Le foibe fra ricordo e ricerca

Stefano Scardicchia

Un incontro finalmente sereno e meditato su un tema che dopo oltre mezzo secolo suscita ancora profonde emozioni.

QUESTO TRENTINO n° 1 del 15.1.2005

http://www.questotrentino.it/2005/01/foibe.html

Q uando si conosceva un luogo a malapena o per sentito dire, le carte medievali riportavano “Hic sunt leones”“Qui ci sono i leoni”. Un modo per dire che su quelle terre o acque si poteva solo immaginare qualcosa di terribile. Le foibe sono anche questo: un ricordo lacerante, talvolta sepolto e su cui s’indaga – e si parla – poco. Ben venga, dunque, chi affronta l’argomento davanti ad un uditorio numeroso e variegato; non solo studenti o pensatori di sinistra, ma anche adulti, anziani e parenti delle vittime. Emblematico che la scritta “Hic sunt leones” comparisse sulla maglia di alcuni universitari… folkloristici e goliardici quanto si vuole, ma senza dubbio desiderosi di sapere.
Per prima cosa chiariamo i termini da usare. La “foiba” è un fenomeno distinto da processi sommari, esecuzioni, campi di prigionia e via dicendo che hanno mietuto ben più vittime. Per “infoibamento” s’intende il gettare corpi, legati insieme e talvolta ancora in vita, nelle doline carsiche adibite a macabre fosse comuni. Ma un accordo sulla definizione non basta; né, di per sé, risolve il problema inserire l’argomento nei manuali di storia, magari come capitolo a parte. L’informazione, in quanto tale e come spunto critico, deve poggiare su basi più solide, ampie e condivise, che il contesto scolastico non è in grado di offrire. Già sul piano terminologico, la “foiba” mette in difficoltà e crea equivoci tra i profani e gli stessi addetti ai lavori. Un terreno minato poi la memoria, dura e tutt’altro che pacificata; eppure necessaria affinché la storia sia tramandata e, in un secondo momento, sistemata in una visione lucida, oggettiva. Da ciò è nata l’idea di un convegno dal titolo forte –“La menzogna dei martiri: il mito reazionario delle foibe” – ma dai toni pacati, che proponesse un confronto più aperto e specialistico rispetto a quello del 27 aprile 2004, tenutosi con diverso spirito (si veda l’articolo su Questotrentino del 15 maggio 2004, Il mito delle foibe). La presenza come mediatore di Gustavo Corni, valido docente di Storia Contemporanea della Facoltà di Sociologia di Trento, ha garantito i requisiti assenti la volta precedente: approccio sereno e dialettico, sul piano adeguato e con la dovuta scientificità. Inoltre, l’11 novembre 2004 la sala Kessler ha ospitato Raoul Pupo, membro della commissione italo-slovena sulle foibe, al posto dei meno qualificati (e più polemici) Giorgio Pira, ricercatore membro del Collettivo Gramsci, e Gianni Perghem, partigiano. L’unico ripescato è Sandi Volk, tra i pochi storici sloveni a parlare un italiano fluente; ciò, insieme alla sua competenza, ha convinto Universitando a confermarlo come controparte. Anche gli interventi fuori luogo o deliranti del pubblico sono stati così circoscritti da non pregiudicare un dibattito serio e costruttivo, forse il primo fra esperti e membri dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. Un passo importante, cui speriamo seguiranno altri in una congiuntura politico-sociale tra le più propizie. M a veniamo ai contenuti. Presentati i colleghi Volk e Pupo, Corni ha spiegato il concetto di “foiba”, rivolgendosi ai giovani in sala poiché “gli altri, probabilmente, erano già al corrente”. Ha poi illustrato un excursus storico-sociale e i rischi di strumentalizzazione politica di un tema che è – e dovrebbe restare – storiografico. Le teorie imperanti risalgono agli anni Cinquanta e da allora non sono state più aggiornate. Pertanto, “riflettono ciò che si pensava soprattutto in Istria, Venezia Giulia e Dalmazia, ma non restituiscono la complessità del fenomeno”. Un’interpretazione militante, che vede nella “pulizia etnica” la sola motrice delle foibe e fa propria la memoria delle vittime. Dagli anni ’60, l’interesse scompare del tutto, una volta risolta la questione di Trieste. Solo nei ’90 si riprende a denunciare i crimini del passato, proponendo anche un’ottica a freddo, diversa da quella di “vittime” ed “attori”. Non è negazionismo: la progettualità politica che guida le stragi è unanimemente riconosciuta dalla commissione, come dalla maggior parte degli storiografi. La prospettiva d’analisi, tuttavia, getta luce su aspetti finora sottaciuti o non toccati. In primis l’entità del fenomeno: un genocidio (come quello ebraico) presuppone alti numeri, lo sterminio di un intero popolo, ma i riscontri parlano di poche migliaia di infoibati; mentre intenzioni precise di “pulizia etnica” si scontrano col dato di fatto che, pur con importanti eccezioni, vengono colpite solo alcune categorie di Italiani. Non in nome della “nazionalità” in quanto tale, cioè dell’essere italiani, bensì per una “volontà di appartenenza nazionale”, vale a dire il voler essere italiani e, più precisamente, sotto la giurisdizione di Roma. Anche molti Sloveni incontrano una morte atroce perché contrari all’adesione (o addirittura alla formazione) di uno Stato sloveno, specie di stampo staliniano. In questa duplice motivazione sarebbe il fulcro delle foibe: da un lato la matrice “nazionale”, col significato particolare che abbiamo spiegato; dall’altro quella “politica”, che vede negli anti-titini dei nemici del popolo, della libertà, del comunismo, e dunque collaborazionisti. Accusa non sempre veritiera ma certificata in vari casi dalla commissione. Per avere un quadro completo, Volk e Pupo concordano sulla necessità di approfondire le biografie di tutti gli infoibati, così da capire quanti innocenti e civili vi siano e che cosa abbiano fatto le autorità slovene per impedirlo o punire gli autori.   D i là da questo, a nostro avviso, l’elemento che distingue questa mattanza da quella, poniamo, della Rivoluzione Francese è la parvenza di legalità. Durante il Terrore, la ghigliottina segue un processo più o meno sommario, secondo le facoltà economiche ed il nome dell’imputato; nella Seconda Guerra Mondiale e oltre, invece, il dramma si consuma spesso in balìa del furore popolare. Simile la lettura proposta dallo storico Elio Appi, che però trascura componenti basilari che mettono in crisi alcuni assunti o persino punti-cardine della sua teoria. Una “epurazione preventiva” non dovrebbe risparmiare la classe operaia giuliana e i comunisti italiani che, anzi, fraternizzano con i titini come testimoniato da più parti e dall’esperienza personale di un anziano intervenuto al convegno. Inoltre, il processo di conquista del potere e formazione di uno stato sloveno staliniano, con conseguente movimento di liberazione, dà per scontata la vittoria dei titini già nel ’43, quando invece le pressioni di Gran Bretagna e USA possono fare la differenza. Il timore che gli anglo-americani sfruttino gli ex-collaborazionisti per rovesciare il governo di Tito è corroborato dall’intervento britannico, nel ’44, contro il FLN di sinistra in Grecia.
                Il punto di vista locale sottrae complessità al fenomeno, che andrebbe invece guardato a livello balcanico, europeo o persino mondiale. Ustascia, fascisti e Italiani che vogliono la sovranità italiana sono eliminati fisicamente, o messi fuori gioco quanto a diritti politico-civili, perché rappresentano un pericolo, più che un ostacolo, al processo di democratizzazione e autodeterminazione del popolo sloveno. Il primo fallisce comunque per motivi sia interni che esterni, dovuti all’apparato dirigistico di Tito ed alle ingerenze di Stalin. Ma questa, benché il legame sia evidente, è un’altra storia. Piuttosto, è utile notare come i complessi rapporti diplomatici influenzino l’atteggiamento dei governi succedutisi in Italia e Slovenia. La trasparenza non è una virtù quando sono in discussione delicati equilibri internazionali; così, per esempio, le trattative per il ritorno di Trieste all’Italia sono compensate anche col silenzio, da entrambe le parti, sui reciproci scheletri nell’armadio. Repressione fascista di comunità slovene nella Venezia Giulia e infoibamenti di Italiani dissidenti o ritenuti “destabilizzanti” nelle doline carsiche si annullano a vicenda coi loro orrori. Col trattato di pace di Parigi (’47) l’Italia, tra le altre cose, cede alla Jugoslavia gran parte dell’Istria e consegna Trieste all’amministrazione degli alleati. Mesi dopo, con il 5° Gabinetto De Gasperi, il Bel Paese s’inserisce – e schiera – nel quadro internazionale aderendo agli accordi dell’OECE e al Patto Atlantico. Nel ’54, Trieste torna italiana con gli Accordi di Londra e in breve il caso foibe è archiviato per motivi di Stato con gli esuli accolti in modo indegno. Dopo 30 anni, la fine del comunismo e della “cortina di ferro”, l’ingresso della Slovenia nell’UE cambiano giochi e interessi dell’Italia. Come fa notare Volk, prima le foibe erano, senza eccezioni di rilievo, la costruzione di un mito: da una parte gli “immacolati” (le vittime), dall’altra i “demoniaci” (i carnefici). Ora c’è posto per le sfumature e la commissione restituisce uno scenario articolato, in cui muoversi senza dogmi o pregiudizi, sgombri dall’ottica – talvolta privilegiata ma sempre di parte – di chi ha “subito” o “agito” la strage. Volk non è ottimista: “La storiografia non solo ha delle responsabilità, ma ha anche fatto passi indietro usando parzialmente la documentazione”. Se è così, dovremo impegnarci per conseguire una pacificazione nazionale che non calpesti né i morti né i vivi, e nemmeno gli ideali su cui si fonda la Repubblica; e per sapere che cosa e chi ricorderemo ogni 10 febbraio.

