LA FISICA NEL SEICENTO 3: ALCUNI ELEMENTI DI GIUDIZIO SU GALILEO

Roberto Renzetti

“… di Galileo . . . esiste un’immagine spuria presentata da quello che possiamo chiamare il mito di Galileo, la presentazione popolare corrente . Quest’immagine è completamente falsa… E comprensibile come ogni critica rivolta a questa immagine idealizzata tenda a dare fastidio, mentre alcuni autori italiani mostrano di sentirsene offesi nel loro orgoglio nazionale “.

            In questo modo lo storico olandese della scienza E. J. Dijksterhuis (1) inizia ad affrontare i contributi di Galileo al pensiero scientifico.

            E questo non è che un esempio; i giudizi su Galileo espressi da vari e noti storici della scienza (I. B. Cohen, A. Rupert Hall, A. Koyrè, H. Butterfield, . . .) (2) oscillano sempre tra le seguenti posizioni:

1) Veramente molto bravo, ma … e quindi giù tutta una serie di critiche (essenzialmente fondate sul particolare che Galileo non ha elaborato tutta la fisica che oggi conosciamo) tali da negare completamente il primitivo giudizio (Cohen, Rupert Hall);

2) solo un mito che ha fatto tanti errori e che solo per caso, ogni tanto, si è imbattuto in qualcosa di originale e notevole (Dijksterhuis, Cohen);

3) gran parte delle cose da Galileo sostenute erano già state trovate da altri e, mentre per questi altri autori secondari, si fanno salti mortali per andarne a ricercare il corretto contributo da loro apportato alle scienze fisiche, per Galileo si fa la ricerca contraria, quella cioè dei difetti, degli errori, delle imperfezioni, delle omissioni, . . . (Cohen, Rupert Hall, Dijksterhuis);

4) non ha avuto varie ‘facili’ intuizioni che lo avrebbero portato direttamente alla dinamica newtoniana (Cohen, Rupert Hall, Dijksterhuis) ;

5) non ha fatto della fisica ma solo della pedagogia e della filosofia (Koyrè);

6) non è uno sperimentatore (si è servito solo di esperienze mentali) ed inoltre non ha inaugurato nessun metodo scientifico: egli aveva già una ‘ teoria’ per la quale non gli occorreva “sperimentare” (Rupert Hall, Koyrè, Cohen, Dijksterhuis).

            Vorrei tentare di correggere alcuni di questi giudizi in uno spazio necessariamente limitato.

            Un fatto che mi pare incontestabile, e sul quale mai si pone il giusto accento, è la strenua opera di laicizzazione della scienza che Galileo, sulla traccia di quanto iniziato da Giordano Bruno, porta a compimento.

            Se è indubbio che la motivazione di fondo che porta Galileo alla costruzione di una nuova fisica è il problema cosmologico (dotare di una fisica l’universo copernicano, che ne è privo; fisica che, contemporaneamente, ne renda ragione), è anche vero che l’atteggiamento di Galileo nei riguardi del mondo naturale è fortemente influenzato dalle elaborazioni della tecnica artigianale (3). Il rapporto con la realtà ‘volgare’ non può più essere il frutto di mediazioni metafisiche o teologiche e pertanto è possibile ricercare affrancandosi da esse. E, fatto di enorme portata, dato questo approccio con il mondo esterno, ora, i risultati di una ricerca non debbono più essere necessariamente delle verità immutabili ma, al contrario, sono delle conquiste provvisorie che, per essere fortiticate o falsificate, non debbono ricorrere all’arbitrio di una qualche metafisica o teologia, ma solo, di nuovo, ad un ulteriore e più approfondito rapporto proprio con quella realtà.

            In questo contesto, allora, voler insistere sugli ‘errori’ di Galileo significa non aver capito nulla della nuova strada da lui stesso indicata; e se oggi si può parlare degli errori di Galileo è proprio perché ci si serve del metodo di Galileo.

            Per non restare nel vago è utile entrare in esemplificazioni concrete.

LA GRAVITÀ

            Una buona parte delle ricerche di Galileo ruota intorno alla caduta dei gravi.

            Nel “Dialogo sui massimi sistemi“, quando salta fuori il problema della natura della gravità, possiamo leggere quanto segue: (4)

“Salviati — … dico che quello che fa muovere la Terra è una cosa simile a quella per la quale si muove Marte, Giove, e che è credo che si muova anche la sfera stellata; e se egli mi assicurerà chi sia il movente di uno di questi mobili, io mi obbligo a saper dire chi fa muovere la Terra. Ma più, io voglio far l’istesso s’ei mi sa insegnare chi muova le parti della Terra in giù.

Simplicio — La causa di quest’effetto è notissima, e ciaschedun sa che è la gravità.

Salviati — Voi errate, signor Simplicio ; voi dovevi dire che ciaschedun sa che ella si chiama gravità. Ma io non vi domando del nome, ma dell’essenza della cosa… “.

            Sembra un atteggiamento molto corretto: per sapere cos’è una cosa non basta darle un nome e Galileo non ha elementi per entrare a discutere di gravità. Invece di addentrarsi in disquisizioni che, in mancanza di elementi concreti, non potrebbero che perpetuare il metodo della scolastica, egli sospende il giudizio.

            Che dice Koyrè in proposito ? (5)

“Che cos’è la gravità ? Descartes afferma che è indispensabile conoscerla. Galileo rifiuta di rispondere . .. Egli si rifiuta di vedere nella gravità una qualità naturale dei corpi ; e ugualmente si rifiuta di vedervi una fonte o una causa del moto ‘verso il basso’ “.

            E neanche a pensare che Galileo aderisca alla teoria di Gilbert (la Terra assimilata ad un gigantesco magnete). Eppure, osserva Koyrè, questa teoria era stata accettata da Kepler. La risposta che Koyré dà a questa questione è la risposta che fornisce lo stesso Galileo :

“quello che avrei desiderato nel Gilberti, è che fosse stato un poco maggior matematico”.

