Di Elio Veltri e Paolo Sylos Labini
Democrazia e Legalità
Il Senato ha deliberato il rinnovo dell’impegno italiano in Iraq e il centro sinistra si è diviso, deludendo i tanti che avevano visto con favore l’operazione “ triciclo” e che avevano partecipato alla Convenzione, presente Romano Prodi. L’Unità, con un articolo del direttore, ha preso posizione chiara e netta, contro la permanenza delle truppe italiane in Iraq, in una situazione di ambiguità totale, dal momento che operano sotto il comando di un altro paese, dovrebbero svolgere una funzione di pace e invece, di fatto, aiutano gli occupanti che hanno voluto la guerra e che non sono poi tanto amati dai cittadini iracheni se è vero che la guerriglia si espande, si rafforza giorno dopo giorno e semina morte. Tenuto conto che Saddam Hussein e i maggiorenti del regime sono stati arrestati, è evidente che la guerriglia è sostenuta dal popolo e che gli occupanti non sono percepiti come portatori di libertà e di democrazia.
Lo scopo di questo articolo, però, non è quello di ribadire la posizione che abbiamo sostenuto contro la guerra e contro l’invio del contingente italiano in Iraq. Né di polemizzare con gli amici del “ triciclo”, anche se riteniamo che avrebbero fatto bene a votare contro. Ci interessa, invece, informare i lettori e commentare un fatto che riteniamo di grande rilevanza.
Nel libro “La guerra del petrolio” (Editori Riuniti), l’autore, Benito Li Vigni, entrato all’Eni con Mattei e rimasto nel gruppo fino al 1996, ricoprendovi posizioni di grande responsabilità, a proposito di Nassirya scrive: “La presenza italiana in Iraq, al di là dei presupposti ufficialmente dichiarati, è motivata dal desiderio di non essere assenti dal tavolo della ricostruzione e degli affari. Questi ultimi riguardano soprattutto lo sfruttamento dei ricchi campi petroliferi. Non a caso il nostro contingente si è attestato nella zona di Nassirya dove agli italiani dell’ENI il governo iracheno, pensando alla fine dell’embargo, aveva concesso – fra il 1995 e il 2000- lo sfruttamento di un giacimento petrolifero, con 2’5-3 miliardi di barili di riserve: quinto per importanza tra i nuovi giacimenti che l’Iraq di Saddam voleva avviare a produzione”.
Per completare l’informazione, va detto che contratti analoghi il regime iracheno aveva sottoscritto con Francia, Russia e Germania, contrarie alla guerra. Il contratto con l’ENI era particolarmente favorevole all’Italia per due ragioni: i costi di estrazione che la società di bandiera avrebbe dovuto affrontare sarebbero stati scontati con la produzione del petrolio estratto; una volta ammortizzati i costi, la produzione seguente, sarebbe stata divisa a metà tra ENI e Governo Iracheno. L’Operazione era importante a tal punto che uno dei più autorevoli giornali americani, commentandola, aveva scritto che se fosse andata in porto, l’ENI sarebbe diventata la più grande compagnia petrolifera del mondo. Resta da capire perché, dopo avere concluso la trattativa durata cinque anni, l’ENI non abbia cominciato a trivellare i pozzi. La risposta è legata alla decisione di Saddam di attendere la fine dell’embargo, per la quale aveva chiesto l’aiuto e l’intervento italiano, francese e tedesco presso la presidenza degli Stati Uniti, dichiarandosi anche disponibile, ciò che fece, a immettere sul mercato due milioni di barili al giorno per evitare l’aumento del prezzo del greggio. A questo punto qualche domanda è d’obbligo e riguarda l’attuale governo:
1) Era a conoscenza del contratto ENI-Saddam? Essendo il presidente dell’ENI, Poli, persona molto vicina al Cavaliere, non ci sono dubbi che il governo sia stato informato;
2) Gli americani, che sono i veri dòmini della situazione in Iraq e decidono chi deve partecipare agli affari, hanno confermato al nostro governo l’impegno iracheno sui campi petroliferi di Nassirya?
3) Se cosi fosse, è lecito chiedere in cambio di cosa?
4) Forse, in cambio dell’impegno del governo di sostenere l’intervento americano in Iraq e di inviare e mantenervi i nostri soldati?
5) La Francia che pure ha interessi analoghi ai nostri, non si è fatta tentare, perché tiene alla sua autonomia più di ogni inconfessabile interesse : perché noi siamo tanto subalterni?
6) Non sarebbe utile che il centro sinistra chiedesse al governo di parlarne alla Camera prima di votare la conferma dell’impegno in Iraq?
Augurandoci che il governo faccia piena luce sull’argomento, anche per il rispetto che tutti dobbiamo ai 19 morti di Nassirya, chiediamo al centro sinistra di ripensare la posizione assunta e di opporsi alla Camera alla conferma dell’impegno italiano in Iraq.
il manifesto – 20 Novembre 2004
NUCLEARE
Proliferazione armata
Escalation E’ in arrivo una quarta – micidiale – generazione di armi nucleari
ANGELO BARACCA*
Le armi nucleari non sono un ricordo del passato, ma sono purtroppo più attuali e pericolose che mai. L’Iran e la Corea del Nord sono specchietti per le allodole: ben altre, e più insidiose, sono le oggi le vie della proliferazione nucleare. Le nuove armi che si progettano tendono a cancellare la distinzione tra armi convenzionali e nucleari. Il ricorso massiccio ai proiettili all’uranio depleto (DU) più che avere ragioni militari (se è vero che li usa anche Israele contro i palestinesi, notoriamente dotati di formidabili tanks e bunkers), sembra un ballon d’essai per saggiare le reazioni internazionali alla guerra nucleare guerreggiata, per passare alle nuove armi nucleari, o mascherarne la sperimentazione sul campo e l’uso. Nel prossimo maggio si terrà, nell’assoluto disinteresse, la conferenza di revisione del Trattato di non-proliferazione (Tnp) del 1970, su cui grava il rischio di un fallimento epocale. Ma questo non sembra il peggio. Più grave è che si sono aperte per la proliferazione nucleare nuove vie, per le quali il vechio Trattato è assolutamente inadeguato. Così come lo sono i trattati internazionali degli anni `90, di riduzione quantitativa delle armi strategiche (Start) e messa al bando totale dei test nucleari (Ctbt): e forse proprio per questo furono accettati, dopo decenni di trattative. Oggi è possibile assemblare una testata avanzata, che dia ottime garanzie di esplodere, senza bisogno di test completi (del resto, tutti i paesi che hanno realizzato armi nucleari hanno avuto successo al primo test): tutte le fasi intermedie, inoltre, possono essere realizzate e testate senza violare i trattati internazionali.
