancare, con la conseguenza di creare un’osmosi economica fra Trieste e l’Italia. La convenzione italo-austriaca e quella italo-ungherese, alle quali era legato il traffico triestino, esercitarono una decisiva influenza nel 1934, l’anno della ripresa portuale dopo la grande crisi.
Gli ambienti anti-italiani rimproveravano ai nostri organismi le riorganizzazioni delle maggiori società marittime italiane compiute nel 1932 e nel 1937 che però furono causate dalla crisi dei noli, conseguenza della depressione economica del 1929, che provocò ingenti perdite a tutti gli armatori nazionali. Già nel 1928 la Società Cosulich di Trieste aveva un passivo di 214 milioni di lire, e la Navigazione Libera Triestina un deficit di 16 milioni che aumentò a 116 nel 1930. Il nuovo ordinamento delle società di navigazione vide la Cosulich fusa assieme a due compagnie genovesi nella soc. “Italia” con sede a Genova, mentre il Lloyd Triestino inglobava due altre società genovesi; le due organizzazioni così formate, insieme a due altre minori di Venezia e Napoli, furono finanziate dalla “Finmare”, società per il finanziamento marittimo che ne integrava il deficit d’esercizio e che ha sopportato in questo dopoguerra l’onere della ricostruzione delle flotte. “In particolare, nell’epoca fra le due guerre, si constata: a) il potenziamento al massimo dell’attrezzatura portuaria; b) il potenziamento delle linee di navigazione e specialmente delle linee triestine affidando alla navigazione locale zone ben definite e di alta capacità economica; l’inserimento di Trieste nel quadro armatoriale nazionale, facendola sede di grandi organismi dell’armamento; c) la spesa documentata di tre miliardi e mezzo prebellici per lavori pubblici ed il saltuario aiuto fatto di credito su una “piazza” restia ad esporre il proprio capitale… Il bilancio comunque si presenta decisamente attivo, anche se considerato dal puro angolo dell’attività e dei risultati economici. L’economia triestina si era salvata con l’inserimento nel complesso economico dell’Italia, a cui del resto la legavano vincoli spirituali che costituiscono pur sempre basi solide ed estremamente condizionanti anche rispetto all’economia. Ne è la prova la relativa facilità di fusione avvenuta senza scosse sensibili”6. Fra le opere più importanti rese possibili dal contributo italiano di questo dopoguerra dev’essere ricordato il porto industriale di Zaule, per cui si ripresero i lavori interrotti nel 1943, e si costituì un ente apposto. Lo scopo dell’ente (come già della società fondata nel 1929) è quello di costruire negli immediati dintorni di Trieste un grande complesso d’industrie che svolgano rispetto alla città giuliana una funzione analoga a quella di Marghera rispetto a Venezia: una funzione che, mentre avrebbe dato lavoro ad impiegati e operai all’interno della zona industriale, potesse attivare nuovi traffici marittimi e nuove attività complemenTari, in regime di privilegio fiscale. Fra le varie agevolazioni concesse alle industrie della zona, vi era la possibilità che lo stabilimento fosse retto a regime di “deposito franco”. La creazione del porto industriale in una località deserta e paludosa ha richiesto grandi lavori pubblici: opere di bonifica su mq 500.000 a nord del canale navigabile, lo scavo del semialveo nord del canale stesso, strade, raccordi ferroviari, fognature, ecc. Anche la Fiera di Trieste (con sede nei padiglioni appositamente costruiti a Montebello) è stata resa possibile dall’interessamento governativo italiano e dopo i primi esperimenti dell’immediato dopoguerra è divenuta un’iniziativa utile e promettente.
Note
1 A pag. 1825 del fascicolo di novembre 1953 di Documenti di vita italiana, edito dal Centro di documentazione della Presidenza del Consiglio, il Comune di San Dorligo (ivi impropriamente chiamato San Dorlingo) viene inesplicabilmente attribuito alla Zona B; siccome questa errata attribuzione è riportata in una statistica del censimento del 1921 nei territori oggi costituenti il T.L.T. nelle sue zone A e B, essa altera la composizione etnica della Zona A, cui toglie circa cinquemila slavi, e della Zona B cui invece li aggiunge.