            In un’epoca di dotte ed inconcludenti disquisizioni si richiede qualcosa di più preciso di una teoria alla Gilbert. Quest’ultimo certamente ha dei fatti (o, meglio, della analogie) da portare a testimonio, ma nessuna teoria matematica, nessun dato quantitativo (oltre ad una mole smisurata di fatti straordinari, magici e fantastici non riferibili a nessun dato dell’esperienza comune). E qui,credo, esca bene il criterio di scientificità per una teoria fisica che Galileo fornisce: l’osservazione di fatti senza un apparato formale, quantitativo, che li sostenga non può di per sé costituire una teoria fisica. E perché, allora, Kepler aderisce alla teoria di Gilbert? Ecco, appunto, qui può trovarsi una prima parziale risposta al perché Galileo si rifiutò di prendere in considerazione alcuni risultati di Kepler (ad esempio le orbite ellittiche, ma, più in particolare, la spiegazione delle maree attraverso l’azione della Luna, una prima ‘azione a distanza’ che assumeva agli occhi di Galileo un carattere metafisico). Tutta l’elaborazione kepleriana è imbevuta di un tal misticismo che sembra impossibile riuscirne a distinguere il contributo positivo al pensiero scientifico. La metafisica dei solidi regolari incastonati l’uno dentro l’altro, la melodia che i pianeti van suonando (la Terra, ad esempio, suona le note mi, fa, mi, cosicché, osserva Kepler, non possiamo stupirci se su questo pianeta regnino la MIseria, la FAme e la MIseria),… tutt’altra cosa rispetto alla razionale, metodica ed a volte dubbiosa discussione delle cose della natura che si può leggere in Galileo. E neanche a dire che l’adesione di Kepler alla teoria di Gilbert avesse un qualche fine all’interno del suo lavoro : essa risultava un mero accessorio.

            Ed, in definitiva, ancora si dimostra la correttezza del metodo indicato da Galileo: egli stesso rinuncia ad addentrarsi in speculazioni,che pure avevano un argomento da cui partire, per continuare ad attenersi a fatti inscrivibili all’interno di una teoria ‘enunciabile in forma matematica’.

            Ma c’è anche un altro aspetto del problema-critica a Galileo che merita di essere sottolineato. Si tratta dell’antipatico metodo della ricerca delle priorità, che poi vuol dire priorità del pensatore eminente conterraneo dello storico di turno. E così in Koyrè (ed in Duhem) è Descartes colui che coglie l’essenza dei problemi (6), mentre negli altri storici inglesi citati è Newton. Sintomatico di ciò, ma su questo tornerò, è che Koyrè, ancora occupandosi del problema gravità, afferma che Galileo in un famoso brano de ‘II Saggiatore’ non parla di pesantezza e aggiunge :

“in questo testo, che ricorda stranamente – e significativamente – testi analoghi di Descartes . . “(7).

            Ebbene, sembra si voglia dire che Galileo abbia orecchiato qualcosa, dal momento che non si dice che ‘II Saggiatore‘ è del 1623 mentre i lavori di Descartes, cui si riferisce Koyrè, sono del 1633.

            La cosa che però mi è risultata più strana è che nelle centinaia di pagine che gli autori in oggetto hanno dedicato alla discussione della gravità nessuna sia dedicata ad un fatto evidenziato da Galileo nei ‘Discorsi intorno a due nuove scienze‘ (1638) che, a mio giudizio, è di grandissima importanza. Il fenomeno di cui tratta Galileo (8) sarà alla base dello sviluppo della relatività generale di Einstein.

            Salviati sta discutendo con Simplicio della caduta dei gravi; il problema è se due gravi di massa (come diremmo oggi) diversa cadano con uguali o diversi ‘gradi di velocità’ .

            Supponiamo sia vero quanto afferma Aristotele: due gravi di diversa massa cadono con ‘gradi di velocità’ diversi.

            Consideriamo due pietre: una ‘grande’ che cada con 8 gradi di velocità ed una ‘piccola’ che cada con 4 gradi di velocità. Se leghiamo la pietra grande con la piccola, la grande sarà ritardata dalla più piccola mentre la più piccola sarà accelerata dalla più grande, di modo che i gradi di velocità del sistema dovrebbero essere non superiori ad 8.

            Simplicio è d’accordo con questa argomentazione di Salviati il quale, però, continua osservando che i due gravi legati costituiscono un grave ‘più grande’ del ‘grande’, allora esso dovrebbe discendere con più di 8 gradi di velocità.

            Ammettendo Aristotele, si arriva dunque all’assurdo di ammettere che oggetti più gravi cadono più lentamente di oggetti meno gravi.

            Simplicio si sente frastornato da questo ragionamento e osserva che gli pare che il grave più piccolo aggiunto al più grande gli aggiunga peso ma non capisce come non possa aggiungergli velocità.

            Fin qui vari autori riportano questa brillante confutazione di Galileo di uno dei punti di forza della fisica aristotelica. Ma non vanno oltre a leggere quello che Galileo aggiunge subito dopo, per bocca di Salviati, in risposta a Simplicio: (9)

“Salviati — Qui commettete un altro errore, Sig, Simplicio, perché non è vero che quella minor pietra accresca peso alla maggiore.

Simplicio — Oh, questo passa bene ogni mio concetto.

Salviati — … avvertite che bisogna distinguere i gravi posti in moto da i medesimi costituiti in quiete. Una gran pietra messa nella bilancia non solamente acquista peso maggiore col sovrapporgli un’altra pietra, ma anco la giunta di un pennecchio di stoppa lo farà pesar più quelle sei o dieci once che peserà la stoppa; ma se voi lascerete cader da un’altezza la pietra legata con la stoppa credete voi che nel moto la stoppa graviti sopra la pietra, onde gli debba accelerar i1 suo moto … ? Sentiamo gravitarci sulle spalle mentre vogliamo opporci al moto che farebbe quel peso che ci sta addosso; ma se noi scendessimo con quella velocità che quel tal grave naturalmente scenderebbe, in che modo volete che ci prema e graviti sopra? Non vedete che questo sarebbe un voler ferir con la lancia colui che vi corre innanzi con tanta velocità, con quanta o con maggiore di quella con la quale voi lo seguite? Concludete pertanto che nella libera e naturale caduta la minor pietra non gravita sopra la maggiore, ed in conseguenza non le accresce peso, come fa nella quiete”.