Non mi sto riferendo a gruppi terroristici, ma a paesi di medio sviluppo: India e Pakistan sono casi emblematici. Oggi viene proposto il concetto di proliferazione latente, riferito a paesi che non hanno armi nucleari, ma possiedono il know-how e i materiali per realizzarle in breve tempo senza bisogno di test: Giappone e Germania sono al primo posto, ma l’elenco è ben più lungo (la prima le ha probabilmente realizzate collaborando all’arsenale del Sudafrica, eliminato nei primi anni `90). Al confronto, Iran e Corea del Nord sono bambini alle «prime armi».
L’evoluzione delle armi nucleari è stata profonda. Oltre all’uranio arricchito e al plutonio è oggi fondamentale il trizio (isotopo dell’idrogeno con un protone e due neutroni), usato in piccolissime quantità insieme al deuterio (miscela DT) per realizzare testate più efficienti e compatte: l’innesco della fissione dell’uranio o del plutonio provoca anche la fusione di un paio di grammi di DT, la quale fornisce così un intenso flusso di neutroni che dall’interno accelera e amplifica la fissione (boosting, o spinta), aumentando la potenza esplosiva. Questa soluzione è nota da tempo, ma la tecnologia del trizio è complessa, trattandosi di un gas molto volatile e pervasivo, radioattivo, che va quindi prodotto con continuità (bombardando il litio-6 con neutroni prodotti in un reattore nucleare o da un acceleratore), ed è meno controllabile poiché ne bastano pochi grammi. Il Pakistan ne ha ottenuto dalla Germania e dalla Cina, poi l’ha prodotto, come l’India. Il meccanismo del boosting, cioè la fusione di una piccola quantità di DT, si collega in qualche modo a una delle prospettive che sembrano più promettenti per sviluppare armi radicalmente nuove (di «quarta generazione»). La tecnologia del trizio è infatti alla base delle ricerche civili sulla fusione nucleare controllata per «confinamento inerziale»: la radiazione emessa da super-laser, o fasci di particelle dovrebbero comprimere e provocare la fusione di un pellet (sferetta) contenente pochi milligrammi di DT (un milligrammo genera un’energia di 340 milioni di Joule, una centrale di energia da mille MW elettrici «brucerebbe» 1,5 grammi di DT all’ora). È evidente l’analogia con il meccanismo del boosting: ma qui la fusione del pellet dovrebbe venire innescata senza l’esplosione a fissione. Enormi apparati di confinamento inerziale per l’ignizione della fusione sono in costruzione negli Usa (National Ignition Facility, con 192 laser) e in Francia (Megajoule, 240 laser). Sembra molto promettente l’uso di fasci di antiprotoni (particelle della stessa massa del protone, ma carica elettrica negativa). Su queste ricerche sono impegnati i grandi laboratori di ricerca militare, inseriti nel poderoso complesso industriale-militare. Ma esse costituiscono anche settori avanzati di ricerca «civile», con pesanti implicazioni militari, come l’innesco della fusione, il chiarimento di molti aspetti fisici ancora poco chiari, la disponibilità di trizio e della sua tecnologia. I grandi laboratori stanno sviluppando anche il settore rivoluzionario delle nanotecnologie, che consentono di controllare gruppi di pochi atomi, con un salto di ben tre ordini di grandezza rispetto ad esempio alla microelettronica, che controlla insiemi di migliaia di atomi.
Ma vi è un’implicazione militare ben più diretta, la ricerca di bombe nucleari nuove di bassissima potenza (cento o mille volte inferiore alle testate attuali): se si riesce a realizzare la fusione di un pellet, essa costituirebbe anche una potenziale micro-bomba a pura fusione, di potenza esplosiva equivalente a meno di una tonnellata di tritolo. Rimane ovviamente il problema di realizzare un super-laser o un acceleratore miniaturizzati di potenza sufficiente (un apparecchio per uso singolo è comunque molto più piccolo di uno strumento riutilizzabile): su questo si stanno facendo grandi progressi. Queste ricerche aggirano completamente i trattati esistenti. Si studiano anche processi nucleari di tipo nuovo, che consentano di liberare energia senza ricadere nelle definizioni (molto vaghe) delle testate nucleari nei trattati internazionali.
A che punto siamo su questa strada? Difficile dirlo. Sembra poco credibile che gli Usa dichiarino pubblicamente il progetto di testate di bassissima potenza, se non ne hanno già almeno sperimentato la fattibilità. E sembra legittimo sospettare che possano averle testate o usate dietro il paravento dei proiettili al DU. Un aspetto allarmante dell’intero problema è che si moltiplicano le implicazioni militari di ricerche d’avanguardia in settori «civili» (fusione nucleare controllata, super-laser, nanotecnologie, super-computers, acceleratori, superconduttori, nuove specie e processi nucleari, anti-materia, ecc.); e si complicano le vie della proliferazione, in modi sempre meno controllabili. Ma questi sviluppi sono connaturati nello statuto internazionale che si volle dare nell’ultimo mezzo secolo alla ricerca nucleare e in settori vicini. Oggi è molto difficile arrestare questi processi. Chi può impedire a qualsiasi paese di sviluppare una ricerca di fusione nucleare, un acceleratore o un super-laser (Giappone e Germania sono all’avanguardia)? O imporre di mantenere segreti i risultati e le tecniche?