Le foibe e il silenzio di allora

QUESTO TRENTINO n° 8 del 17.4.2004

Giorgio Tosi

Q uest’anno, in occasione della giornata della memoria che ricorda la Shoa, si è parlato molto del dramma delle Foibe, ma in modo spesso strumentale e fazioso, quasi comparandolo allo sterminio degli Ebrei. Mi sembra opportuno qualche chiarimento, ora che le polemiche si sono attenuate e prima che comincino quelle che si riaccendono abitualmente nei dintorni del 25 aprile.
         La storiografia ha accertato che nell’autunno del 1943 e nel maggio-giugno del 1945 nei territori della Venezia Giulia, in particolare in Istria, vennero eliminati sommariamente migliaia di Italiani (circa 10.000 persone) fascisti e non fascisti dall’esercito iugoslavo, da formazioni partigiane slovene e croate, e da una parte della popolazione autoctona. Non tutti vennero “infoibati” nelle cavità carsiche: la maggior parte morì per fame, per malattia o per fucilazioni nei campi di concentramento iugoslavi. La causa principale di questa “pulizia etnica” fu la decisione iugoslava di annettere la regione alla nuova Repubblica titina, facendo valere il peso della maggioranza slava (vedi Giovanni Sale, padre gesuita, in La civiltà cattolica, 21 febbraio 2004, p. 327). La seconda causa fu la reazione dei combattenti e della popolazione contro le nefandezze compiute dai fascisti durante il ventennio, in particolare nell’Istria e nelle isole dalmate, e la dura e violenta occupazione nazifascista della Iugoslavia negli anni ‘41-’43; nel 1941 “la violenza dello Stato fascista toccò apici di parossismo: internamenti di massa di civili sloveni e croati, arresti a valanga di antifascisti italiani, rappresaglie di stampo nazista con esecuzioni collettive e incendi di villaggi, insediamento di organi polizieschi come l’Ispettorato Speciale di P.S. dove si torturavano anche le donne incinte, pogrom di aggressioni e devastazioni contro la comunità israelitica di Trieste… Una violenza indiscriminata e suicida incalzata dalle direttive impartite da Mussolini a Gorizia nel 1942… II 1941 preparò il disastro del 1943, l’occupazione nazista, le foibe istriane dopo l’armistizio” (Galliano Fogar, in Foibe e deportazioni, in Qualestoria 1989. Fogar viene considerato uno degli storici più preparati sulla questione, e certamente il più documentato). Bogdan Novak, storico sloveno anticomunista emigrato negli Stati Uniti, nota che altre etnie subirono la stessa sorte degli italiani e forse anche peggiore: “Durante l’inverno ‘44-’45, quando ormai Tito aveva imposto il suo dominio sulla parte orientale della Jugoslavia, interi reparti cetnici furono massacrati. Alla fine della guerra, tra il maggio e il giugno del 1945, intere divisioni di ustascia e domobranzi furono liquidate sommariamente con le armi automatiche… La situazione nella Venezia Giulia era identica” (B. Novak, Trieste 41-45, La lotta politica, etnica e ideologica, Mursia. Milano 1973, pp. 176-180). Diego de Castro, che ricopri i1 ruolo di consigliere politico italiano presso il Governo militare alleato che amministrava il ‘Territorio libero di Trieste’, concorda con Novak: “Dal 24 al 31 maggio 1945 furono massacrati almeno diecimila jugoslavi (domobranzi e cetnici) senza processo, nella foresta di Kocevje, dopo che gli inglesi li avevano consegnati ai partigiani di Tito” (D. de Castro, La questione di Trieste, Lint, Trieste 1981, vol. I, p. 212, nota 445). P otrei citare sul punto numerosi altri storici, ma la questione è un’altra. Perché nonostante la numerosa e documentata storiografia, incominciata subito dopo la guerra, è calato il silenzio politico sulle foibe per quasi 50 anni? Il Governo militare alleato sapeva e ha taciuto. Anche il Governo italiano sapeva e non ha neppure protestato. Nulla fece in sede di trattato di pace (Benedetto Croce parlò di clausole che mortificavano la dignità dell’Italia), né sollevò obiezioni quando cominciò l’esodo forzato di 350.000 Italiani dalla Dalmazia. Il padre gesuita Giovanni Sale, nell’articolo citato, dà questa spiegazione: “Furono in realtà motivi di ordine politico nazionale e internazionale che imposero tale imbarazzante silenzio su quanto era accaduto agli Italiani in quelle zone di confine. Innanzi tutto fu la nuova collocazione della Jugoslavia nello scacchiere politico strategico dell’Europa (la rottura con Stalin e l’avvicinamento di fatto agli Stati Uniti) che spinse le potenze occidentali, e tra queste anche l’Italia, ad assumere nei confronti di Tito un atteggiamento più morbido” (G. Sale, ibidem, p. 334).          
Inoltre agli inizi del 1945 il Governo di Belgrado aveva chiesto all’Italia l’estradizione di soldati e ufficiali italiani accusati di aver compiuto crimini di guerra durante il periodo della occupazione nazifascista della Jugoslavia nel ‘41-’43. “Questo fatto naturalmente imbarazzava molto il Governo di Roma… la maggior parte degli ufficiali indicati nelle liste trasmesse da Belgrado era stata immessa nelle unità del ricostituito esercito italiano, mentre altri occupavano addirittura posti di rilievo nell’amministrazione dello Stato… Inoltre non si credeva possibile che soldati italiani potessero aver commesso azioni così   delittuose e perpetrato massacri cosi efferati come quelli che venivano addebitati ad essi. Da fonti documentali credibili risulta invece che i buoni e pacifici soldati italiani si lasciarono andare ad azioni di questo tipo… Quello dei massacri compiuti dall’esercito italiano nei Paesi di occupazione è ancora un brutto capitolo della storia patria tutto da riscrivere… In ogni caso il Governo italiano ritenne opportuno di non sollevare la questione delle foibe e degli eccidi nella Venezia Giulia,
