LA FISICA NEL SEICENTO 5: IL GIOVANE GALILEO 1

PARTE I: La famiglia, la giovinezza, lettore a Pisa

Roberto Renzetti

(2009)

Su Galileo si sono dette e scritte montagne di cose. Il personaggio e la sua vicenda meritano ogni attenzione quanto meno per la gratitudine che ogni persona gli deve per l’eredità che ci ha lasciato. Riguardando i miei scritti su Galileo e rivedendo molta letteratura in circolazione mi sono accorto che per passare ai fatti rilevanti si trascura spesso la parte di vita di Galileo precedente al Sidereus Nuncius, al libro che annunciò le sue sensazionali scoperte astronomiche. La conversione di Galileo al copernicanesimo non avvenne comunque in quella circostanza ma, per quanto sappiamo, una dozzina di anni prima. Mi è sembrato quindi di fare cosa utile andare a scrivere, raccogliendo tutte le informazioni possibili, una biografia scientifica di Galileo che vada dalla sua nascita (1564) al Sidereus Nuncius (1610), che riguardi cioè gli anni meno noti della sua vita.

LA FAMIGLIA

[Salvo avviso differente, ricavo le notizie che seguono da Camerota]

         Galileo, nobil fiorentino come dice il Viviani, nacque il 15 febbraio 1564 a Pisa, nel Granducato di Toscana, da Vincenzo Galilei e Giulia Ammannati. La famiglia paterna di Galileo era di antica nobiltà passata da agio e benessere a condizioni molto modeste. Il nome originale di famiglia era Buonaiuti e risale al XIII secolo. Fu cambiato in Galilei agli inizi del XV secolo. In quell’epoca Firenze fu scossa da tumulti e violenze che culminarono nella cessione del potere a Gualtieri VI di Brienne (1304-1356), noto come Duca d’Atene (per un suo tentativo precedente di liberare Atene dal dominio turco), che presto fece fuori la Repubblica instaurando la signoria. Quest’ultimo fu poi cacciato nel luglio del 1343 e dopo tale cacciata il medico Galileo Buonaiuti, figlio di Tommaso, fu uno dei dodici buonuomini chiamati a dare al governo fiorentino un indirizzo democratico, a cui partecipassero i rappresentanti delle arti mediane e minori.  Una lapide sepolcrale sul pavimento di Santa Croce in Firenze, ci informa di tal Galileo (Magister Galileus de Galileis, olim Bonaiutis), medico e docente presso lo Studio Fiorentino (da cui il Magister), nato nel 1370 e morto tra il 1446 ed il 1451, che aveva acquisito meriti presso la Repubblica di Firenze(1).

        Il padre di Galileo, il maestro di musica Vincenzo Galilei, era nato nel 1520 a Santa Maria a Monte, vicino Firenze, dove un ramo della ex famiglia benestante si era trasferito acquistando una casa e delle terre dai proventi della vendita di una dimora fiorentina. Considerate le condizioni economiche estremamente modeste dei Galilei, sul finire del decennio 1550, Vincenzo si era trasferito da Firenze a Pisa, la seconda città della Toscana dopo Firenze con circa 10 mila abitanti, per intraprendere probabilmente il commercio di tessuti. Pisa, dopo lunghi periodi travagliati, stava riprendendosi da quando alla guida del Granducato era andato Cosimo I de’ Medici(2) che avviò una profonda ristrutturazione della città, realizzando una rete di canali che bonificarono tutte le pianure vicine alla città, collegando la città a Firenze ed al mare, potenziando il porto dotandolo di una flotta di galee, fortificando la città, potenziando l’edilizia civile religiosa e l’università (lo Studio Generale aperto nel 1347), attrezzandola per la difesa contro la pirateria turca. Nonostante tutto ciò, Pisa era una città i cui abitanti erano uomini poverissimi, come testimoniava Michel de Montaigne in visita nel 1581, che aggiungeva:

tranne l’Arno e questo suo attraversarla con bellissimo modo, queste chiese, e vestigi antichi, e lavori particolari, Pisa ha poco di nobile, e piacevole. Pare una solitudine.

        In Pisa,  il 5 luglio 1562, Vincenzo si sposò con Giulia Ammannati di famiglia proveniente da Pescia. Il matrimonio fu celebrato davanti al notaio Benedetto Bellavita (che prendeva atto dei beni della dote della sposa)(3) anche perché solo nel 1563 il Concilio di Trento riformò il matrimonio con obbligo di celebrazione in chiesa. Vincenzo, all’epoca, si stava facendo conoscere come valente liutaio e cultore della musica tanto da interessare alle sue sorti il nobile fiorentino Giovanni Bardi che lo prese sotto la sua protezione facendogli studiare musica. Vincenzo diventò così un valente compositore che contribuì al rinnovamento musicale che si sviluppava in quel tempo originando la musica barocca e pubblicando, oltre a vari saggi, anche un libro di teoria musicale molto apprezzato, Dialogo della musica antica et della moderna (1581). E’ utile accennare brevemente a questo lavoro perché in esso si possono rintracciare alcuni spunti che saranno poi di Galileo. Leggo da Camerota:

Sulla scorta di un simile apprendistato, Vincenzo compose diversi lavori di estetica musicale e di acustica, segnalandosi come il più lucido teorico del cenacolo patrocinato dal Bardi e noto come Camerata fiorentina o Camerata de’ Bardi.
Nel già menzionato Dialogo della musica antica et della moderna, seguendo le opinioni dello studioso romano Girolamo Mei, Vincenzo esaltava la superiorità della musica greca su quella contemporanea, rivendicando il valore espressivo dello stile monodico, di contro alla esasperata elaborazione contrappuntistica della polifonia del suo tempo. Accanto al discorso puramente estetico, l’opera presentava altresì una serie di spunti in cui il musicista toscano faceva emergere la propria risoluta fiducia nella superiorità cognitiva dell’esperienza sensibile:

desidero che in quelle cose dove arriva il senso – scriveva – si lasci (come dice Aristotele nell’ottavo della Fisica) sempre da parte non solo l’autorità, ma la colorata ragione che ci fusse in contrario con qual si voglia apparenza di verità. Perché mi pare che faccino cosa ridicola (per non dire, insieme col filosofo, da stolti) quelli che, per prova di qual si sia conclusione loro, vogliono che si creda senz’altro alla semplice autorità, senza addurre di esse rationi che valide siano.

Non è difficile scorgere in questo passaggio il medesimo ripudio del principio d’autorità che, diversi decenni dopo, il figlio del musicista Vincenzo, lo scienziato Galileo, utilizzerà come risorsa polemica (resa ancora più efficace dall’elegante incisività di una prosa sapientemente corrosiva) proprio contro i seguaci di Aristotele. Se si considera che la modalità espositiva propria dei capolavori galileiani della maturità – la forma dialogica – fu già adottata da Vincenzo, e che quest’ultimo descrisse nelle sue opere interessanti esperimenti atti a verificare i metodi per produrre le consonanze, le affinità tra le elaborazioni del padre e le procedure euristiche del figlio appaiono di un certo interesse.
In effetti, diversi studiosi hanno sottolineato la continuità epistemologica che legherebbe le ricerche di Galileo alle indagini acustiche e di teoria musicale di Vincenzo.  L’accento è caduto, soprattutto, sull’enfasi empirica e sperimentale che pervade i lavori di Vincenzo Galilei, un approccio singolarmente in sintonia con quel ricorso alle “sensate esperienze” tante volte propugnato da Galileo. […]
Un esempio delle ricerche intraprese da Vincenzo ci è offerto dal seguente brano del suo Discorso particolare intorno all’unisono:

Hoggi vengo appresso, che mettendo nel liuto una corda di minugia et una di acciaio, le quali si tirino dapoi Unisone a modo loro quando per esempio io le tasterò a sette tasti, dico che toccandole di poi a vuoto, o a 12 tasti non sendo parimente unisone, ne seguirà necessariamente ch’elle non fussero unisone neanco quando io le udii à sette tasti.

        Chi ha letto i Discorsi e dimostrazioni intorno a due nuove scienze di Galileo riconoscerà quanto viene lì detto a proposito dell’accordare tra loro due cembali.

PRIMISSIMI ANNI

        Vincenzo e Giulia ebbero 7 figli che aggravarono di molto l’economia della famiglia: Galileo (nato nel 1564), Benedetto ed Anna (che non sappiamo quando siano nati e forse morti giovanissimi), Virginia (1573), Michelangelo (1575), Livia (1578) e (forse) Lena.

        Galileo fu battezzato il 19 febbraio 1564 e trascorse i primi anni della sua vita in Pisa, anche quando Vincenzo si trasferì in Firenze nel 1574, probabilmente per mettere insieme alla sua attività di musicista anche una mercantile, affidando la famiglia alle cure di suo cognato ed amico, Muzio Tedaldi, che aveva sposato la sorella della moglie e che aveva anche fatto da padrino a Michelangelo, fratello di Galileo (e quindi anche compare di Vincenzo). Abbiamo notizie di Galileo da una corrispondenza tra Muzio, che faceva il doganiere a Pisa, e lo stesso Vincenzo (si conoscono solo le lettere di Muzio a Vincenzo). Da queste lettere sappiamo che Vincenzo doveva spostarsi spesso per il suo lavoro di musicista e che era la famiglia di Muzio ad occuparsi della famiglia di Vincenzo anticipando tutto il denaro che occorreva e che veniva regolarmente, ed in modo estremamente minuzioso, registrato(4). In tali conti vi è anche la notizia del pagamento di £ 5 al mese ad un maestro privato per l’educazione di Galileo(5)(forse tal Jacopo Borghini da Dicomano che Niccolò Gherardini, biografo di Galileo che raccolse molte confidenze dalla bocca di Galileo medesimo, così qualifica «uomo assai dozzinale che insegnava in una casa di propria abitazione in Via de’ Bardi»). Muzio così scriveva a Vincenzo il 13 gennaio 1574:

Ho ricevuto lo schizatoio et il pallone per Galileo, et i libri per il Corvini, che se li manderanno con la prima comodità; al quale Galileo pagai lire cinque per il mese, che li portò al maestro. Mandai vedendo tardare il lino che aspettamo di Livorno, lib. 100 di altro lino alexandrino, bello e buono, alla vostradonna, la quale se n’è chiamata contenta, acciò che non si stessi; et non gli mancherò di quanto potrò sempre: et se non havessi M.a Lucrezia malata [la madre di Giulia, sposa di Vincenzo, ndr], sarei stato di parere che in questi travagli la se ne fusse stata un mese in casa mia; ma non si ricerca: oltre che, la bambina [Virginia, sorella di Galileo, ndr] è tanto fantastica, che a chi non è uso pare insopportabile. Però gli ho detto che dica se la vuol nulla, chè io non mancherò di far quanto potrò perché, sendo occupato sempre, non posso far di quei servizi che bisognerebbe; ma non mancherò di suplire con la borsa.
Ho saputo che havete pagato al Ciacchi lire L, che havete fatto errore, che non bisognava, sapendommassime che vi sono debitore indigrosso: pure io ve n’ho dato credito, al conto a parte. Tenete anco vo conto, chè è bene…

ed il 9 febbraio:

Credo che per questa gita non harete lettere da Galileo, perché vi scrive mercoledì, atteso che  domani è S. Guglielmo, festa della nostra Compagnia: ma vi fo fede che son tutti sani et di buona voglia, et la bambina e tutti, eccetto vostra donna, et tutti molto vi si raccomandano. Galileo ha tramutato la maschera in un paro di pianelle, che così si è contento.

ed il 4 gennaio 1575, quando Galileo ha lasciato la casa dello zio a Pisa e si è ricongiunto a Firenze con la sua famiglia:

Ricevei la vostra con una per il Rettore, la qual detti subito; et mi rallegro del sentire che la comare e voi e ‘l putto stiate tutti bene, insieme con li altri, et harò caro intender che Galileo vadi acquistando nelle virtù et nelle lettere, et che la Verginia vadi cresciendo, perchè tutti li amo come me stesso, sendo voi come un altro me medesimo….
Quanto a M.a Lucrezia, Dio gli perdoni, che è perfida donna; ma purga i suoi difetti con lo star di continuo in travagli e dolori fuori di misura: et io porto questa croce per vedere il fine di questa nostra
pratica; chè se mangiai mai pesce con seco, digerisco le lische. Dio vi doni ogni bene.

        Il pagamento di un maestro privato era un qualcosa che si aggiungeva alla scuola pubblica pisana che era di eccellente qualità. Come ricorda Roberto Vergara Caffarelli:

Si sa che il Comune di Pisa ebbe sempre una particolare attenzione per l’insegnamento, scegliendo maestri abili, quasi sempre provenienti da altre città. Il maestro veniva eletto per tre anni dai Priori, in seduta di consiglio nella sala priorale, con tre scrutini alla presenza delle altre magistrature cittadine e dei dottori.
Vi erano tre maestri: il magister grammaticae, il magister scribendi ed il magister abbaci. Dall’ottobre del 1569 all’aprile del 1571 fu maestro a Pisa Antonio Leonardi da Castiglione, poi al suo posto venne Giacomo Marchesi da Piacenza (da maggio 1571 a maggio 1574). Dalle istruzioni date il 18 giugno 1569 al maestro Antonio Leonardi veniamo a sapere come si svolgevano le attività scolastiche:

«Sia obligato fuor de giorni festivi tener li scolari tre hore la mattina et tre hore doppo desinare almeno ed il lunedì , martedì , mercoledì et giovedì legger quattro lectioni per ogni giorno, dua la mattina et dua la sera et il venerdì leggere una lectione et il sabato far leggere una lectione ad uno scolaro con farli argumentare alli altri et insomma fare che ogni sabbato si legga una lectione per uno scolare del primo circolo tanto che tocchi una volta per ciascuno. Medesimamente sia obbligato fare tre circoli di scolari almeno uno di epistolanti, laltro di latinanti per tutte le regole, terzo di principianti cioè delle concordanze et di quelli della prima regola. Et a epistolanti sia obligato i soprascripti giorni quattro dare ogni giorno una epistola, a latinanti dua latini et a principianti attenda il ripetitore tenendoci sopra lochio il maestro advertendo che il venerdì faccia a tutti una examine generale et il sabbato oltre la lectione da leggersi per lo scolare faccia ripetere i versi imparati a mente per lo adreto».

Con l’attività del sabato il giovane, che era costretto ad improvvisarsi maestro, si abituava alla discussione, a contraddire, ad insistere su una opinione diversa, a mettere di fronte al giudizio altrui i propri concetti. Interessante la contemporaneità delle lezioni, che i tre circoli, cioè le tre classi, attendevano nella stessa sala, passando la loro giornata scolastica insieme. Degno di nota il fatto che Antonio Leonardi fu eletto con l’incarico di insegnare anche il greco(6).

        Apprendiamo poi, ancora da una lettera di Muzio a Vincenzo dell’aprile 1578, che quest’ultimo è amareggiato di non essere riuscito ad iscrivere Galileo presso il Collegio pisano di Sapienza (istituito da Cosimo I il 9 febbraio 1543), una sede dove erano ospitati e spesati 40 scolari toscani meritevoli dello Studio Generale fiorentino (che avrebbero dovuto restituire tutto quanto speso per loro se non si laureavano in un massimo di sei anni)(7). Ciò per ragioni economiche poiché una delle sue nipoti, Bartolomea, ancora non si era maritata con conseguenze economiche legate alla dote da fornirle. Scriveva Muzio a Vincenzo il 29 aprile 1578:

Per la vostra ho inteso quanto havete concluso con il vostro figliuolo; et come, volendo cercar di introdurlo qua in Sapienza, vi ritarda il non esser la Bartolomea maritata, anzi vi guasta ogni buon pensiero; et che desiderate che la si mariti, e quanto prima.

e proseguiva dicendo che presto si risolveranno tutti i problemi:

per il che a quel tempo potrete facilmente mandare il vostro Galileo a studio: et se non harete la Sapienza, harete la casa mia al vostro piacere, senza spesa nessuna, et così vi offero et prometto.

Dopo qualche mese, Muzio scriveva a Vincenzo il 16 luglio 1578 e, dopo aver discusso ancora di Bartolomea che non si riesce a maritare, diceva di essere malandato e vecchio aggiungendo:

dirò solo che mi è grato di saper che haviate rihavuto Galileo, et che siate di animo di mandarlo qua a studio; ma questo anno sarà doloroso fare, mediante che siamo di ricolta et ci vale il grano lire 15 il sacco: pure Dio sa tutto, et a tutto provvede.

Anche Muzio è in difficoltà e la corrispondenza a disposizione termina qui. Cosa accadde poi, lo sappiamo, con qualche dubbio, da altra fonte.

        Per gli ovvi motivi adombrati, Galileo avrebbe proseguito gli studi di retorica, grammatica e logica presso il monastero benedettino di Vallombrosa dove, come lasciò scritto nell’Archivio del monastero di Vallombrosa l’abate del Monastero di Santa Prassede Diego Franchi, Galileo arrivò ad essere novizio(8). Così scriveva Franchi, nell’illustrare gli uomini illustri passati per Vallombrosa:

«Non si deve tralasciare il celebrato nome di Galileo Galilei matematico insigne. Questi fu novizio Vallombrosano, e fece i suoi primi esercizi dell’ammirabile ingegno nella scuola di Vallombrosa. Il padre di lui, sotto pretesto di condurlo a Firenze per curarlo di una grave oftalmia, con trattenerlo assai, il traviò dalla religione in lontane parti …».

Questo evento si ricava anche dai documenti di una causa civile per una eredità, nella quale Galileo testimoniava a favore del suo amico Giovambattista Ricasoli (che ritroveremo tra poco per aver sottoscritto un documento a favore di Galileo) in cui, le parti avverse, si rivolgevano a Galileo con i seguenti termini(9):

« Galileo … Fu frate monaco di Valombrosa, figliuolo di un maestro di sonare di liuto». 

«Galileo, sfratato, figliuolo d’un maestro di sonare»

 «Sfratato: fu monacho in S.Trinita»

«Galileo Galilei, figliuolo d’un sonatore di liuto, povero et sfratato»

        E’ d’interesse confrontare la conclusione di Franchi quando parla del padre che viene a riprendersi Galileo con l’ultima lettera citata di Muzio in cui si parla del figlio riavuto con evidente riferimento all’aver sottratto il giovane Galileo da una carriera ecclesiastica.

GALILEO ALLA FACOLTA’ DI ARTI DELLO STUDIO DI PISA

        Galileo sembra avesse mostrato interesse per le matematiche ma suo padre neanche a questo era interessato perché con la matematica non c’era professione che desse il denaro per vivere. Piuttosto Vincenzo aveva pensato per suo figlio ad una carriera di medico come quel loro illustre antenato. Con questo obiettivo richiamò il figlio a Pisa dove, il 5 settembre del 1580, lo immatricolò alla Facoltà di Arti (che comprendeva gli studi di medicina) dello Studio pisano, per farlo diventare medico e nutrire una qualche speranza di risollevare le sorti della famiglia Galilei.

        Sul periodo universitario di Galileo a Pisa, abbiamo quanto vi è negli archivi su chi insegnava e sulle norme statutarie.

Così descrive Camerota:

Nel torno di tempo tra il 1580 e il 1585, periodo durante il quale il giovane Galileo frequentò l’università di Pisa, vi insegnavano la medicina il luganese Andrea Camuzio, il pisano Giuseppe Capannoli, e l’aretino Andrea Cesalpino, mentre le lezioni di anatomia erano impartite dal ligure Antonio Venturini. Nell’ambito delle discipline filosofiche, che costituivano parte essenziale del curriculum studiorum della Facoltà di Arti, Galileo ebbe come professori i fiorentini Francesco Buonamici e Francesco de’ Vieri (detto il Verino secondo) e l’aretino Girolamo Borro. Docente di matematica era invece, in quel tempo, il monaco camaldolese Filippo Fantoni [che, per quanto vedremo tra un poco, doveva essere una vera nullità. Sul Borro si può aggiungere che era un fisico aristotelico mentre sul Verino si può dire che era un platonizzante concordista, uno cioè che faceva riferimento a Platone per la metafisica e ad Aristotele per la fisica. Vi era anche un tal Giulio de’ Libri insegnante di filosofia straordinaria (in gran parte logica) che era un peripatetico ortodosso e che sarà un irriducibile antigalileiano in  seguito. ndr].
Dalla lettura delle norme statutarie possiamo ricostruire quali fossero i contenuti degli insegnamenti impartiti dai vari professori di cui, presumibilmente, Galileo frequentò le lezioni. Gli Statuti specificano, infatti, in modo estremamente accurato quali opere i docenti dovessero commentare. In ambito medico, l’insegnamento si fondava sulla lettura dei testi di Galeno ed Ippocrate, e sul Canone di Avicenna. I logici, invece, erano obbligati a svolgere l’Introduzione alle categorie di Porfirio ed i Secondi analitici aristotelici, mentre l’esposizione degli argomenti più prettamente filosofici era articolata in due cicli triennali paralleli, tenuti rispettivamente dai professori “straordinari” e da quelli “ordinari”. Questi ultimi insegnavano, in successione, al primo anno la Physica, al secondo il De caelo e al terzo il De anima [in accordo con i gradi intrinseci di nobiltà aristotelica, ndr]. Gli “straordinari” avevano invece l’incarico di fare lezione sul De generatione et corruptione, passando quindi nell’anno seguente ai Meteorologica, e concludendo, al terzo anno, con l’illustrazione dei Parva naturalia […]
La trattazione delle tematiche filosofiche e naturalistiche aveva nello studio pisano, una forte coloritura tradizionalista, imperniata su un aristotelismo che – pur marcato da differenti, variegate ibridazioni teoriche – manteneva, negli orientamenti fondamentali, una stretta aderenza ai principi enucleati dal Filosofo. Non è un caso che, per quanto non siano mancati personaggi di un certo spessore (il Cesalpino e, per molti aspetti, anche il Buonamici), diversi tra i professori pisani siano ricordati soprattutto per la loro incrollabile fede peripatetica. Cosi, Michel Montaigne poteva qualificare Girolamo Borro, che aveva incontrato a Pisa nel 1581, come «un uomo dabbene, ma tanto aristotelico che il più universale dei suoi dogmi è questo: che la pietra di paragone e la regola di ogni salda concezione e di ogni verità è la conformità alla dottrina di Aristotele», mentre lo stesso Francesco Buonamici veniva onorato con l’appellativo di «acerrimus Peripateticae doctrinae defensor».