2 A. Tamaro: Trieste, ed. Istituto editoriale italiano, Milano 1946, pag. 233.
3 Lettera di A. Quarantotto, in Giornale di Trieste, 5 novembre 1952
4 Dati approssimativi, riportati dal Tamaro, op. cit., pag. 232.
5 D. de Castro: Il problema di Trieste, I ed., Cappelli 1952, I vol. pag. 281; come si è detto più sopra, l’A. ha determinato a calcolo la popolazione dei comuni passati solo in parte al T.L.T.; cfr. coi dati della Presidenza del Consiglio esposti al pag. 259.
6 Giorgio Roletto: Trieste e i suoi problemi, ed. Borsatti, Trieste 1952, pagg. 55-56. Per la situazione economica di Trieste fra le due guerre mondiali dev’essere consultata anche L’economia della Venezia Giulia pubblicata dall’Istituto di Statistica dell’Università di Trieste nel 1946, con la collaborazione di diversi studiosi sotto la direzione del prof. P. Luzzatto Fegiz.
Le immagini che illustrano questo articolo sono tratte dal libro “Trieste a stelle e strisce” di Pietro Spirito.
Lettera aperta ai compagni in Italia
Jasna Tkalec – 10-02-2005
Con il dolore nell’anima ho visto ieri quello che ha trasmesso Rai Uno a proposito della “Giornata della memoria delle foibe”.
Dunque una giornata della memoria dei massacri commessi dai partigiani titini e dell’esodo degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia… Mi hanno colpito termini come “violenza cieca”, che si sarebbe abbattuta sui cittadini innocenti. Prima di proseguire, per sgombrare ogni equivoco, ci tengo a sottolineare che tutta la mia vita l’ho passata ad occuparmi della cultura italiana e che l’unico figlio che ho avuto ora vive a Roma ed ha finito gli studi in Italia. Quindi per libera scelta l’Italia era ed è tuttora il paese di tutte le mie anzi nostre aspirazioni. Per questo è ancor più insopportabile sentire che si è presa la giornata della firma del trattato di Pace (10 febbraio) nella Conferenza di Parigi del 1947, come giornata della memoria di un ingiustizia e di un lutto subiti, invece di onorarla come la giornata della sepoltura definitiva del fascismo.
I fatti storici però restano quelli che sono anche se gli uomini li interpretano come vogliono. Sarebbe assurdo contestare che l’esodo massiccio degli italiani dall’Istria e da Zara non fu una tragedia; ma tragedia immane fu senz’altro il fascismo ed il nazismo ed i popoli dell’Europa intera hanno per questo errore storico pagato un altissimo prezzo.
Ora, dinanzi ad una Europa unita che nasce nei dolori e nelle difficoltà, ma nasce come ogni vita nuova, ogni vita giovane, con le migliori aspettative e con i migliori auspici di una futura esistenza felice, invece di ricordare gli errori e gli orrori del passato ribaltando i fatti storici, non sarebbe forse più intelligente e più onesto pensare che nella futura Europa non dovrebbero esistere tali differenze e tali trattamenti disumani, responsabili della fuga di popolazioni intere – centinaia e migliaia di uomini, donne, bambini, vecchi, colpevoli di nulla, da un luogo ad un altro, da un paese ad altro, facendoli in definitiva profughi ed esuli anche di se stessi?
Ora per conseguire un tale scopo non credo che la miglior via sia quella di onorare errori storici quali il fascismo ed il nazismo, infangando la lotta per la liberazione e la nozione stessa di antifascismo. Quanto riguarda le politiche titine e titoiste niente le riscatta e niente le umilia di più dello spettacolo orripilante del sanguinoso squartamento del paese a cui si e’ assistito lo scorso decennio. E non è certo senza importanza che si trattò dell’unico paese in Europa in cui la guerra partigiana contro il nazifascismo aveva assunto, in tempi debiti, dimensioni colossali, avendo visto vincitori coloro che da sempre furono umiliati ed oppressi. Questo fatto storico nulla lo potrà mai cambiare.