nella speranza che anche quella sui presunti crimini di guerra venisse in qualche modo insabbiata… Così di fatto avvenne: l’Italia acconsentì a dimenticare i massacri delle foibe in cambio della assoluzione morale concessa in sede internazionale per le ‘irregolarità’ (sic!) compiute dai propri soldati durante la guerra” (G. Sale, ibidem, pp. 337-338). lo credo che l’analisi di padre Sala sia sostanzialmente corretta. Dimenticare quei terribili fatti faceva comodo a tutti, scrive Sala. Purtroppo è stato così. Ma ora che la guerra fredda è finita e molto tempo è passato, è giusto ricordare la tragedia degli Italiani istriani e dalmati nelle sue esatte proporzioni, insieme alle vere cause che la determinarono, senza strumentalizzazioni, e ricordare anche la inadeguatezza dei Governi, dei Partiti e dei giornali che ebbero la grave responsabilità del silenzio.

http://www.questotrentino.it/2004/10/Foibe.html

Il mito delle foibe

Stefano Scardicchia

A proposito di un convegno poco convincente.

QUESTO TRENTINO n° 10 del 15.5.2004

I n greco, mýthos è il racconto; e, infatti, ciò che sappiamo del le foibe ci è stato raccontato, tramandato di generazione in generazione, per non dimenticare; ma la memoria spesso amplifica, distorce, livella, rimuove, rivelandosi tutt’altro che obiettiva. Potrebbe essere accaduto anche per le foibe? E’ quanto sostengono il ricercatore Sandi Volk, Giorgio Pira del Collettivo Gramsci e il partigiano Gianni Perghem, intervenuti, quali unici relatori, nel dibattito “La menzogna dei martiri: il mito reazionario delle foibe” a Sociologia il 27 aprile.
             All’incontro avrebbero dovuto partecipare alcuni storici dell’Ateneo di Trento, presumibilmente come ospiti dato che i loro nomi non compaiono nel programma. La controparte, che avrebbe garantito maggiore equilibrio se non imparzialità, era però assente per via di un “imprevisto”. Il preside della Facoltà, il prof. Antonio Scaglia, ha annullato l’incontro, negando l’utilizzo della capiente e confortevole aula 20 e assumendosi “l’impegno di organizzare, quanto prima possibile, una iniziativa di approfondimento e discussione sul tema delle foibe e della loro rimozione dalla memoria collettiva repubblicana”. Ciò nella convinzione che non vi fossero “le condizioni per lo svolgimento di un confronto sereno e scientificamente fondato su un tema cruciale della storia italiana recente” – così recita il comunicato affisso nel pomeriggio dopo che lo stesso Scaglia aveva più volte confermato (anche sul Trentino e fino a 8-9 ore prima del convegno) che mai avrebbe preso provvedimenti censori. L’ordine pubblico poteva essere salvaguardato diversamente, ad esempio con l’intervento preventivo delle forze dell’ordine, come proposto tra l’altro da Universitando, che tuttavia ha appoggiato la scelta del preside. La “sospensione” ha pesato sul convegno, che s’è svolto ugualmente ma in assenza dei docenti (ignari della determinata presa di posizione del Collettivo) e per giunta nell’aula caffè, non attrezzata per simili evenienze e fin troppo disturbata da un costante viavai verso distributori di bibite e cibarie. Sedie e panche, insufficienti, sono state recuperate dalla sala lettura o dal giro scale, ed almeno una ventina di persone ha assistito coraggiosamente in piedi per la bellezza di due ore. Ma quali pericolose idee hanno spinto a tale corsa ai ripari? P Per i relatori è doveroso rivedere le cifre: non 300.000 infoibati ma qualche centinaio, e poi bisogna verificare le biografie delle vittime. I morti che ricorderemo ogni 10 febbraio a partire da quest’anno sarebbero in minima parte civili innocenti, partigiani, gente comune; gli altri – repubblichini, squadristi, SS, membri della Croce Rossa militarizzata e via dicendo – risulterebbero coinvolti in rappresaglie, fucilazioni, pestaggi, persino nella Shoah. Altri ancora sarebbero stati conteggiati per errore, non sempre in buona fede, come le donne inserite due volte (col cognome da nubile e da sposata) o gli 8 deportati nei lager nazisti finiti inspiegabilmente nell’elenco; inoltre tra gli infoibati ci sarebbero anche sloveni. Inesatto, dunque, parlare di oltraggio all’italianità ed assurdo, di conseguenza, realizzare monumenti in memoria dei nostri soli morti. La falsificazione sarebbe opera di storici poco credibili perché neofascisti e di parte. Purtroppo il partigiano Perghem, che avrebbe dovuto corroborare la tesi, è parso una figura di contorno, parlando per ultimo giusto pochi minuti. Una testimonianza non valorizzata e meno interessante degli interventi del pubblico. Alla fine, con la dispensa “Boicottiamo il “Giorno del ricordo”” distribuita gratis a chi la voleva, ci restano i dubbi e il desiderio di conoscere più a fondo una realtà poco studiata. Solo gli ultimi anni registrano un interesse “nazionale”, preceduto, andando molto indietro, dalle campagne demagogiche di Almirante che attecchirono, non a caso, specie nella Venezia Giulia. Forse anche a loro si deve lo sdegno di parenti e amici delle vittime, offesi, magari a ragione, da una lettura revisionista (non negazionista) che ridimensiona drasticamente l’orrore e la ferita delle foibe: i sepolti vivi sarebbero l’eccezione, non la regola. Non siamo degli storici né possediamo i dati della commissione d’inchiesta italo-slovena sulla reale portata del fenomeno, perciò evitiamo di trarre conclusioni in base a opinioni personali e letture più o meno accreditate. L’importante è confrontarsi senza ribattere cifra su cifra, alzare i toni, censurare, opporre gli esempi di Poreè (Parenzo) e Trieste per dimostrare l’una o l’altra teoria. Altrimenti, com’è accaduto alla fine del convegno, ci si parla addosso o da soli.