La minaccia delle armi nucleari è diventata vieppiù strisciante, subdola, dilagante: il movimento per la pace deve farsene carico. Oggi è più che mai necessario arrivare alla totale eliminazione delle armi nucleari, senza se e senza ma.
* Fisico
11 settembre, la nuova Pearl Harbour
David Ray Griffin
Perché i sospetti sull’11 settembre non sono azzardati? Lo rivela David Ray Griffin nel suo libro “11 settembre, la nuova Pearl Harbour “(Fazi editore, 17 €). Da leggere, perché “se subodoriamo il marcio ma tacciamo per paura, possiamo dire addio a qualsiasi pretesa di essere il paese degli uomini liberi e la patria dei coraggiosi. E, di fatto, anche una democrazia.”
Dopo tre anni, qualcosa è cambiato nella ricezione tributata dall’opinione pubblica mondiale alle teorie alternative sull’11 settembre. Il grande successo di alcune indagini indipendenti e l’istituzione di una commissione d’inchiesta da parte del Congresso americano – commissione di fronte alla quale recentemente né George W. Bush né Condoleezza Rice hanno potuto negare l’esistenza di chiari segnali precedenti all’11 settembre – sono le cause prime di questo mutamento: l’idea che “qualcosa non vada” nella ricostruzione ufficiale dell’amministrazione americana è ormai di pubblico
dominio.
Il successo di “11 settembre, la nuova Pearl Harbour” di David Ray Griffin – che negli Stati Uniti ha avuto tre edizioni in un mese, ingresso nella top ten di amazon.com e che in Inghilterra è stato prefato nientemeno che da Michael Meacher, ex ministro della Corona – è il risultato più palese
di questo mutamento. Non è scritto da un polemista di professione, bensì dal condirettore del Center for Process Studies che, partendo da una posizione di assoluto scetticismo sulle cosiddette “teorie del complotto”, ne vaglia le principali e giunge a trovare in alcune di esse elementi indubitabilmente probanti.
Non voglio soffermarmi sugli avvertimenti pre -11 settembre che sono stati ignorati, le indagini prima e dopo che sono state ostacolate, o sulle domande rimaste tuttora senza risposta su quella tragica giornata, tutti argomenti trattati nei minimi dettagli da Griffin. Non è necessario credere ad una pianificazione attiva da parte dell’amministrazione americana negli eventi drammatici di quel giorno. E’ però obbligo sospettare – dopo aver letto il libro – ad una specie di “partecipazione passiva”, ovvero ad una specie di “lasciar accadere” che è comunque un’ accusa molto grave, considerato il numero elevato di vittime.
Nella “Grande Scacchiera”, un libro pubblicato nel 1997 dall’ex consigliere alla Sicurezza Nazionale, Brzezinski (lo stesso che, sul Nouvel Observateur del 15-21 gennaio 1998, alla domanda: “E lei non si pente neanche di aver appoggiato il fondamentalismo islamico, avendo fornito armi e addestramento ai futuri terroristi? rispose, in maniera irresponsabile : Cos’è più
importante per la storia del mondo? I talebani o il collassodell’impero sovietico? Qualche musulmano fomentato o la liberazione dell’Europa centrale e la fine della Guerra Fredda?) Ebbene, lo stesso Brzezinski afferma: “Il consenso popolare americano sulle questioni di politica estera sarà
difficile da ottenere eccetto che nel caso di una minaccia esterna diretta, veramente grande e percepita in modo generalizzato” ed infatti “Il popolo americano sostenne l’impegno americano nella Seconda guerra mondiale in gran parte a causa dell’effetto scioccante dell’attacco giapponese a Pearl Harbour”.
Gli attacchi dell’11 settembre, per svariate e giustificate ragioni, sono stati spesso paragonati all’attacco di Pearl Harbour. CBS news riferì che Bush, prima di coricarsi quella sera, aveva annotato sul diario “Oggi abbiamo assistito alla Pearl Harbour del XXI secolo”. Un editoriale
del Time incitava invece: “Mostriamo la nostra rabbia. Quel che ci occorre è una furia livida, americana, unificata e unificante come quella scatenatasi dopo Pearl Harbour”. Subito dopo il discorso che il Presidente tenne alla nazione l’11 settembre 2001, Henry Kissinger scrisse “Al governo si dovrebbe affidare la missione di dare una risposta sistematica che condurrà, si spera, allo stesso risultato di quello che seguì l’attacco di Pearl Harbour”.
Effettivamente, gli attentati dell’11 settembre hanno provocato una risposta analoga: ricorso alla forza militare americana, giustificazione di esorbitanti spese militari, instaurazione di basi americane in paesi stranieri, riduzione delle libertà civili (Oggi con il Patriot Act, mentre durante la II Guerra Mondiale erano i campi di concentramento e la confisca dei beni dei nippo/italo/germano-americani). Un membro dell’US Army’s Institute for Strategic Studies (Istituto per gli Studi Strategici dell’Esercito Americano) riferì che dopo l’11 settembre: “Il sostegno del
pubblico all’azione militare è a un livello simile a quello che seguì l’attacco di Pearl Harbour”.