Vincenzo Viviani ci fornisce invece altre informazioni di grande interesse:

Trovandosi dunque il Galileo in età di sedici anni in circa con tali virtuosi ornamenti [sapeva di musica e di letteratura, sapeva disegnare e dipingere, ndr] e con gli studii d’umanità, lingua greca e dialettica, deliberò ‘l padre suo di mandarlo a studio a Pisa, quantunque con incomodo della sua casa, ma con ferma speranza ch’un giorno l’averebbe sollevata con la professione della medicina, alla quale egl’intendeva ch’e’ s’applicasse, come più atta e spedita a potergli somministrar le comodità necessarie; e raccomandatolo ad un parente mercante ch’egli aveva in quella città, quivi inviollo, dove cominciò gli studii di medicina et insieme della vulgata filosofia peripatetiica. […]
Continuò di cosi per tre o quattr’anni, ne’ soliti mesi di studio in Pisa, la medicina e filosofia, secondo l’usato stile de’ lettori; ma però in tanto da sé stesso diligentemente vedeva l’opere di Aristotele, di Platone e delli altri filosofi antichi, studiando di ben possedere i lor dogmi et opinioni per esaminarle e satisfare principalmente al proprio intelletto.

        Il racconto prosegue con una importante scoperta di Galileo ed una richiesta fondamentale che egli faceva al padre in quegli anni.

        La scoperta più importante fatta da studente di medicina fu quella dell’isocronismo del pendolo che ha dietro una delle leggende che inseguono scoperte fondamentali. Vediamo la leggenda. Probabilmente nel 1583 ma certamente negli anni dei suoi studi di medicina a Pisa e certamente prima del 1585, Galileo, mentre era nel Duomo di Pisa, osservava una lampada sospesa che oscillava per delle correnti d’aria. Una delle prime cose cha aveva appreso negli studi di medicina era la misura del tempo attraverso i battiti del polso. Si esercitò in tal modo nel misurare i tempi delle oscillazioni della lampada e scoprì che tali oscillazioni erano tutte di uguale durata anche se diminuivano continuamente di ampiezza. Galileo aveva scoperto uno strumento formidabile per la misura del tempo che poi applicherà con grandi risultati alle osservazioni astronomiche. La leggenda è legata al fatto che si individuò in una data lampada di quel Duomo la lampada di Galileo. L’episodio di Galileo si situa intorno al 1583 mentre quella lampada fu sistemata in Duomo, accanto al Pulpito, da Giovanni Pisano nel 1587. A questo punto non è certo un problema di quale fosse la lampada e quindi si può anche tralasciare la leggenda e dire, perché questo è certo, che, avendo visto Galileo un oggetto oscillare ed avendo misurato con i battiti del polso i tempi delle oscillazioni, scoprì l’isocronismo del pendolo. Con ciò mi piacerebbe sparissero le leggende, che nascono solo per venir contraddette, dalla storia. Sono stufo di mele che cadono sulla testa e di Galileo che lascia cadere oggetti dalla torre di Pisa.

        La richiesta al padre di Galileo riguarda il senso della matematica in tutte le cose che lo circondavano. Leggiamo da Viviani, sensibile a queste cose in quanto prevalentemente matematico molto apprezzato e stimato:

Tra tanto [che aveva studiato e fatto, ndr] non aveva mai rivolto l’occhio alle matematiche, come quelle che, per esser quasi affatto smarrite, principalmente in Italia (benché dall’opera e diligenza del Comandino(10), e del Maurolico(11) etc., in gran parte restaurate), per ancora non avendo pigliato vigore, erano più tosto universalmente in disprezzo; e non sapendo comprendere quel che mai in filosofia si potesse dedurre da figure di triangoli e cerchi, si tratteneva senza stimolo d’applicarvisi. Ma il gran talento e diletto insieme ch’egli aveva, come dissi, nella pittura, prospettiva e musica, et il sentire affermare frequentemente dal padre che tali pratiche avevan l’origin loro dalla geometria, gli mossero desiderio di gustarla, e più volte pregò il padre che volesse introdurvelo; ma questi, per non distorlo dal principale studio di medicina, differiva di compiacerlo, dicendogli che quando avesse terminato i suoi studii in Pisa, poteva applicarvisi a suo talento. Non per ciò si quietava il Galileo; ma vivendo allora un tal Mess. Ostilio Ricci di Fermo [probabilmente un allievo di Tartaglia, ndr], matematico de’ SS. paggi di quell’Altezza di Toscana e dipoi lettore delle matematiche nello Studio di Firenze, il quale, come familiarissimo di suo padre, giornalmente frequentava la sua casa, a questo s’accostò, pregandolo instantemente a dichiarargli qualche proposizione d’Euclide, ma però senza saputa del padre. Parve al Ricci di dover saziar cosi virtuosa brama del giovane, ma volle ben conferirla al Sig. Vincenzio suo padre, esortandolo a permetter che il Galileo ricevesse questa satisfazione. Cedé il padre all’instanze dell’amico, ma ben gli proibì il palesar questo suo assenso al figliuolo, acciò con più timore continuasse lo studio di medicina. Cominciò dunque il Ricci ad introdurre il Galileo (che già aveva compiuti diciannove anni) nelle solite esplicazioni delle definizioni, assiomi e postulati del primo libro delli Elementi; ma questi sentendo preporsi principii tanto chiari et indubitati, e considerando le domande d’Euclide cosi oneste e concedibili, fece immediatamente concetto che se la fabbrica della geometria veniva alzata sopra tali fondamenti, non poteva esser che fortissima e stabilissima. Ma non si tosto gustò la maniera del dimostrare, e vedde aperta l’unica strada di pervenire alla cognizione del vero, che si penti di non essersi molto prima incamminato per quella. Proseguendo ‘l Ricci le sue lezzioni, s’accorse il padre che Galileo trascurava la medicina e che più si affezionava alla geometria; e temendo che egli col tempo non abbandonasse quella, che gli poteva arrecar maggior utile e comodità nell’angustie della sua fortuna, lo riprese più volte (fingendo non saperne la cagione), ma sempre in vano [nella biografia di Gherardini si racconta che Vincenzo si recò a Pisa per rimproverare Galileo, ndr], poiché tanto più quegli s’invaghiva della matematica, e dalla medicina totalmente si distraeva; ond’il padre operò che ‘l Ricci di quando in quando tralasciasse le sue lezzioni, e finalmente ch’allegando scuse d’impedimenti desistesse affatto dall’ opera. Ma accortosi di ciò il Galileo, già che il Ricci non gli aveva per ancora esplicato il primo libro delli Elementi, volle far prova se per se stesso poteva intenderlo sino alla fine, con desiderio di arrivare almeno alla 47, tanto famosa [si tratta del teorema di Pitagora, ndr]; e vedendo che gli sorti d’apprendere il tutto felicemente, fattosi d’animo, si propose di voler scorrer qualch’altro libro: e cosi, ma furtivamente dal padre, andava studiando, con tener gl’Ippocrati e Galeni appresso l’Euclide, per poter con essi prontamente occultarlo quando ‘l padre gli fosse sopraggiunto. Finalmente sentendosi traportar dal diletto et acquisto che parevagli d’aver conseguito in poco tempo da tale studio, nel ben discorrere argumentare e concludere, assai più che dalle logiche e filosofie di tutto il tempo passato, giunto al sesto libro d’Euclide, si risolse di far sentire al padre il profitto che per se stesso aveva fatto nella geometria, pregandolo insieme a non voler deviarlo donde sentivasi traportare dalla propria inclinazione. Udillo ‘l padre, e conoscendo dalla di lui perspicacità nell’intendere e maravigliosa abilità nell’inventare varii problemi ch’egli stesso gli proponeva, che ‘l giovane era nato per le matematiche, si risolse in fine di compiacerlo.

Gli eventi sono ben raccontati da Viviani e credo proprio che non vi siano obiezioni sull’attendibilità. Galileo sentiva affermare dallo stesso padre che pittura, musica e prospettiva discendevano dalla geometria. Il suo voler risalire alle origini fa chiedere al padre di conoscere la geometria. Il padre non vuole per evitare di distrarlo dalla medicina che, contrariamente alla matematica, gli potrebbe assicurare un futuro agiato. Casualmente un matematico, Ostilio Ricci (1540-1610), che doveva essere un bravo didatta (comunque a ben altro livello del camaldolese Filippo Fantoni che insegnava matematica allo Studio) e che teneva le sue lezioni in volgare, come in volgare era scritto il testo di Euclide su cui basava i suoi corsi, si trovò a frequentare dal 1583 la dimora di Galileo. Vi è da notare che la traduzione di Euclide al volgare, fatta da Niccolò Tartaglia (1499-1557), aveva fatto chiarezza su alcune difficoltà d’interpretazione del testo originale in traduzione latina. Vi era infatti una confusione, tra alcune conclusioni dell’aritmetica sviluppata nel Medioevo con la teoria delle proporzioni di Eudosso presente in Euclide, che Tartaglia chiarì. In ogni caso, viste le insistenze di Galileo, il padre acconsentì qualche lezione con Ricci ma, visto che l’interesse di Galileo cresceva, chiese al Ricci di diradare le visite. Peggio che mai perché Galileo volle capire se da solo sarebbe stato in grado di proseguire. Ci riuscì bene e la cosa lo entusiasmò ancora di più. Insomma il padre, alla fine, dovette cedere a tanta voglia ed interesse come tra poco vedremo.

        L’atteggiamento di Galileo nei riguardi dei vari insegnamenti ci viene ancora descritto da Viviani:

Ma il Galileo, che dalla natura fu eletto per di svelare al mondo parte di que’ segreti che già per tanti secoli restavano sepolti in una densissima oscurità delle menti umane, fatte schiave del parere e de gl’asserti d’un solo, non poté mai, secondo ‘l consueto degl’altri, darsele in preda cosi alla cieca, come che, essendo egli d’ingegno libero, non gli pareva di dover cosi facilmente assentire a’ soli detti et opinioni delli antichi o moderni scrittori, mentre potevasi col discorso e con sensate esperienze appagar se medesimo. E perciò nelle dispute di conclusioni naturali fu sempre contrario alli più acerrimi difensori d’ogni detto Aristotelico, acquistandosi nome tra quelli di spirito della contradizione, et in premio delle scoperte verità provocandosi l’odio loro; non potendo soffrire che da un giovanetto studente, e che per ancora, secondo un lor detto volgare, non avea fatto il corso delle scienze, quelle dottrine da lor imbevute, si può dir, con il latte gl’avesser ad esser con nuovi modi e con tanta evidenza rigettate e convinte […]

E’ il carattere di Galileo che conosciamo essere della sua età matura. Il riferimento non può essere un libro o una persona con qualunque autorità ma nelle cose naturali contano le sensate esperienze et dimostrazioni. In ogni caso Galileo dovette trarre profitto dalle lezioni, particolarmente di filosofia dello Studio pisano. Scrive in proposito Camerota:

Pur nell’ambito di un vigoroso dissenso, Galileo dovette, nondimeno, trarre un certo profitto dalle lezioni dei professori pisani, che gli fornirono, se non altro, quella sicura ed approfondita conoscenza delle tesi aristoteliche di cui lo scienziato darà prova nelle successive dispute con vari campioni del peripatetismo: «simili cognizioni – rileverà, scrivendo in terza persona, il nostro scienziato nel corso di una aspra polemica con l’aristotelico Ludovico Delle Colombe – sono le prime dottrine dell’infanzia della comune filosofia, la quale […] non è tanto profonda che nel corso di tre o quattro anni giovenili non venga da numerosa moltitudine di studenti trapassata; ed il Sig. Galileo non solamente fu tra questi nella sua fanciullezza, ma ha, come potete sapere, auto occasione di vederne ed ascoltarne i pensieri di molte famose persone per lo spazio di molt’anni ».
A testimoniare il coscienzioso studio galileiano della filosofia aristotelica rimangono due trattati manoscritti, modellati secondo i canoni argomentativi delle quaestiones scolastiche, e relativi ai contenuti del De caelo e del De generatione et corruptione di Aristotele. Anche in questo caso, come già in occasione delle note di logica, non bisogna credere ad una elaborazione originale ed autonoma di Galileo. Alcune caratteristiche materiali e formali delle scritture – ad esempio, la presenza nel testo di omeoteleuti e di altri errori tipici delle trascrizioni, come pure l’occorrere di forme argomentative cattedratiche – convergono nell’attestare che siamo di fronte ad una copia (intervallata da spunti parafrastici) di un lavoro erudito, redatto, presumibilmente, per l’insegnamento universitario. In tal senso, Antonio Favaro, che per primo pubblicò l’opera con il titolo di Juvenilia, ne scorgeva le radici nelle lezioni tenute a Pisa da Francesco Buonamici.

        In definitiva Galileo lasciò lo studio pisano nel 1585 senza laurearsi e fece ritorno a Firenze.

IL GALILEO ARCHIMEDEO

        Galileo a 21 anni si ritrovò a Firenze senza professione e quindi senza la possibilità di aiutare economicamente la famiglia che ne aveva bisogno. Egli aveva studiato, sia con impegno personale sia sotto la guida di Ostilio Ricci, la geometria euclidea, le opere di Archimede (almeno alcune) ed anche nozioni di ingegneria perché uno dei testi usati dal Ricci erano i Ludi Matematici dell’architetto, matematico, umanista Leon Battista Alberti (1404-1472) che prestò la sua opera in giro per l’intera Italia. Nell’arco di poco tempo era divenuta un’autorità in questioni di geometria applicata riuscendo a dare subito contributi originali.

        Aveva iniziato tra il 1583 ed il 1586 ad applicare concetti ricavati dall’idrostatica di Archimede per progettare una bilancia da utilizzare per la misura dei pesi specifici delle sostanze, analoga ad uno strumento utilizzato dai mercanti d’oro. Nacque così il suo primo lavoro, la Bilancetta, che non fu pubblicato se non postumo nel 1644. Il lavoro, molto breve, prendeva le mosse da quella storia, raccontata da Vitruvio, di Archimede che fu incaricato dal tiranno di Siracusa, Gerone II, di trovare un qualche sistema per evitare che chi gli fabbricava adorni d’oro, come la corona, non gli rubasse l’oro che egli forniva loro. Fu qui che Archimede introdusse il concetto di peso specifico (materiali differenti di uguale peso occupano volumi differenti) con l’altra leggenda del gran de siracusano che, uscito dalla vasca da bagno nudo, corse verso la reggia di Gerone gridando il famoso Eureka, la parola greca che vuol dire ho trovato. L’idea di Archimede nasceva da un’osservazione relativa all’immersione di corpi in acqua (per questo la leggenda lo situa in una vasca da bagno) e dalla quantità d’acqua che viene sollevata da una determinata immersione che è proporzionale al peso specifico della data sostanza (l’argento a parità di peso occupa un volume maggiore di quello dell’oro. Quindi immergendo la corona di Gerone in acqua e successivamente una quantità d’oro dello stesso peso della corona, confrontando la quantità d’acqua spostata si poteva stabilire se la corona era completamente d’oro o fatta di una lega di oro ed argento). Era la scoperta del Principio d’Archimede che recita: Un corpo immerso in acqua riceve una spinta dal basso verso l’alto  pari al peso del liquido spostato. Galileo aveva realizzato un analogo strumento, una bilancia idrostatica, che serviva a determinare i pesi specifici in un nuovo modo esattissimo. E Galileo annunciava subito, in apertura di questa operetta, che le cose che aveva trovato derivavano da Archimede e, successivamente, il suo amico Benedetto Castelli lo lodava perché altri avrebbero pubblicato la cosa senza riferimenti ad alcuno.

Sì come è assai noto a chi di leggere gli antichi scrittori cura si prende, avere Archimede trovato il furto dell’orefice nella corona d’oro di Ierone, così parmi esser stato sin ora ignoto il modo che sì grand’uomo usar dovesse in tale ritrovamento […]

E poiché il metodo tramandato da Vitruvio come di Archimede non corrisponde al suo genio, cioè

il credere che procedesse, come da alcuni è scritto, co ‘l mettere tal corona dentro a l’aqqua, avendovi prima posto altrettanto di oro purissimo e di argento separati, e che dalle differenze del far più o meno ricrescere o traboccare l’aqqua venisse in cognizione della mistione dell’oro con l’argento, di che tal corona era composta, par cosa, per così dirla, molto grossa e lontana dall’esquisitezza; e vie più parrà a quelli che le sottilissime invenzioni di sì divino uomo tra le memorie di lui aranno lette ed intese, dalle quali pur troppo chiaramente si comprende, quando tutti gli altri ingegni a quello di Archimede siano inferiori, e quanta poca speranza possa restare a qualsisia di mai poter ritrovare cose a quelle di esso simiglianti.

Poiché Archimede certamente aveva operato in modo degno del suo genio, Galileo faceva intendere di aver cercato di capire qual era il vero modo di operare di Archimede e

mi è venuto in mente un modo che esquisitissimamente risolve il nostro quesito: il qual modo crederò io esser l’istesso che usasse Archimede, atteso che, oltre all’esser esattissimo, depende ancora da dimostrazioni ritrovate dal medesimo Archimede.

In definitiva Galileo proponeva un metodo nuovo per misurare i pesi specifici ma non sosteneva che fosse suo ma, al contrario, affermava che doveva essere di Archimede.

Disegno di Galileo della bilancetta

        E Galileo iniziava a spiegare i principi di funzionamento della sua bilancia in forma didascalica. Mettendo nell’acqua una palla d’oro essa andrà a fondo ma se la palla fosse d’acqua essa non si muoverebbe perché l’aqqua nell’aqqua non si muove in giù o in su. Quindi l’andare a fondo della palla d’oro è dovuto a quel tanto di gravità che l’oro ha più dell’acqua. E ciò accade anche per gli altri metalli che, poiché sono diversi tra loro in gravità, vedranno diminuire la loro gravità nell’acqua secondo diverse proporzioni. Appendiamo ora un metallo ad un estremo di una bilancia ed all’altro estremo sistemiamoci un contrappeso che, in aria, equilibri perfettamente il peso del metallo. Immergendo successivamente il metallo in acqua, mentre lasciamo il contrappeso in aria, la bilancia penderà dalla parte del contrappeso che, per tornare ad essere in equilibrio con il metallo in acqua dovrà essere spostato manualmente lungo l’asta della bilancia fino al nuovo punto di equilibrio. Misurando di quanto si deve spostare il contrappeso per diversi metalli si risale alle differenze tra i loro pesi specifici. Elaborata la teoria, Galileo forniva il modo di costruire una tale bilancia con alcuni consigli tra cui quello di suddividere l’asta orizzontale in spazi uguali a distanze regolari (e questo indica il desiderio di scoprire eventuali linearità). Per fare ciò e per avere distanze molto vicine l’una dall’altra, Galileo consigliava di avvolgere un sottile filo d’ottone sull’asta in modo che ciascuna voluta fosse stata una sorta di tacca distanziata regolarmente dalla voluta successiva.

        Alla fine di questo lavoro Galileo forniva una Tavola delle proporzioni delle gravità in specie de i metalli e delle gioie pesate in aria ed in acqua(12), una Tavola cioè dei pesi specifici di una gran quantità di sostanze i cui valori sono molto vicini a quelli che oggi accettiamo.

        L’esordio di Galileo era quindi sui lavori di Archimede che resterà sempre una guida importante per i suoi lavori. Tanto che, negli stessi anni, Galileo scrisse degli opuscoli di matematica il cui contenuto aveva ancora Archimede come riferimento. Oltre alle Postille ai libri De Sphaera et Cylindro di Archimede(13) che sono delle annotazioni autografe di Galileo a margine del libro di Archimede, Galileo elaborò anche i Theoremata circa centrum gravitatis solidorum(14), scritti in latino tra il 1585 ed il 1586 ma pubblicati solo nel 1638 come Appendice dell’ultima e più importante opera di Galileo, i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze.

        Il problema della ricerca del centro di gravità o baricentro di un solido, era all’epoca molto sentito perché riguardava molte questioni fondamentali di statica connesse all’ingegneria. Inoltre questi lavori elaborati da Galileo, quando ancora studiava medicina ma già pensava alla matematica applicata, gli serviranno come prove della sua avanzata preparazione per accedere a qualche insegnamento. Egli infatti manderà alcuni suoi teoremi alla considerazione di varie personalità riconosciute nel mondo della matematica come eccellenti studiosi al fine di averne un giudizio ma simultaneamente per far conoscere i livelli di sua competenza. Viviani raccontava così questa fase della vita di Galileo:

Con questi et altri suoi ingegnosi trovati [La bilancetta, ndr], e con la sua libera maniera di filosofare e discorrere, cominciò ad acquistar fama d’elevatissimo spirito; e conferendo alcune delle sue speculazioni meccaniche e geometriche con il Sig.r Guidubaldo de’ Marchesi dal Monte(15), gran matematico di quei tempi, che a Pesaro dimorava, acquistò seco per lettere strettissima amicizia, et ad instanza di lui s’applicò alla contemplazione del centro di gravità de’ solidi, per supplire a quel che ne aveva già scritto il Comandino; e ne’ venti uno anni di sua età, con due anni soli di studio di geometria, inventò quello ch’in tal materia si vede scritto nell’Appendice impressa alla fine de’ suoi Dialogi delle due Nuove Scienze della meccanica e del moto locale, con gran satisfazione e maraviglia del medesimo Sig.r Guidubaldo.