Sul mio manuale non ci sono le foibe…

Polemica sui libri di testo: l’impossibile ricerca della verità assoluta.

QUESTO TRENTINO n° 22 del 9.12.2000

Silvano Bert

N on ci sono le “foibe” sul manuale che ho in adozione, “I Tempi della storia”, di Alberto De Bernardi e Scipione Guarracino, Bruno Mondadori Editore. Bisognerà che i due autori provvedano: le foibe sono l’evento, tragico e chiassoso, sul quale d’ora in poi sarà misurata l’oggettività di un libro di storia. Le polemiche, innestate dalla proposta di Francesco Storace, di sottoporre i manuali al controllo di una commissione politica, serviranno a questo: per non esporsi all’accusa di essere falsi o faziosi, gli autori rappezzeranno in fretta e furia i buchi approdati in questi giorni agli orrori dei mass-media. Io       ho scelto il “Guarracino”, lo confesso, senza cercarvi le foibe, solo perché mi pareva uno strumento adatto a formare nei giovani quelle competenze di cui hanno bisogno. Non mastodontico, e non troppo smilzo. Narra i fatti, approfondisce nelle schede i problemi, fornisce documenti su cui elaborare interpretazioni anche diverse. Ci sono esercizi, e un atlante allegato. Insegna a periodizzare, a cogliere nella storia i nessi causali, anche i momenti di casualità. La politica domina, ma l’economia, la tecnica, la cultura non sono strozzate. Centrato sull’Italia, ma aperto sull’Europa e sul mondo. E’ sufficientemente leggibile: l’indice di Flesch, che misura la lunghezza del periodo e quella delle parole, dà risultati accettabili. Conosco personalmente gli autori: in qualche corso d’aggiornamento mi hanno fatto una buona impressione. Hanno pubblicato non solo manuali scolastici, ma anche studi di storia contemporanea: sono cioè degli storici affermati nella comunità scientifica. Soprattutto sono impegnati da anni nel rinnovamento della didattica, attualmente sulla rivista “I viaggi di Erodoto”. Il loro punto di vista, culturale e politico, nelle svolte cruciali della storia umana, non è di equidistanza. La ragione è dalla parte di Bruno e di Galilei, non del Tribunale dell’Inquisizione. L’Illuminismo, la Rivoluzione francese, il Risorgimento sono eventi e processi progressivi, seppur problematici. Il Novecento è l’età dei totalitarismi: il concetto comprende la Germania di Hitler, l’Italia di Mussolini, l’Unione Sovietica di Stalin. Allo “stalinismo”, con i suoi milioni di morti, è dedicato un capitolo intero, alla Germania nazista solo un lungo paragrafo. Il problema del “consenso” al fascismo è affrontato con serietà: ci sono i discorsi di Mussolini, e l’interpretazione di Renzo De Felice, seppure non condivisa, è discussa con equilibrio. N on è oggettivo dunque il manuale che i miei studenti maneggiano. Ne leggiamo del resto solo una parte, perché i ragazzi devono diventare periti chimici, non periti storici. Io mi auguro che, finiti gli studi, lo tengano a portata di mano, e lo consultino di tanto in tanto. E che così venga loro la voglia di leggere, se vi si imbattono sul quotidiano, anche gli articoli di storia, oltre quelli di attualità. Il manuale è uno strumento, e non il solo, su cui lavoriamo. Non esiste il libro completo, men che meno quello in cui è depositata la verità. Sono selezionati dallo storico i fatti da raccontare, è lui che analizza e spiega i problemi, è lui che valuta e interpreta. L’articolo che state leggendo è infarcito di valutazioni: “è discussa con equilibrio”“un lungo paragrafo”“è affrontato con serietà”. Persino il “non mastodontico, e non troppo smilzo” è una valutazione personalissima: dalla quantità di volte che i ragazzi dimenticano a casa il volume, direi che secondo loro è pesantissimo. I giovani sono esercitati, da ogni decente insegnante di storia, a distinguere nel libro i diversi linguaggi della storiografia: il narrativo, l’argomentativo, il valutativo. Crescono così, a fatica, intendiamoci, al di là delle foibe e delle paludi pontine bonificate. Estremizzo la cosa. Forse non è scandaloso se un giovane a scuola non studia né Hitler né Stalin né Mussolini, perché altri sono stati quell’anno i “nodi” analizzati. Se studiando la “grande guerra”, l’emigrazione, il colonialismo, gli viene la passione di studiare la storia, e impara dove e come può soddisfarla, lo può fare anche da solo, da grande. I  docenti di storia dell’Iti scrivono (vedi scheda nella pagina a fianco) che nessuna autorità politica è abilitata a imporre un libro di “storia vera”: fra studium e regnum ci sarà sempre tensione. Io penso oggi che le foibe, in cui i partigiani comunisti jugoslavi massacrarono migliaia di italiani, è un fatto storico da riportare sui manuali. “Massacrare” è però già un verbo che valuta, non si limita certo ad esporre. Sulla spiegazione sarà poi impossibile trovare un accordo all’unanimità: sul peso da attribuire alle cause gli autori dei libri, gli insegnanti, gli studenti, che magari vedono le videocassette in commercio, ed equidistanti fra fascismo e antifascismo, la penseranno in modo diverso. Lo immaginate un paragrafo sulle foibe, scritto per bene, che soddisfa ogni membro della commissione politica, e da tenere a mente per sempre? E’ lunga la vita, possono cambiare i punti di vista. E’ preoccupante che a destra abbiano pensato di insegnare la storia così, a colpi di commissione. Significa che la democrazia, cioè il confronto fra storici che portano sempre nuovi argomenti, non è ancora un valore pienamente acquisito. E’ vero che a sinistra si fa ancora fatica ad accettare per la Resistenza la definizione (anche) di “guerra civile”, Giampaolo Pansa su questo ha ragione, ma nessuno, che io sappia, pensa di inserire, o espellere, a forza, tale concetto dai libri di storia. Ha fatto la destra, paradossalmente, con questa polemica, un favore alla sinistra? Giorgio Bocca ha ringraziato ironicamente Storace: molti italiani, assonnati, hanno finalmente capito con chi hanno a che fare. No, a me questa “trovata” è spiaciuta: quando una forza politica dà il peggio di sé, è l’intera nazione a soffrirne. Quando a dare il peggio di sé è l’avversario di destra, la sinistra non se ne avvantaggia. E’ quando ognuno tiene alto il discorso, che crescono tutti. Succede raramente, di questi tempi. A ricordare che il fascismo, e il nazismo, sono stati regimi attorno a cui si è formato il consenso, che cioè il terrore non spiega tutto, io l’ho imparato inizialmente da storici non di sinistra. E così che furono “ragioni”, le loro, a spingere certi ragazzi ad aderire alle Brigate nere della Repubblica sociale, invece che ai partigiani della Resistenza. Le domande, i temi spinosi, non finiranno mai di impensierirci, e verranno da tutte le parti Il documento, preoccupato, nella mia scuola, l’hanno firmato quasi tutti gli insegnanti di storia. Non tutti, e anche questa è una questione sulla quale riflettere. I rapporti fra chi ha firmato e chi si è rifiutato resteranno corretti però, al di là del dissenso, di Storace e di Guarracino. E’ anche per questo che, tutto sommato, la scuola continua a reggere, e che le proposte di denunciare su Internet gli insegnanti faziosi non mi (ci) spaventano.