In un documento del Project for the New American Century (Progetto per il Nuovo Secolo Americano, PNAC, organizzazione che già in era Clinton raggruppava i maggiori think-thank neoconservatori attualmente al potere negli Stati Uniti), intitolato “Rebuilding America’s defenses”
(Ricostruire le difese dell’America), reso pubblico nel 2000 durante la campagna elettorale per le presidenziali, alcuni membri (fra cui Cheney, attuale Vice-presidente, Rumsfeld, attuale ministro della difesa e Paul Wolfowitz, sotto-segretario alla difesa) sostenevano che il processo per trasformare gli Stati Uniti nella “forza dominante del domani” si sarebbe prospettato lungo, in “assenza di un evento catastrofico e catalizzante, quale ad esempio una nuova Pearl Harbour”. A questo punto, come dice l’ex-ministro della Corona Michael Meacher nella prefazione del libro di Griffin: “Non è necessario ricorrere ad alcuna teoria del complotto, se loro per primi esplicitano le intenzioni da cui sono animati”.
Ma quali sono queste intenzioni esattamente? Anch’esse sono contenute nei documenti del PNAC: collocare più basi militari nel mondo da cui proiettare potenza, determinare cambiamenti di regime nei paesi ostili agli interessi americani, dare un forte impulso alla spesa militare, in particolar modo
allo scudo spaziale. Intenzioni concepite esplicitamente non per scoraggiare eventuali aggressioni ma come “requisito indispensabile al mantenimento del primato americano”. Il fine è chiarito in modo inequivocabile in un’altro documento intitolato “Vision for 2020” (Prospettiva per il 2020),
documento che non si perde affatto in propaganda sentimentale sul bisogno degli Stati Uniti di promuovere la democrazia o servire l’umanità, ma che sostiene: “La globalizzazione dell’economia mondiale proseguirà con un divaricamento tra “Chi ha” e “Chi non ha” ” con conseguente necessità di non far uscire “Chi non ha” dai ranghi perché ogni “nuovo arrivato” toglie risorse a “Chi già ha”, teoria questa elaborata nel Massachusetts Institute of Technology (MIT).
Cosa rende “pazzo”, allora, chi avanza l’ipotesi di un qualche coinvolgimento dell’amministrazione americana negli eventi dell’11 settembre? Il pensare che un governo possa aver complottato per
provocare una simile atrocità sul proprio territorio e a danno dei propri cittadini. Le responsabilità principali del Presidente, del Vice-Presidente, del loro gabinetto, delle agenzie di intelligence e dei dirigenti militari infatti quelle di proteggere gli Stati Uniti e i cittadini americani, non il contrario. Dunque, si è convinti, come dice Griffin, a priori che qualsiasi teoria su un simile complotto sia falsa, perché i leader americani non si comporterebbero mai in quel modo.
Eppure precedenti storici “ufficiali” non mancano. Basterebbe ricordare in merito l’operazione Northwoods: nel 1962, venne formulato un piano ora noto perché di recente ne sono stati desecretati i documenti relativi. La CIA aveva preparato “un programma di operazioni contro il regime di Cuba” il cui scopo era sostituire il regime di Castro con un altro “più accettabile per gli Stati Uniti, ma con mezzi che nascondono l’intervento statunitense”. Nel primo foglio del “Memorandum per il capo delle operazioni, Cuba project” firmato da tutti i capi dello Stato Maggiore riuniti, era scritto : “La decisione di intervenire rappresenterà l’esito di un periodo di
accentuate tensioni Stati Uniti – Cuba, tali da mettere gli Stati Uniti nella posizione di nutrire ben giustificati risentimenti”. E’ importante che “ne venga camuffato l’obiettivo ultimo”. Parte dell’intento era influenzare l’opinione pubblica mondiale e in particolare le Nazioni Unite “diffondendo a livello
internazionale la convinzione del governo cubano fosse una compagine avventata e irresponsabile, una minaccia alla pace dell’Occidente”. Basterebbe sostituire la parola “Irak” a “Cuba” e si fa un salto dal 1962 ai giorni nostri.
A leggere i piani della CIA, tanti scenari considerati “fantascientifici” smettono, di colpo, di esserlo: “Potremmo condurre una campagna terroristica di matrice cubana nella zona di Miami, in altre città della Florida e perfino a Washington. Potremmo affondare un’imbaracazione carica di cubani in rotta verso la Florida (sia che siano profughi veri o simulati). E’ possibile creare un incidente che dimostri in maniera convincente che un aereo cubano abbia attaccato e abbattuto un aereo charter civile. I passeggeri potrebbero essere un gruppo di studenti di college in vacanza”. Proprio quest’ultima ipotesi avvalora le tesi più inverosimili di chi crede in un coinvolgimento degli Usa a fianco di Bin Laden: “Nella base aerea di Elgin un aereo verrebbe dipinto e numerato per essere l’esatta copia di un volo civile appartenente a una compagnia gestita dalla CIA che opera nell’aria di Miami. A un’ora prefissata la copia si sostituirebbe al vero aereo civile e al suo interno verrebbero fatti salire i passeggeri già scelti in precedenza, tutti registrati con pseudonimi appositamente preparati. Il vero aereo civile verrebbe quindi trasformato in un drone (apparecchio automaticamente controllato a distanza). Le ore di partenza dell’aereo drone e del vero apparecchio verrebbero quindi calcolate in modo da permettere un rendez-vous nel sud della Florida. Subito dopo aver raggiunto il punto di rendez-vous l’aereo con a bordo i passeggeri
scenderà a una quota minima e poi si dirigerà verso la pista ausiliaria della base di Elgin, dove i passeggeri saranno evacuati e l’aereo tornerà alle sue condizioni originali. L’aereo drone nel frattempo continuerà a seguire il piano di voto prestabilito. Quando si troverà sopra Cuba il drone
trasmetterà sulle frequenze internazionali di emergenza un messaggio “May day”, dichiarando di trovarsi sotto attacco di un MIG cubano. La trasmissione si interromperà con la distruzione dell’aereo comandata da un segnale radio”.