        Nella Corrispondenza di Galileo, troviamo un giudizio del 1587 in risposta ad una proposizione che egli aveva elaborato ed inviato  non si sa a chi dell’Università di Bologna. All’apparenza è cortese ma di quella cortesia che liquida in poche parole l’interlocutore(16). Tornerò tra qualche riga alle corrispondenze avute da Galileo ed al contenuto dei Theoremata, ma prima devo accennare ad un viaggio che Galileo fece a Roma nel 1587. Voleva andare di persona a farsi conoscere per ottenere un qualche posto d’insegnamento di matematica. Egli si manteneva con lezioni private che dava a Firenze ed a Siena ed aspirava ad un posto di lettore di matematica nell’Università di Bologna che, lo ricordo, era all’epoca sotto il dominio della Chiesa. L’istanza a nome di Galileo all’Università di Bologna è la seguente(17):

ISTANZA A NOME DI GALILEO
PER LA LETTURA DI MATEMATICA NELLO STUDIO DI BOLOGNA.

Mathematico Fiorentino raccomandato dal S.r Artani.

M. Galileo Galilei, nobile Fiorentino, giovane d’anni 26 incirca, è istruttissimo in tutte le scienze matematiche, éd è allievo di M. Ostilio Ricci, huomo segnalatissimo e provvisionato dal Gran Duca Francesco di felice memoria, del qual ci sono anca fedi in commendazione del valor di questo giovane. Fu condotto alla lettura pubblica di Matematica in Siena; s’è esercitato assai privatamente, ed ha letto a molti gentiluomini e in Firenze e in Siena. È di grandissimo giudicio in questo e in molte altre cose nelle quali ha posto studio, come in particolare nell’ Umanità e nella Filosofia e in altre belle qualità. Al presente domanda e desidera la lettura di Matematica in questa città, offerendosi prontamente concorrere nel merito con qual si voglia altro di questa professione, in qualunque modo bisognerà.

Fuori: Per M. Galileo Galilei fiorentino, raccomandato al S.r Gio. dall’Armi.

        Il tentativo non andò a buon fine, nonostante la raccomandazione del cardinale Enrico Caetani che scrisse una lettera, forse su sollecitazione di Clavio, al Senato di Bologna, perché in quel posto gli fu preferito Gian Antonio Magini. A Roma però Galileo conobbe un dotto gesuita, Cristoforo Clavio(18), che insegnava matematica al Collegio Romano e del quale divenne amico e corrispondente. Ed a quest’ultimo, come a Guidobaldo del Monte, che nel 1588 era stato nominato ispettore delle fortificazioni del Granducato di Toscana, egli inviò suoi lavori iniziando una fruttifera corrispondenza che sfociò, particolarmente con Guidobaldo, in amicizia e stima. Una prima lettera di Galileo a Clavio è del gennaio 1588(19) ed in essa Galileo faceva riferimento alla sua visita romana appena avvenuta ed inviava suoi teoremi e chiedeva pareri. Clavio rispondeva subito(20) mostrando interesse per le elaborazioni di Galileo. Dello stesso giorno della lettera di Clavio è quella di Guidobaldo del Monte, ancora a Galileo(21) risposta ad una lettera di Galileo che non abbiamo. In questa lettera risulta che Guidobaldo e Clavio erano in corrispondenza tra loro e si scambiavano giudizi positivi su Galileo. Inoltre vi erano delle parole particolarmente cortesi e di apprezzamento verso Galileo che vale la pena riportare:

GUIDOBALDO DEL MONTE a GALILEO in Firenze.

Pesaro, 16 gennaio 1588.

Molto Mag.co S.r mio Hon.do

Si scusa V. S. nella sua, che troppo liberamente e con troppo ardire viene con la sua lettera, a me certo gratissima, a ritrovarmi, com’ ella sia per fastidirmi; ma non si avvede che con troppo ardire et troppo mi lauda, fuori di ogni mio merito. Ma in questo conosco che ha voluto notificarmi l’animo suo, certamente verso di me troppo cortese; dove io l’ho da ringratiar di due cose: 1’una, dell’ havermi troppo honorato et esaltato; 1’altra, del favore che mi ha fatto a mandarmi il suo teorema, che veramente gliene resto obligatissimo, et a me è piaciuto assai, massime che V. S. ha voluto imitar Archimede nelle due ultime propositioni De aequeponderantibus: il qual libro fra pochi giorni sarà mandato fuori da me comentato. Che se ben il libro d’Archimede non ha troppo bisogno di comento, non ho però potuto mancare di non farlo; e perché sarà fra pochi giorni finito di stampare, io ne mandarò uno a V. S., se però saprò dove ella sia per essere, sì che la prego ad avisarmene.
E perché nella sua mi dice di haver altre cose sopra i centri della gravezza, a me farà sempre favor grande a farmi partecipe delle sue cose, che, per questo saggio che mi ha mandato, non possono se non essere di esquisita dottrina; dalle quali so che non potrò se non imparar assai, havendo conosciuto in questa una esquisita et profonda scienza, et un modo di trattar molto bello et assai succinto e breve. […]

        Insomma Galileo era riuscito a fare breccia in due matematici particolarmente bravi ed influenti la qual cosa gli servirà molto per ottenere il sospirato posto di lettore presso una università. Questo scambio di lettere, sia con Clavio che con Guidobaldo, andrà avanti a lungo con stima crescente nei riguardi di Galileo che continuava ad inviare suoi teoremi relativi in gran parte al centro di gravità dei solidi. Ma Galileo, in contemporanea, continuava a scrivere cose che costruissero il suo curriculum e a cercare sostegni dovunque ne intravedesse la possibilità, non dimenticando di difendere la sua proprietà intellettuale. Ancora alla fine del 1587, infatti, egli si fece sottoscrivere da alcuni suoi amici nobili fiorentini e dal matematico Giuseppe Moleto, professore all’Università di Padova, un documento in tal senso per un certo teorema da lui elaborato, ancora sul centro di gravità di una figura solida(22):

«Fassi fede per me Giovanni Bardi de’ Conti di Vernio, come le presenti conclusioni e dimostrationi sono state ritrovate da M. Galileo Galilei; e in fede ò fatto la presente questo dì dodici di Decembre 1587, manu propria.

«Io Gio. Batta Strozzi affermo il medesimo; e in fede mi sono sottoscritto di mia mano.

«Io Luigi di Piero Alamanni affermo il medesimo; et in fede ho soscritto di mia propria mano questo dì 12 Decembre 1587.

«Io Gio. Batta da Ricasoli Baroni confermando il medesimo mi sottoscrivo di man propria il dì 12 detto 1587.

                          Adì 29 di Decembre del 1587.

«Io Gioseppe Moleto, Lettor publico delle Mathematiche nello Studio di Padova, dico haver letto i presenti Lemma et Theorema, i quali mi son parsi buoni, e stimo l’ autor d’essi esser buono et esercitato Geometra.

                         Il medesimo Gioseppe ha scritto di man propria.
 

        Nel 1588 Galileo si cimentò anche in attività letteraria con delle lezioni su Dante tenute presso l’Accademia fiorentina e ciò ancora al fine di farsi conoscere ed avere dei dotti che lo stimassero. Il tema che trattò, Circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante(23), gli permise di mostrare tutta la sua conoscenza del mondo di Aristotele ed anche di conoscere i lavori esistenti in proposito tanto da sostenerli contro chi li attaccava. In particolare la critica di Galileo si appuntava contro un commento alla Comedia di Dante (La “Comedia” di Dante Alighieri con la nuova esposizione di Alessandro Vellutello, 1544)dell’umanista di Lucca Alessandro Vellutello (1473- ?) ed in difesa di Antonio Tucci Manetti (1423-1497) e di Cristoforo Landino (1424-1498) che si era schierato con quest’ultimo. Manetti, che oltre ad essere un umanista era anche un valente matematico, aveva iniziato uno studio approfondito della cosmografia dantesca facendo numerosi calcoli sulle dimensioni fisiche dei Luoghi della Commedia, pubblicati a Firenze nel 1506 dal suo amico e collega Girolamo Benivieni (1453-1542), con il titolo Dialogo di Antonio Manetti circa al sito, forma et misure dello Inferno di Dante Allighieri. Il suo lavoro, durato molti anni, era finalizzato a dare una visione plausibile dell’Inferno di Dante ed i suoi calcoli rendevano conto di tutto ciò sia nella geografia orizzontale che in quella verticale di quel luogo. La trascrizione del lavoro fu fatta dai ricordi di Benivieni, e da alcune carte conservate dal fratello di Manetti. Il libro che ne venne fuori, sotto forma di dialogo tra Benivieni e Manetti, in qualche punto non era chiaro e sembra che su questo l’Accademia chiese a Galileo di dipanare le questioni che si erano poste. Nei fatti le cose non erano così semplici perché, nell’ambito delle due visioni principali che ho citato, vi erano state molte altre interpretazioni della struttura dell’Inferno, disegnate su incarico dal pittore Giovanni Stradano (1523-1605) che lavorava presso la corte dei Medici(24).

Uno dei molti disegni dell’Inferno di Stradano.

        Tornando a Manetti, i suoi calcoli e la sua visione dell’inferno furonoriprese  da vari altri studiosi, tra cui appunto l’umanista Landino che aveva scritto un Comento sopra la Comedia di Dante Alighieri riprendendo i lavori di Manetti. La trattazione galileiana dell’argomento era strettamente scientifica e basata su considerazioni geometriche che lasciavano da parte ogni valutazione letteraria. Anche qui sullo sfondo vi è la figura di Archimede con l’uso che Galileo fa delle sezioni coniche di Archimede (unitamente alla geometria sviluppata da Dürer con i suoi teoremi sulle proporzioni tra cerchi(25)) per determinare la struttura dell’Inferno che è anche arricchita da nozioni di statica architettonica per comprendere come l’Inferno risulti costruito. A proposito di queste lezioni sull’Inferno fatte da Galileo, Reston scrive:

Esordì facendo notare le difficoltà del problema che gli era stato posto, sottolineando come fosse già abbastanza difficile comprendere ciò che si poteva vedere sulla superficie terrestre: inutile dire quanto fosse ancora più arduo rendersi conto di quello che si trovava al di sotto. Proseguì quindi descrivendo l’aspetto dell’Inferno di Dante. Aveva la forma di un cono, diceva, che nell’insieme formava un settore pari a circa un dodicesimo della massa totale della terra. Il suo vertice era la dimora di Lucifero: qui l’angelo caduto si trovava conficcato nel ghiaccio fino a metà del suo petto gigantesco, mentre il suo ombelico costituiva l’effettivo centro della terra. Da Lucifero le linee settoriali si dipartivano fino a raggiungere Gerusalemme e un punto ignoto a est. L’inferno era simile a un anfiteatro ed era diviso in otto livelli. Di questi si soffermava in particolare sul quinto, con la sua maleodorante palude stigia e la dissoluta Città di Dite, dove gli eretici erano puniti direttamente alla presenza di Lucifero. La gran quantità di eretici sembrava la condanna peggiore per i dannati.
Arrivava poi al punto centrale della questione. «Consideriamo la statura di Lucifero» disse solennemente. «Esiste un rapporto tra la statura di Dante e quella del gigante Nimrod, che si trova in fondo all’Inferno, e infine tra Nimrod e il braccio di Lucifero. Pertanto, se conosciamo la statura di Dante e di Nimrod, possiamo dedurne quella di Lucifero».
Dante era di statura media, più basso di Galileo: a suo parere poteva avere un’altezza di circa «tre braccia». Di Nimrod, Dante aveva scritto:
La sua faccia mi parea lunga e grossa
Come la pina di San Pietro a Roma
.
Ecco il dato matematico. Galileo pensava di basarsi sui versi di Dante perché gli fornivano un elemento certo da cui far partire i suoi calcoli. La massiccia pigna che si innalza nel cortile della Città del Vaticano, dietro il Belvedere, costituiva un punto di riferimento. «Se il viso del gigante è grande quanto la pigna di San Pietro» diceva trionfante Galileo, «sarà lungo cinque braccia e mezza. Siccome gli uomini solitamente hanno un’altezza pari a otto teste, la statura del gigante sarà otto volte tanto. Pertanto, il gigante sarà alto quarantaquattro braccia».
A questo punto, non restava che ricavare la formula. «L’uomo Dante sta al gigante come tre sta a quarantaquattro. Ma il gigante sta al braccio di Lucifero come l’uomo sta al gigante. La proporzione matematica deve dunque essere questa: tre sta a quarantaquattro come quarantaquattro sta a X. Pertanto il braccio· di Lucifero è 654 metri, e poiché la lunghezza di un braccio è generalmente un terzo dell’intera statura, possiamo dire che la statura di Lucifero è pari a 1.935 braccia».
Fece una pausa. «Arrotondiamo pure a duemila» aggiunse. «La distanza tra l’ombelico e la metà del petto dovrebbe essere di cinquecento braccia, dal momento che è pari a un quarto dell’intero corpo».

Sullo stesso argomento Festa scrive:

La figura dell’Inferno si presenta come un imbuto, col vertice al centro e la base verso la superficie della Terra. «Immaginiamoci – scrive Galileo – una linea retta che venga dal centro della grandezza della Terra (il quale è ancora centro della gravità dell’universo) sino a Gerusalemme ed un arco che da Gerusalemme si distenda sopra la superficie dell’aggregato dell’acqua e della Terra per la duodecima parte della sua maggior circonferenza: terminerà dunque tal arco con una delle sue estremità in Gerusalemme; dall’ altra fino al centro del mondo sia tirata un’altra linea retta, ed avremo un settore di cerchio» (E.N. IX, pag. 33). Tenendo ferma l’estremità che congiunge il centro con Gerusalemme e facendo girare l’altra fino a raggiungere il punto di partenza, verrà tagliata una parte, simile ad un cono. È chiaro tuttavia che la base del solido generato non è una superficie piana ma sferica, e quindi il solido è un conoide, una figura geometrica alla quale Galileo si era già interessato. È questa, verosimilmente, la ragione che induce i responsabili dell’ Accademia a rivolgersi ad un giovane di 23 anni, che non dispone di nessun titolo accademico, per calcolare le dimensioni di questa figura geometrica molto particolare e la posizione e le dimensioni dei diversi siti. Il risultato doveva essere conforme alla descrizione di Dante. La conoscenza approfondita dei 33 canti dell’Inferno era assolutamente indispensabile. Non ci sembra eccessivo, quindi, il commento (1604) di Filippo Valori, che considerava l’argomento materia che ha dato che fare a’ dotti. Valori fa l’elogio di Galileo che ha salvato il nostro Fiorentino, e cioè il Manetti, contro il lucchese Vellutello (EN, IX.7).

        L’atteggiamento scientifico di Galileo nell’affrontare tematiche letterarie lo si ritrova anche nei suoi ulteriori studi sul Tasso (Considerazioni al Tasso(26) del 1589) e sull’Ariosto (Postille sull’Ariosto(27) del 1592). Si tratta non di opere organiche ma di varie annotazioni sia  a margine delle opere che commentava, sia, per argomentazioni più estese, su fogli inseriti tra le pagine oggetto di commento.  A proposito di tali scritti commentavano Del Lungo e Favaro:

Le Considerazioni al Tasso e le Postille all’Ariosto non hanno né potevano avere, tali quali rimasero, alcun organismo d’arte; è lo schema d’una commedia da farsi […]. Le Considerazioni al Tasso, così inorganiche come le abbiamo, e anche qua e là così sofistiche e talvolta alquanto triviali, sono in troppi più luoghi una bellezza di dicitura, non meno che un esempio singolare di gusto finissimo e diritto criterio, Ma uscite da altra penna, apparirebbero una pagina notevole (e giustamente sono oggi così giudicate) nella storia della critica letteraria, senza che per quelle sole il nome di chi le apponeva sui margini della Gerusalemme potesse registrarsi fra i prosatori del grande secolo decimosesto.

e scrive Reston(28):

Il grande poema epico del suo tempo, l’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, era la sua opera preferita e quando fu nominato professore a Pisa era già in grado di recitarne vasti brani a memoria.
«Quando entro nell’Orlando Furioso, è come se davanti ai miei occhi si aprisse la stanza del tesoro, una galleria regale adorna di un centinaio di statue classiche scolpite dai maestri più celebri, con innumerevoli affreschi storici – i più belli eseguiti dai pittori di più chiara fama – e con un gran numero di vasi, cristalli, agate e altri gioielli, un salone delle feste colmo di tutto ciò che è raro, prezioso, mirabile e perfetto.»
La serenità e la gioia di vivere tipiche di Ariosto erano in contrasto con la malinconica poesia del più grande poeta italiano vivente, Torquato Tasso. Il confronto tra i due maestri della poesia italiana del tempo era di moda tra gli uomini di cultura, ma in quel confronto Galileo si inserì con la sua lingua affilata. Se la lettura di Ariosto lo introduceva nel salone delle feste, al contrario quando leggeva Tasso aveva l’impressione di entrare in un luogo completamente diverso, «lo studio di un uomo di poco conto, con un certo gusto per gli oggetti curiosi, che si è compiaciuto nel collezionare gingilli che abbiano in sé qualcosa di strano, sia perché antichi o perché rari, ma che in realtà non sono che paccottiglia: un gambero pietrificato, un camaleonte essiccato, una mosca o un ragno intrappolati in frammento d’ambra, alcune di quelle statuine d’argilla che si dice provengano dalle tombe dell’antico Egitto».
Leggere Tasso dopo aver letto Ariosto, sottolineava Galileo, era come mangiare un cocomero dopo aver gustato uno squisito melone.
La conferenza sull’opera di Dante, da lui tenuta presso l’Accademia di Firenze, aveva dimostrato come la scienza potesse far luce su questioni strettamente letterarie, e ora Galileo desiderava capovolgere la situazione: un approccio letterario avrebbe reso più convincente un’argomentazione scientifica e nello stesso tempo gli avrebbe permesso di rivolgersi a un pubblico più vasto.

        Finalmente il 16 luglio del 1588 Galileo scriveva a Guidobaldo del Monte informandolo che nello Studio di Pisa si è liberato un posto per l’insegnamento della matematica e chiedendogli un intervento a suo favore attraverso il fratello di Guidobaldo, il Monsignore (e futuro cardinale) Francesco Maria del Monte(29):

GALILEO a GUIDOBALDO DEL MONTE [in Pesaro]

Ill.mo mio Sig.re

[…]

Il negozio che altra volta scrissi a V. S. Ill.ma per conto di Pisa non sortirà, però che intendo che un certo monaco che prima vi leggeva, e l’ intermesse essendo fatto generale della sua religione, rinunzia hora il generalato per tornarvi a leggere, e che digià da S. A. ha riavuta la lettura(30). Ma perché qui in Firenze per i tempi a dietro ci è stata una lezione pubblica di matematica, instituita dal G. Cosimo, essendo hora vacante e, per quanto intendo, molto da’ nobili desiderata, ho supplicato per questa, sperando ottenerla col favore di Monsig.re Ill.mo suo fratello, al quale di questo negozio ho dato 30 il memoriale. E perché sino ad hora non ha veduto tempo opportuno di trattarne con S. A., essendoci stati forestieri, crederò che V. S. Ill.ma potrebbe haver tempo di scriverli un’altra volta in mio favore, del che la supplico per l’osservanza che ho alle molte sue virtù, e per la ferma speranza che ho nella cortesia sua. E qui con ogni reverenza baciandoli le mani, la prego a comandarmi et amarmi.

Di Firenze, il dì 16 di Luglio 1588.

Di V. S. Ill. ma
Umilis.mo Serv.re Galileo Galilei.

Il 22 luglio Galileo otteneva una  risposta che era di sicuro sostegno alla sua richiesta:

GUlDOBALDO DEL MONTE a GALILEO in Firenze.

Molto Mag.co Sig.r mio,

Non vorrei che facessi scusa di non fastidirmi per non scrivere, perché le sue lettere le vedo così volontieri quanto altre che mi vengano, conoscendo in esse ogni dì più il suo felice ingegno. […]
Io non ho mancato di scriver a Monsig.r del Monte per la sua lettura di Fiorenza, e se le mie parole haveranno credenza, lei l’ottenerà al sicuro; e mi rincresce ‘che non habbi ottenuta quella di Pisa, come sarebbe stato suo et mio desiderio. La mi comandi pur liberamente, che la servirò sempre con tutt’il core, sicome sono obligato ai meriti suoi. E le bascio le mani

Di Pesaro, alli 22 di Luglio del 1588.

Di V. S. Ser.re
Guidobaldo de’ Marchesi del Monte.

Ma il 16 settembre Guidobaldo scriveva di nuovo(31) dispiacendosi perché non era ancora accaduto nulla:

GUlDOBALDO DEL MONTE Il GALILEO in Firenze.

Pesaro, 16 settembre 1588.

Molto Mag.co Sig.r mio Hon.do

Mi dispiace assai che ‘l suo negotio vadi cosi alla lunga, che quando sarà terminato in bene, io ne sentirò contento grandissimo; e se in questo mezzo le parerà che io debba far altro, mi avisi, chè non mancarò di adoperarmi caldamente, per quanto si estenderanno le mie deboli forze. […]

        Leggo ora da Camerota gli avvenimenti di quegli anni in cui Galileo cercava sì un posto di lavoro ma era anche un giovane ventenne che amava divertirsi:

Alla fine del 1588, il giovane matematico si trovava, dunque, davanti al fallimento di tutte le proprie aspirazioni ad un incarico accademico. Non era certo una situazione facile da fronteggiare, soprattutto alla luce della precaria condizione economica e delle conseguenti, possiamo presumere, pressanti insistenze di Vincenzo Galilei a che il figlio trovasse finalmente una sistemazione. Galileo era tuttavia animato dallo spensierato ottimismo dei vent’anni e non dovette angustiarsi più che tanto per il provvisorio smacco subito.
Nella primavera del 1589 lo troviamo impegnato in un frenetico girovagare tra Toscana e Liguria, in allegra compagnia di alcuni amici, rampolli di altolocate famiglie fiorentine. Tra di essi era il giovane Giambattista Ricasoli, in quel periodo vittima di sempre più frequenti crisi di instabilità mentale. Proprio nella villa del Ricasoli, a Torricella in Chianti, Galileo fu protagonista di un episodio che avrebbe potuto costargli assai caro, poiché corse il rischio di essere ucciso per errore da una archibugiata esplosa da un altro ospite della villa, Pier Battista Ricasoli, allarmato dalla falsa notizia, propalata dall’obnubilato Giambattista, della presenza di banditi nei dintorni. Neanche un anno dopo questi avvenimenti, nel febbraio del 1590, Galileo sarà chiamato a testimoniare nel corso di un processo intentato dai parenti di Giambattista Ricasoli (deceduto nel gennaio di quell’anno), che ne avevano impugnato le volontà testamentarie, ritenendole espressione di uno stato di totale infermità di mente [si tratta del processo civile al quale ho già accennato, ndr].