            Galileo non possiede il concetto di massa (per lui è un qualcosa di primitivo) e conseguentemente non ha il concetto di forza come causa di accelerazione (come vedremo) ma sa cogliere con chiarezza uno degli aspetti delle differenti proprietà inerziali e gravitazionali dei corpi e, in qualche modo, una delle differenze tra quelle che oggi chiameremmo masse inerziali e gravitazionali, fatto che permette di vedere sotto una nuova luce il suo contributo al principio d’inerzia (coscienza delle azioni che originano variazioni di velocità) e, perché no ?,alla dinamica. Eppure, nonostante questa coscienza avanzata dei fenomeni coinvolti nella gravità, Galileo non entra in disquisizioni sulla sua natura. E anche questa è una indicazione di metodo che qualcuno, sovrapponendo conoscenze di oggi ad una distesa indagine storica, non riesce a vedere.

LA CAUSA DELL’ACCELERAZIONE

            È a tutti noto che Galileo autolimita la sua indagine sul moto alla cinematica, non introducendo le cause che producono variazioni di velocità. È peraltro evidente che la dinamica è alle soglie nei lavori di Galileo per quanto abbiamo già detto e per quanto vedremo a proposito del principio d’inerzia.

            D’altra parte il nostro non ha scrupoli ad introdurre la forza (potenza o resistenza) in relazione alle macchine semplici; non si sente in grado di introdurla nella sua ‘cinematica del moto’.

            Nei “Discorsi“, discutendo ancora del moto di caduta dei gravi, Galileo ha modo di dire per bocca di Salviati: (10)

” Non mi par tempo opportuno d’entrare al presente nell’investigazione della causa dell’accelerazione del moto naturale, intorno alla quale da varii filosofi varie sentenzie sono state prodotte … le quali fantasie, con altre appresso, converrebbe andare esamimando e con poco guadagno risolvendo” .

            Al di là del continuo richiamo al metodo, questo rifiuto di Galileo di introdurre entità nuove è molto significativo soprattutto in relazione al fatto che, come dicevo, nelle sue discussioni sulle macchine egli dimostra di possedere il concetto, quantomeno, di sforzo e di resistenza ad esso. Ma nella storia della scienza il programma che si è imposto alla ricerca è stato quello newtoniano e non quello galileiano. Ed allora la fisica di Galileo viene sempre confrontata con quella di Newton e su quest’ultima base si vanno a cogliere gli errori e le presunte manchevolezze (tra cui: l’assenza di forza, l’assenza di piani infiniti, la mancata euclideizzazione dello spazio) dell’opera di Galileo.

            È corretto entrare nei lavori di Galileo con un’ottica newtoniana? Non credo. O lo si fa dal riferimento galileiano o da quello della fisica contemporanea (ben sapendo che quest’ultima non è un’operazione storicamente corretta). In questo modo, mentre il riferimento galileiano ci fornisce quello che è stato definito il ‘mito’ di Galileo, un altro riferimento, non newtoniano, ci permette di vedere la modernità di Galileo attraverso, ad esempio, gli stessi rifiuti di ricercare entità ‘metafisiche’ (come la forza) operati, tra gli altri, da Kirchhoff ed Hertz; attraverso, ancora ad esempio, la geometrizzazione non euclidea dello spazio fisico operata da Einstein.

            Invece Dijksterhuis ha modo di sostenere: (11)

« L’opinione secondo cui alla fine della sua vita Galileo assumeva ancora una proporzionalità tra la forza e la velocità (media) contraddice naturalmente il mito che lo presentava come il fondatore della dinamica classica; come tale egli avrebbe dovuto pertanto sicuramente conoscere la proporzionalità tra la forza e l’accelerazione che caratterizza tale dinamica. Ma per coloro che conoscono Galileo attraverso le sue opere, e non di seconda mano, non v’è dubbio che egli non ebbe mai una simile intuizione ».

            Che strano modo di ragionare! Galileo non ha elementi per indagare le cause dell’accelerazione ed il nostro storico prima gliela fa definire come proporzionale alla velocità media per poi affermare che ha sbagliato. Da Galileo, insomma, si pretendeva F = ma ? Se si pretende questo, alla luce di quanto ci insegna la relatività ristretta, non sarebbe più corretto pretendere una forza uguale ad una variazione di quantità di moto nel tempo?

            Ma il nostro storico continua: (12)

“Poiché la gravità può essere considerata come una forza costante per un corpo che non sia troppo lontano dalla superficie della Terra, e poiché una forza costante produce una accelerazione costante, il moto di caduta di un corpo è uniformemente vario. Ora, Galileo sapeva che il moto di caduta di un corpo è uniformemente vario ; pertanto egli deve averne tratto la conclusione ovvia [agisce una forza costante, n.d.r.]. Questa argomentazione non è meno comune per il fatto di essere erronea: l’INTERO MITO DI GALILEO È BASATO SU DI ESSA [il maiuscolo è mio, n.d.r.]”

            Si sottolinea ancora che poiché Galileo non ha scritto F = ma non si ha diritto di mitizzarlo.

            Non basta, allora, il fatto che Galileo abbia introdotto la dinamica legando indissolubilmente le sue leggi di caduta dei gravi all’inerzia (vedi più oltre)? Non basta che, conseguenza di quanto ora detto, la ‘forza’ divenga responsabile non più di ‘velocità’ ma di sue variazioni ?