Quanto riportato sopra non è un piano escogitato da extra-terrestri e importato da Marte, ma un documento ufficiale della CIA con tanto di firme di capi dello Stato Maggiore e di timbro Top secret. In questo – come in altri piani – anche se fossero apparsi sui giornali gli elenchi delle
vittime per “provocare un’ondata di sdegno nazionale”, lo stratagemma non avrebbe comportato l’effettiva perdita di vite umane. Ma ciò non valeva nel caso in cui si prevedeva di “affondare un’imbarcazione carica di cubani” o quando si è detto “Potremmo far esplodere una nave americana alla fonda nella Baia di Guantanamo e poi incolpare Cuba dell’incidente”. Ecco perché i sospetti sull’11 settembre non sono azzardati. E come dice Griffin, se subodoriamo il marcio ma taciamo per paura, possiamo dire addio a qualsiasi pretesa di essere il paese degli uomini liberi e la patria dei coraggiosi. E, di fatto, anche una democrazia. Forse dobbiamo semplicemente affrontare i
discorsi che preferiamo evitare, al posto di scatenare campagne mediatiche atte a criminalizzare e a dipingere come “pazzo” chiunque dubiti dell’affidabilità delle “versioni ufficiali”.
Questo impegno deve essere un dovere, una missione da intraprendere, costi quel che costi, visto che c’è il sospetto – come dice Griffin – che qualcuno si stia servendo delle versioni ufficiali per scopi nefandi, all’interno degli Stati Uniti e nel resto del mondo. Che nelle intenzioni dell’amministrazione Bush ci fosse già l’intenzione di usare “la guerra al terrorismo” come pretesto ad attaccare altri paesi non è un mistero. Un articolo del Newsweek riporta una notizia in base alla quale, prima di andare in Irak, alcuni consiglieri di Bush patrocinavano anche azioni contro
l’Iran, la Corea del Nord, la Siria e l’Egitto. Molti analisti sostengono, a ragione, che gli obiettivi di questa guerra sono quelli di condizionare lo sviluppo politico ed economico dell’Europa e della Cina.
A rendere ancora più preoccupante questa visione di “guerra globale” e ad avvicinarla – piaccia o meno – ai folli piani di Hitler, basta leggere le parole di Richard Perle – membro fondatore del PNAC e consigliere fino al febbraio del 2004 del Pentagono – che in un’occasione descrisse la “guerra al terrorismo” in questi termini: “Si tratta di una guerra totale. La combattiamo contro nemici di ogni risma. Quanti ce ne sono in giro! Non si fa che parlare di andare prima in Afghanistan, poi in Irak […]. Questo modo di affrontare la faccenda è del tutto sbagliato. Basta far sì che la nostra visione del mondo si diffonda […] ingaggiando una guerra totale […] e tra qualche tempo i nostri figli intoneranno inni sulle nostre imprese”
il manifesto – 01 Dicembre 2004
La Croce rossa: a Guantanamo si tortura
Il New York Times pubblica un rapporto riservato della Croce rossa al Pentagono: nella base di Cuba prove di trattamenti «simili a tortura». Bush tace
MATTEO BARTOCCI
Un’altra conferma ufficiale alle torture di Guantanamo. Un altro scandalo che sfiora il Pentagono e la Casa Bianca. Un rapporto della Croce rossa internazionale pubblicato ieri dal New York Times afferma chiaramente e per la prima volta che il trattamento dei detenuti nella base americana di Guantanamo, Cuba, è «paragonabile alla tortura». I militari americani e il governo degli Stati uniti, secondo il quotidiano che è in grado di citare il rapporto riservato, hanno usato «intenzionalmente una coercizione mentale e qualche volta fisica simile alla tortura». La Croce rossa avrebbe fornito alle autorità prove di «atti degradanti, detenzione in isolamento e in posizioni forzate, esposizione a temperature estreme, musiche continue e ad alto volume, percosse». Una condotta che diventa sempre più «raffinata e repressiva» rispetto alle visite precedenti. Il documento – che la Cicr non conferma né smentisce come da prassi – risale a una visita a Cuba del giugno scorso. I legali del Pentagono, della Casa Bianca e del dipartimento di stato che l’hanno ricevuto a luglio hanno già respinto tutte le accuse.
Il fine della brutalità di Guantanamo, del resto, è uno solo: Camp Delta e le altre basi militari nel mondo non sono carceri dure, ma un complesso enorme e decentrato dedicato alla raccolta, valutazione e diffusione dell’intelligence. E valutare l’utilità delle informazioni raccolte sotto tortura richiede un’esperienza e un sistema di verifiche estremamente professionale.
La Croce rossa concorderebbe con questa definizione. Secondo il rapporto sul Nyt «a Guantanamo è stato realizzato un sistema il cui proposito dichiarato è la produzione di `intelligence’», un apparato che «non può essere considerato altro che un sistema intenzionale di trattamenti crudeli, inusuali e degradanti e anche una forma di tortura». Il quotidiano fa filtrare anche la frustrazione dei funzionari di Ginevra per l’insensibilità del governo Bush.
Antonella Notari, portavoce della Cicr, non conferma, commenta o smentisce le affermazioni del Nyt.Secondo la portavoce «le preoccupazioni della Croce rossa su problemi significativi nella detenzione a Guantanamo non sono ancora stati affrontati adeguatamente», ma esclude ripercussioni nei rapporti con il governo americano, che anzi descrive come «frequenti, professionali e molto trasparenti». L’ultima visita a Cuba del comitato risale allo «scorso ottobre», come avviene dal 2002 «ogni 5-6 settimane». La Croce rossa difende la riservatezza del suo operato, che consente interviste in privato con i detenuti e visite a sorpresa in oltre 2mila luoghi di detenzione, incluse la base di Bagram in Afghanistan (circa 300 persone), Kandahar (circa 250) e Charleston (Usa).