        Finalmente, durante l’estate del 1589, si liberò di nuovo il lettorato di Pisa e Galileo, con le raccomandazioni di Guidobaldo del Monte e di suo fratello ora divenuto Cardinale, riuscì ad accedere all’agognatissimo posto accademico.

        Prima di raccontare di Galileo professore di matematica a Pisa, ritorno un attimo a quanto tralasciato qualche pagina fa, ai Theoremata.

Theoremata circa centrum gravitatis solidorum

[Integro il lavoro di Giusti con quello di Camerota]

        Intorno alla metà del Cinquecento erano ormai note tutte le opere di Archimede. Tra di esse vi era Sui centri di gravità dei piani (o Sull’equilibrio dei piani). Anch’essa mostrava la grande sapienza ed abilità di Archimede. Ma sorse un problema non da poco. Tra le opere di Archimede mancava un’opera sul centro di gravità dei solidi. Tale opera doveva esistere come ci informa lo stesso Archimede nell’altra sua opera i Galleggianti in cui parla [Libro II, Prop. 3] del centro di gravità del conoide parabolico, affermando che esso divide l’asse nel rapporto 2:1. L’opera sarà andata dispersa o, come oggi sappiamo essere accaduto a diverse altre opere, anche di Archimede, sovrascritta da salmi e preghiere. La trattazione di Archimede sui piani era molto importante ma certamente solo teorica in quanto i piani non hanno peso. Sarà Federico Commandino, nel suo Federici Commandini Urbinatis Liber de Centro gravitatis solidorum (pubblicata congiuntamente alla versione latina dei Galleggianti) del 1565, a riprendere gli studi di Archimede spiegando la situazione:

Archimede, principe dei matematici, nel suo libro dal titolo Il centro di gravità dei piani ha scritto copiosamente e acutissimamente dei piani. … Ma dei centri di gravità dei solidi niente si trova nelle sue opere. Non molti anni fa il papa Marcello II, mentre era ancora Cardinale, mi regalò per sua bontà la traduzione latina dei libri dello steso Archimede sulle cose che stanno nell’acqua. Avendo cominciato a prepararli per la pubblicazione, corredandoli di commenti al fine di promuovere gli studi, mi accorsi che non si poteva dubitare che avesse scritto anche su questo argomento, o almeno che avesse letto quanto avevano scritto altri matematici. Infatti in questi libri tra le altre cose aveva assunto come evidente e dimostrata altrove questa proposizione, che il centro di gravità del segmento di paraboloide divide l’asse in modo che la parte verso il vertice sia doppia della parte verso la base.

Commandino che aveva curato nel 1558 un’edizione dell’opera di Archimede tradotta in latino, Archimedis Opera nonnulla, a F. Commandino U. nuper in latinum conversa et commentariis illustrata, si era preoccupato di scrivere lui sul centro di gravità dei solidi seguendo pedissequamente, fin dove poteva, Archimede. Scrive Giusti:

Lo scopo di Commandino è evidente: restituire un’opera certamente scritta da Archimede e ora perduta. E ad Archimede, e in particolare al trattato superstite sull’equilibrio dei piani, ci si dovrà rivolgere per ispirazione e per metodo, distinguendosi da esso solo quando la sostituzione delle figure solide al posto delle piane renderà necessarie delle modifiche tecniche nelle dimostrazioni. Commandino non è un innovatore in matematica, meno che mai quando il termine di paragone è il principe dei matematici.

        Commandino, nel suo Liber de Centro gravitatis solidorum,per tutto ciò che non è scritto dà per scontati postulati e definizioni che Archimede aveva fornito in Sui centri di gravità dei piani.  Naturalmente vi sono nuovi postulati e definizioni e tra le nuove definizioni una riguarda il centro di gravità:

Il centro di gravità di una figura è quel punto interno, attorno al quale stanno parti di uguale momento. Se dunque per tale centro si conduce ad arbitrio un piano, questo seca sempre la figura in parti equiponderanti

Dopo una prima parte in cui riprendeva la trattazione archimedea del centro di gravità delle figure piane, con stesso approccio e stesso metodo nelle dimostrazioni, a partire dalla Proposizione V, Commandino iniziava a trattare le figure solide iniziando dal prisma, cilindro, piramide. … affrontando via via i teoremi seguenti che hanno tutti la medesima dimostrazione:

Il centro di gravità di un qualsiasi prisma e di qualsiasi cilindro o porzione di cilindro cade nel centro del suo asse.
L’asse di una qualsiasi piramide e di qualsiasi cono o porzione di cono è diviso dal centro di gravità in modo che la parte verso il vertice sia tripla di quella verso la base.

Finalmente Commandino arrivava a dimostrare l’unico teorema completamente nuova, quello relativo al centro di gravità del conoide parabolico (oggi chiamato paraboloide di rotazione):

L’asse di una qualsiasi porzione di paraboloide è diviso dal centro di gravità in modo che la parte verso il vertice sia doppia di quella verso la base.

E’ un problema molto complesso che per la prima volta viene affrontato per approssimazioni successive di figure a gradini inscritte e circoscritte. Si rendono i gradini sempre più piccoli finché non si arriva alla massima approssimazione quando il centro di gravità della figura inscritta va quasi a coincidere con quello della figura circoscritta. Egli proseguiva così anche se si rendeva conto che mai sarebbe potuto arrivare al centro di gravità del conoide:

… e benché [la figura inscritta] si avvicini continuamente al centro del paraboloide, tuttavia mai vi giungerà. Seguirebbe altrimenti che la figura inscritta sarebbe uguale non solo al paraboloide, ma anche alla figura circoscritta, il che è assurdo.

Una delle figure che compaiono nel Liber di Commandino e relative al calcolo del centro di gravità del conoide parabolico.

        Sui centri di gravità dei solidi tutti i grandi matematici dell’epoca si cimentarono e, oltre a Commandino, lo fece tra gli altri anche Francesco Maurolico nel suo Archimedis de momentis aequalibus ex traditione (1518). E, come osserva correttamente Giusti, l’interesse non sta nel risultato in sé, ma piuttosto nel fatto che, in mancanza di un linguaggio algebrico che ne permettesse una formulazione trasparente, gli enunciati erano molto complicati, spesso oscuri, e talvolta, come nel caso dell’ultimo teorema del trattato di Commandino, di dubbia generalità. Così quello che conta in questi casi non è trovare il centro di gravità, ma esprimere il risultato nel modo più semplice e immediato.

        In questo senso è utile vedere la differenza che esiste tra Commandino e Galileo confrontando il medesimo teorema nelle formulazioni prima di Commandino e quindi di Galileo:

CommandinoIl centro di gravità di un qualunque frusto tagliato da una porzione di conoide rettangolo sta sull’asse, in modo che tolti dapprima dal quadrato del diametro della base maggiore la sua terza parte e due terzi del quadrato del diametro della base minore; e poi dalla terza parte del quadrato della base minore tolta una parte a cui il rimanente del quadrato della base maggiore insieme con la detta porzione abbia proporzione doppia di quella che ha il quadrato della base maggiore al quadrato della minore: il centro sta in quel punto dell’asse, che lo divide in modo che la parte che tocca la base minore all’altra parte abbia la stessa proporzione che al quadrato della base minore tolto dai due terzi del quadrato della maggiore ha ciò che rimane insieme con la porzione tolta dalla terza parte del quadrato della maggiore alla restante porzione della stessa terza parte.
 

GalileoIl centro di gravità di un qualunque frusto tagliato da un conoide parabolico sta sull’asse; e diviso questo in tre parti uguali, il centro di gravità sta in quella di mezzo e la divide in modo che la parte verso la base minore alla parte verso la base maggiore ha lo stesso rapporto che la base maggiore alla base minore.

       Sembra evidente quale sia stato il passo in avanti tra le due formulazioni e lo stesso si potrebbe mostrare per ogni altro teorema enunciato e dimostrato dai due ma, ripeto, la dimostrazione era ormai scontata, quello che contava era la chiarezza dell’enunciato.

        Poiché era relativamente semplice occuparsi dei centri di gravità di tutte le altre figure di cui si era occupato Commandino, ed in Galileo vi è solo la maggiore chiarezza espositiva, vediamo come Galileo affronta il teorema relativo al conoide parabolico. Intanto anche qui si fa uso di figure inscritte e circoscritte che gradualmente vanno approssimandosi dall’interno e dall’esterno alla figura data. In Galileo si segue un procedimento differente anche perché alcune cose che Commandino ricava egli le dà come postulati. Seguiamo ciò che scrive Camerota:

Tornando ai Theoremata circa centrum gravitatis solidorum [di Galileo], mette conto di notare come Galileo dimostri preventivamente che, sospendendo dei pesi eguali, raggruppati secondo una progressione aritmetica, a distanze identiche lungo una bilancia, il centro di gravità del sistema divide la bilancia secondo un rapporto 2:1.
Cosi (come si può notare dalla figura qui sotto riprodotta), date le grandezze f, g, h, k e n, il cui peso aumenta progressivamente di un eccesso pari a n, il centro di gravità cadrà nel punto x, in modo tale  che bx = 2xa.


Infatti, il punto di equilibrio di tutte le grandezze contrassegnate con n si troverà in d, quello delle grandezze o in i, delle r in c, delle s in m, mentre t sarà sospeso in a.
Ora, osserva Galileo, il problema è equivalente a quello della ricerca del centro di gravità di un’altra bilancia, costruita sul segmento ad, su cui vengano, a eguali distanze, sospesi i medesimi pesi a partire dal singolo t fino al composto dei cinque n, secondo la progressione: 1 (t in a), 2 (s in m), 3 (r in c), 4 (o in i), 5 (n in d). Il centro di gravità di questa seconda bilancia è, ancora una volta, il punto x, che deve dividere il braccio in base al medesimo rapporto dato nella ab (trattandosi di grandezze eguali sospese a identiche distanze). In tal senso, dunque: bx : xa = ax : xd; perciò, per composizione: (bx + xa) : (ax + xd) = bx : xa. Ne consegue, pertanto, che ba : da = bx : xa ovvero, essendo ba : da = 2, anche bx = 2xa.
Il risultato cosi acquisito viene quindi utilizzato per determinare il centro di gravità di un conoide parabolico.
Galileo procede a circoscrivere e ad inscrivere al conoide due fiigure costituite da cilindri di eguale altezza (si faccia riferimento alla figura qui sotto riprodotta), fissando poi il punto n a un terzo dell’asse, in modo tale che an = 2ne.

I cilindri inscritti si rapportano tra loro come i quadrati dei raggi id, sy, rz, pu, coincidenti con le semicorde perpendicolari all’asse. Pertanto, il cilindro che ha per asse ed starà a quello con asse dy come id2 sta a sy2. D’altro canto, poiché nella parabola si dà una proporzionalità diretta tra i quadrati delle semicorde id, sy, rz, pu e le sezioni dell’asse ed, dy, yz, zu, i cilindri staranno tra di loro come le linee ad, ay, az, au.
Ora, queste linee sono tali per cui: az = 2au; ay = 3au; ad = 4au; au equivale dunque alla quantità minima per cui esse si eccedono. Anche i cilindri inscritti si eccederanno, quindi, alla stessa maniera (cioè secondo una progressione 1, 2, 3, 4); diventa, dunque, possibile considerarli come grandezze sospese a distanze eguali lungo il braccio di una bilancia rappresentata dal segmento xm. Infatti, in quanto ogni cilindro ha il baricentro nel mezzo del proprio asse, il segmento xm unisce il punto medio dell’asse del primo cilindro (x) a quello dell’ultimo (m).
Galileo ha cosi ricondotto il problema della determinazione del centro di gravità dei cilindri inscritti ad una situazione analoga a quella, poc’anzi considerata, dei pesi sospesi ad una bilancia. Attraverso l’applicazione di quei risultati egli sarà, quindi, in grado di stabilire che il centro di gravità dei cilindri inscritti cadrà nel punto che divide il segmento xm secondo un rapporto di 2:1, cioè nel punto α (infatti xα = 2αm). Con una serie di ulteriori passaggi, si individuerà il centro di gravità dei cilindri circoscritti (che cadrà lungo il segmento εm, conformemente al rapporto già stabilito, e dunque nel punto π). Pertanto, il centro di gravità di un conoide parabolico (n, nella fattispecie) si situa tra il centro di gravità delle figura inscritta (α) e quello della figura circoscritta (π). Galileo può quindi concludere che il centro di gravità di un conoide parabolico divide l’asse in modo tale che la parte verso il vertice è doppia della rimanente parte verso la base, in sostanza che: an = 2ne.
Successivamente, fondandosi sugli esiti dell’analisi precedentemente svolta, egli procede a determinare il centro di gravità del tronco di conoide parabolico, quello del cono e della piramide, nonché il centro di gravità di un frusto di cono o piramide.

        In tutte le sue dimostrazioni nelle quali, si noterà, Galileo già si muove agilmente egli usava il metodo di esaustione che era il metodo di Archimede e come Archimede aveva usato figure piane inscritte e circoscritte nel suo lavoro pervenutoci, anche Galileo userà identico sistema.

        Dopo questi cenni ai Theoremata, possiamo passare al Galileo che, nel 1589, assunse il lettorato di matematica presso lo Studio di Pisa(32).

GALILEO PROFESSORE DI MATEMATICA A PISA

          Il primo impiego fu di gran sollievo per il venticinquenne Galileo perché, finalmente, poteva dedicarsi liberamente ai suoi studi di matematica. Dal punto di vista economico Galileo si rendeva indipendente non gravando più sul bilancio della famiglia ma l’insegnamento della matematica che si accoppiava con quello dell’astronomia(33) era all’ultimo posto nella considerazione nelle Università e per il suo lavoro Galileo era pagato sessanta fiorini al mese che erano molto pochi e, per capirlo, occorre fare dei rapidi confronti che ci permettono anche di conoscere i colleghi di Galileo presso lo Studio di Pisa. La filosofia era insegnata da quattro docenti: Jacopo Mazzoni, Francesco Buonamici, Francesco de’ Vieri (o Verino) e Giulio de’ Libri. Il loro salario era il seguente: il concordista Jacopo Mazzoni, ordinario di peripatetismo e straordinario di platonismo, era pagato 500 fiorini per l’insegnamento ordinario aumentati di altri 200 per lo straordinario (in genere i docenti di materie filosofiche o mediche o giuridiche guadagnavano sette o otto volte ciò che guadagnava un matematico); il Verino aveva un salario di 450 fiorini; Buonamici di 330; de’ Libri di 160. Gli insegnamenti che doveva impartire Galileo erano: il commento degli Elementi di Euclide, delle Meccaniche di Aristotele, del Tractatus de sphaera (circa 1230)dell’astronomo ed astrologo Giovanni Sacrobosco (o John of Holywood, 1195-1256) e da ultimo quello della Theoria Planetarum (verosimilmente quella attribuita al matematico ed astronomo Campano da Novara, 1220-1296) che, come osserva Garin, diventa fondamentale fino a prendere il posto della filosofia. L’ambiente dei colleghi di Galileo era desolante e Garin ne fornisce una descrizione agghiacciante: il de’ Libri aveva fatto quanto aveva potuto per provare al popolo di non saper nulla; il litigioso Borro brancolava nel buio pesto delle sue lezioni di fisica; il Caposacchi era chiamato, con allusione alle sue visuali, sacco in capo; il Buonamici era noto per le sue battute contro i frati e di avere una casa buonamichea (spesso centro di riunioni conviviali tra amici); il Mazzoni era l’unico che si salvava un poco ed era considerato huomo di grandissima memoria e di maravigliosa ostentatione nel discorrere ma non così fondato in filosofia in particulare, come molti credevano. Il quadro era rafforzato dalle frequenze degli studenti alle lezioni che erano in media 5 o 6. Garin dice: deserti di forza speculativa i più dei professori, deserti di scolari le aule. Ricercare quindi nei colleghi di Galileo una sua ispirazione è del tutto inutile e lo sarà anche per i colleghi di Padova che erano, a parte contatissimi casi, sostanzialmente gli stessi. Le Università erano stanche, moribonde, senza eco e con docenti all’altezza di questa situazione. Solo l’osservazione al mondo esterno, alla vita civile, all’artigiano, abbandonando i libri … avrebbe permesso di guardare il cielo.

        Scriveva Banfi:

Ora, appunto perché la certezza spirituale che dovrà un giorno sostenere tutta la sua attività e determinare la forma stessa delle sue relazioni sociali è ancora in boccio, la personalità di Galileo non ha negli anni di Pisa, nell’ambiente che lo circonda, il rilievo e il potente dominio che avrà un giorno. Certo la freschezza e la vivacità del suo ingegno non dovette sfuggire ad uomini come Jacopo Mazzoni e Gerolamo Mercuriale [1530-1606, medico, ndr], professori l’uno e l’altro dello Studio, ai quali lo legava affinità di indirizzo intellettuale, mentre la dialettica brillante e travolgente del discorso ebbe modo di farsi valere tra i frequentatori della casa di Camillo Colonna, nei cui giardini lieti d’ombre e di frescura Luca Valerio [1553-1618, matematico, ndr] ascoltò, ammirando, la tumultuosa eloquenza di Galileo. Ma la cerchia delle amicizie intellettuali rimase in Pisa sempre ristretta, giacché la coltura era ivi dominata dall’ambiente tradizionalista e retrivo dell’Università. Del resto i racconti di conflitti o di sfide tra il giovane professore e i suoi colleghi più anziani – come quello del pubblico esperimento della caduta dei gravi dal campanile del duomo – son da relegarsi tra le leggende di cattivo gusto, che tendono a fissare la personalità dei grandi, fuori dell’umana complessità della loro vita, in un rigido atteggiamento retorico.
È ben vero che, pur rifiutando di dar peso alle narrazioni di aperti contrasti col mondo accademico – che, del resto, Galileo evitò anche a Padova – non si può pensare che la sua condizione fosse in Pisa tra le più felici. Ciò risulta anche dall’amarezza che si cela sotto l’ironia del suo capitolo: Contro il portar la toga(34), capitolo provocato da un’ordinanza che prescriveva l’uso pubblico e consuetudinario per i lettori dell’abito talare. Esso è in quello stile bernesco, facile di lingua nell’artificiosa e grave struttura metrica della terza rima, che il Galilei amava come quello che solleva a più alto grado di vivacità il motivo comico-satirico del contrasto tra la raffinatezza e il preziosismo artificioso dei valori consuetudinari ormai privi di contenuto e l’umile ma concreta realtà, contrasto che l’ultimo Rinascimento, come ogni età di crisi, doveva potentemente sentire, prima di obliarlo nella fantasia sentimentale dell’idillio e nel morbido sogno del melodramma. Il centro della comicità è qui infatti la crisi della vita accademica, tra la dignità della posizione tradizionale e l’innegabile svalutazione sociale che ha il suo riflesso nella tenuità dello stipendio e nella mal celata umiltà della vita. Tale condizione ha la sua eco dolorosa nell’anima del giovane che non è chiuso nella cerchia d’incanto della vanità accademica, ma, nato da una razza semplice e forte, assetato di vita e di felicità, muove guidato solo dal suo libero ingegno sospinto dai desideri e dalle speranze della giovinezza in cui potrebbe dimenticare la miseria quotidiana, se le pretese dell’austerità professorale non gliela ricordassero ad ogni istante, additandola a tutti. Ché la toga dovrà sventolare sulle vesti mal rattoppate, trascinarsi per le bettole, scantonare nell’oscurità delle vie malfamate, a meno che il giovane professore non voglia sacrificare alla toga la sua vita. Tempo beato quello in cui l’uomo valeva solo per ciò che era e faceva e non per le vesti che portava! Ma il mito dell’età dell’oro con cui si chiude idillicamente il capitolo non è per Galileo sogno poetico, bensì volontà di conquista e di vittoria.

        Alcuni versi di Galileo vanno riportati. Quelli in cui dice che è meglio andare nudo piuttosto che con la toga, come s’usava nel tempo antico dove le persone si giudicavano non per i rasi ed i damaschi che indossavano ma per i loro ingegni. Gli uomini sono come i fiaschi della mate osterie che erano l’unica consolazione di Galileo: i fiaschi sono tutti uguali e si apprezzano solo quelli che hanno dentro il vino buono, gli altri sono buoni solo per pisciarvi drento.

Volgo poi l’argomento, e ti conchiudo,
    E ti fo confessare a tuo dispetto,
    Che ‘l sommo ben sarebbe andare ignudo.
E perchè vegghi che quel ch’ io ho detto
    È chiaro e certo e sta com’ io lo dico.
    Al senso e alla ragion te ne rimetto.
Volgiti a quel felice tempo antico,
    Privo d’ogni malizia e d’ogni inganno,
    Ch’ ebbe sì la natura e ‘l cielo amico;
E troverai che tutto quanto l’anno
    Andava nud’ ognun, picciol e grande,
    Come dicon i libri che lo sanno.
Non ch’ altro, e’ non portavon le mutande, 
    Ma quant’ era in altrui di buono o bello
    Stava scoperto da tutte le bande.
[…]

Ch’ importa aver le vesti rotte o intere,
    Che gli uomini sien Turchi o Bergamaschi,
    Che se gli dia del Tu o del Messere?
La non istà ne’ rasi o ne’ dommaschi;
    Anzi vo’ dir ti una mia fantasia,
    Che gli uomini son fatti com’ i fiaschi.
Quando tu vai la state all’ osteria,
    Alle Bertuccie, al Porco, a Sant’ Andrea,
    Al Chiassolino o alla Malvagia,
Guarda que’ fiaschi, innanzi che tu bea
    Quel che v’ è drento; io dico quel vin rosso,
    Che fa vergogna al greco e alla verdea:
Tu gli vedrai che non han tanto in dosso,
    Che ‘l ferravecchio ne dessi un quattrino;
    Mostran la carne nuda in sino all’ osso:
E poi son pien di sì eccellente vino,
    Che miracol non è se le brigate
    Gli dan del glorioso e del divino.
Gli altri, ch’ han quelle veste delicate,
    Se tu gli tasti, o son pieni di vento,
    O di belletti o d’acque profumate,
O son fiascacci da pisciarvi drento.