            Un altro storico, A. Crombie, ben descrive, secondo me, lo status esistente in Galileo di concetti come peso, forza e massa (13):

“Nella seconda giornata dei ‘Massimi sistemi’ Galileo fa chiedere a Salviati

se non sia nel mobile, oltre alla naturale inclinazione al termine contrario…, un’altra pure intrinseca e naturale qualità che lo faccia renitente al moto. Però ditemi di nuovo: non credete voi che l’inclinazione, verbigrazia, de i gravi di muoversi in giù sia eguale alla resistenza de i medesimi all’esser spinti in su ?

E Sagredo risponde:

Credo che ella sia tale per l’appunto; e per questo veggo nella bilancia due pesi eguali restar fermi nell’equilibrio, resistendo la gravità dell’uno all’esser alzato alla gravità con la quale l’altro, premendo in giù, alzarlo vorrebbe.

Questo brano contiene, implicitamente, la distinzione che avrebbe fatto Isaac Newton tra il peso, la forza che muove un corpo in caduta, e la massa, la resistenza intrinseca al moto” .

            Per concludere sul moto accelerato non resta che riportare un breve brano che, ancora una volta, mostra la curiosa logica di Koyré (14) :

“La definizione galileiana del moto uniformemente accelerato postula, expressis verbis, un aumento continuo della velocità e, in particolare, il suo aumento continuo a partire dalla quiete”.

            A questo punto Koyré pone una nota a pié di pagina nella quale dice:

” Non era inutile : prova ne è che Descartes stesso, il quale non ammetteva che delle azioni istantanee, lo sospettava “.

            Ed ancora ciò che ha un senso o meno nell’opera di Galileo lo ha rispetto a qualcos’altro che è, mi perdoni Koyré, affatto discutibile.

IL PRINCIPIO D’INERZIA

            È questo forse l’argomento più controverso dell’opera di Galileo. Sembra si possa essere d’accordo che lo scienziato pisano lo pensasse applicabile a moti circolari. È però doveroso andare a vedere con quali modalità e cautele e, soprattutto, su quali moti circolari.

            Dice Galileo nella terza giornata dei suoi ‘Discorsi’ (15):

“È lecito aspettarsi che, qualunque grado di velocità si trovi in un mobile, gli sia per sua natura indelebilmente impresso, purché siano tolte le cause esterne di accelerazione o di ritardamento ; il che accade soltanto nel piano orizzontale ; infatti nei piani declivi è di già presente una causa di accelerazione, mentre in quelli acclivi [è già presente una causa] di ritardamento: da ciò segue parimenti che il moto sul piano orizzontale è anche eterno; infatti, se è equabile, non scema o diminuisce, né tanto meno cessa”.

            Intanto c’è da osservare, in relazione a ciò che abbiamo visto precedentemente, quanto sia chiaro il concetto di cause esterne che provocano accelerazioni; manca solo la parola forza, ma Galileo non è un nominalista (lo abbiamo visto parlando di gravità). E poi c’è il principio d’inerzia riferito ad un piano orizzontale. Da dove viene allora il preteso riferimento di Galileo ai moti circolari ? Dalla giornata seconda del ‘Dialogo‘ in cui praticamente si sostiene che se la superficie del nostro globo fosse ben levigata, essa permetterebbe,

“rimossi tutti gli impedimenti esterni ed accidentarii”,

un moto inerziale (poiché la superficie della Terra non è né declive né acclive ed è

“in tutte le sue parti egualmente distante dal centro” ).

            Tutto allora può sembrare in ordine con il giudizio che si dà sulla concezione galileiana dell’inerzia. A mio parere, però, non si tiene conto di un fatto importante: la chiara distinzione che in Galileo esiste tra geometria euclidea e geometria dello spazio fisico. Non tenendo conto di questo fatto si assegna a Galileo da una parte l’attributo di platonico, dando per scontata la sua fede nella geometria euclidea (se così fosse occorrerebbe ammettere che quando Galileo parla di moto eterno su di un piano orizzontale parla del piano euclideo), e dall’altra, un suo errore nell’enunciazione del principio d’inerzia, là dove Galileo fa della fisica e non sta più trattando il problema in termini di geometria euclidea ma in termini di geometria dello spazio fisico, dello spazio reale che lo circonda.

            Quanto sto sostenendo lo si può ricavare da questa affermazione, più volte ripetuta da Galileo (16):

“… nelle nostre pratiche gli strumenti nostri e le distanze le quali vengono da noi adoperate, son così piccole in comparazione della nostra gran lontananza dal centro del globo terrestre, che ben possiamo prendere un minuto di un grado del cerchio massimo [meno di 2 km,n.d.r.] com se fusse una linea retta, e due perpendicolari che da i suoi estremi pendessero, come se fussero parallele”

            inoltre (17):

“. . .la circonferenza del cerchio infinito e la linea retta sono la stessa cosa”.

            Mi pare di poter dire che Galileo ha ben chiaro il principio d’inerzia ed in ogni caso se un errore c’è esso va al di là della sperimentazione possibile (e questo vale tanto per Galileo, quanto per Descartes, quanto per Newton; o non si è dovuto lavorare per 200 anni per sbarazzarsi di quel fardello che era lo spazio assoluto newtoniano ?).

            Si vuole che Galileo pensasse “davvero” ad un piano infinito confrontando i suoi lavori certamente con Newton e non, ad esempio, con Einstein. Alla luce di quanto sappiamo oggi sul mondo fisico, che senso ha il piano infinito ? Inoltre non diciamo sempre anche noi che, con buona approssimazione, la Terra è un sistema inerziale?

            Ed è inevitabile che in ricostruzioni storiche che prevedono uno sviluppo lineare della scienza la tappa dello spazio assoluto sia d’obbligo. Si arriva così all’assurdo, pur di sostenere una propria tesi, di far rientrare dalla finestra la metafisica che Galileo aveva cacciato dalla porta. Che senso avrebbe altrimenti sostenere, come fa Koyré, che (18):

” In realtà fu Descartes e non Galileo che per la prima volta comprese totalmente il senso e la portata del principio d’inerzia” ?