La terra è degli uomini, di tutti gli uomini senza eccezione, e non di una o dell’altra nazione o etnia o appartenenza politica, o religiosa, o di questa o quella altra scuola del pensiero. Speriamo dunque che cosi sarà per l’Europa che si sta creando e nella quale vivranno i nostri figli e i nostri nipoti. E se non sarà cosi le colpe saranno nostre e qualcuno le pagherà. Visto che le colpe storiche si pagano sempre e non di rado le pagano coloro che colpe non ne hanno… E nel desiderio che il triste esodo degli italiani da Istria e Dalmazia non si ripeta più in nessun altro modo si dovrebbe dire “tutta la verità e niente altro che la verità” a quel proposito.
Durante la guerra partigiana un giovane scrisse: “Chi sa se la libertà sarà capace di cantare come gli incatenati l’avevano cantata?” Ora, l’esodo di trecentocinquantamila italiani dall’Istria e dalla Dalmazia non fu certo un momento di libertà. Però, non è certo più rispettoso della libertà omettere che un numero pari – e documentabile dagli archivi della guerra partigiana jugoslava – di italiani era stato aiutato e salvato dai partigiani titini dopo il disastro dell’ 8 settembre. Costoro furono aiutati ed ebbero salva la vita grazie ai selvaggi, e malvagi, partigiani titini, dopo che il comando delle forze armate italiane aveva lasciato i suoi ragazzi esposti alla mercè e – questa volta si – spesso anche alla cieca violenza delle truppe naziste.
I massacri nelle isole greche, e dappertutto ove i partigiani locali non erano riusciti ad aiutare i soldati italiani, sono fatti noti e non ha senso ripeterli.
Oggi ben pochi sono ancora in vita tra coloro che furono aiutati e salvati dai partigiani jugoslavi o che hanno combattuto accanto a loro. Pretendere da questi che alzino la voce nel baccano scatenato intorno alle “foibe” e ai “delitti dei titini” forse sarebbe pretendere troppo. Non ne avrebbero la forza. Sono ormai troppo anziani e troppo amareggiati, e i loro figli e nipoti hanno ben altre preoccupazioni. Però, parlando di chi fu salvato si dovrebbero menzionare anche i condannati – poche decine di gerarchi fascisti – che furono trascinati dinanzi ai tribunali e per i quali si considerò che erano stati trovati con le mani sporche di sangue. Questi ultimi furono condannati dai tribunali regolari nel territorio liberato e furono giustiziati alla luce del sole, non buttati nelle foibe con crudeltà immane e vendetta cieca, senza ragione, senza causa e senza colpa! Le foibe sono il frutto della violenza della gente del luogo, slava e non, che si era scatenata contro gli oppressori locali, che in quei posti per venti anni ne avevano fatte passare di tutti i colori alle genti che vivevano li. Con storie come queste sulle “foibe” i comandi partigiani e la giustizia dei vincitori hanno poco o nulla a che spartire.
E’ tragico che in guerra e dopo la guerra capitino vendette trasversali e del tutto illegittime ed ingiustificabili, ma purtroppo accade. Era accaduto anche in Italia ed a tempo debito tutti abbiamo letto e visto film come “La ragazza di Bube” e simili. Questo non ha però niente a che vedere e a che spartire con la legalità e le leggi. Servirebbe ricordare piuttosto che fu in base alle leggi marziali che fu istruito il famoso processo agli antifascisti, a Zara nel 1942: processo in cui furono giustiziati decine di compagni ed anche il segretario del Partito comunista croato, Rade Koncar. Condannati alla pena capitale furono diverse decine di antifascisti, fra cui anche una ragazzina di quattordici anni (poi graziata, vive ancora a Spalato). Ma furono uccisi in venti, tutti ragazzi giovani. In quel processo furono coinvolti anche molti minorenni, i quali furono graziati e si videro commutata la pena all’ergastolo, poiche’ avevano buttato una bomba contro la banda militare italiana, che marciava a suon di musica… Furono fatti atroci, eccidi dall’una e dall’altra parte.
Ma le guerre per fortuna passano. Quel che rimane è la storia e non serve farle violenza. Non ci sono fasi giuste e fasi sbagliate della storia. Ci sono atti e fatti sbagliati, brutti ed indecenti, commessi dagli uomini. I misfatti sono frutto delle azioni umane, mica cadono dal cielo. Ora, rappresentare i combattenti per la giustizia e per la libertà come malfattori e assassini vili mi sembra un fatto di per se indecente e scabroso, un fatto che non promette bene per il futuro.