        Ultima nota biografica di questi anni pisani è la morte del padre di Galileo, Vincenzo, avvenuta il 2 luglio 1591(35). Al di là del profondo dolore che tale perdita rappresentò per Galileo, i problemi economici divennero enormi perché sulle sue spalle ricadde il mantenimento della famiglia (con l’aggravante che una sorella di Galileo, Virginia, si era appena maritata e doveva far fronte alla dote). Galileo era profondamente amareggiato per le continue delusioni che si assommavano ad impegni. Anche Viviani ci descrive questo momento in modo deprimente per Galileo, per altri motivi legati alla totale incomprensione da parte della gran parte dei suoi colleghi ed alle conseguenti continue discussioni:

In questo tempo, parendogli d’apprendere ch’all’investigazione delli effetti naturali necessariamente si richiedesse una vera cognizione della natura del moto, stante quel filosofico e vulgato assioma Ignorato motu ignoratur natura [espressione utilizzata da Aristotele nella Fisica, ndr], tutto si diede alla contemplazione di quello: et allora, con gran sconcerto di tutti i filosofi, furono da esso convinte di falsità, per mezzo d’esperienze e con salde dimostrazioni e discorsi, moltissime conclusioni dell’istesso Aristotele intorno alla materia del moto, sin a quel tempo state tenute per chiarissime et indubitabili; come, tra l’altre, che le velocità de’ mobili dell’istessa materia, disegualmente gravi, movendosi per un istesso mezzo, non conservano altrimenti la proporzione delle gravità loro, assegnatagli da Aristotele, anzi che si muovon tutti con pari velocità, dimostrando ciò con replicate esperienze, fatte dall’altezza del Campanile di Pisa [si tratta molto probabilmente di una leggenda, ndr] con l’intervento delli altri lettori e filosofi e di tutta la scolaresca; e che né meno le velocità di un istesso mobile per diversi mezzi ritengono la proporzion reciproca delle resistenze o densità de’ medesimi mezzi, inferendolo da manifestissimi assurdi ch’in conseguenza ne seguirebbero contro al senso medesimo.
Sostenne perciò questa cattedra con tanta fama e reputazione appresso gl’intendenti di mente ben affetta e sincera [riferimento ai soli Mazzoni e Mercuriale, ndr], che molti filosofastri suoi emuli, fomentati da invidia, se gli eccitarono contro; e servendosi di strumento per atterrarlo del giudizio dato da esso sopra una tal macchina, d’invenzione d’un eminente soggetto [Giovanni de’ Medici, ndr], proposta per votar la darsina di Livorno, alla quale il Galileo con fondamenti meccanici e con libertà filosofica aveva fatto pronostico di mal evento (come in effetto segui), seppero con maligne impressioni provocargli l’odio di quel gran personaggio […]

       Queste chiusure esterne dettero a Galileo almeno del tempo per lavorare e dedicarsi ad un suo primo lavoro di fisica, il De motu, cui fa cenno il precedente testo di Viviani. Questo lavoro, in latino, ebbe almeno tre stesure, quella fiorentina, poi quella pisana (ambedue usualmente chiamate De moti antoquiora) ed infine quella definitiva che conosciamo e conserviamo(36) ma che non sappiamo datare con certezza anche se sembra ragionevole pensare che il grosso dell’opera fu realizzato negli anni pisani (1590-1592). In particolare mentre Drake sostiene che nel 1591 Galileo aggiunse i moti circolari e sul piano inclinato a quanto già elaborato, Carugo e Crombie ipotizzano invece una stesura molto più tarda, tra il 1597 ed il 1630.

IL DE MOTU

        Il De motu di Galileo ha un seguito in tempi recenti che va raccontato prima di entrare in dettagli.

        L’argomento della discussione è la frase di un pretoriano del Santo Uffizio, tal Padre Wallace, che scrive:

        Sul De Motu poggia la sua [di Galileo] fama di “Padre della Scienza moderna”.

        Questa affermazione che chiunque conosca l’ABC di Galileo sa essere totalmente falsa, si situa all’interno di una denigrazione sottile, subdola, pretesca, dello scienziato pisano, denigrazione che prende le mosse da uno storico della scienza cattolico e francese di nome Pierre Duhem (1861-1916)(37). Come ho raccontato diffusamente altrove, Duhem iniziò un’opera revisionista della storia per mostrare che le cose fatte da Galileo trovavano tutte la loro origine nei lavori dei frati cattolici delle Università di Parigi ed Oxford del XIII e XIV secolo. Per la verità l’essere solo cattolico avrebbe fatto dire ciò che io ho detto ma Duhem, poiché oltre che cattolico è anche uno sciovinista francese, non menziona Oxford anche se in quella Università iniziò la ripresa di quella teoria dell’impetus di Giovanni Filopono (490-570), che solo successivamente passerà a Parigi con i lavori di Buridano ed Oresme. Comunque la violenza di Duhem alla storia, raddrizzata per la prima volta da una storica tedesca, Anneliese Maier (1905-1971)(38), che ha mostrato l’inconsistenza delle tesi di Duhem, è continuata con l’opera di alcuni preti come il citato Wallace e Stanley Jaki ma anche con altri personaggi, apparentemente più laici, come i citati Carugo e Crombie. L’idea di andare a ricercare ogni vago indizio, regolarmente separato dal contesto, per accreditare o screditare, mi troverà sempre contrario. Ed a questo proposito leggo la bella pagina che scrisse Eugenio Garin:

Comunque […] resta indubitata la conoscenza, da parte di Galileo, delle discussioni fisiche dei peripatetici sul moto dei gravi, sul moto violento e sul cielo. È chiaro che di lì egli si mosse. Orbene, la grande maggioranza degli storici moderni della scienza, francesi, tedeschi, inglesi e americani, e, purtroppo, italiani, all’insegna del tema, ‘i precursori di Galileo’ ha ritrovato via via, a seconda della nazionalità dello storico, nei fisici parigini, in Alberto di Sassonia e nelle discussioni da lui influenzate, nei calculatores e nei teorici inglesi de proportionibus veelocitatum in motibus, pressoché tutti i motivi di Galileo, o almeno gli argomenti critici da lui usati. Al quale proposito converrebbe ricordare innanzi tutto l’osservazione di Comte, ripresa dal nostro Vailati, che non si critica se non si sostituisce l’ipotesi criticata. Ora, se è innegabile che la fisica del tardo Medioevo, riprendendo argomentazioni usate dai commentatori antichi, mise in crisi non poche parti dell’aristotelismo; se è vero che i teorici dell’impeto, rifacendosi al Filopono, liquidarono la tesi del mezzo come causa del moto, è pure indiscutibile che le varie posizioni via via indicate come precorritrici di Galileo, non solo sono isolate dai loro contesti, ma mentre indicano un lavoro erosivo intorno a posizioni particolari dell’aristotelismo, non presentano proposte efficaci né per l’rinnovarne il metodo d’indagine, né per distruggerne i fondamenti, né per uscirne fuori in nuove teorie d’insieme. Sono singoli «pezzi» critici, destinati a rimanere sterili proprio perché non vengono abbandonati né i presupposti generali, né i procedimenti metodici. Questo è il punto da sottolineare: i meravigliosi sforzi d’ingegno dei fisici tardomedievali restano sempre prigionieri nei quadri dell’aristotelismo e nei suoi equivoci.

        Tornerò su questo quando se ne presenterà l’occasione, perché adesso è ora di capire come è nato il De motu, almeno nella sua versione pisana. Nel 1590, quando iniziò la redazione dell’opera Galileo era un aristotelico, con qualche insoddisfazione qua e là, ma aristotelico (pur già conoscendo il De Revolutionibus orbium coelestium di Copernico). Ho già detto che tra i suoi insegnamenti vi era il commento ad alcuni passi dell’Almagesto di Tolomeo. Ebbene, Galileo iniziò a scrivere il suo commento a quest’opera da un punto di vista aristotelico mentre stava elaborando il De motu per cui le problematiche si intersecarono naturalmente e necessariamente. Egli pensò quindi di utilizzare il De motu come ulteriore commento da far seguire agli altri suoi all’Almagesto, dopo una revisione di questi ultimi in modo che tutti gli argomenti fossero raccordati. Drake, che ha scritto le cose più complete e d’interesse sulla teoria del moto di Galileo, ci fornisce i dettagli:

Questo nuovo e importante trattato, che Galileo intendeva pubblicare e far seguire il più rapidamente possibile dai suoi commentari all’Almagesto, completamente riveduti, era organizzato in due “libri”, con una dovizia di rimandi incrociati tra i suoi ventitré capitoli. Il primo libro comprendeva dieci capitoli e terminava con Et de hoc satis [E di ciò si è detto abbastanza, ndr]. In esso era esposta la nuova dottrina del movimento – nuova, cioè, per i lettori di Galileo, non per lui, perché aveva avuto inizio con “Problemi di moto” del 1586-87 ed era stata sviluppata fino alla sua forma definitiva negli appunti e in “Ordine naturale e moto locale“. Il secondo libro conteneva dettagliate risposte a obiezioni basate sull’antica e accettata dottrina aristotelica del moto locale, riprendeva problemi sul moto che erano stati elencati ma non trattati nel 1586-87, e aggiungeva nuovi temi non trattati da Aristotele. Era abitudine, quando si presentava una nuova dottrina, rispondere a probabili obiezioni ed estenderla a nuovi campi. Ma il secondo “libro” faceva qualcosa di più; si apriva con l’enunciazione del metodo di Galileo:

Melhodus quam in hoc tractatu servabimus ea erit, ut semper dicenda ex dicta pendeant, nec unquam (si licebit) declaranda supponam tanquam vera. Quam quidem methodum mathematici mei me docuere.

[Il metodo che seguiremo in questo trattato sarà che sempre ciò che ho da dire dipende da quanto già detto e, se possibile, mai assumerò come vero ciò che richiede una prova. I miei matematici mi insegnarono questo metodo].

Il primo libro era stato organizzato utilizzando il testo precedente (che poneva l’accento su problemi di carattere filosofico) applicando i precetti logici di Valla. Da quel momento in poi, Galileo seguì invece le due semplici regole sopra enunciate, che egli aveva appreso dalle sue letture di Euclide, Archimede, Tolomeo e Copernico – i suoi “matematici”.
Tre capitoli del secondo “libro” sono di particolare interesse per la successiva fisica di Galileo; li chiamerò II-4, II-6 e II-7. Quest’ultimo, intitolato “A quo moveantur proiecta” [Da cosa sono mossi i proiettili], fu probabilmente riveduto e trasferito da “Ordine naturale e moto locale“, perché era usuale nell’ultima lezione trattare dei moti “violenti”. Inserito alla fine in II-7, terminava con la promessa di Galileo che i suoi commentari all’Almagesto sarebbero stati, con l’aiuto di Dio, pubblicati tra breve. Chiaramente Galileo intendeva pubblicare prima, e molto presto, la “Nuova dottrina del moto“. Questa promessa fu scritta nell’ultima parte del 1591.
Il capitolo II-4, che trattava dei movimenti lungo piani inclinati, è il più importante di tutti per la fisica galileiana prepadovana, e nei suoi scritti sul moto non c’è nessuna traccia di una precedente trattazione di questo argomento. A rigore, ciò che Galileo trattava in II-4 non era mai stato esaminato da nessuno, com’egli disse, perché il suo principale interesse era per la velocità dei movimenti discendenti lungo piani inclinati. Pappo aveva discusso della forza necessaria per far salire un corpo per un piano inclinato (ma erroneamente, osservava Galileo), Giordano Nemorario, nel XIII secolo, aveva formulato la prima enunciazione corretta a noi nota della condizione di equilibrio per un peso pendente bilanciato da un peso posato su un piano inclinato. Stevin aveva pubblicato nel 1586 un argomento molto ingegnoso (ed estremamente semplice) che stabiliva la medesima condizione, ma Galileo dapprima la riduceva alla legge della leva e poi passava a esporre la sua opinione (errata) intorno al movimento giù per un piano inclinato.
Il suo errato ragionamento intorno alle velocità sui piani inclinati risaliva alla sua idea di durata solo temporanea dell’accelerazione nella caduta dei gravi, già citata precedentemente. Galileo ammetteva candidamente che la sua regola delle velocità non era suffragata da nessun esperimento, attribuendo l’insuccesso in parte a “impedimenti materiali” del tipo già citato, in parte a un’obiezione teorica. Nessuna di queste cose aveva alcunché a che fare con il difetto fondamentale, che era il fatto che Galileo trascurava l’accelerazione. Dovevano passare dieci anni prima che Galileo arrivasse a riconoscere questo fatto e a procedere verso la sua fisica matematica matura.
Il capitolo II-4 è strettamente collegato, in un modo singolare, con II-6, l’ultimo capitolo completo a essere stato scritto (non molto dopo II-4). Questo capitolo, sulle rotazioni di sfere materiali, era stato anticipato da un passo, in forma dialogica, di “Problemi di moto”, risalente al 1586-87. Esso cambiò il corso principale del pensiero di Galileo nella scienza fisica, riguardando non solo il moto circolare ma anche l’astronomia. Non c’è alcun modo di raccontare questa storia semplicemente, ma una volta che la si sia compresa, numerosi interrogativi comuni intorno alla fisica di Galileo dovrebbero sparire.
Nella filosofia naturale aristotelica, ogni moto era o naturale o violento. I movimenti violenti erano stati di scarso interesse per Aristotele perché per lui la fisica era la scienza della natura e particolarmente dei movimenti naturali. I filosofi naturali medievali elaborarono la teoria dell’impetus per rimediare al disinteresse di Aristotele per il moto violento.
Prima che Galileo esaminasse i movimenti su piani inclinati, nessuno aveva pensato che potesse esistere un moto che non è né naturale né violento. Il moto lungo un piano inclinato è naturale, dato che viene intrapreso spontaneamente appena un corpo viene liberato. Il moto su per un piano inclinato deve quindi essere violento. Quindi su un piano orizzontale, trascurando ogni impedimento naturale, sembrava che non ci fosse nessuna ragione per cui un corpo messo in movimento dovesse cambiare velocità. Per continuare un moto orizzontale, non era richiesta nessuna ulteriore forza, e Galileo fornì la prova matematica che la forza iniziale poteva essere inferiore a qualsiasi forza data. Quindi il moto continuo su un piano orizzontale non sarebbe né naturale né violento. Un piano orizzontale, tuttavia, sarebbe tangente alla Terra soltanto in un punto, e il movimento da quel punto deve portare il corpo più lontano dal centro della Terra, contro il suo moto naturale verso il centro. Galileo concluse che anche in teoria, eliminati tutti gli impedimenti materiali, il movimento non poteva continuare uniformemente e per sempre su un piano orizzontale, ma solo su una superficie concentrica con la Terra. La condizione essenziale è che, se si vuole che la velocità rimanga uniforme, la distanza dal centro della Terra deve rimanere costante. Perché ogni avvicinamento a quel centro deve far aumentare la velocità di un grave, esattamente come ogni allontanamento dal centro deve richiedere una forza e ridurre la velocità acquistata.
È per il concetto di un moto né naturale né violento che II-6, sulle rotazioni di sfere materiali, è strettamente collegato a II-4. Quasi all’inizio di II-6, Galileo definisce i movimenti naturale e violento un po’ diversamente da Aristotele:

Motus itaque naturalis est dum mobilia, incedendo, ad loca propria accedunt; violentum est dum mobilia, quae moventur, a proprio loco recedunt.

[Abbiamo infatti moto naturale quando i corpi, muovendosi, vanno verso il loro luogo naturale, e il moto violento quando i corpi, muovendosi, si allontanano dal loro luogo naturale.]

Ne segue immediatamente che una sfera che ruota intorno al centro dell’universo si muove con un moto che non è né naturale né violento, dato che non si avvicina né si allontana dal suo luogo naturale. Ammesso che il centro di gravità della sfera sia al centro dell’universo, non avrebbe alcuna importanza che la sfera sia omogenea o no. Galileo esamina i vari casi di rotazione con il centro geometrico o il centro di gravità al centro dell’universo, o sostenuto vicino alla superficie di una sfera ivi centrata. Solo una sfera eterogenea ruotante intorno al proprio centro geometrico sostenuto a una certa distanza dal centro dell’universo non si muoverebbe con il nuovo tipo di movimento definito da Galileo. In una nota a margine aggiunta a II-4 egli battezzò moto neutrale il moto né naturale né violento.
Fu mentre scriveva II-6 che Galileo – che supponeva ancora che la Terra fosse al centro dell’universo – prese in considerazione la sua rotazione giornaliera come una possibilità fisica. Sarebbe stato un moto “neutrale”, né naturale né violento, e sembrava che non ci fosse nessuna ragione perché non fosse uniforme e perpetuo. Vide immediatamente che, se l’asse di rotazione era inclinato rispetto all’eclittica, l’astronomia ne sarebbe risultata enormemente semplificata. Non sarebbe stata necessaria né la rivoluzione annuale come supposto da Copernico, né il “terzo moto” per il quale l’asse terrestre rimaneva parallelo a se stesso nel sistema copernicano.
Galileo aveva scoperto un sistema astronomico migliore non solo dell’ibrido geo-eliocentrico che aveva inteso proporre nei suoi commentari all’Almagesto, ma anche dello stesso sistema copernicano. Invece di tre moti della Terra, Galileo doveva presumerne solo uno – e per giunta uno già giustificato dal suo ragionamento fisico sulle rotazioni delle sfere materiali. 
Come dato di fatto, ignoto a Galileo, l’astronomia semicopernicana (come venne chiamata) era già stata proposta da Nicolaus Reymarus Bär [matematico tedesco, il cui nome fu latinizzato in Ursus, 1551-1600, ndr] e Tycho lo aveva vigorosamente attaccato per questo. Per ragioni sia scritturali che filosofiche, Tycho non voleva concedere nessun tipo di moto alla Terra centrale. Per quanto riguardava Galileo. in astronomia contava solo la semplicità logica delle ipotesi. e si aspettava la fama dalla presentazione della nuova idea nei suoi commentari all’Almagesto. che quindi cominciò subito a rivedere. Promettendo la loro prossima pubblicazione (alla fine di II-7), mise da parte la sua “Nuova dottrina del moto” e la lasciò così come stava verso la metà del 1591 (e rimane tuttora inalterata in manoscritto).

        Nel De motu compaiono per la prima volta argomenti a sostegno della caduta nello stesso tempo di corpi con pesi differenti. Da qui l’episodio contestato di Viviani che invece Galileo sostiene, addirittura più volte, quando nel De motu, più volte, raccontava di esperienze di caduta dei gravi da torri. Ma, se si riflette un poco ci si rende conto che non serviva salire sulla torre di Pisa per far vedere non tanto la correttezza della tesi di Galileo, quanto gli errori in quella di Aristotele. Scriveva il Filosofo nel De Coelo(39):

Se un dato peso percorre un dato spazio in un dato tempo, un peso uguale al primo più qualcosa lo farà in un tempo minore, e la proporzione che c’è tra i pesi si ripeterà, nel rapporto inverso, per i tempi; ad esempio, se metà del peso si muove in un dato tempo, un peso doppio del primo si muoverà nella metà di quel tempo.

E ciò, in breve, vuol dire che un corpo che pesi il doppio di un altro, per Aristotele, dovrebbe arrivare al suolo in metà tempo. Per far vedere che un mattone e due mattoni legati tra loro, se lasciati cadere dalla stessa altezza, arrivano quasi al medesimo tempo al suolo, basta salire su una sedia, o utilizzare un balconcino al primo piano, perché la cosa è evidentissima. E Galileo, nel suo De motu pisano, scriveva di essere insoddisfatto delle affermazioni di Aristotele e, discutendo dell’accelerazione dei corpi in caduta, aggiungeva(40):

Quando scoprii una spiegazione che (almeno a mio giudizio) era del tutto corretta. dapprima ne fui felice: ma quando la esaminai con più attenzione cominciai a sospettare che presentasse qualche difficoltà. Ma infine eliminata ogni difficoltà con il passare del tempo la pubblicherò nella sua forma esatta e dimostrata.

Galileo parlava di  forma esatta e dimostrata, e poiché aveva la teoria ma non ne aveva la dimostrazione si fermava. Più oltre forniva quella che riteneva la spiegazione dell’accelerazione nella caduta dei gravi. Più che spiegazione occorrerebbe parlare di causa perché Galileo era un giovane ancora intriso dell’educazione aristotelica che voleva sempre cause che spiegassero fenomeni osservati. La spiegazione dell’impetus risolveva il problema ma Galileo non ne fu persuaso (in accordo con Tartaglia e contrariamente a Benedetti). Egli riteneva di avere trovato la sua spiegazione riferendosi a gravi lanciati verso l’alto. Egli supponeva che quando il grave è lanciato in alto, la causa di tale moto era una virtù impressa che si perdeva sempre più mano a mano che il corpo saliva. Quando il grave era arrivato al punto più elevato della sua traiettoria, tale virtù non era terminata ma risultava insufficiente a far salire ulteriormente il grave. E la caduta all’inizio avviene con velocità minore perché la vera velocità non si raggiunge finché non viene completamente consumata la virtù impressa. A questo punto il grave inizierà a cadere con la velocità che gli compete nell’aria (la qual cosa è ben visibile nella caduta di un oggetto in acqua). In definitiva la spiegazione del moto di caduta risiedeva in quella virtù impressa che andava consumandosi o nella perdita di una forza residua che, quando il moto iniziava, se ne andava verso l’alto(41), argomentando ciò con lo scritto seguente(42):

E ritengo che questa sia la vera causa dell’accelerazione del moto: e avendovi pensato e, dopo due mesi avendo per caso letto ciò che Alessandro [di Afrodisia, un commentatore del II o III secolo, ndr] dice su questo argomento, appresi da lui che questa era stata anche l’opinione di quell’illustre filosofo Ipparco, lodato dal dottissimo Tolomeo. Ipparco infatti è molto stimato con grandi lodi da Tolomeo in tutto il corso dell’Almagesto. Secondo Alessandro anche Ipparco credeva che questa [forza] fosse la causa dell’accelerazione del moto naturale, ma poiché egli non aggiunse nulla oltre a ciò che ho sopra detto, la sua opinione sembra dunque imperfetta e quindi suscettibile di essere respinta dai filosofi; infatti essa sembra applicarsi solo al caso di moti naturali preceduti da un moto violento e non potrebbe essere applicata a un moto che non segue un moto violento. In effetti i filosofi non si accontentarono di rigettarla come imperfetta ma la considerarono addirittura falsa e neppure vera nel caso in cui il moto era preceduto da uno violento. Ma noi aggiungeremo questioni non spiegate da Ipparco mostrando come valga la stessa causa anche nel caso di un moto non preceduto da un moto violento, e tenteremo di renderla esente da ogni fallacia. Non direi tuttavia che Ipparco non fosse del tutto alieno da critica, perché egli non scoprì una difficoltà di grande importanza.