            Qual è dunque la formulazione cartesiana del principio d’inerzia ?

            Egli enuncia tre regole, delle quali la prima è (19):

“… se una parte della materia avrà cominciato a muoversi, continuerà sempre con ugual forza, finché le altre non la faranno fermare o rallentare … [e questo movimento non potrà che essere rettilineo perché] il movimento rettilineo è il solo che sia perfettamente semplice” .

            Dopo aver enunciato la seconda regola (conservazione della quantità di moto) così dice Descartes (20) :

“… ora le due regole derivano evidentemente solo da questo: che Dio è immutabile e che, con l’agire sempre alla stessa maniera, produce sempre lo stesso effetto. Infatti,supponendo che nell’atto stesso di crearla, Dio abbia posto in tutta la materia in generale una certa quantità di movimenti, a meno di negare che egli agisca sempre allo stesso modo, bisogna ammettere che ne conservi sempre la stessa quantità “.

            Ebbene, dove sta tutta la cura, il dubbio, l’apparato sperimentale di Galileo? Queste cose che sostiene Cartesio sono solo affidate a Dio, ma in questo modo si può dire ciò che uno vuole!

            E poi, non è il mondo di Cartesio tutto pieno ed eternamente in moto, con una struttura a vortici, di modo che quest’ultimo è l’unico moto indefinitamente possibile? Ed allora, di nuovo, il principio d’inerzia di Descartes non è una mera enunciazione geometrica che nulla ha a che vedere con la struttura dello spazio fisico che lo stesso Descartes ipotizza?

            Ma Koyré dice ancora varie cose. Dopo aver sostenuto che per la corretta formulazione del principio d’inerzia

“sarebbe stato necessario che [Galileo], cessando di essere archimedeo, fosse divenuto cartesiano” (21)

egli continua (22) :

“… l’impossibilità, per Galileo, di formulare il principio d’inerzia si spiega, da una parte, con il suo rifiuto … di ammettere francamente l’infinità dello spazio ; e, d’altra parte, si spiega con la sua incapacità di concepire il corpo fisico (o il corpo della fisica) come privo del carattere costitutivo della gravità.”

ed aggiunge:

“Perché Galileo si rifiuta di ammettere l’infinità dello spazio ?… Forse – ma non è che un’ipotesi – Galileo fu spaventato dall’esempio di Bruno. Vogliamo dire: dalle conseguenze a cui la dottrina dell’infinità aveva condotto il filosofo di Nola ».

            La domanda più semplice che può venire in mente è: perché Galileo doveva ammettere l’infinità dello spazio ? Ed a questa domanda si può aggiungere l’altra: perché lo spazio infinito doveva essere lo spazio euclideo, omogeneo ed isotropo ?

            Ma poi il riferimento a Bruno è quantomeno inopportuno (almeno nell’economia delle tesi dello stesso Koyré) se non altro perché il Descartes di Koyré, venuto a conoscenza della condanna di Galileo, si rifiutò di pubblicare quanto aveva scritto (mentre Galileo, pur trovandosi già in domicilio coatto e pur così vicino a Roma, continua con i “Discorsi“, la più copernicana delle sue opere).

            Sempre a proposito del principio d’inerzia Cohen sostiene invece (23) :

“C’è un punto del ‘Dialogo’ in cui sembra quasi che Galileo si sia imbattuto per caso nel principio d’inerzia”.

            Dijksterhuis aggiunge (24):

“Ma una cosa dovrebbe essere ora chiara: nei passi discussi fin qui non vi è la minima traccia della concezione dell’inerzia che è formulata nella prima legge di Newton”

e continua (25):

“Per quanto rivoluzionario possa essere stato l’atteggiamento di Galileo verso parecchie idee tradizionali, egli rimase sempre aggrappato all’antica concezione dell’universo che implicava che il mondo fosse finito (25 bis). . .In questo universo finito, però, l’idea di un moto perpetuo in linea retta era esclusa, e già per questa ragione Galileo non sarebbe stato in grado di accettare la concezione d’inerzia che caratterizza la fisica classica” .

            Che dire a proposito di quest’ultima obiezione? Neanche la luce fa i percorsi fantastici del nostro storico olandese. O che Galileo deve ancora per forza confrontarsi con Newton ?

            Butterfield non può far altro che aggiungere (26):

“Galileo fu impreciso; egli non giunse a concepire in modo perfetto lo spazio euclideo, completamente vuoto e completamente neutrale”.

            E qui il problema si sposta di nuovo a quello spazio assoluto a cui ancora oggi molti non riescono a rinunciare.

            Rupert Hall, da parte sua, può concludere affermando che (27) :

“…se la concezione dell’inerzia che Galileo aveva fosse stata più corretta, le sue teorie sarebbero state ancora più avanzate”.

IL METODO SPERIMENTALE

            Sono ben noti i ‘supposti’ esperimenti di Galileo perché si debbano qui descrivere. È invece interessante leggere cosa scrivono di essi i nostri storici.

            Rupert Hall (28):

“La tradizione secondo la quale Galileo fu un grande scienziato sperimentale non regge ad una critica seria … Egli preferiva sempre l’analisi teorica piuttosto che ulteriori indagini sperimentali. Di Galileo si ricordano solo pochi esperimenti originali, e in tutte le sue lettere troviamo solo pochi accenni a esperimenti realmente compiuti… Quanto alla verifica sperimentale [dell’inerzia], Galileo la ignorò, considerandola irrilevante [o perché non disponeva del piano infinito, n.d,r.]”

ed inoltre Galileo non fece mai l’esperimento della caduta dei gravi dalla torre di Pisa poiché

“… non aveva motivi per compierlo una volta che si era convinto, per via di ragionamento, che la legge di Aristotele sulla caduta dei gravi era falsa”.