Lager e foibe: la stessa cosa?

QUESTO TRENTINO n° 5 del 7 marzo 1998

Renato Ballardini

Grandi lodi sono state tributate a Gianfranco Fini perché, chiudendo la conferenza di Alleanza Nazionale tenuta a Verona, ha respinto nettamente i rozzi e primitivi slogan che il giorno prima Silvio Berlusconi aveva proclamato innanzi la medesima assemblea. E di ciò gli va dato merito. Ma non è possibile sorvolare sullo scotto che ha dovuto pagare all’ideologia che ancora permea una parte della base del suo partito. “Non bisogna dimenticare – egli ha detto – gli orrori, le tragedie; e con la stessa intensità bisogna ricordare i tanti italiani che solo perché di religione ebraica furono deportati, ed i tanti italiani che furono infoibati”.

Ebbene, non ho alcun dubbio che la rappresaglia titina che nel 1945 portò all’eccidio di migliaia di italiani “infoibati ” fu una orrenda tragedia, che è impossibile dimenticare e doveroso ricordare. Ciò che invece è inaccettabile, perché costituisce una deformazione ideologica della realtà, è affiancare e ricordare “con la stessa intensità” i lager nazisti e la foiba di Trieste. Rievocare come se fossero equivalenti i lager e l’olocausto e le foibe titine è intellettualmente disonesto sul piano della conoscenza storica e politicamente colpevole.

E ciò perché i due avvenimenti, ciascuno con la propria intrinseca nefandezza, vengono in tal modo presentati al di fuori del loro specifico contesto, e quindi spogliati del proprio autentico e ben diverso significato. Spezzare il rapporto fra gli avvenimenti ed il loro contesto è una tipica operazione truffaldino, raramente innocua e sempre premeditata.

Per apprezzare la decisiva importanza del contesto nell’interpretare l’esatto significato degli avvenimenti, può essere utile un semplice esempio che traggo dalla nostra comune esperienza di automobilisti. E’ certamente accaduto anche a voi che, mentre vi trovate alla guida della vostra macchina, dalla vettura che marcia in senso contrario vi giunga un rapido lampeggio di fari. Tale segnale può avere significati diversi, addirittura opposti, a seconda del contesto. Se constatate di avere i fari accesi nonostante la giornata luminosa, il lampeggio ha il significato di un cortese avvertimento. Se invece un istante prima vi eravate arrischiati in un sorpasso spericolato, il lampeggio dell’automobilista che avete messo in pericolo equivale ad una ostile imprecazione. Se poco dopo l’incrocio avvistate una pattuglia della polizia stradale, l’intermittenza luminosa dell’ignoto automobilista diventa l’offerta maliziosa di un complice concorso ad eludere i controlli della vostra sregolatezza.

Come vedete, lo stesso identico segno può avere significati diversi, a seconda del contrasto in cui è inserito.

Ecco perché nascondere il contesto in cui i due eventi evocati da Fini si collocano significa alterarne volutamente il significato. Il genocidio degli ebrei fu un progetto freddamente concepito e tecnologicamente attuato dai nazisti ed accettato dai fascisti che vi cooperarono attivamente, come elemento integrativo di una politica complessiva di aggressione e dominio, e sfociata in una guerra che devastò l’Europa e il mondo intero.

