Neil Mackay
Sunday Herald – Scozia – 15 settembre 2002
Un progetto segreto per il dominio globale statunitense rivela che il Presidente Bush e il suo governo avevano pianificato un attacco premeditato contro l’Iraq per imporvi un “cambio di regime” addirittura prima del suo ingresso alla presidenza nel gennaio del 2001.
Il progetto – scoperto dal Sunday Herald – per la creazione di una “Pax Americana globale” è stato redatto da Dick Cheney (attualmente vicepresidente), Donald Rumsfeld (segretario alla difesa), Paul Wolfowitz (il vice di Rumsfeld), il fratello minore di George W Bush, Jeb e Lewis Libby (il capo dello staff di Cheney). Il documento, dal titolo “Rebuilding America’s Defences: Strategies, Forces And Resources For A New Century” (“Ricostruire le difese dell’America: strategie, forze e risorse per un nuovo secolo”), è stato redatto nel settembre del 2000 dal think-tank di destra [neo-conservative], il Project for the New American Century (PNAC) [“progetto per un nuovo secolo americano”].
Il piano mostra che il governo Bush intendeva assumere il controllo militare del Golfo a prescindere se Saddam Hussein fosse o no al potere. Il testo dice ‘gli Stati Uniti hanno cercato da decenni di svolgere un ruolo più permanente nella sicurezza regionale del Golfo. Mentre il conflitto irrisolto con l’Iraq fornisce una giustificazione immediata, l’esigenza di avere una sostanziosa presenza delle forze americane nel Golfo va oltre la questione del regime di Saddam Hussein.’ Il documento del PNAC presenta ‘un progetto per conservare la preminenza globale degli Stati Uniti, impedendo il sorgere di ogni grande potenza rivale, e modellando l’ordine della sicurezza internazionale in modo da allinearlo ai principi e agli interessi americani’. Questa ‘grande strategia americana’ deve essere indirizzata ‘il più lontano possibile verso il futuro’, dice il rapporto. Che invita poi gli Stati Uniti a ‘combattere e vincere in maniera decisiva in teatri di guerra molteplici e contemporanei’, come una ‘missione cruciale’ [core mission]. Il rapporto descrive le forze armate statunitensi all’estero come la ‘cavalleria lungo la nuova frontiera americana’. Il progetto del PNAC dichiara il proprio sostegno a un documento scritto in precedenza da Wolfowitz e Libby, in cui si affermava che gli Stati Uniti dovrebbero ‘dissuadere le nazioni industriali avanzate dallo sfidare la nostra egemonia (leadership) o anche dall’aspirare a svolgere un ruolo regionale o globale maggiore’. Il rapporto del PNAC inoltre: descrive gli alleati chiave, tra cui il Regno Unito, come ‘il mezzo più efficace per esercitare un’egemonia globale americana’; afferma che le missioni militari per garantire la pace ‘richiedono un’egemonia politica americana e non quella delle Nazioni Unite’; rivela l’esistenza di preoccupazioni nell’amministrazione americana a proposito della possibilità che l’Europa possa diventare un rivale degli USA; dice che ‘anche se Saddam dovesse uscire di scena’, le basi nell’Arabia Saudita e nel Kuwait dovranno restare in maniera permanente, nonostante l’opposizione locale tra i regimi dei paesi del Golfo alla presenza di soldati americani, perché ‘anche l’Iran potrà dimostrarsi una minaccia pari all’Iraq agli interessi statunitensi’; mette la Cina sotto i riflettori per un ‘cambio di regime’, dicendo che ‘è arrivata l’ora di aumentare la presenza delle forze armate americane nell’Asia sudorientale’. Ciò potrebbe portare a una situazione in cui ‘le forze americane e alleate forniscano la spinta al processo di democratizzazione in Cina’; invita a creare le ‘US Space Forces’ (“forze spaziali statunitensi”) per dominare lo spazio, e ad assumere il controllo totale del ciberspazio in modo da impedire