La posizione dei diessini in questi revisionismi fuori tempo massimo, che riguardano l’eredità della storia dei titini, ritengo sia altrettanto sbagliata, come fu sbagliata la posizione del PCI nel 1948 e anche dopo, quando successero i fatti d’Ungheria. Ma nel 1948 furono dei compagni in Italia ad alzare la voce in difesa dei titini: e la pagarono cara.
Oggi pare che neanche la corrente girotondista di DS osi replicare e difendere i partigiani slavi. E ai vecchi titini, ormai imbiancati dagli anni e dai colpi subiti, non resta che dire: “Et tu mi fili, Brute!” come esclamò Cesare quando fu pugnalato dal nipote Bruto. Dopo tante ingiustizie e violenze che sono state fatte e dette contro un paese, che non esiste più, forse sarebbe opportuno ricordare che gli italiani dall’Istria se ne sono andati di propria spontanea volontà. Hanno “optato” per l’Italia, cioè hanno preferito andarsene in Italia, visto che non avevano la minima intenzione di rimanere a vivere in un paese balcanico e comunista – e non perche’ li avrebbero buttati nelle foibe, torturati o squartati.
Essere nati nei primi decenni del secolo scorso in Istria e Dalmazia ed essere italiani non fu certo una fortuna, certe volte fu una tragedia, ma è altrettanto tragico oggi essere nati in Jugoslavia e non aver un paese dove morire. Per chiudere voglio citare Giorgio Bocca che scrive: “Cadute le coperture ideologiche è venuto fuori in alcuni giovani tribuni del popolo… un carrierismo pronto a calpestare i rapporti civili, a colpire con ogni mezzo i compagni di ieri, con il rancore dei preti spretati. Nei peggiori è tornato elogio alla ribalderia, intrisa di disperazione, la voglia di infierire per mettere a tacere il rimorso.”
Ora, credo che in questa campagna si sia andato oltre, che si sia giunti allo scontro all’arma bianca. Le vittime sono state trasformate in carnefici e i veri carnefici in vittime ed eroi, il cui eroismo dimenticato bisognerebbe riscattare… Non capita per la prima volta nella storia. Gorki scrisse a proposito del movimento dei “populisti” russi dell’ottocento: “E gli eroi furono trasformati in colpevoli, visto che dopo aver suscitato enormi speranze non furono in grado di esaudirle.”
Però, che i carnefici diventino eroi mi pare davvero esagerato ed oltraggioso. A questa bufala, tanto grossa quanto vergognosa, rispondo di nuovo con le parole di Bocca:
“La storiografia moderna si è cosi riempita di pidocchi revisionisti che pretendono di cambiare gli accaduti, le memoria, la toponomastica, i libri di testo… Un momento… stiamo ai fatti… Quella non fu una divisione da poco… Quelli… che combattevano [dopo l’8 settembre] al fianco dei nazisti, volevano che i nazisti vincessero la guerra… Volevano la fine delle libertà. Furono invece i partiti della Resistenza a recuperare le libertà, anche i comunisti che le sancirono con la Costituzione. “I morti” diceva Pavese “sono tutti eguali, partigiani e repubblichini”… tutti travolti dal fatto. Ma non erano uguali le loro storie, le loro idee. La pietà è una cosa che fa parte del sentimento umano solidale, ma la pietà per le idee non ha senso, non si può avere pietà per le idee barbare, assassine, non si può revisionare l’orrore, si può al massimo dimenticarlo.”
E visto che non si vuole dimenticarlo, ma se ne vuole tener alta la memoria, sarebbe doveroso ricordare che a scatenare l’orrore e la guerra non furono antifascisti, comunisti, partigiani titini ne’ slavi (gente indecente e notoriamente assetata di sangue per la loro indole selvaggia e balcanica), ma piuttosto coloro che si misero al fianco dei nazisti in un progetto demenziale che fu sconfitto a prezzo di immani sacrifici ed anche di vite umane. E questa sconfitta fu sigillata con il Trattato di pace firmato a Parigi.
Da non dimenticare.
Jasna Tkalec, 10 febbraio 2005, Zagabria
Lettera inviata a “Liberazione” e a “Il Manifesto”
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