            Dijksterhuis, dopo aver anche lui fatto riferimento alla leggenda dell’esperimento della torre e dopo aver sostenuto che (29) :

in linea generale si devono sempre prendere con qualche riserva i racconti di esperimenti fatti da Galileo …”,

sostiene che dall’insieme dell’opera di Galileo,

“risulta provata l’assoluta infondatezza della credenza, tenacemente difesa dai sostenitori del mito di Galileo, che egli abbia scoperto la legge dei quadrati attraverso numerosi esperimenti di caduta in cui avrebbe misurato accuratamente le distanze ed i tempi… Questa concezione è poi in flagrante contraddizione con tutto ciò che si conosce circa il grado di importanza attribuito da Galileo agli esperimenti scientifici” (30).

            E, con argomentazione simile a quella di Rupert Hall, il nostro storico olandese afferma (31):

“Egli non fece esperimenti allo scopo di trovare una legge di natura, ma al fine di verificare un rapporto che aveva dedotto mediante un ragionamento matematico a partire da supposizioni che apparivano più o meno evidenti [!, n.d.r.] .. . Nell’opera di Galileo, la verificazione per mezzo dell’esperimento sembra talvolta avere un’importanza secondaria giacché può venir considerata superflua se il ragionamento precedente sembra molto persuasivo”.

            Per parte sua Butterfield si interroga (32) :

” ci si domanda perplessi perché mai uno dei personaggi dei Dialoghi non chieda per quale motivo l’esperimento non sia mai stato fatto”

aggiungendo che in realtà Galileo si trovava

“a difendere quello che egli chiamava il metodo matematico persino contro il metodo sperimentale, caldeggiato proprio dalla parte migliore degli aristotelici” (33).

            Stesse tesi in Koyré, il quale afferma che le esperienze in Galileo sono quasi sempre frutto del suo pensiero come quelle dei piani inclinati che sono immaginate. Mentre Cohen afferma che le esperienze di Galileo sui piani inclinati non potevano dare i risultati aspettati perché egli non teneva conto [!] del momento d’inerzia della sfera di bronzo rotolante nella discesa.

            In definitiva, mi pare si possa dire che da una parte si nega che Galileo abbia fatto esperienze perché non vi sono i resoconti di esse, mentre dall’altra si dice che Galileo anteponeva il discorso matematico, la teoria, all’esperienza.

            Sulla prima questione si può ribattere una cosa sulla quale vari storici sono d’accordo, tra cui Crombie. Si tratta essenzialmente del modo di redazione dei risultati di un esperimento che, evidentemente, non è quello che oggi è in uso. Chi legga un lavoro sperimentale in una redazione odierna non può restare soddisfatto delle descrizioni che Galileo fa dei suoi esperimenti. Ma occorre tener conto del contesto nel quale Galileo si trova ad operare e del contesto nel quale egli inserisce le descrizioni dei suoi esperimenti. Da una parte nessuna pratica precedente a Galileo ci autorizza a sostenere che egli avesse avuto una minor cura di qualcun altro a descrivere i suoi lavori (chi richiedeva, all’epoca, descrizioni particolareggiate, se c’era anche il rifiuto di guardare attraverso il telescopio ?), dall’altra la redazione dei risultati di Galileo è all’interno di opere che avevano lo scopo di far partecipe della “nuova scienza” gente che era al di fuori dei circoli della scienza ufficiale, lo scopo di “divulgare” (si pensi all’uso del volgare da parte di Galileo), opere essenzialmente discorsive. E neanche ci si deve stupire del fatto che certi esperimenti non siano descritti nella corrispondenza; i problemi dei quali doveva rendere conto Galileo e le sollecitazioni che riceveva erano altre. Le poche volte che qualche chiarimento gli veniva richiesto sull’esecuzione delle sue esperienze, ben volentieri lo dava (si vedano le lettere a G. B. Baliani del 1° agosto e del 1° settembre 1639).

            Ma cosa pensa lo stesso Galileo dell’esperimento ?

“Tra le sicure maniere per conseguire verità è l’anteporre l’esperienza a qualunque discorso, essendo noi sicuri che in esso almanco copertamente, sarà contenuta la fallacia, non sendo possibile che una sensata esperienza sia contraria al vero” (35).

            E qui abbiamo modi di capire come l’esperienza sia legata al pregiudizio, alla matematica ed al “discorso” che da essa si può ricavare.

            Non vi è alcun dubbio che il mero empirismo non può che dare risultati nulli (si pensi alle centinaia d’anni di lavoro nel campo dell’ alchimia che oltre a non aver portato alcun risultato scientifico ritardarono di moltissimi anni lo sviluppo della chimica scientifica). Nessuno scienziato, né di ieri né di oggi, si è mai avvicinato alla sperimentazione senza il “pregiudizio”, senza cioè possedere una teoria a priori. E Galileo è uno scienziato. Perché stupirsi del fatto che egli aveva già una teoria di quello che voleva trovare ? Si rifletta un momento, si faccia entrare un bravo studente del 1° anno di fisica in un laboratorio, ad esempio di basse temperature. Egli ha tutta la strumentazione a sua disposizione, cosa può ricavarne? Nulla, assolutamente nulla!

            È lo stesso esperimento che va progettato in funzione della teoria a priori. L’esperienza pregalileiana era altra cosa: la teoria a priori che discendeva da osservazioni offerteci dal mondo naturale, senza riproduzione e ripetizione in laboratorio e, soprattutto, senza quella sensazionale scoperta di Galileo (ma nessuno ne parla) della separazione delle variabili. Non è cosa da poco: ciò che ci offre la natura è un misto di vari fenomeni, eventi, moti, .. . Come distinguere, venirne a capo ? Isolando ciò che ci interessa. Tra i tanti parametri suscettibili di variazione, scegliere i “due” che si vogliono studiare; sterilizzando il fenomeno da studiare; semplificando il problema mediante astrazioni; riconducendo il fatto reale ad un fatto teorico. Questo procedimento assume un tal rilievo che lo stesso Newton seguirà pedissequamente la strada tracciata da Galileo: solo con i lavori dei fisici-matematici francesi della seconda metà del ‘700 (Lagrange, D’Alembert, Laplace, . . . ) si riuscirà a formalizzare l’astrazione vincolare, d’attrito (Coulomb), ed altro realizzata da Galileo.