Le foibe di Trieste furono una nefasta ritorsione di chi era stato aggredito. In guerra anche le vittime peggiorano e subiscono il contagio della barbarie imposta dall’aggressore. Ricollocati nei loro contesti storici, i lager nazisti e le foibe di Tifo acquistarono un rilievo etico profondamente diverso. Se non ci fosse stata la guerra nazifascista, non ci sarebbero state le foibe. E certo molti innocenti italiani sono morti nelle fosse di Trieste, ma è una vera e propria profanazione esibire questi morti per pareggiare il conto di quelli provocati dai nazifascisti. La pietà per i morti non è un velo che possa coprire le enormi responsabilità storiche del nazifascismo.

Si dice che Gianfranco Fini abbia la migliore intenzione di costruire in Italia una destra democratica, sul modello della destra europea. E’ un auspicio che facciamo nostro. Però il leader di Alleanza Nazionale, se ha questo proposito, farà bene a ricordare che la destra democratica europea trova le sue radici ideali nelle biografie politiche di uomini come Charles De Gaulle e Winston Churchill, che furono due formidabili campioni dell’antifascismo.


Altri articoli di grande interesse si trovano nello stesso sito. Li consiglio davvero. http://www.questotrentino.it/asp/articoli.asp?Yugoslavia  http://www.questotrentino.it/asp/articoli.asp?storia  http://www.questotrentino.it/asp/articoli.asp?Fascismo

LA LIBERAZIONE DI TRIESTE

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From: Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia <jugocoord@tiscali.it>

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Sent: Thursday, April 24, 2003 10:13 AM

Subject: [JUGOINFO] Resistenza! (3) LA LIBERAZIONE DI TRIESTE





Testimonianza di Milka Cok (Ljuba) di Longera

«Il primo bunker venne costruito nell’estate del ’44 sotto casa nostra, che si trovava proprio dietro quello che adesso è l’asilo di Longera, una vecchia osteria dove allora si erano insediati i tedeschi. La gente entrava davanti ed usciva dietro, sulla campagna, era in una posizione ideale per quel tipo di movimenti. Poi ci accorgemmo di essere spiati, ed un altro bunker venne costruito più su, dove ora c’è il monumento. Consisteva in una piccolissima stanza, dove potevano stare da 4 a 6 persone, ed un piccolissimo cunicolo che portava sul monte. Il bunker serviva come base per partigiani che stavano lì nascosti di giorno e che uscivano la notte per compiere le loro missioni.

Allora avevo sedici anni, facevo parte dello S.K.O.J. [1]; noi ragazzi avevamo ognuno una zona della città dove andavamo di notte a scrivere con vernice e pennello; la mattina, invece di andare a scuola, nascondevamo tra i libri, nelle borse, i volantini che venivano da Gropada [2] e li portavamo in città. Poi accompagnavamo in Carso i giovani che volevano unirsi ai partigiani: davamo loro degli attrezzi agricoli e li portavamo attraverso Monte Spaccato, dove lavoravano quelli della Todt [il servizio obbligatorio istituito dai nazisti, n.d.a.] a fare fortificazioni, dicendo a questi che i ragazzi andavano a lavorare in campagna. Passavamo oltre, dopo un poco abbandonavamo gli arnesi ed i giovani andavano fino a Gropada, da dove poi si sarebbero uniti ai partigiani.

Il giorno del rastrellamento e del massacro (21.3.1945, n.d.a.) venne su a Longera la “banda Collotti” con Collotti in persona. La gente sospetta e schedata venne prelevata e condotta al centro del dopolavoro che si trovava in fondo al paese. C’ero anch’io con la mia famiglia, avevo due fratelli partigiani, eravamo “sospetti”. Verso le 11 sentimmo i primi spari, mitraglie, bombe a mano. Capii subito che si trattava del bunker: qualcuno aveva fatto la spia. Mi disse poi proprio uno della “banda Collotti” che c’era in paese uno spione che andava di notte ad origliare sotto le finestre dei
compaesani.

Quelli della “banda Collotti” portarono tre compagni incatenati, tra cui anche il padre di Danilo, che aveva il figlio nel bunker. Volevano che lo aprisse, ma lui si rifiutò e lo uccisero. Danilo mi raccontò poi che loro, nel bunker, avevano deciso, se fossero stati attaccati, di attaccare a loro volta e di non lasciarsi prendere vivi dai fascisti. Durante l’attacco al bunker morirono Pavel, che era il comandante, Stojan e Radivoj [3]. Gli altri tre si salvarono
nascondendosi dietro la nostra casa e si rifugiarono a Gropada.

Al dopolavoro chiamarono fuori la mia famiglia e ci portarono tutti fino al bunker, dov’erano stati messi in fila i quattro morti, anche il papà di Danilo. Volevano che dicessi i nomi dei morti, ma mi rifiutai, allora mi fecero andare tra i corpi e mi minacciarono di uccidermi. Credetti davvero che sarei morta, ma spararono solo una raffica che non mi colpì e svenni. Mi riportarono poi a casa e di nuovo al bunker e poi ancora di nuovo al dopolavoro. Lì vidi anche i loro feriti (della P.S., n.d.a.), che vennero portati via subito.

Al pomeriggio mi chiamò Collotti in persona; io non volevo andare perché avevo visto Slavko (uno dei costruttori del bunker) che era stato torturato ed era ancora fuori di sé, diceva che non aveva potuto sopportare le torture, era irriconoscibile.

Collotti mi disse che sapeva tutto di me, di quello che avevo fatto, del cibo che portavo nel bunker, di ciò che facevo a Borst e a Gropada. Io negai di essere la figlia di Rodolfo Cok, lui fece per picchiarmi ma si fece male da solo… allora mi fecero ruzzolare giù per un piano di scale. La sera poi ci portarono in via Cologna.

Fu proprio il giorno delle Palme che mi portarono nella stanza della tortura: mi legarono ad una sedia, mi torturarono con l’elettricità, mi bruciarono con le sigarette, mi picchiarono, mi tirarono su con una corda legata alle spalle torcendomi le braccia… una ragazza ebbe le braccia spezzate, un compagno morì poco dopo. Nonostante tutto non parlai e dopo dieci giorni ci portarono al Coroneo dove ci passarono alle S.S.; là vennero anche mia madre ed altri di Longera. Sentivamo di notte i camion che venivano a prendere la gente per portarla in Risiera, ma anche al Coroneo riuscivano a girare i fogli partigiani e questo ci dava coraggio.

Erano gli ultimi giorni di guerra e ci dissero che ci avrebbero portato in Germania. Ci condussero a piedi fino a Roiano: lì gli uomini vennero caricati su un camion mentre noi aspettammo tutto il giorno che venissero altri camion per portarci via, ma non venne nessuno, perché a nord le strade erano già bloccate. Così ci riportarono al Coroneo e dopo ci rimandarono a casa.