        La difficoltà a cui si riferisce Galileo aveva a che fare con la frase di Drake nella citazione precedente: Il moto su per un piano inclinato deve quindi essere violento (ricordo la differenza in Aristotele tra moto naturale e moto violento: il primo è quel moto che riporta gli oggetti al loro luogo naturale, il secondo è quello che li allontana). Ed occorre un minimo di spiegazione. Nelle sue esperienze con i piani inclinati, che Galileo faceva per avere una caduta rallentata e poter misurare i tempi che, in una caduta verticale, risultava impossibile, egli provò a disporre due piani inclinati contrapposti, in modo che una pallina arrivata in fondo ad un piano, quello declive, iniziasse a risalire sull’altro, quello acclive. E’ così che Galileo aveva prodotto il moto su per un piano inclinato. I due moti, in caduta ed in salita, erano per Galileo, gli stessi ma la fisica di Aristotele li metteva in due categorie diverse, quello in caduta come moto naturale e quello in salita come moto violento. E diceva nel De motu che questi due moti non sono in realtà contrari, ma piuttosto un moto composto da uno naturale ed uno violento […] finché la pesantezza intrinseca e la leggerezza dell’altro […] si mischiano al corpo mobile(43). Insomma non è concepibile considerare in modo diverso questi due moti e la cosa la si può capire se solo si pensa che corrisponde al considerare diverso il moto di un piatto della bilancia quando scende verso il basso rispetto a quello che sale verso l’alto(44).

        Su questi problemi e queste esperienze si confrontava Galileo e chi ancora oggi fa grancassa sull’eventuale non fatta esperienza della torre mostra di non sapere di cosa parla. In realtà non è tanto un’esperienza dalla torre che occorre ma l’idea di farla un’esperienza che vada a mettere in dubbio ciò che dice il Filosofo. Infatti alla negazione di quella esperienza si accomuna sempre l’altra tesi su Galileo, quella che vorrebbe egli non avesse fatto esperienze, con la sua riduzione a ciarlatano. Naturalmente i denigratori sono gli stessi di prima, quelli che continuano a processare Galileo, alla faccia di Giovanni Paolo II.

        Ma il De motu è un’opera di gran lunga superiore a tutte quelle che all’epoca o anche prima si erano pubblicate sull’argomento e Galileo aveva bisogno di pubblicare lavori per sostenere la sua situazione economica fattasi molto grave. Eppure, si badi bene, egli non la pubblicò. In definitiva se era un’opera che nasceva come proseguimento dei soli insegnamenti dei gesuiti Galileo avrebbe avuto una pubblicazione senza nulla rischiare. Ma ci doveva essere dell’altro come c’era e Galileo non la pubblicò perché era egli stesso insoddisfatto per la mancanza di esperienze che corroborassero le sue tesi (questo particolar sfugge sempre ai denigratori). E Galileo ci dice qualcosa in proposito nel suo Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari(45) del 1613:

la difficoltà della materia e ‘l non avere io potuto far molte osservazioni continuate mi hanno tenuto e tengono ancora sospeso ed irresoluto: ed a me conviene andare tanto più cauto e circospetto, nel pronunziare  novità alcuna, che a molti altri, quanto che le cose osservate di nuovo e lontane da i comuni e popolari pareri, le quali […] sono state tumultuosamente negate ed impugnate, mi mettono in necessità di dovere ascondere e tacere qual si voglia nuovo concetto, sin che io non ne abbia dimostrazione più che certa e palpabile; perché da gl’ inimici delle novità, il numero dei quali è infinito, ogni errore, ancor che veniale, mi sarebbe ascritto a fallo capitalissimo, già che è invalso l’uso che meglio sia errar con l’universale, che esser singolare nel rettamente discorrere. Aggiugnesi che io mi contento più presto di esser l’ultimo a produrre qualche concetto vero, che prevenir gli altri per dover poi disdirmi nelle cose con maggior fretta e con minor considerazione profferite.

        Galileo quindi, ancora nei primissimi mesi del 1592, quando già era scaduto il suo contratto triennale presso lo Studio di Pisa, aveva poca speranza nel suo rinnovo per quelle sue critiche alla proposta per votar la darsina di Livorno fatta da Giovanni de’ Medici alla quale il Galileo con fondamenti meccanici e con libertà filosofica aveva fatto pronostico di mal evento (come in effetto segui). E quelle critiche gli avevano provocato l’odio di quel gran personaggio. Vi era poi tutto il suo disagio in quell’ambiente chiuso e ristretto in cui l’unica consolazione era l’osteria. Inoltre gli era piovuta addosso la disgrazia della morte del padre con il conseguente dover accollarsi il mantenimento della famiglia.

        Egli sapeva che lo Studio di Padova aveva il posto di lettore di matematica vacante dal 1588, da quando era scomparso Giuseppe Moletti che la occupava. Vi era il desiderio di andare via da Pisa per accedere in quel luogo notoriamente più aperto e più stimolante. Vi è una lettera di Guidobaldo del Monte a Galileo del 21 febbraio 1592 che ci fa capire cosa aveva in mente Galileo. Galileo aveva scritto più volte a Guidobaldo ma tali lettere non erano state ricevute(46).

[…] trovo che V.S. mi ha scritto altre volte, et io non le ho havute, come anche non ho havuta quella che V. S. mi dice havermi scritto della morte di suo padre: che in vero quando l’ ho sentito, ne ho preso gran dispiacere, e per amor suo e per amor di V. S.; nè mi pareva tanto vecchio, che non havesse potuto viver ancora molti anni. Io me ne con dolgo con V. S., ma bisogna contentarsi di questi disturbi che dà il mondo.
Mi dispiace ancora di veder che V. S. non sia trattata second’ i meriti suoi, e molto più mi dispiace che ella non habbi buona speranza. Et s’ella vorrà andar a Venetia questa state, io l’invito a passar di qua, che non mancarò dal canto mio di far ogni opera per aiutarla e servirla; chè certo io non la posso veder in questo modo. Le mie forze sono deboli, ma, come saranno, io le spenderò tutte in suo servitio. E le bascio le mani, com’ al S.r Mazzone, se si ritruova in Pisa. Che il Signor la contenti.

Di Monte Baroccio, alli 21 di Febraro del 1592.

         Galileo si recò a Venezia per gestire al meglio la sua assunzione a Padova. Si servì dell’aiuto promesso da Guidobaldo, che non era cosa da poco perché questi aveva studiato a Padova ed aveva in tale città molti amici, tra cui l’influente Giovanni Vincenzo Pinelli, che abitava a Padova in una casa del vescovo Leonardo Mocenigo restaurata dal Palladio. Questi era in contatto con il Procuratore Giovanni Michiel, uno dei tre Riformatori dello Studio di Padova, e tanto operò che ottenne il posto per Galileo. Abbiamo una prima comunicazione dell’interessamento di Pinelli in una lettera del 3 settembre del 1592 subito seguita da un’altra del 9 settembre (ambedue indirizzate a Galileo in Venezia). Quella de 9 diceva(47):

Hebbi l’ultima lettera di V. S., et pensai poter esser hieri col Sig, Procuratore· Michele, che non mi fu lecito, per alcun travaglio di stomaco che mi sopravenne. Sono stato questa mattina, et pertanto mi ha detto, darà alla S. V. li 200 fiorini senz’ altro, et serà costì per domani o l’altro senza fallo; sì che la S. V. ne potrà star sull’ aviso, et subito al suo arrivo andarlo a ritrovar, per l’ingraziarlo del suo buon animo et così far instanza per la spedizione. Non voglio lassar di dire alla S. V. (ma ciò sia detto tra di noi), che forse per alcun di cotesti Signori s’ ha la mira a qualche altro soggetto; et però non sarà se non bene ch’ ella s’ offerisca alla concorrenza di chi cercasse questa lettura, chè in questo modo si chiariranno le partite et la giustizia harà il suo luogo. Ma, di grazia, la S. V. non si lassi intendere di questo mio avertimento.

E’ in pratica la comunicazione ufficiosa dell’assunzione con uno stipendio addirittura pari a tre volte e mezza quello di Pisa. Galileo avrebbe dovuto rivolgersi al Procuratore per ottenere la spedizione del Decreto di nomina. Con qualche avvertenza di essere grato con chi l’assumeva perché c’era qualcun altro che voleva il posto. E sappiamo che questo qualcun altro, suo rivale, era Magini, proprio quello che gli aveva soffiato la cattedra di Bologna, che era sostenuto a Padova da un’altro Riformatore, Zaccaria Contarini (personaggio di una famiglia molto influente a Venezia). Galileo riuscì però a farsi amico del figlio, Benedetto, del terzo Riformatore, Alvise Zorzi, di modo che due su tre erano dalla sua parte. E riuscì anche a farsi amico di Giacomo Contarini, figlio di Zaccaria, anche se quest’ultima amicizia non sembra aver avuto effetti su Zaccaria.

        Galileo, ricevuta questa lettera, ne comunicò il contenuto a Giovanni Uguccioni, ambasciatore del Gran Ducato di Toscana presso la Repubblica di Venezia, suo compagno di viaggio nell’agosto 1592 e nella cui casa veneziana era ospite, affinché la comunicasse a Belisario Vinta, suo amico e Segretario del Gran Duca Ferdinando I, anche perché Galileo doveva ottenere il permesso di espatriare. Così scriveva Uguccioni a Vinta(48):

GIOVANNI UGUCCIONI A BELISARIO VINTA

Padova, 21 settembre 1592.

Sono in Padova, e sono venutoci con Mess. Galileo Galilei, che legge la Matematica in Pisa; quale quindici giorni fa venne per vedere Venetia, et in tanto hieri in carrozza, in discorrendo meco, mi disse che in Venetia era stato ricerco di leggere in Padova, e che crede che harebbe 200 scudi in circa di salario 1’anno, e che ha risposto che, sendo al servitio del Gran Duca, non può risolvere cosa nessuna, onde io credo che se ne venga a cotesta volta, per trattare di questo negotio con S. A. S.: alla quale non ho voluto scrivere, perchè mi credo che basti haverlo conferito a lei con la presente; che se sarà male scritta, mi scuserà perchè sono all’ hosteria per montare in carrozza per alla volta di Vicenza et essere giovedì in Venetia …

Insomma, la cosa deve essere costruita come se Galileo chiedesse il permesso di andar via da Pisa, addirittura scusandosi. Il cenno a quanto prenderà di stipendio è comunque dissuasorio dell’insistenza del Gran Duca acché Galileo resti ( vi era qui l’equivoco dei fiorini trasformati in ugual numero di ducati che sembrava triplicare lo stipendio).

        Il 25 settembre vi è un’altra lettera di Pinelli a Galileo in cui, tra l’altro, risulta che lo stipendio è stato ridotto a 180 fiorini (sempre tre volte ciò che prendeva a Pisa anche se, tenuto conto del cambio, si trattava al massimo di un 50% in più ma con prospettive di aumento in tempi brevi e con ampie prospettive di lezioni private visto il molto maggior numero di studenti a Padova rispetto a Pisa)(49):

Padova, 25 settembre 1592.

Poichè hieri io aspettai la S. V. indarno, desidero ch’ almeno di lontano ella mi faccia intendere come sia rimasta con questi SS.ri Riformatori in proposito delli 180 [fiorini]; se bene, per quanto mi è occorso di ragionarne con diversi che sono stati a ragionamento co’ sudd. Sig.ri del suo particolare, non ne dovrei dubitare: tuttavia ne desidero due righe dalla S. V., alla quale dissegnava di mandare alcune lettere che le dissi ‘per quelli miei SS.ri et amici, ma, sviato da diverse occasioni, non ho potuto […]

Finalmente, il 26 settembre, giorno del decreto di nomina di Galileo a lettore di matematica presso lo Studio di Padova, Uguccioni da Venezia scriveva direttamente al Gran Duca di Toscana per informarlo(50):

GIOVANNI UGUCCIONI al GRANDUCA DI TOSCANA
 
… Sino al principio di questo mese comparse qua il GaIileo, Matematico di Pisa che è stato sempre qui in casa mia per veder la città; e domattina si parte per sendo stato ricerco di legger nello Studio di Padova con 180 ducati 1’anno di salario: onde ha risposto che non vuole fermar niente se prima non ne dà conto a V. S. è suo debito …

Ed ecco di seguito il decreto del 26 settembre che sarà spedito a Galileo solo il 12 dicembre perché, come spiega Benedetto Zorzi a Galileo, si tratta della burocrazia che è lenta:

GALILEO LETTORE NELLO STUDIO DI PADOVA.

a) NOMINA.

1) Dcliberazione del Senato. Venezia 26 settembre 1592.

Refformatori.

S. Alvise Zorzi P.r

A dì XXVI Settembrio.

Per morte del Moletti, che leggeva nello Studio nostro di Padoa le Matematiche, che vaca già molto tempo quella lettura, la qual essendo di molta importantia, per servir alle scientie principali, si è convenuto differir di elegger in suo loco, perchè non si ha havuto suggetto corrispondente al bisogno; hora che si ritrova D. Galileo Galilei, che legge in Pisa con sua grandissima laude, et si può dir che sia il principale di questa professione, il qual contenta di venir quanto prima nel predetto Studio nostro a legger detta lettione, è a proposito di condurlo. Però

    L’anderà parte che ‘l detto D. Galileo Galilei sia conduto a legger in detto Studio nostro la prima lettione delle Matematiche per anni quattro de fermo, et dui di rispetto siano a beneplacito della S. N., con stipendio di fiorini cento ottanta all’anno.

       A parte tutte le manovre veneziane e padovane, il vero artefice dell’assunzione di Galileo a Padova sembra essere stato Guidobaldo del Monte ed il cardinale suo fratello. Un riscontro di ciò lo si ha in una lettera che ancora Guidobaldo invia a Galileo il 10 gennaio 1593.

desidero ancora, di saper che provision gli danno, perchè io vorrei che ella fusse trattata secondo il desiderio mio et i suoi meriti. Gran contento ho poi preso in veder che habbi dei scolari assai; chè spero che con il suo valor farà di maniera che molti attenderanno a questa scienza, et glie la farà conoscere, perchè ìnvero ella non è conosciuta se non da molti pochi.
Io non mancarò, con l’occasioni che mi presentaranno, di scrivere al S.” Gio. Battista dal Monte di quanto mi ricerca. Quanto poi che mi vogli haver obligo del luogho di Padova, io non voglio per niente che me ne habbi obligo, non havendoci io fatto niente; ma il tutto lo dia al suo valore et al suo molto sapere.

        E così iniziava questa nuova e feconda fase del ventottenne Galileo in Padova.

Roberto Renzetti


NOTE

(1) Per riferirmi alle opere di Galileo in Edizione Nazionale userò la sigla E.N. seguita dal numero del volume e dalle pagine. L’albero genealogico di Galileo si trova in E.N., XIX, pag. 15-16.

(2) Cosimo I de’ Medici detenne il potere dal 1537 al 1564. Alla sua morte il Granducato passò al figlio Francesco I che lo guidò fino al 1587. Alla morte di questi, probabilmente per avvelenamento, il potere passò al fratello Ferdinando I, che rinunciò alla porpora cardinalizia che vestiva per assumere la guida del Granducato, poi la rivestì e fece le due cose insieme, infine, per avere eredi, la lasciò definitivamente. Si sposò nel 1589 con Cristina di Lorena, alla quale sarà indirizzata la famosa lettera di Galileo, e lasciò il potere (alla sua morte nel 1609) al figlio Cosimo II.

(3) Il contratto di matrimonio tra Vincenzo e Giulia con l’elenco dei beni portati dalla sposa a Vincenzo sono in E.N., XIX, pagg. 17-20. Devo dire per evitare confusioni che il calendario pisano era diverso da altri calendari in uso. Per le date ho dato non quelle pisane ma quelle ordinarie oggi accettate.

(4) I resoconti delle spese di Muzio a Vincenzo sono in E.N., XIX, pag. 26-31.

(5) L’ultimo allievo di Galileo, come Vincenzo Viviani si definiva per essergli stato accanto dal 1639 al 1642, scrisse una biografia del maestro (non sempre troppo attendibile) sollecitata da Leopoldo de’ Medici e pubblicata nell’aprile del 1654. In tale biografia, che sarà il manifesto dell’Accademia del Cimento che lo stesso Leopoldo fondò a Firenze nel 1657, Viviani raccontava così i primi studi di Galileo:

«passò alcuni anni della sua gioventù nelli studii d’umanità appresso un maestro in Firenze, di vulgar fama, non potendo ‘l padre suo, aggravato da numerosa famiglia e constituito in assai scarsa fortuna, dargli comodità migliori, com’avrebbe voluto, col mantenerlo fuori in qualche collegio, scorgendolo di tale spirito e di tanta accortezza che ne sperava progresso non ordinario in qualunque professione e’ l’avesse indirizzato. Ma il giovane, conoscendo la tenuità del suo stato e volendo pur sollevare, si propose di supplire alla povertà della sua sorte con la propria assiduità negli studi; che perciò datosi alla lettura delli autori latini di prima classe, giunse da per se stesso a quella erudizione nelle lettere umane […] In quel tempo si diede ancora ad apprendere la lingua greca, della quale fece acquisto non mediocre, conservandola e servendosene poi opportunamente nelli studi più gravi» .

(6) Dal Volume Galileo a Pisa, leggiamo ulteriori dettagli sul funzionamento della scuola pubblica a Pisa  dalle istruzioni didattiche che ebbe Antonio Leonardi. In sunto si dice: Si fanno 33 ore di insegnamento a settimana (3 la mattina e 3 il pomeriggio per 5 giorni, più 3 il sabato). Il sabato si ripetevano i versi imparati a memoria e gli studenti dovevano poi fare una lezione a turno. Gli studenti sono divisi in tre ordini: minori, mezzani e maggiori. Stanno tutti insieme nella stessa aula. Il venerdì si fa una lezione unica e poi si ripete il programma svolto. Vi sono ispezioni mensili per accertare l’apprendimento degli studenti.

(7) Galileo all’epoca aveva 14 anni e requisito per l’ammissione alla Sapienza era, oltre all’indigenza (che c’era tutto), l’aver compiuto i 18 anni. Probabilmente Vincenzo aveva una qualche speranza di iscrizione viste le particolari abilità del figlio (da lui riscontrate), altrimenti non si capisce bene a che titolo ne chiedeva l’iscrizione.

(8) Il sito dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza (IMSS) di Firenze aggiunge le seguenti informazioni:

Il piccolo Galileo ebbe perciò la prima istruzione elementare presso la scuola pubblica della comunità di Pisa, che assumeva con impegni triennali un maestro “di scrivere”, uno di grammatica e uno d’abbaco, obbligandoli per contratto a trovare una sede idonea e, secondo un documento conservato presso l’Archivio di Stato di Pisa, ad insegnare «a tutti egualmente tanto al povero quanto al riccho cittadino». Forse Galileo apprese allora anche i primi rudimenti del greco, dato che Antonio Leonardi da Castiglione, uno dei maestri di grammatica che insegnò nel periodo della sua frequenza scolastica, compresa verosimilmente fra il 1569 e il 1574, ebbe (e fu uno dei pochi) anche l’incarico di magister literarum graecarum.
Verso la fine del 1574 Galileo si trasferì a Firenze per raggiungere il padre, che aveva lasciato Pisa già da qualche tempo. Vi trascorse alcuni anni proseguendo la propria istruzione e perfezionandosi tanto negli «studii d’umanità, lingua greca e dialettica», quanto nel disegno e nella musica (pare fosse abile suonatore di liuto). A detta di Niccolò Gherardini che nel 1654 scrisse una elogiativa Vita di Galileo, comunque poco informato sugli anni giovanili, fu mandato «alla scuola di grammatica appresso d’un tal professore, huomo assai dozzinale, che insegnava in una casa di propria abitazione posta in via de’ Bardi». E la famiglia Galilei abitava forse non lontano, perché in calce a una lettera di Muzio Tedaldi indirizzata al padre si legge: «data a Pier Francesco Lapini, di contro al monte de’ Torrigiani», corrispondente alla collina retrostante a Palazzo de’ Mozzi in Oltrarno, Bardi.
In seguito proseguì gli studi presso i monaci vallombrosani, non è chiaro se proprio nel monastero di Vallombrosa o nella comunità di Santa Trinità, come sostiene il Viviani, entrando nell’ordine, parrebbe, addirittura come novizio. Appartengono a questo periodo alcuni appunti autografi riguardanti la logica aristotelica, probabilmente esemplati sulle lezioni tenute dai Gesuiti del Collegio Romano. Il padre, però, non permise che terminasse il corso di studi, «sotto pretesto di condurlo a Fiorenza per curarlo di una grave oftalmia», come ci riporta, non senza insinuazioni, l’abate vallombrosano Diego Franchi. Era il 1578. Nel 1580 Galileo tornò nuovamente a Pisa, per immatricolarsi all’Università come artista, cioè studente in medicina e filosofia, vivendo sempre sotto l’ala protettiva di Muzio Tedaldi, nella cui casa era ospite.

(9) La deposizione di Galileo ed il resto del giudizio lo si trova in E.N. XIX, pagg. 44-108.