Alle rivelazioni del quotidiano il Pentagono ha risposto che «a Guantanamo c’è un sistema di detenzione sicuro, umano e professionale che sta fornendo informazioni di valore nella guerra al terrorismo». Un’ostentazione di sicurezza più volte smentita dai fatti, spesso tortuosa e moralmente ripugnante: la violazione su scala planetaria di un diritto internazionale minimo come le Convenzioni di Ginevra.
A partire dal 2002 i legali dell’amministrazione Bush hanno sostenuto che il presidente non è vincolato in alcun modo dai trattati anti-tortura in quanto è «l’autorità che protegge la nazione dal terrorismo». Un concetto siglato in un documento riservato del 7 febbraio di quell’anno preparato da Alberto R. Gonzales, l’uomo che dopo la vittoria di novembre il «comandante in capo» ha scelto come suo ministro della giustizia. Non ci si cura più nemmeno delle apparenze. Se perfino i reati in digitale di Abu Ghraib sono rimasti impuniti forse nessuno scandalo potrà mai incrinare la fiducia della Casa bianca. O forse no. Quello scandalo probabilmente non sarebbe mai venuto alla luce se uno sconosciuto specialista della polizia militare, Joseph M. Darby, non avesse consegnato ai suoi superiori un cd con le foto di iracheni nudi. Darby ha fatto quello che né la Croce rossa né la grande stampa sono riusciti a fare: provocare una reazione.
il manifesto – 01 Dicembre 2004
RUMSFELD DENUNCIATO
L’organizzazione per i diritti umani americana Center for Constitutional Rights (Ccr) ha presentato denuncia contro il segretario alla difesa Donald Rumsfeld alla procura federale tedesca di Karlsruhe per le torture compiute ad Abu Ghraib. Assieme al capo del Pentagono sono stati denunciati anche l’ex capo della Cia George Tenet, il generale Ricardo Sanchez e altri sette responsabili americani. Secondo i legali dell’Ong il diritto tedesco permette di perseguire i crimini di guerra, contro l’umanità e il genocidio indipendentemente dalla provenienza dei criminali. «E’ il migliore del mondo», ha detto il presidente Michael Ratner. La Ong è la stessa grazie alla quale la corte suprema ha riconosciuto il diritto ai detenuti di Guantanamo di ricorrere contro la loro detenzione nei tribunali civili Usa.
ONG CONTRO GONZALES
Un panel di trenta associazioni americane per i diritti civili ha chiesto al senato degli Stati uniti di «valutare attentamente» il curriculum del candidato di Bush al ministero della giustizia Alberto R. Gonzales. Figlio di braccianti messicani, dal 2000 consulente legale della Casa Bianca, Gonzales è diventato tristemente famoso per aver elaborato una copertura «giuridica» alla tortura nei confronti dei detenuti in Afghanistan, Iraq e Guantanamo. Sono soltanto due le ong che non hanno siglato la petizione, entrambe ispano-americane.
il manifesto – 01 Dicembre 2004
Quando gli aguzzini indossano il camice bianco
«L’integrazione dell’assistenza sanitaria con il sistema coercitivo è una flagrante violazione dell’etica medica»
M. BA.
Per torturare non servono sadici. Anzi, sono perfino controproducenti. Lo «specialista» da cui proprio non si può prescindere spesso indossa un camice bianco: il medico. Una figura protagonista di violazioni deontologiche e morali duramente condannate dal rapporto della Croce rossa pubblicato ieri sul New York Times. Nella pianificazioni degli interrogatori, rilevano i funzionari dell’organizzazione di Ginevra, ci sono state «flagranti violazioni dell’etica medica». Un round di interrogatori (che legalmente può durare anche 8 ore consecutive) è preparato da una squadra (al Pentagono le chiamano «tiger team») formato da specialisti affiancati da medici e psicologi. L’accusa della Croce rossa è particolarmente dura con il personale medico della base, che ha «pianificato gli interrogatori e descritto a chi li conduceva lo stato di salute mentale dei detenuti, incluse le loro debolezze psicologiche». A questo proposito, scrive il Nyt, esiste a Guantanamo un team specializzato di psicologi familiarmente chiamato Biscuit: «Behavioral Science Consultation Team».
I torturatori insomma hanno un accesso «letteralmente aperto e totale» alle cartelle cliniche dei torturati, e si consultano periodicamente con il Biscuit per discutere la loro tenuta mentale durante l’interrogatorio. Una delle conseguenze più immediate è che i detenuti non parlano più nemmeno con i medici, in modo da non lasciare margini ai propri aguzzini: «L’integrazione tra l’accesso all’assistenza sanitaria con il sistema di coercizione fa sì che i reclusi non collaborino più con i dottori», afferma il rapporto.
Tra i detenuti di Guantanamo l’incidenza di «disturbi mentali» è di gran lunga superiore a quanto ammesso dal Pentagono. Uno stress dovuto sicuramente anche alla condizione di isolamento totale in cui si trovano i reclusi. Aggravato poi da condotte come questa, un interrogatorio a Camp Delta: «Se un detenuto non collabora viene rinchiuso da solo in una stanza, denudato e legato mani e piedi a una sedia in una posizione scomoda. Nessuno lo sfiora, né lo interroga: per ore e ore sente musica rock ad altissimo volume, con le luci sempre accese e a temperature bassissime».