A Longera la nostra casa era distrutta: una notte che pioveva e non potevamo dormire ci eravamo messi di guardia contro i tedeschi: ma ad un certo punto vedemmo arrivare i partigiani, da tutte le parti venivano fuori i partigiani e questa è stata una gioia così grande che non la posso descrivere».



[1] Savez Komunisticne Omladine Jugoslavije (Lega della Gioventù Comunista Jugoslava).

[2] Piccolo paese carsico tra Bazovica-Basovizza e Padrice-Padriciano.

[3] I caduti del bunker, i cui nomi sono ricordati nel cippo di Longera, sono: Andrej Pertot, Pavel Petvar, Angel Masten ed Evald Antoncic.


(Tratto da: Claudia Cernigoi, “Operazione foibe a Trieste. Come si crea una mistificazione storica: dalla propaganda nazifascista attraverso la guerra fredda fino al neoirredentismo“. Edizioni Kappa Vu, Udine 1997.)


Il COMUNISMO E LE FOIBE

  Roberto Renzetti  (17-11-2000 ore 20:45)

Vi sono degli “storici” che ogni tanto compaiono nel forum di Repubblica.it e spiegano i livelli della loro ignoranza. Vediamo: un certo giorno gli sloveni ed i croati (tutti comunisti) sono entrati in Italia ed hanno iniziato a gettare dentro delle fosse carsiche migliaia di innocenti. È cosi no? Ora, ad evitare l’irruzione di un conoscente che è capace di dire che sono il responsabile, dichiaro subito a posteriori che tutto ciò è orrendo, come è orrenda qualunque strage perpetrata soprattutto contro cittadini incolpevoli ed inermi. Ma ora vediamo un poco meglio. 

L’Italia era fascista e manteneva in libertà vigilata, insieme alla Germania, Croazia e Slovenia (appartenenti alla Yugoslavia). Agli inizi del 1939 l’Italia, non ancora entrata in guerra, si prepara ad attaccare l’Albania e la Grecia. Puntando sul fascista croato Ante Pavelic, che momentaneamente aveva avuto asilo politico a Siena, Mussolini forza la politica di destabilizzazione della Yugoslavia. Pavelic e gli ustascia vengono addestrati in Italia e possono contare sul sostegno di elementi antisemiti che fanno capo alla Curia arcivescovile di Zagabria. Mussolini pensa di utilizzare Pavelic per staccare la Croazia dalla Yugoslavia. Arriva il veto tedesco.(*) L’Italia attacca la Grecia il 28 ottobre 1940 (la dichiarazione di guerra di quel buffone fu fatta simultaneamente a più di 140 Paesi!) pensando di spezzarle le reni ma pigliandosi una storica batosta. Comunque con questa azione si è ai confini con la Yugoslavia. Hitler , per parte sua, preparandosi all’attacco all’URSS, vuole una zona di tranquillità nel settore balcanico e intima al reggente yugoslavo, principe Paolo, di firmare un trattato di adesione all’Asse. In Yugoslavia la cosa non è gradita e Paolo viene deposto da Dusan Simovic (con l’appoggio dei servizi segreti britannici, da settori serbi, dal clero ortodosso). Nonostante le rassicurazioni di Simovic a Roma e a Berlino sulla non inimicizia del nuovo governo con l’Asse, Hitler inizia a pensare ad un intervento militare che , tra l’altro, dovrebbe togliere la Croazia dall’influenza italiana. Si arriva al compromesso di uno stato indipendente croato con a capo il criminale Pavelic (Hitler avrebbe preferito il moderato Macek). Il 3/4/41 un colonnello croato dell’esercito serbo (Kren) fornisce ai nazisti tutte le informazioni sulle forze e la dislocazione dell’esercito Yugoslavo. Il 6/4 le forze nazifasciste attaccano senza preavviso la Yugoslavia (24 divisioni tedesche, 23 italiane + vari ungheresi e 2200 aerei da bombardamento che distruggono preventivamente l’aviazione yugoslava e bombardano Belgrado) procurando in 2 giorni 17.000 morti yugoslavi (le perdite dell’Asse sono: 558 tedeschi e 3.334 italiani). La Yugoslavia viene cancellata e le sue spoglie vengono divise tra gli eserciti occupanti. All’Italia spetta il controllo della parte meridionale della Slovenia (con Lubiana), lo sbocco al mare a sud di Fiume, alcune isole, il controllo della costa dalmata da Zara a Spalato, un pezzetto di Bosnia, il Montenegro, un poco di Kossovo. Dopo trattative serrate, Pavelic viene portato a Zagabria (15/4) con i suoi ustascia per gestire il potere. Alcune frange dell’esercito yugoslavo iniziano ad organizzarsi in formazioni partigiane alla guida del generale Mihailovic. Contemporaneamente sulle montagne iniziano ad infoltirsi le brigate partigiane guidate dal segretario del  Partito Comunista Yugoslavo, Tito. Il 16 aprile vengono sciolti tutti i partiti politici ed i loro capi arrestati, viene soppressa la libertà di stampa (solo ustascia e cattolici mantengono i loro organi informativi), vengono distrutti tutti i luoghi di culto non cattolici. Arriva la benedizione di Pio XII. Il 18 aprile vengono sequestrati tutti i beni dei serbi – un terzo della popolazione – , dei comunisti, degli ebrei (i comunisti e gli ebrei su semplice delazione vengono arrestati; la metà degli ebrei croati, 50.000, sarà macellata) ed iniziano i massacri dei rom (28.000). Il 25/4 Leggi razziali con identificazione di ebrei e serbi mediante fasce colorate al braccio. I1 30 aprile si definisce la nazionalità croata per soli ariani e tutti i locali pubblici debbono avere cartelli che dicono :”vietato ai serbi, ebrei, zingari e cani”. Il problema principale sono i serbi che in parte sono costretti ad andarsene, in massima parte massacrati anche in campi di sterminio e, in minima parte, convertiti forzatamente al cattolicesimo. Centinaia di migliaia di serbi verranno trucidati, interi villaggi distrutti ed incendiati. Ogni documento parla delle atrocità ustascia come peggiori di quelle degli stessi nazifascisti. e di questi