(10) Federico Commandino (1509-1575) di Urbino fu matematico e traduttore in latino dei classici della matematica ellenistici, tra cui alcune opere di Archimede come il Trattato dei corpi galleggianti,inserite nel suo Archimedis Opera nonnulla del 1558 e il De iis quae vehuntur in aqua libri duo (Delle cose che galleggiano sull’acqua) del 1565. Tradusse inoltre opere di Aristarco di Samo (Su le grandezze e le distanze del Sole e della Luna), la Collezione matematica di Pappo di Alessandria, Euclide, i primi quattro libri delle Coniche di Apollonio, alcuni scritti di Tolomeo e di Erone di Alessandria ed altre opere di autori minori. Scrisse poi un Liber de centro gravitatis solidorum che, unitamente alle opere di Archimede, Galileo studiò.

(11) Francesco Maurolico (1494-1575) di Messina  fu matematico e scienziato in genere noto per le sue molteplici attività tra cui lo sviluppo del metodo dell’induzione matematica, lo studio di metodi per la misura della Terra, vari studi astronomici e geografici (compresa la fornitura di mappe per la flotta che partecipò alla battaglia di Lepanto).

(12) La Tavola si trova in E.N. I, pagg. 221-228.

(13) Le Postille ai libri De Sphaera et Cylindro di Archimede si trovano in E.N. I, pagg 229-242. Si tratta del testo di Archimede (in latino) De Sphaera et Cylindro annotato a margine da Galileo (sempre in latino).

(14) I Theoremata si trovano in E.N. I, pagg. 181-208. Si fa riferimento ad essi nei Discorsi in E.N. VIII, pag. 313, dove si dice:

SALV. Queste sono alcune proposizioni attenenti al centro di gravità de i solidi, le quali in sua gioventù andò ritrovando il nostro Accademico [Galileo, ndr] parendogli che quello che in tal materia aveva scritto Federigo Comandino non mancasse di qualche imperfezzione. Credette dunque con queste proposizioni, che qui vedete scritte, poter supplire a quello che si desiderava nel libro del Comandino; ed applicossi a questa contemplazione ad instanza dell’ Illustrissimo Sig. Marchese Guid’ Ubaldo Del Monte, grandissimo matematico de’ suoi tempi, come le diverse sue opere publicate ne mostrano, ed a quel Signore ne dette copia, con pensiero di andar seguitando cotal materia anco ne gli altri solidi non tocchi dal Comandino; ma incontratosi, dopo alcun tempo, nel libro del Sig. Luca Valerio, massimo geometra, e veduto come egli risolve tutta questa materia senza niente lasciar in dietro, non seguitò più avanti, ben che le aggressioni sue siano per strade molto diverse da quelle del Sig. Valerio.

(15) Guidobaldo del Monte (1545-1607),  nato nel Granducato di Urbino, fu matematico, astronomo e filosofo. Studiò a Padova dove strinse amicizia con Torquato Tasso (1544-1595). Approfondì i suoi studi di matematica con l’aiuto di Commandino diventando uno dei massimi studiosi di meccanica e matematica del Cinquecento. Pubblicò un importantissimo Mechanicorum liber (1557) ed un libro sulla prospettiva Perspectivae Libri VI (1600).

(16) E.N. X, pagg. 21-22.

(17) E.N. XIX, pag. 36. Galileo, in questo documento affermava di avere 26 anni ma in realtà ne aveva 23. Evidentemente la giovane età era un ostacolo. La lettera di raccomandazione del Cardinale Enrico Caetani che cito qual seguito è in E.N. X, pag. 26-27.

(18) Cristoforo- ero grande diffusione ed influenza e dette importanti contributi alla definizione del calendario gregoriano.

(19) E.N. X, pagg. 22-23.

(20) agg. 24-25.

(21) E.N. X, pagg. 25-26.

(22) E.N. I, pag. 183.

(23) E.N. IX, pag. 31-57.

(24) Notizie molto dettagliate sulle divergenze esistenti nell’interpretazione della geografia dell’Inferno di Dante si trovano in T. B. Settle, EXPERIMENTAL SENSE IN GALILEO’S EARLY WORKS AND ITS LIKELY SOURCES pubblicato su  LARGO CAMPO DI FILOSOFARE un volume nato in occasione dell’EUROSYMPOSIUM GALILEO 2001, tenutosi presso la FUNDACIÓN CANARIA OROTAVA DE HISTORIA DE LA CIENCIA (Tenerife) ed organizzata e diretta da José Montesinos e

(25) Il pittore e matematico tedesco Albrecht Dürer (1471–1528) scrisse un trattato, Unterweisung der Messung mit dem Zirkel und Richtscheit (Trattato sulle misure con riga e compasso, 1525) in 4 volumi, che fu il primo testo di matematica pubblicato a stampa in Germania (che era una sorta di seconda edizione di un primo suo testo sulle proporzioni considerato troppo complesso) e che fa di Dürer anche uno dei maggiori matematici del Rinascimento. Il primo volume tratta della costruzione di svariate curve (Spirale di Archimede, Spirale logaritmica, Concoide, Curva a conchiglia di  Dürer, Epicicloide, Epitrocoide, Ipocicloide, Ipotrocoide, Chiocciola di Pascal). Nel secondo volume si fornisce un metodo esatto ed approssimato di costruzione di poligoni regolari, un metodo per la quadratura del cerchio con riga e compasso ed uno per trovare con buona approssimazione la trisezione dell’angolo con costruzione euclidea. Nel terzo volume si studiano piramidi, cilindri ed altri corpi solidi. Inoltre si studiano strumenti astronomici. Nell’ultimo volume si studiano i cinque solidi regolari ed i semiregolari di Archimede. Inoltre si introduce la teoria della prospettiva e delle ombre. Questa geometria descrittiva sarà utilizzata da Monge per l’elaborazione della teoria delle proiezioni.

(26) E.N. IX, pagg. 63-148. Ci informa Festa che: “Delle Considerazioni sul Tasso esiste un solo manoscritto che fu pubblicato per la prima volta a Roma nel 1793 da Giuseppe Iseo col titolo Considerazioni al Tasso di Galileo Galilei. L’autografo era andato perduto, ma la sua copia, ritrovata e nascosta nel 1777 dall’abate Pier Antonio Serassi, fu riportata alla luce da Luigi Maria Rezzi nel 1851. Secondo Vincenzo Viviani, le Considerazioni furono richieste a Galileo durante il soggiorno pisano. Tuttavia dei dubbi sussistono sulla datazione. «Il frequente biasimare che fa Galileo – scrive Antonio Favaro – di certi passi della Gerusalemme come artifizi da piacere ai giovani, all’inesperta gioventù, ai principianti, ai fanciulli, sembra linguaggio più da uomo maturo che da giovane non ancora trentenne» (E.N. IX, pag. 12). Vero è che tali osservazioni male si addicono al carattere gioviale e talvolta burlesco del giovane Galileo”.

(27) E.N. IX, pagg. 149-194. Ancora da Festa leggiamo: “Le Postille all’Ariosto, sulla cui data di composizione non esistono precise indicazioni, furono diligentemente ricopiate, ad opera del Viviani, da un esemplare non pervenutoci dell’Orlando Furioso. Viviani ebbe cura di riportare anche le postille annotate da Galileo sui margini di un altro esemplare, stampato a Venezia nel 1603. Non è sicuro, tuttavia, che le Postille siano tutte posteriori alle Considerazioni al Tasso. Le vere Postille all’Ariosto furono pubblicate per la prima volta nel tomo IX dell’Edizione Nazionale. «Ciò affermiamo – scrive Antonio Favaro – senza tema di essere smentiti […]. Poche invero tra le scritture del Nostro hanno avuto la mala ventura d’essere siffattamente alterate da chi prima le trasse dai manoscritti, e fu poi fedelmente seguito dai successivi editori» (E.N. IX pag. 19)”.  

(28) Sullo stesso argomento Antonio Banfi usa pagine profondamente ispirate:

Tale atteggiamento, che dà rilievo alla freschezza di spirito di Galileo, come quella in cui il definirsi di un’attività spirituale condiziona il chiarificarsi delle valutazioni proprie delle altre, che la sua personalità vibrante ed elastica sostiene, appare in quelle Postille all’Ariosto e in quelle Considerazioni al Tasso i cui concetti furono ripresi anche più tardi, ma la cui origine è da ricercarsi in questo tempo. La profonda stima letteraria per l’Ariosto ch’egli considera come «grande poeta, argutissimo, a niun altro inferiore», nasce dal fatto che nell’opera sua egli vede rispecchiata la piena libertà del mondo poetico come pura fantasia, di cui egli dirà nel Saggiatore che la cosa meno importante è che il suo contenuto corrisponda a verità, a quella verità che è scritta nel libro della natura «in lingua matematica». Pure, se questa fantasia deve essere arte, se essa deve esser libera tanto dai riflessi soggettivi del sentimento individuale, quanto dall’imitazione pedissequamente realistica o dalle determinazioni concettuali, deve avere una propria interna legge di connessione armonica, deve costituire in altre parole una intuizione idealmente obbiettiva, in sé organica e conclusa. È appunto l’ideale classico dell’opera d’arte nella interna ed esterna conclusa armonia dell’intuizione che vi si esprime, quello che il Galilei difende, armonia in cui la fantasia artistica è preservata dal dissolversi o soggettivamente nel sentimentalismo o oggettivamente nel realismo e nel concettualismo. Ora, poiché la polemica tra gli ammiratori dell’ Ariosto e del Tasso è polemica tra l’ideale d’arte classico e barocco, è naturale che Galileo prenda nettamente le parti dell’Ariosto, dove alla ricchezza della fantasia corrisponde la plasticità dell’immagine, la coerenza dei caratteri, la proprietà dello stile, della lingua, del verso e dove la visione si avaria in così vasto e pur rispondente numero e fluidità di particolari, da offrire realmente l’aspetto di un mondo svolgentesi dalla pienezza di una propria vita. Le proposte di correzione che Galileo fa all’Orlando Furioso nelle sue postille, essenzialmente metriche e stilistiche, rivolte a unificare il ritmo del verso e della strofa, accrescendo la loro musicalità e a togliere le imprecisioni dell’espressione, gli arcaismi inutili e le oscurità, i vocaboli e le frasi non convenienti alla scena, non sono che ritocchi fatti, secondo il Galilei, nello spirito stesso dell’ideale classico cui obbedisce l’Ariosto. Nel Tasso invece il Galilei nota con una povertà di fantasia che non riesce a creare l’immagine di un mondo complesso, l’intrusione da un lato del sentimentalismo, dall’altro di preoccupazioni estrinseche che turbano la visione, siano esse religiose, teoretiche o realistiche. A ciò corrisponde la mancanza di varietà ed elasticità nel ritmo, la incoerenza delle figure, la decorazione barocca che falsa la purità dell’immagine con giochi di parole antitesi preziosità, la maniera e l’imitazione facilmente apparenti.
Comunque si debba giudicare la critica galileiana in rapporto alla nostra, che, attraverso le esperienze dell’arte moderna, ha acquistato una straordinaria elasticità di valutazione dei fatti estetici e la capacità di un apprezzamento positivo di motivi interni di tensione dell’opera d’arte, anche là dove, espressione di una problematicità piti complessa che nasce da uno sviluppo più universale dell’esigenza estetica, sembrano spezzare l’ideale obbiettività dell’opera d’arte stessa, è certo che l’ideale classico rimase sempre presente allo spirito di Galileo, come criterio non solo del giudizio estetico, ma della sua stessa creazione letteraria.
Questa ricerca della proprietà schietta della lingua, della coerenza del tono, della vivente unità della visione, che perciò egli svarierà nel dialogo, dando alle idee un valore personale, mantenendo ad ogni persona la sua tipica impostazione spirituale e riconducendo queste, in un gioco sempre variato, a vivente contatto, gli renderà possibile di offrire alla concezione scientifica del reale, di cui egli pure rileva solo aspetti frammentari, secondo un processo metodico estensibile all’infinito, un’espressione esteticamente conclusa, capace di quella vasta azione sugli spiriti, a cui egli, sin dall’inizio, aspirava.

(29) E.N. X, pag. 36.

(30) Galileo si riferisce qui al fatto che il titolare del lettorato di Matematica nello Studio di Pisa, Filippo Fantoni, aveva lasciato la cattedra vacante per poi riprenderla proprio quando Galileo chiedeva di poterla occupare. La richiesta a Guidobaldo è ora per un lettorato a Firenze.

(31) E.N. X, pag. 37.

(32) Nel 1589 Galileo scrisse anche la Tractatio de praecognitionibus et praecognitis e la Tractatio de demonstratione. Così come nel 1584 scrisse il De universo e nel 1588  il Tractatus de elementis e il De motu fiorentino. E come nel 1590 scriverà il De motu pisano e alcuni commentari geo-eliocentrici all’ Almagesto di TolomeoHo qui citato quanto ho trovato in varia letteratura ma non sono riuscito ad avere altre informazioni su questi scritti. Certamente i due De motu, il fiorentino ed il pisano saranno prime stesure del De motu che tra poco vedremo.

(33) L’insegnamento dell’astronomia era finalizzato alle determinazioni astrologiche. Chi insegnava matematica era generalmente chiamato o matematico o astronomo o astrologo. E la matematica era insegnata nella Facoltà di Arti al fine soprattutto di fornire ai medici quelle nozioni di astrologia (detta giudiziaria) che li mettessero in grado di trovare quei giorni importanti (critici), dal punto di vista di Galeno, nello svolgersi di una  malattia.

(34) Il Capitolo contro il portar la toga si trova in E.N. IX, pagg. 213-223. Fu scritto tra il 1589 ed il 1592, nel periodo pisano, appunto.

(35) E.N. XIX, pagg. 109-110. Nel documento di morte di Vincenzo si dice che fu sepolto in Santa Croce e vengono riportate le spese del funerale e quelle per vestire a bruno la madre e’ figlioli per la morte del padre (una cioppa per la serva e zimarra per Galileo).

(36) E.N. I, pagg. 243-319.

(37) Pierre Duhem, Les origines de la statique (The Origins of the Static)1. Harvard University Press; Études sur Léonard de Vinci, Paris, F. De Nobele, 1906-13. L’università di Stanford, che racconta Duhem dedicandogli molto spazio e ricordandoci che era un esponente dell’energetismo (che si affiancava all’idealismo e ad Hegel) insieme a Otswald ed Helm, scrive:

Duhem started from the concept of the thermodynamic potential (the topic of his failed thesis), deploying it in a manner similar to that of potentials in mechanics, so as to represent all physical and chemical changes. The program finds its mature statement in his Traité d’énergétique of 1911; it was well received by late-nineteenth-century energeticists, such as Wilhelm Ostwald and Georg Helm. So important was energetics for Duhem, that his work in the history and philosophy of science has been viewed as an attempt to defend its aims and methods (see Lowinger 1941). More recently, Niall Martin and others have argued for the importance of religious motives in Duhem’s work (see Martin 1991, Jaki 1991) and it has become clear in the course of Duhem’s writings that he expected the endpoint of science to harmonize with the teachings of the Catholic Church. […]

With work such as Whewell’s being typical of Duhem’s intellectual context, when Duhem wrote L’évolution de la mécanique, in 1903, he dismissed the Middle Ages as scientifically sterile. Similarly, Duhem’s history of chemical combination, Le mixte et la combinaison chimique, published in book-form in 1902, had jumped from Aristotle’s concept of mixtio to modern concepts. It was only in 1904, while writing Les origines de la statique that Duhem came across an unusual reference to a then-unknown medieval thinker, Jordanus de Nemore. His pursuit of this reference, and the research to which it led, is widely acknowledged to have created the field of the history of medieval science. Where Duhem’s previous histories had been silent, Les origines de la statique contained a number of chapters on medieval science: one treated Jordanus de Nemore; another treated his followers; a third argued their influence on Leonardo de Vinci. In the second volume, Duhem greatly extended his historical scope. As expected, he covered seventeenth-century statics, but he also returned to the middle ages, spending four chapters on geostatics, including the work of Albert of Saxony in the fourteenth century. Les origines de la statique is thus a transition from Duhem’s early conventional histories to the later work for which he is best known, Etudes sur Léonard de Vinci, and Le Système du monde, in which his thesis of the continuity of late medieval and early modern science is fully displayed.

From 1906 to 1913, Duhem delved deeply into his favorite guide for the recovery of the past, the scientific notebooks of Leonardo de Vinci. He published a series of essays uncovering de Vinci’s medieval sources and their influences on the moderns. The third volume of Duhem’s Etudes sur Léonard de Vinci gained a new subtitle, Les précurseurs parisiens de Galilée, announcing Duhem’s bold new thesis that even the works of Galileo had a medieval heritage; reviewing his historical accomplishments, Duhem summarized them as follows:

When we see the science of Galileo triumph over the stubborn Peripatetic philosophy of somebody like Cremonini, we believe, since we are ill-informed about the history of human thought, that we are witness to the victory of modern, young science over medieval philosophy, so obstinate in its mechanical repetition. In truth, we are contemplating the well-paved triumph of the science born at Paris during the fourteenth century over the doctrines of Aristotle and Averroes, restored into repute by the Italian Renaissance. (1917, 162; 1996, 193.)

Duhem presented Galilean dynamics as a continuous development out of medieval dynamics. He recovered the late medieval theory of impetus, tracing it from John Philoponus’ criticism of Aristotle to its mature statements in the fourteenth century works of John Buridan and Nicole Oresme: “The role that impetus played in Buridan’s dynamics is exactly the one that Galileo attributed to impeto or momento, Descartes to ‘quantity of motion,’ and Leibniz finally to vis viva. So exact is this correspondence that, in order to exhibit Galileo’s dynamics, Torricelli, in his Lezioni accademiche, often took up Buridan’s reasons and almost his exact words” (1917, 163-62; 1996, 194). Duhem then sketched the extension of impetus theory from terrestrial dynamics to the motions of the heavens and earth:

Nicole Oresme attributed to the earth a natural impetus similar to the one Buridan attributed to the celestial orbs. In order to account for the vertical fall of weights, he allowed that one must compose this impetus by which the mobile rotates around the earth with the impetus engendered by weight. The principle he distinctly formulated was only obscurely indicated by Copernicus and merely repeated by Giordano Bruno. Galileo used geometry to derive the consequences of that principle, but without correcting the incorrect form of the law of inertia implied in it. (1917, 166; 1996, 196.)

Duhem’s essays on Leonardo de Vinci concluded with a speculation about the means for the transmission of medieval ideas to modern science. Since the studies of Buridan and Oresme had remained in large part in manuscript, Duhem suggested that Albert of Saxony, whose works were printed and reprinted during the sixteenth century, was the likely link to Galileo. Duhem’s key to understanding the transmission of medieval science was Galileo’s use of the phrase Doctores Parisienses, a conventional label denoting Buridan and Oresme, among others. Based on evidence including references to certain unusual doctrines and the particular order in which the questions were arranged, Duhem conjectured that Galileo had consulted George Lokert’s compilation of Albert of Saxony, Themo Judaeus, and others, and the works of the Dominican Domingo de Soto (1906-13, III.582-83). Duhem’s conjecture has been revised and expanded upon: The means of transmission has been made clearer because of the labor of A. C. Crombie, Adriano Carugo, and William Wallace.

(38) Anneliese Maier, On the Threshold of Exact Science: Selected Writings of Anneliese Maier on Late Medieval Natural Philosophy, Steven D. Sargent, ed. and trans. (Philadelphia: University of Pennsylvania Press, 1982).

(39) Aristotele, Fisica. Del cielo, pagg. 255-256.

(40) De motu, E.N. I, pag. 316.

(41) Si può ben capire che in questa visione di virtus acquistata e poi gradualmente persa, anche durante la caduta, non vi è spazio per l’accelerazione. In questa fase giovanile di Galileo vi è un qualcosa, la virtù, che interviene solo all’inizio di un fenomeno e non si mantiene indefinitamente.

(42) De motu, E.N. I, pagg. 319-320.

(43) De motu, E.N. I, pag. 322.