            E poi, basta una sola osservazione di laboratorio ? Occorre farne molte, perché una sola può essere proprio quella osservazione che, oggi diremmo, sta nelle code della gaussiana. Come confrontare i risultati delle diverse esperienze ? Non lo si può fare se non si ha una redazione precisa di ognuna; e per far ciò occorre passare dal qualitativo aristotelico al quantitativo. E per far ciò è necessaria la matematica poiché, come dice Galileo ne “II Saggiatore” (36),

” La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica …”

            Quindi: prima ci vuole la chiara coscienza di ciò che si vuole trovare, una teoria a priori che si fondi sulla matematica e che parta dai presupposti più semplici (37) ; poi esperienza, ancora con il sostegno della matematica per la redazione dei risultati e per il loro confronto; quindi dallo studio di casi particolari alla formulazione di leggi che abbiano carattere più generale. Nel far questo è di potente ausilio il processo di astrazione che permette da una parte di superare l’empirismo ingenuo e, dall’altra, mediante il processo di separazione delle variabili, di cogliere l’essenza del fenomeno (si trascuri la resistenza dell’aria, si trascurino gli attriti, supponiamo un filo privo di massa, . . . ). Se tutto questo pare poco, lo stesso Galileo afferma la provvisorietà di ogni risultato e propone un modo per controllarlo iteratamente.

            Proprio nell’ultima giornata dei “Discorsi“, ancora e opportunamente a proposito del principio d’inerzia, in relazione alle sue esperienze sui piani inclinati e sui corpi in caduta, Galileo dice (38):

“Quel moto anco che nel piano orizzontale, rimossi tutti gli altri ostacoli, devrebbe essere equabile e perpetuo, verrà dall’impedimento dell’aria alterato, e finalmente fermato: e qui ancora tanto più presto quanto il mobile sarà più leggiero. De i quali accidenti di gravità, di velocità, ed anco di figura, come variabili in modo infiniti, non si può dar ferma scienza : e però , per poter scientificamente trattar cotal materia, bisogna astrar da essi, e ritrovate e dimostrate le conclusioni astratte da gl’impedimenti, servircene, nel praticarle con quelle limitazioni che l’esperienza ci verrà insegnando”.

            L’esperimento è quindi il banco di prova di una teoria e nel “Dialogo” Galileo ha modo di sottolinearlo con molta chiarezza (39) :

“. . . benissimo intendo che una sola esperienza o concludente dimostrazione che si avesse in contrario, basta a battere in terra questi ed altri centomila argomenti probabili”.

            Galileo, quindi, come illustre predecessore di Popper con il suo criterio di falsicabilità.

            Coloro che insistono sul Galileo solo teorico dovrebbero imparare a far esperienze (ma davvero!) confrontandosi con la tecnologia di una data epoca (costruire piani inclinati lunghi dai tre ai quattro metri non doveva essere impresa facile al tempo di Galileo) e, come ricorda Geymonat, le esperienze di Galileo con i piani inclinati furono ripetute, utilizzando la tecnologia del ‘600 da T. B. Settle negli anni 1961-1962: esse hanno fornito gli stessi risultati descritti da Galileo. Ed anche se è vero, come è vero, che Galileo ha fatto ampio uso di esperienze mentali, è proprio il suo metodo che permette di falsificare ogni teoria costruita in questo modo (Galileo si confrontava con teorie che, a partire dal 1567, con l’elevazione di S. Tommaso a Dottore della Chiesa, erano diventate dei dogmi, delle verità impossibili da contestare sulla base di “banali” atti materiali).

            Resta solo da parlare dell’originalità dei lavori di Galileo.

            Dice Rupert Hall (40):

“Senza dubbio le scoperte di Galileo nel campo della cinematica erano meno originali di quanto egli pensasse”.

            Dice Butterfield(41):

“Nei suoi studi sulla meccanica egli fu un po’ meno originale di quanto non si pensi di solito …”.

            Dice Dijksterhuis (42) :

“… l’esperimento di Pisa attribuito a Galileo era già stato realizzato precedentemente parecchie volte senza attrarre molta attenzione”.

            Ma vediamo cosa dice lo stesso Galileo all’inizio della giornata terza dei suoi “Discorsi” (43):

Diamo avvio ad una nuovissima scienza intorno ad un soggetto antichissimo. Nulla v’è, forse, in natura, di più antico del moto, e su di esso ci sono non pochi volumi, né di piccola mola, scritti da filosofi; tuttavia tra le sue proprietà ne trovo molte che, pur degne di essere conosciute, non sono mai state finora osservate, nonché dimostrate”.

            Galileo stesso ammette quello che gli altri gli rimproverano dando l’idea di averlo scoperto. Ma è proprio nel nuovo modo con cui quelle cose vengono affrontate che bisogna puntare l’attenzione perché, se una cosa è certa, Galileo non ha inventato il moto.

            Ebbene, assegnati tutti i meriti alle Scuole di Oxford e Parigi (non solo Oxford come, naturalmente, sostiene Rupert Hall), è incontestabile che con Galileo i problemi da lui affrontati salgono clamorosamente alla ribalta e non si può poi dimenticare che solo studi recenti hanno portato alla luce i contributi delle due Scuole suddette, segno evidente del loro scarso peso specifico negli sviluppi del pensiero scientifico del ‘600 (non si può poi dimenticare il diverso clima in cui lavoravano gli “ordini mendicanti” di Oxford e Parigi : un Concilio della Chiesa che si tenne a Parigi nel 1216 condannò in blocco l’opera di Aristotele; il Vescovo di Parigi ed, indipendentemente, quello di Canterbury condannarono nel 1277 il rigido determinismo presente nell’opera di Aristotele).