A quanto pare il rapporto non è in possesso di prove recenti su umiliazioni di tipo sessuale come quelle venute alla luce nella prigione di Abu Ghraib, allora derubricate ad atti osceni di singoli soldati della riserva. A Guantanamo si sarebbero arrestate alla fine del 2003. Ma la Croce rossa ne deriva che «umiliazioni sessuali di quel tipo hanno rappresentato una sorta di esperimento che in seguito si è rivelato inefficace nei confronti dei detenuti di religione islamica».
il manifesto – 01 Dicembre 2004
Un memorandun per la guerra
Arriva al Senato il nuovo memorandum sulla cooperazione militare-industriale tra Italia e Israele che apre la strada alla partecipazione del nostro paese alle «guerra sporche», anche nucleari, del governo Sharon
MANLIO DINUCCI
E’ pronto al senato il disegno di legge n. 3181 per la ratifica del memorandum d’intesa stipulato, il 16 giugno 2003, dai governi italiano e israeliano in materia di «cooperazione nel settore militare e della difesa». Nell’illustrare il disegno di legge, il ministro degli esteri Frattini (oggi sostituito da Fini) e quello della difesa Martino chiariscono che si tratta di «un accordo generale quadro che regola la cooperazione tra le parti nel settore della difesa», nel cui ambito «potranno essere conclusi accordi tecnici specifici». I campi di cooperazione comprendono, tra l’altro, «l’interscambio di materiale di armamento», «l’organizzazione delle forze armate», «la formazione e l’addestramento del personale militare», «la ricerca e sviluppo in campo militare». Sono previsti, a tale scopo, «scambi di esperienze tra gli esperti delle due parti», «partecipazione di osservatori ad esercitazioni militari», «programmi di ricerca e sviluppo in campo militare». Un accordo a tutto campo, dunque, che travalica l’ambito tecnico. Come sottolineano i ministri, si tratta di «un preciso impegno politico assunto dal governo italiano in materia di cooperazione con lo stato d’Israele nel campo della difesa». Per questo, in base all’art. 80 della Costituzione, i ministri chiedono alle Camere di autorizzare con legge la ratifica del memorandum d’intesa, sottolineando che esso corrisponde agli «interessi strategici nazionali». Di questo non c’è dubbio. Nell’ottica di tali «interessi», così come li concepisce il governo Berlusconi, le forze armate italiane hanno molto da imparare da quelle israeliane in materia di armamento, organizzazione e addestramento. Significativo, a tale proposito, è che il disegno di legge sia stato presentato «di concerto» col ministro dell’interno Pisanu. Nel campo della ricerca e sviluppo militare, l’industria bellica italiana può trarre notevoli vantaggi dalla cooperazione con quella israeliana ma, a sua volta, può offrire a quest’ultima l’apporto delle sue alte tecnologie. Non solo: il fatto che il disegno di legge sia stato presentato «di concerto» anche col ministro dell’università e della ricerca, Moratti, indica che il governo intende coinvolgere nella cooperazione militare con Israele anche centri di ricerca universitari.
Per mettere a punto l’accordo quadro, il ministro della difesa israeliano Mofaz ha incontrato, il 18 novembre a Roma, Berlusconi e Martino. Secondo fonti militari israeliane, citate da Voice of America (22 novembre), egli ha concordato tra l’altro col governo italiano «lo sviluppo congiunto di un nuovo sistema di guerra elettronica altamente segreto», progetto cui è stato destinato un primo finanziamento comune di 181 milioni di dollari. E’ questo un campo in cui Israele ha finora cooperato solo con gli Stati uniti. Ciò significa che l’accordo italo-israeliano è stato preventivamente approvato dalla Casa bianca, che punta su Berlusconi, oltre che su Blair, per spingere l’Europa a partecipare, con gli Usa e Israele, alla «guerra globale al terrorismo».
Se il memorandum d’intesa sarà ratificato dal parlamento italiano, l’industria militare e le forze armate del nostro paese saranno coinvolte in attività di cui nessuno (neppure il parlamento) sarà messo a conoscenza. Il memorandum sulla cooperazione militare con Israele stabilisce, infatti, che «le attività derivanti dal presente accordo saranno soggette all’accordo sulla sicurezza», il quale prevede la massima segretezza. Sotto la cappa del segreto militare, potrà quindi avvenire di tutto. Non va dimenticato, tra l’altro, che Israele possiede armi nucleari. Ciò significa che, nel quadro dell’accordo, alte tecnologie italiane potranno essere segretamente utilizzate per potenziare le capacità di attacco dei vettori nucleari israeliani. E’ quindi prevedibile che la cooperazione militare con Israele danneggi le relazioni tra l’Italia e i paesi arabi. Per non parlare di quelle con i palestinesi. L’accordo di cooperazione militare con l’Italia contribuirà infatti a rendere ancora più letali le armi usate dalla forze armate israeliane nei territori palestinesi. In compenso, però, il disegno di legge è stato presentato «di concerto» anche con Matteoli, ministro dell’ambiente e della tutela del territorio.