(44) Un’analisi molto più in dettaglio del De motu, viene fatta da Camerota. Leggiamola perché di grande interesse:

Fin dall’esordio della redazione più ampia, quella consegnata al trattato in 23 capitoli, Galileo mette esplicitamente in chiaro che il moto naturale, sia esso verso l’alto o verso il basso, risulta sempre prodotto dal peso o dalla leggerezza del mobile. Il proposito galileiano è dunque quello di spiegare il fenomeno del movimento associando le caratteristiche dinamiche “naturali” dei corpi alle specie della pesantezza e della leggerezza. Sotto questo profilo, l’orientamento dei De motu non sembra, in prima istanza, distaccarsi troppo dall’impianto teorico proprio della fisica peripatetica.
La differenza di impostazione della teoria galileiana diviene tuttavia immediatamente evidente a partire dalla conclamata necessità di determinare con grande accuratezza l’estensione dei concetti di levius (‘più leggero’), gravius (‘più pesante’) e aeque grave (‘di ugual peso’), la cui approssimazione – sostiene Galileo – è sovente fonte di errori. Allo scopo di sciogliere l’equivocità insita nella commisurazione di differenti gravitates, giungendo a definire con precisione in che modo un corpo risulti effettivamente più pesante o più leggero di un altro, egli rileva che «dovranno dirsi dello stesso peso, quelle cose che, a parità di dimensioni, saranno anche eguali nel peso». In sostanza, per disambiguare i concetti di gravius, levius e aequegrave (strettamennte legati al prodursi del movimento) si suggerisce di istituire un confronto tra pesi specifici.
A partire da tali considerazioni, Galileo fa della nozione di gravità specifica il nucleo concettuale di un modello, largamente costruito in analogia con gli studi idrostatici di Archimede, col quale intende spiegare tutti i principali fenomeni del moto.
È proprio in virtù di un simile approccio che la dottrina galileiana esposta nei De motu istituisce un insanabile motivo di contrasto con la fisica peripatetica. I riflessi antiaristotelici della nuova considerazione del peso cominciano a scorgersi nel chiarimento del concetto di “più leggero” (levius), definito come il minor peso nella comparazione tra parti eguali di due corpi: «levius est censendum, cuius pars acccpta, alterius parti in mole aequalis, in gravitate minor esse inveenietur». L’espressione in gravitate minor contraddice una fondamentale tesi della fisica aristotelica, quella che afferma l’esistenza di una levitas (‘leggerezza’), intesa come qualità positiva ed effettivamente operante nel moto ascensionale. Sostenere che il “più leggero” (levius) è tale in virtù della sua minor pesantezza, importa, invece, come conseguenza che tutti gli enti condividano lo stesso attributo della gravità, siano cioè, sempre, più o meno pesanti. La levitas acquista così una caratterizzazione meramente relativa, denotando una situazione di minore gravità rispetto ad un preciso termine di confronto. La concezione peripatetica dell’esistenza di una leggerezza positiva (ossia di una condizione di totale assenza di peso) veniva, dunque, nei De motu, messa in questione e apertamente sfidata.
All’interno di una simile impostazione problematica, Galileo procede a definire le regole che governano la sua teoria del moto naturale in stretta analogia con le leggi idrostatiche archimedee. Egli assume, quindi, come quadro di riferimento la comparazione delle gravità specifiche del mobile e del mezzo. Si delineano cosi tre casi: 1) i corpi dello stesso peso specifico del mezzo nel quale sono immersi non si muovono né verso l’alto né verso il basso; 2) i corpi più leggeri del mezzo ambiente ascendono; 3) i corpi più pesanti del mezzo circostante procedono necessariamente verso il basso. Il moto naturale viene, pertanto, riportato alla sperequazione sussistente tra il peso specifico del mobile e quello del mezzo in cui il corpo si trova immerso. Nella prospettiva galileiana un simile confronto di gravità specifiche non conduce solo alla determinazione della causa e della direzione del moto, ma funge anche da misura della velocità stessa del movimento. In tal senso, quando il peso specifico p del corpo a è maggiore di quello del mezzo m, il movimento sarà diretto verso il basso con una velocità eguale alla differenza pa – pm. Nel caso, invece, che pa < pm, il corpo si sposterà con un moto ascensionale, la cui velocità equivarrà a pm– pa. Infine, quando pa = pm allora la velocità sarà pari a zero (v = 0); si avrà, in sostanza, uno stato di equilibrio-quiete.
L’aver stabilito che la velocità del moto è misurata dalla differenza tra le gravità specifiche del corpo e del mezzo ambiente, conduce Galileo ad affermare che mobili della stessa materia, in un medesimo mezzo, si muovono con eguale velocità, qualunque sia la loro mole. Ciò dipende dal fatto che, al di là della diversità di dimensione, se due corpi sono omogenei (della stessa specie), essi hanno anche un identico peso specifico, e poiché nella determinazione della velocità del moto ciò che conta è la comparazione tra i pesi di eguali volumi del mobile e del mezzo, ne consegue che mobili della stessa materia si muoveranno appunto con eguale velocità (perché identica sarà la differenza tra il loro peso specifico e quello del mezzo). Non è difficile scorgere in questa tesi quanto Viviani, nel suo resoconto dell’esperimento della Torre Pendente, attribuiva a Galileo: «le velocità de’ mobili dell’istessa materia, disegualmente gravi, movendosi per un’istesso mezzo, non conservano altrimenti la proporzione delle gravità loro, assegnatagli da Aristotele, anzi […] si muovon tutti con pari velocità».
La dimostrazione della tesi galileiana dell’eguale velocità di caduta per gravi omogenei è affidata ad un ragionamento paradossale che prende le mosse dal presupposto – congruente con gli assunti della dinamica aristotelica – per cui, dati due corpi di cui uno si muova più rapidamente dell’altro, il loro composto dovrebbe procedere con una velocità maggiore di quella del più lento e minore di quella del più veloce. Tale composto ha, tuttavia, una mole più grande di quella del suo componente più veloce; da ciò si dovrebbe concludere che «il mobile maggiore [il composto] si muoverà più lentamente del minore [il suo componente]; il che è palesemente assurdo». […]
L’asserzione galileiana dell’identica velocità dei corpi della stessa specie rivestiva una marcata valenza antiperipatetica, contraddicendo in modo netto la conclusione aristotelica di una velocità direttamente proporzionale al peso assoluto del mobile e inversamente proporzionale alla resistenza del mezzo. Questa dottrina aristotelica era già stata messa in dubbio, e spesso respinta, già nell’antichità, ma le confutazioni a riguardo si moltiplicarono e divennero notevolmente significative nell’ambito del XVI secolo. In .particolare, la dimostrazione galileiana della eguale velocità di caduta per corpi omogenei appare assai simile a quella già esposta dal veneziano Giovanni Battista Benedetti [che, contrariamente a Galileo, era un sostenitore della teoria dell’impetus, ndr], il quale, per giunta, la enunciava nel quadro di una prospettiva teorica del tutto analoga a quella del giovane Galileo.
La notevole affinità riscontrabile tra le tesi dei De motu e le concezioni del Benedetti è all’origine di una autorevole tradizione interpretativa, secondo cui gli studi “pisani” sul moto utilizzerebbero, in larga misura, le acquisizioni del Bcnedetti. È, invero, assai difficile stabilire se Galileo abbia effettivamente tratto ispirazione dalla lettura di qualche testo dello scienziato veneziano: mai, né negli scritti al centro della nostra attenzione né in alcuna delle altre opere galileiane, ricorre il nome di Benedetti. Va anche osservato che più recenti, approfondite indagini hanno messo in evidenza alcune significative discrepanze tra il pensiero dei due autori, mentre, d’altro canto, occorre ricordare che, nella sua discussione contra Aristotelem del problema della caduta, ]acopo Mazzoni – il quale, come detto, fu amico e stretto interlocutore scientifico di Galileo negli anni pisani – richiama esplicitamente il nome del Benedetti.
Lasciando da parte la pur importante questione delle fonti (o meglio di quella che è stata per lungo tempo considerata “la fonte”) della dottrina dei De motu, dobbiamo ora notare che il nucleo teorico della concezione galileiana – il principio eguagliante la velocità di un corpo in movimento alla differenza tra il suo peso specifico e quello del mezzo ambiente – veniva ad intaccare un ulteriore, importantissimo assunto della fisica peripatetica. Ci riferiamo all’impostazione dinamica per cui, secondo Aristotele, la velocità del moto va calcolata a partire dal rapporto, e non dalla differenza, come voleva Galileo, dei fattori che svolgono le funzioni della forza e della resistenza. Conformemente al presupposto aristotelico (che possiamo schematizzare con la formula: V = F/R), nel caso di uno stesso corpo mosso in due differenti mezzi, la proporzione delle velocità dei due moti verrebbe a coincidere con il rapporto tra le diverse densità dei mezzi, in quanto il peso del mobile non svolgerebbe, nella circostanza, alcun ruolo. Nei confronti dell’approccio peripatetico, Galileo sviluppa una critica serrata, incentrata sul paradosso, implicito in quel modello, per cui, posti un mobile e un mezzo della medesima gravità specifica (in una situazione, dunque, in cui la forza risulta eguale alla resistenza), qualora si applicasse la formula peripatetica: V = F/R, la velocità V risulterebbe pari a 1 (e non a zero), rivelando cosi l’esistenza di un movimento laddove l’equivalenza delle componenti in gioco (F = R) dovrebbe invece indurre un equilibrio statico.
Una importante conseguenza della nuova prospettiva dei De motu va ancora individuata nella messa in questione della dimostrazione aristotelica della impossibilità del vuoto, motivata a partire dal fatto che, in assenza di un mezzo di una qualche densità, il movimento avrebbe un carattere istantaneo, poiché la velocità sarebbe infinita. Galileo rileva che il ragionamento sarebbe perfettamente ammissibile, qualora le sue premesse fossero vere. Tuttavia, Aristotele ha fatto leva su una concezione dinamica assolutamente errata, basata sull’assunzione di un rapporto tra peso del corpo e densità del mezzo, mentre è invece corretto sottrarre le due quantità. Sostituendo, quindi, al maldestro procedimento aristotelico il vero metodo di determinazione delle velocità, per cui esse risultano dalla differenza tra i pesi specifici del mobile e del mezzo, la presunta istantaneità del moto nel vuoto svanisce, in quanto sottraendo zero (il valore della resistenza-densità del vuoto) dal numero che esprime il valore del peso specifico di un certo corpo, si rimane sempre nei limiti di grandezze finite. Solo nel vuoto, anzi, la velocità di caduta risulta direttamente proporzionale al peso, in quanto l’assenza di resistenza del mezzo implica che nulla venga sottratto al peso specifico del mobile. È solo nel vuoto, dunque, che tutti i corpi manifestano le loro reali differenze di gravità. Quando, invece, si trovano immersi in un mezzo essi appaiono sempre più o meno pesanti (e quindi più o meno veloci) a seconda della densità del mezzo che li circonda. Si noti come questa conclusione sia in singolare contrasto con una notevole, posteriore, acquisizione della riflessione galileiana sul moto, compiutamente esposta nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, dove si afferma che, ben lungi dal manifestare differenze di sorta, nel vuoto i corpi cadono tutti con la medesima velocità.
Come si può constatare a partire dagli appena richiamati, interessanti spunti, pur restando nell’ambito di una sostanziale identità di vedute con l’orientamento generale della fisica di Aristotele per ciò che attiene al principio di una diretta correlazione tra moto e peso (inteso però come peso specifico), il giovane Galileo si rivela in grado di sviluppare un’incisiva, profonda critica del paradigma teorico peripatetico.
Né i rilievi polemici concernono solo il merito delle dottrine scientifiche. Alla denuncia dell’inattendibilità della concezione dinamica
aristotelica, si affianca, infatti, l’accusa di una insipienza geometrica tanto macroscopica da potersi dimostrare che il grande Aristotele ignorava «minima etiam principia huius scientiae». Di contro all’incuranza e all’imperizia matematica degli aristotelici, Galileo dichiara quindi esplicitamente che la propria metodologia segue il modo di procedere tipico della scienza dei numeri e dell’esattezza, sottolineando, al contempo, come, senza il ricorso alla matematica, non sia affatto possibile acquisire alcuna certa e veridica conoscenza:

Tacciano, dunque, quelli che sostengono di poter conseguire una conoscenza filosofica senza aver nozione della divina matematica. E chi mai oserà negare che con la sola guida della matematica si riesce a discernere il vero dal falso, e che col suo aiuto si amplifica l’acutezza dell’ingegno, e, infine, che, seguendola, è possibile percepire e comprendere tutto ciò che di vero si conosce tra i mortali.

Gli scritti De motu testimoniano, dunque, l’emergere, da parte galileiana, di una precisa consapevolezza in merito alla crucialità della applicazione dell’analisi matematica all’indagine naturalistica. Da questo punto di vista, la critica al modello peripatetico non colpiva solo gli specifici esiti fisici di quelle concezioni, ma investiva altresì lo stesso impianto epistemologico della scienza aristotelica.
Il progetto di una nuova dinamica alternativa a quella peripatetica poneva, nondimeno, un cospicuo problema, identificabile nel mancato riconoscimento, implicito nel modello teorico para-archimedeo assunto dal giovane Galileo, di un processo di accelerazione nel moto di caduta libera. La concezione delineata nei De motu si configura, a tutti gli effetti, come una dinamica di movimenti uniformi, in cui l’invarianza degli elementi decisivi ai fini del moto naturale (i pesi specifici del mobile e del mezzo) implica come ineluttabile conseguenza una velocità di discesa affatto costante. La spiegazione dell’evidente carattere accelerato del moto di caduta non può, infatti, essere affidata a nessuno dei due termini che entrano a produrre il movimento naturale (la gravità in specie del mobile e quella del mezzo), in quanto entrambi rappresentano fattori che, di per sé, non subiscono alcun mutamento durante il moto. Allo scopo di risolvere tale difficoltà, Galileo postula, quindi, una causa estrinseca dell’accelerazione di caduta, rappresentata da una forza, la virtus impressa, “preternaturale” e “accidentale”, che agisce sui mobili contribuendo ad aumentarne la velocità.
L’espressione virtus impressa rappresenta, storicamente, il corrispondente latino della locuzione greca dunamis endoqeisa, usata dal commentatore aristotelico Giovanni Filopono (VI sec.) per spiegare il moto dei proiettili. Questi si opponeva alla concezione enunciata da Aristotele, secondo cui gli oggetti scagliati procedono, dopo la perdita di contatto col proiciente, in virtù dell’aria circostante, a cui il lanciatore, col suo gesto, ha di fatto conferito la capacità di agire come motore […]. Di contro a questa tesi, Filopono asseriva che la trasmissione della forza motrice si operava in modo diretto, dal proiciente al proietto, senza dunque che il mezzo venisse minimamente impegnato nella continuazione del movimento. La spiegazione del moto violento sviluppata da Filopono ha una notevole affinità con un’analoga concezione elaborata dagli scolastici latini, comunemente nota col nome di teoria dell’impetus, di cui la nozione di virtus impressa costituisce una specifica variante terminologica e concettuale. Non è ancora chiaro se la tradizione dinamica dell’impetus debba la sua nascita all’influsso della dottrina di Filopono, esercitatosi probabilmente attraverso la mediazione di fonti musulmane (il commentario di Filopono alla Fisica fu, infatti, conosciuto in Occidente solo nel Cinquecento), oppure se si tratti di una originale elaborazione della cultura latina. Qualunque ne sia l’origine, resta comunque un fatto che nel Duecento l’idea di una trasmissione diretta della capacità di moto dal proiciente al proietto venne ampiamente discussa (ad es. da S. Tommaso e Ruggero Bacone). Nel secolo successivo abbiamo poi la piena fioritura della dottrina dell’impetus, legata, in particolare, ai nomi di Francesco di Marchia, Giovanni Buridano, Nicola Oresme, Alberto di Sassonia, Marsilio di Inghen.
Non a caso, dunque, nei De motu, la nozione di virtus impressa fa la sua comparsa nell’ambito del trattamento della questione del moto dei proiettili. Come già per i teorici medievali dell’impetus, anche per Galileo un oggetto scagliato può muoversi, dopo aver perso il contatto col proiciente, solo in quanto viene immessa in esso, al momento del lancio, una certa quantità di forza. Una volta comunicata, questa forza motrice esterna si imprime nel mobile (come il calore negli oggetti riscaldati, spiega Galileo), dissipandosi poi progressivamente fino a scomparire. Nella prospettiva galileiana, la virtus impressa agisce come un fattore perturbatore della naturale tendenza dinamica del corpo, sia nel caso di un moto sursum (verso l’alto) che nel caso di uno spostamento deorsum (verso il basso).
Così, nel caso di un moto violento verso l’alto, la virtus modifica il comportamento naturale del mobile annullandone temporaneamente la gravità e la conseguente tendenza al movimento verso il basso. Con il progressivo indebolirsi dell’efficacia della forza impressa, tuttavia, la gravitas del corpo comincia a riprendere il sopravvento sulla leggerezza indotta, determinando un’inversione nella direzione del moto, che si trasforma, quindi, in una caduta verticale.
La spiegazione galileiana dell’accelerazione è fondata proprio sulla natura di levitas attribuita alla virtus. Quando, infatti, un proiettile inverte la direzione del moto e comincia a discendere, la virtus impressa non è ancora interamente consumata, ed è appunto il residuo di forza impressa che permane nel mobile al principio della discesa a giustificare il temporaneo intorpidirsi della naturale efficacia dinamica della gravitas. In sostanza, nelle prime fasi della caduta, il corpo non viene mosso verso il basso dall’intero suo peso, ma solo dalla parte eccedente la leggerezza indotta (virtus impressa). Ora, poiché tale eccedenza cresce in concomitanza con l’indebolirsi della residua forza impressa, il corpo cade sempre più veloce, e quando, infine, anche l’ultima quantità di virtus superstite si è consumata, la velocità diventa costante e il moto uniforme.
Nell’ambito di una simile prospettiva, come ha giustamente osservato Alexandre Koyré, più che di una velocità accelerata, sarebbe opportuno parlare di una velocità deretardata, dal momento che il processo di accelerazione è appunto causato dal progressivo affievolirsi dell’intralcio opposto dalla virtus impressa al dispiegamento della naturale valenza dinamica della gravitas.
Secondo Galileo, la spiegazione appena ricordata dell’accelerazione di caduta si applica non solo ai mobili che invertono la direzione del movimento, passando da un moto violento sursum a uno naturale deorsum, ma anche ai corpi che comincino a muoversi dalla quiete. Non vi è, infatti, alcuna differenza tra il caso di un corpo scagliato verso l’alto e quello che, per esempio, venga fatto cadere dalla sommità di una torre: una volta consumata interamente la leggerezza temporanea – la quale nel primo è fornita dal proiciente e nel secondo dalla pressione verso l’alto operata dal sostegno – entrambi cadranno con velocità costante. L’uniformità delle velocità di discesa dopo la totale consunzione della virtus impressa rimaneva, tuttavia, un dato empiricamente irriscontrabile, talché Galileo si vedeva costretto ad innestare nella propria concezione una ulteriore ipotesi giustificativa, argomentando che le distanze su cui si effettua il controllo osservativo sono troppo piccole, rispetto alla grande densità dei corpi, perché la forza impressa riesca ad estinguersi completamente ed il fenomeno (accidentale ed estrinseco) dell’accelerazione giunga ad esaurimento.
Dalla schematica presentazione qui operata, può facilmente desumersi come la dinamica “pisana” dei De motu segnasse un inevitabile scacco teorico per le velleità galileiane di dar vita ad una organica e cogente dottrina del movimento. Proprio il dato più immediatamente manifesto del moto di caduta, l’accelerazione, risultava, infatti, assolutamente inesplicabile alla luce del modello (di stampo archimedeo) che rappresentava l’ossatura concettuale degli scritti. Per sciogliere il nodo del movimento accelerato, Galileo era, prrtanto, costretto a ricorrere ad un elemento ad hoc, la virtus impressa, del tutto estraneo al quadro dottrinario di partenza, e che, a ben vedere, si dimostrava anch’esso largamente inadeguato, in quanto incapace di costituire un assetto teorico congruente con i risultati osservativi.
La mancata corrispondenza tra esiti teorici e riscontri empirici caratterizzava anche un ulteriore, interessante capitolo delle idee proposte negli scritti De motu: lo studio del movimento su piani di diversa inclinazione.
Galileo costruiva il proprio esame della questione riportando sostanzialmente il problema dinamico ad una prospettiva statica, imperniata sulla legge della leva. Cosi, dopo aver preventivamente stabilito che un grave si muove verso il basso con una forza eguale a quella che sarebbe necessaria a portarlo verso l’alto, egli procedeva ad assimilare il moto di un corpo lungo piani diversamente inclinati all’efficacia del peso di quello stesso corpo sospeso a differenti distanze dal fulcro di una bilancia di bracci eguali.
Prendendo in esame la figura qui sotto proposta, ciò significa che la discesa lungo la tangente ef avviene secondo la gravità che il mobile avrebbe nel punto d della bilancia cd; mentre il moto lungo la tangente alla circonferenza fatta nel punto s, cioè lungo la linea gh, verrà effettuato con una gravità pari a quella posseduta dal corpo se fosse sospeso in p. In tal senso, le gravità con cui il mobile percorre le inclinate ef gh saranno nella medesima proporzione della distanza dei punti d e p dal fulcro a della bilancia.

Ora, secondo Galileo, il rapporto tra le velocità riproduce quello esistente tra le gravità, e poiché le distanze da e ap sono nella stessa proporzione della lunghezza della discesa obliqua qs alla altezza verticale sp, si ricava che:

lo stesso peso può esser trascinato in su con tanta minor forza lungo l’inclinata che sulla verticale, quanto l’ascesa verticale è minore dell’obliqua; e, di conseguenza, lo stesso grave discende con tanta maggior forza sulla verticale che sull’inclinata, quanto più grande è l’inclinata rispetto alla discesa verticale.

Su questa base, le velocità di discesa su piani inclinati aventi la medesima elevazione sull’orizzontale ma differenti lunghezze, saranno in proporzione inversa alle lunghezze dei piani.
Come lo stesso Galileo non manca di segnalare, i risultati appena descritti presentano, tuttavia, una cospicua manchevolezza, in quanto le acquisizioni teoriche testé richiamate risultano smentite dai controlli empirici. Di fatto, la correlazione strettissima che, nell’ambito della dinamica dei De motu, lega gravità e velocità, implica che i moti presi in considerazione abbiano un carattere uniforme. La validità delle proporzioni enunciate nel quadro della indagine del moto lungo piani diversamente inclinati è, pertanto, effettiva solo nel caso, del tutto astratto, di una velocità di discesa costante.
Pur rappresentando, agli occhi del giovane Galileo, un aspetto del moto assolutamente accidentale e transeunte, l’accelerazione si rivelava, quindi, come l’ostacolo più serio ai fini della formulazione di una conseguente e verificabile dottrina dinamica.
Di fatto, la spiegazione dell’accelerazione di caduta continuerà a rappresentare una sfida per Galileo anche negli anni a venire. Progressivamente, però, i suoi sforzi si indirizzeranno vieppiù in direzione di una disamina delle leggi matematiche che governano le determinazioni spazio-temporali del moto, prescindendo (pur con il consapevole rincrescimento dello scacco connesso alla rinuncia della prospettiva causale) dai problemi attinenti alle forze che producono i movimenti.
Da questo punto di vista, le acquisizioni più rilevanti e mature della scienza galileiana del moto si collocheranno piuttosto sul piano della costruzione cinematica che su quello della dottrina dinamica.

Credo sia chiaro in abbondanza quali enormi passi in avanti rappresentava il De motu rispetto ad ogni altra formulazione precedente e quanto avrebbe aiutato Galileo ad una sua sistemazione degna in qualche università. Eppure, le difficoltà che trovava lo fermarono ed egli decise di non pubblicare finché il nodo dell’accelerazione non fosse stato sciolto.

(45) E.N. V, pagg. 71-249. La citazione è alle pagg. 94-95.

(46) E.N. X, pag. 47.

(47) E.N. X, pag. 48.

(48) E.N. X, pag. 49.

(49) E.N. X, pagg. 49-50.

(50) E.N. X, pag. 50.


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