            Ma l’originalità di Galileo non è neanche riconosciuta in astronomia se Rupert Hall può affermare (44):

“... i Massimi sistemi… erano una guida modesta per una vera astronomia ed esponevano una visione estremamente semplificata della teoria alla cui difesa erano dedicati”.

            E qui mi fermo anche se il discorso potrebbe essere lunghissimo. Spero solo di essere riuscito a mostrare alcuni possibili approcci all’opera di Galileo, utili a farsi una idea dei giudizi che spesso con troppa facilità vengono formulati.

            Credo comunque che il miglior servizio che si possa rendere a Galileo è leggere i suoi lavori originali. Con un pubblico più disincantato sarà più difficile fare la storia in una certa maniera.

NOTE

(1) E. J. Dijksterhuis: II meccanicismo e l’immagine del mondo, Feltrinelli, 1971 (pag. 446).

(2) I. B. Cohen: La nascita di una nuova fisica, II Saggiatore, 1974;

A. Rupert Hall: Da Galileo a Newton 1630-1720, Feltrinelli, 1973;

H. Butterfield: Le origini della scienza moderna, II Mulino, 1962;

I) A. Koyré: Studi galileiani, Einaudi, 1979.

II) A. Koyré: Estudios de historta del pensamiento cientifico, Siglo XXI, 1977.

(3) I primi lavori di Galileo hanno strettissima relazione con problemi di tipo tecnologico. Si pensi a La Bilancetta (nella quale si indica un metodo per costruire una bilancia idrostatica), ai Trattati di fortificazione, a Le Mecaniche (nel quale si tratta di varie macchine semplici e si avverte dell’illusorietà del moto perpetuo, essendo impossibile ‘con poca forza alzare grandissimi pesi, ingannando, in un certo modo, con le … machine la natura; instinto della quale, anzi fermissima constituzione, è che niuna resistenza possa essere superata da forza, che di quella non sia più potente‘), a Le operazioni del compasso geometrico e militare.

(4) Tutte le citazioni di Galileo sono tratte da: Galilei – Opere – Classici UTET, 1964. In questo caso vedi Vol. II, pagg.: 291-292.

(5) Vedi Koyré I) in nota (2), pagg. 145 -247.

(6) Se si sfogliano testi di liceo francesi si scopre il fatto curioso che la legge di Boyle-Mariotte è la legge di Mariotte, che quelle di Volta – Gay Lussac sono di Gay Lussac, e così via.

(7) Ibidem, pag. 249.

(8) La cosa sarà ripresa e chiarita mediante la distinzione tra massa e peso, da G. B. Baliani (allievo ed amico di Galileo) nel 1638 e nel 1646.

(9) Vol. II, pagg. 635- 636.

(10) Ibidem, pag. 734.

(11) Vedi il testo citato in nota (1), pag. 460.

(12) Ibidem, pagg. 460-461.

(13) A. C. Crombie: Da S. Agostino a Galileo, Feltrinelli, 1970 (pag. 343).

(14) Vedi.Koyré I) in nota (2), pag. 138.

(15) Vol. II, pagg. 760-761. Analogo discorso si trova anche nella giornata quarta in ibidem, pag. 770.

(16) Ibidem, pag. 778.

(17) Ibidem, pag. 454.

(18) Vedi Koyré II) in nota (2), pag. 181. Stessa cosa è sostenuta in Koyré I) di nota (2), pag. 161 e pag. 283.

(19) Descartes: II mondo. L’uomo, Laterza, 1969 (pagg. 62 e 68).

(20) Ibidem, pag. 66.

(21) Vedi Koyre I) in nota (2), pag. 263.

(22) Ibidem, pag. 264.

(23) Vedi Cohen in nota (2), pag. 139.

(24) Vedi il testo citato in nota (1), pag. 470.

(25) Ibidem, pag. 466.

(25 bis) Questa affermazione è semplicemente falsa. È vero che Galileo non ha mai affermato l’infinità del mondo ma è altrettanto vero che egli, quando crede di poter avere libertà di parola, nella risposta a F. Ingoli (1624), mostra chiaramente la sua adesione alle concezioni di Cusano (mondo interminato) e, per molti versi, a quelle di Giordano Bruno (universo senza centri particolari, pluralità di mondi, mondi abitati, . . .).

(26) Vedi Butterfield in nota (2), pag. 102.

(27) Vedi Rupert Hall in nota (2), pag. 42.

(28) Ibidem, pagg. 47, 49.

(29) Vedi il testo citato in nota (1), pag. 449.

(30) Ibidem, pag. 455.

(31) Ibidem, pagg. 461, 462.

(32) Vedi Butterfield in nota (2), pagg. 100-101.

(33) Ibidem, pag. 105.

(34) Vedi Koyré I) in nota (2), pagg. 139, 257.

(35) Lettera a F. Liceti del 15-IX-1640; vol. I, pagg. 974-975.

(36) Vol. I, pag. 631.

(37) II criterio di ricerca di semplicità, che pure si rimprovera a Galileo, è lo stesso con il quale lo scienziato si è sempre mosso : prima si cercano eventuali relazioni lineari e poi si passa ad andamenti parabolici e quindi a relazioni più complesse.

(38) Vol. II, pag. 779.

(39) Ibidem, pag. 160.

(40) Vedi Rupert Hall in nota (2), pag. 49.

(41) Vedi Butterfield in nota (2). Nella pagina 84 Butterfield aggiunge qualcosa di veramente straordinario: “Galileo non fu abbastanza convincente nel ribadire il suo principio: non provò in modo inconfutabile la rotazione della Terra [intorno al Sole, n.d.r.]”. Solo le prime attendibili misure di parallasse stellare, eseguite da Bessel e Struve (1838) mostrarono inconfutabilmente quanto richiesto da Butterfield. Mentre per mostrare la rotazione della Terra su se stessa occorrerà attendere l’esperienza di Foucault (il pendolo) del 1851.

(42) Vedi il testo citato in nota (1), pag. 449.

(43) Vol. II, pagg. 722-723.

(44) Vedi Rupert Hall in nota (2), pagg. 36, 35.



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