il manifesto – 01 Dicembre 2004
Le industrie della guerra e della repressione
Il settore di punta dell’industria militare israeliana, con la quale l’Italia dovrebbe cooperare se passerà il disegno di legge 3181, è quello segreto nucleare, che ha costruito circa 400 testate con una potenza pari a quasi 4.000 bombe di Hiroshima. L’industria militare ufficiale comprende circa 150 società, tra cui emergono tre gruppi di proprietà statale. Le Industrie aeronautiche israeliane che, collaborando con le statunitensi Boeing e Lockheed, potenziano i caccia F-15 e F-16 e producono, con la statunitense Northrop Grumman, il «Cacciatore», un drone (aereo senza pilota) armato di missili. Le Industrie militari israeliane, che producono circa 150 tipi di armamento (diversi in collaborazione con industrie Usa) e ricavano il 60% del fatturato dalle esportazioni. La Rafael, all’avanguardia nella ricerca e sviluppo e produzione di sistemi elettronici e armamenti aerei, spaziali, terrestri e marittimi: produce tra l’altro, in collaborazione con industrie Usa, i missili Popeye armati anche di testate nucleari. Tra le industrie militari private, emergono la Elbit Systems e la Tadiran-Elisra, ambedue specializzate in sistemi per la guerra elettronica. Vi sono, oltre a queste, decine di piccole industrie che, nonostante le ridotte dimensioni, svolgono un ruolo importante nella produzione di alte tecnologie militari. Il protocollo di intesa tra Italia e Israele dovrebbe riguardare in particolare vari progetti missilistici e di guerra elettronica per le forze di terra, di mare e del cielo nei quali i due paesi non solo collaboreranno alla produzione dei sistemi d’arma ma anche nel marketing dei prodotti. Un altra clausola centrale nella nuova intesa riguarda una non meglio precisata «collaborazione nel combattere il terrorismo». Visto che Israele considera «terrorismo» qualsiasi forma di resistenza palestinese e libanese, con l’approvazione del memorandum il nostro paese entrerebbe in guerra con l’intera galassia dei movimenti palestinesi, libanesi e arabi che cercano di liberare le loro terre dall’occupazione e dai diktat israeliani. La collaborazione tra gli apparati militari e industriali di Italia, Israele e Stati uniti, farebbe parte di un più vasto piano dell’Amministrazione Bush che intenderebbe, da una parte usare questo nuovo asse per bloccare qualsiasi coinvolgimento dell’Europa in quanto tale in una eventuale ripresa delle trattative in Medioriente e in secondo luogo vorrebbe vedere un coinvolgimento dell’Italia, accanto alla Gran Bretagna, nelle operazioni di intelligence nei territori occupati palestinesi al fine di creare milizie collaborazioniste locali. (M.D.)
l’Unità 02.12.2004
Abu Ghraib, rivelati nuovi abusi sui detenuti
di red.

Nuovi abusi inflitti dai soldati Usa ai prigionieri iracheni erano stati rivelati al Pentagono fin dal dicembre 2003 in un rapporto confidenziale destinato ai generali americani in Iraq e pubblicato oggi dal quotidiano Washington Post. Gli abusi, emersi settimane prima di quelli scoperti nel carcere di Abu Ghraib, sarebbero stati commessi dalle truppe d’elite della “Task Force 20”, una squadra speciale incaricata di operazioni segrete (compresa la caccia a Saddam Hussein).
Le squadre, composte da Army Rangers, Delta Force e agenti della Cia, avrebbero usato metodi violenti per costringere i prigionieri a parlare. Il rapporto condanna anche il metodo di arrestare congiunti delle persone ricercate, in particolare donne, per costringere gli individui fuggiti a consegnarsi alle forze militari Usa. «È un sistema che ha il sapore dell’uso di ostaggi», osserva il rapporto compilato dal colonnello in pensione Stuart Herrington.
Il documento era stato consegnato ai comandanti militari Usa in Iraq nel dicembre 2002. Il mese successivo, grazie ad una serie di foto esplicite, esplodeva lo scandalo del carcere di Abu Ghraib (ma gli abusi sarebbero stati tenuti segreti dal Pentagono per alcuni mesi). La “Task Force 20” aveva adottato il sistema, poi condannato dal Pentagono, dei “detenuti fantasma”, prigionieri non registrati tenuti in località segrete, non accessibili alle ispezioni, e sottoposti ad abusi e maltrattamenti.
Il rapporto Herrington conferma che gli abusi nei confronti dei detenuti non erano limitati al ‘carcere degli orrorì di Abu Ghraib (alla periferia di Baghdad) ma erano estesi ad altre unità americane. Le operazioni della “Task Force 20” (poi ribattezzata “Task Force 121”) erano quasi tutte segrete: gli ufficiali dei reparti speciali rispondevano spesso direttamente ai comandanti a Washington. Il Pentagono aveva avviato mesi fa una revisione dei metodi usati dalle Squadre Speciali americane in Iraq, affidando l’inchiesta al generale Richard Formica, ma il documento non sarebbe ancora stato completato.
Le vicende delle torture inflitte ai detenuti sono tornate alla ribalta negli Stati Uniti dopo che un rapporto confidenziale del Comitato Internazionale della Croce Rossa ha accusato gli Stati Uniti di usare metodi «equivalenti alla tortura» nella base-carcere di Guantanamo nei confronti dei sospetti terroristi detenuti nell’isola.
Il Pentagono ha respinto con vigore le accuse riaffermando che tutti i prigionieri di Guantanamo sono trattati «in modo umano» (anche se non viene a loro riconosciuto lo status di ‘prigionieri di guerrà e le garanzie previste dalla Convenzione di Ginevra). Dirigenti della Croce Rossa hanno chiesto una nuova serie di colloqui con le autorità americane per esporre le preoccupazioni della organizzazione umanitaria sulla situazione a Guantanamo.
A riportare alla ribalta la vicenda degli abusi dei detenuti ha contribuito il ritorno oggi davanti ad un tribunale militare a Fort Bragg (Nord Carolina), per la prima volta da quando è diventata madre in ottobre, della soldatessa Lynndie England, le cui immagini col detenuto nudo al guinzaglio hanno fatto il giro del mondo. La England, che si proclama innocente, sostiene di avere eseguito gli ordini dei superiori che avevano chiesto di “ammorbidire” i detenuti prima degli interrogatori.
I legali della England hanno chiesto oggi al giudice militare di annullare le dichiarazioni fatte dalla soldatessa in gennaio agli inquirenti del Pentagono dopo che erano emerse le immagini delle umiliazioni inflitte ai prigionieri. La soldatessa aveva detto allora che con i suoi commilitoni «stava scherzando, per divertirsi un pò e spezzare la noia del turno notturno».
La England, incriminata insieme ad altri sei membri della sua unità di Polizia Militare, rischia fino a 38 anni di carcere. Il processo entrerà nel vivo, esaurita la fase preliminare, a partire dal 18 gennaio prossimo
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