Eravamo rimasti ai campi di concentramento ed alle stragi. I primi campi vengono allestiti nel 1941 e vi si è mandati non da tribunali ma dal “Servizio Ustascia di Controllo” In territorio croato se ne aprono 22 che funzioneranno per portare a termine lo sterminio. Solo 2 resteranno aperti fino al 45 (non esistono documenti su quanti siano stati gli sterminati, documenti distrutti dagli Ustascia in fuga) . Il capo di uno dei campi (Luburic) nel 1942 dichiarerà di aver sterminato più persone lui di quanto ha fatto l’impero Ottomano nei suoi secoli di dominazione. Nel campo di Jadovno vengono sterminate circa 400 persone al giorno. Vengono portati alla Fossa di Saranova dove vengono sgozzati e colpiti con mazze di ferro sulla testa e di questi fatti ve ne sono documentati a centinaia. Il campo di Jasenovac è quello con la fama peggiore. Lì furono uccise 700.000 persone. Su questo non vado oltre. Si leggano le varie testimonianze nella bibliografia che fornirò. Nel 1943 le attenzioni vengono rivolte ai partigiani. Nel 1941 le truppe italiane vengono accolte con favore per qualche motivo di speranza che aprono. Ma l’annessione mussoliniana della Dalmazia fa cambiare tutto. Le truppe italiane devono sostenere la nascita dello stato croato. Qualche soldato scrive lettere inorridite ai comandi superiori (ma non accade nulla) e tenta una qualche opposizione. Pavelic scrive a Ribbentrop ed ottiene dall’Italia l’estradizione degli ebrei residenti in zone controllate dall’Italia stessa (con molte eccezioni di ingegnosi modi di salvare qualche vita). Di tutt’altro tipo è l’azione dell’esercito italiano in Dalmazia, Croazia e Slovenia, verso i partigiani che vengono perseguiti con accanimento. Tutti i reparti diventano assassini e primeggiano gli Alpini e la Milizia fascista. Quindi da parte dell’Italia guerra partigiana e non coinvolgimento completo nelle stragi etnico-religiose. Sorvolo anche sul capitolo delle conversioni forzate dei serbo ortodossi. Tutte queste atrocità proseguiranno fino al 1945. Intanto nell’agosto del ’43 lo sbarco alleato in Sicilia inizia a far traballare il regime fascista. L’Italia inizia una parziale ritirata dai Balcani e Pavelic si riannette la Dalmazia. Anche il Reich inizia a passarsela male contro l’Armata Rossa contro la quale ha impegnate 244 delle sue complessive 300 divisioni (da quella parte l’URSS pagherà con 21 milioni di morti). Nell’autunno i partigiani di Tito hanno già occupato tutti i territori montagnosi di Croazia, Dalmazia, Bosnia e Montenegro. Costituiscono un Comitato riconosciuto dagli alleati. Nei primi mesi del 1944, con i tedeschi che devono ripiegare verso la Germania i partigiani occupano nuovi territori. Pavelic vede crollare il suo regime e tenta un avvicinamento agli alleati che viene respinto. Si tenteranno varie strade (Pavelic esule in Svizzera ed il governo ad un moderato in modo che il tutto sembri un rovesciamento filoalleato). Niente, e non solo: l’ambasciatore croato che si reca a Bari con questa proposta viene arrestato dagli alleati. Il bombardamento anglo americano di Dresda dei febbraio1945 segna la fine del Terzo Reich. Pavelic è convinto che la guerra proseguirà tra Usa ed Urss. Ma a Yalta si era già deciso di fermare tutte le armi dopo la sconfitta del nazifascismo. L’ala partigiana di Mihailovic sì schiera con Pavelic al fine di costruire una Croazia indipendente, cattolica ed anticomunista. Il tentativo abortisce subito perché gli alleati non riconoscono un tale governo. Tito resta l’unico capo di un esercito partigiano che è diventato possente e sta occupando tutto (si tenga conto che la Yugoslavia è l’unico Paese che si è liberato da solo). Pavelic tenta la fuga (con 36 casse d’oro e gioielli), prima in Germania poi nell’Arcivescovado di Zagabria, quindi in Austria dove (seguito da un migliaio di ustascia e 500 tra suore e preti) viene accolto da un convento francescano. Lì viene arrestato dagli inglesi. Tito ne chiede l’estradizione che non viene concessa. In compenso un emissario vaticano riesce ad ottenere la sua liberazione. Dopo essere passato per Roma sotto falso nome, con un passaporto internazionale della Croce Rossa, fornito da Mons. Montini (futuro Paolo VI), da Genova si reca a Buenos Aires. Da lì peregrina un poco fino ad arrivare nella Madrid di Franco dove morirà nel 1959 (nel suo letto). Ma cosa accadeva in Yugoslavia? L’8 maggio 1945 le truppe di Tito entrano a Zagabria completando la liberazione dell’intero territorio yugslavo. Alle elezioni dell’11 novembre la Lega dei comunisti di Tito prende il 90% dei suffragi (guadagnati sul campo). Ma 1’esercito di Tito dilaga dopo quell’8 maggio ed entra in Italia, occupando zone dell’Istria, di Trieste, del Carso. Qui cominciano le stragi orrende di innocenti: le foibe. La furia di chi ha subito violenze senza fine senza aver provocato niente, diventa incontrollabile. Gli italiani sono la seconda forza che ha mantenuto al potere il fantoccio Pavelic. Ed hanno operato in prima persona contro i partigiani stessi torturando e massacrando. La cosa si può capire (capire ho detto e non giustificare: queste tragedie accompagnano ogni guerra, ogni rivoluzione ed anche momenti di rivalsa di chi è stato aggredito oppresso e trucidato). L’esercito yugoslavo sarebbe potuto entrare ancora di più in territorio italiano ma vari armistizi fermarono il tutto. Resta solo da ricordare che il confine provvisorio divideva Trieste (fino al 1954, con una retorica fascista orripilante che continua: Trieste è italiana, i comunisti sono oppressori, ecc.). Trieste è tornata all’Italia. I trattati di Osimo hanno fatto nuovo ordine ai confini. Ma occorre sapere un’altra cosa. Dal 1946 iniziò in Italia una campagna rivolta agli italiani rimasti in territorio yugoslavo. Iniziarono a venire a migliaia profughi istriano dalmati. Con questa operazione si indebolirono le comunità italiane ivi residenti perdendo un peso che avrebbe potuto far ottenere importanti riconoscimenti come minoranza linguistica.Queste sono le foibe. Io ho dovuto tagliare. Leggete l’autore che volete. Le testimonianze nei vari processi che si sono susseguiti. 

[bibl. M.A. Rivelli – “L’Arcivescovo del genocidio” – Ed. Kaos, 1999]. 

(*) I motivi del veto tedesco sono in una pagina (17/02/45) dei diari di Hitler che riporto di seguito. La pagina seguente di tali diari (18/02/45) la inserisco solo perché di attualità, rispetto all’abilità USA di farsi attaccare.



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