che i ‘nemici’ usino internet contro gli Stati Uniti; anche se gli Stati Uniti minacciano la guerra contro l’Iraq per aver sviluppato armi di distruzione di massa, gli USA potrebbero prendere in considerazione, nei prossimi decenni, lo sviluppo di armi biologiche – che pure sono state messe al bando. Il testo dice: ‘nuovi metodi di attacco – elettronici, ‘non letali’, biologici – diventeranno sempre più possibili. .. il combattimento si svolgerà in nuove dimensioni, nello spazio, nel ciberspazio, forse nel mondo dei microbi… forme avanzate di guerra biologica in grado di prendere di mira genotipi specifici potranno trasformare la guerra biologica dal mondo del terrorismo in un’arma politicamente utile’; il testo prende di mira la Corea del Nord, la Libia, la Siria e l’Iran come regimi pericolosi, e sostiene che la loro esistenza giustifica la creazione di un ‘sistema mondiale di comando e di controllo’. Tam Dalyell, deputato laburista [nel parlamento di Londra] e una delle principali voci di ribellione contro la guerra all’Iraq, ha dichiarato: ‘si tratta di immondizia proveniente da think tank di destra pieni di falchi-coniglio – gente che non ha mai visto gli orrori della guerra, ma è innamorata dell’idea della guerra. Gente come Cheney, che è riuscita a sfuggire al servizio militare ai tempi della guerra del Vietnam. ‘Si tratta di un progetto per il dominio mondiale statunitense – un nuovo ordine mondiale creato da loro. Questi sono i processi mentali di americani fantasticanti, che desiderano controllare il mondo. Sono sconvolto dal fatto che un primo ministro laburista inglese vada a letto con una banda di gente di una tale bassezza morale.’
I loschi affari di Bush & Co
Da “Il Piccolo” di Maurizio Zenezini
Al fondo del bellicoso confronto che oppone gli Stati Uniti all’Iraq ci sono anche ragioni economiche. Sono queste ragioni così forti da valere come causa della guerra annunciata? Proviamo a rispondere.
Il petrolio, innanzitutto. Le riserve irachene di petrolio sono seconde solamente a quelle dell’Arabia Saudita e i sauditi, antichi sodali e fornitori degli americani, stanno diventando un partner sempre meno affidabile. La potente lobby petrolifera è ottimamente rappresentata nell’amministrazione Bush (la Chevron ha persino dato il nome di Condoleeza Rice ad una delle sue navi cisterna).
Gino Strada intervistato da Massimo Giannini per “La Repubblica” – 15 febbraio 2003
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Indovino dove vuole arrivare: la guerra a Saddam si fa per il petrolio.
“E per quale altra ragione, se no? È una scelta politica compiuta da una banda di petrolieri che vuole mettere le mani sul greggio iracheno. Le riserve petrolifere di Bagdad ammontano a 326 miliardi di barili, il 25% in più di quelle dell’Arabia saudita, principale produttore di greggio nel mondo. Le dice niente tutto questo? Le dice niente il fatto che chi decide di fare la guerra a Saddam, oggi, sono Bush junior della Harken, Dick Cheney della Hulliburton, Condoleeza Rice della Chevron, Rumsfeld della Occidentale?”
E a lei dicono niente gli interessi petroliferi dei Paesi pacifisti in quell’area, come la Francia con la TotaFinaElf e la Russia con la Loukoil?
“Nulla a che vedere. Gli americani attaccano perché vogliono fare oggi in Iraq quello che hanno fatto un anno fa in Afghanistan, dove la guerra è servita solo a far passare gli oleodotti. Non a caso oggi a Kabul governa un signore che si chiama Karzai, che prima era un impiegato al servizio degli americani della Unicall. D’altra parte non c’è da stupirsi: è normale che accada, quando la principale superpotenza mondiale è governata dai petrolieri. Non lo dico io, lo scrive Brzezinsky nel suo ultimo libro ‘La grande scacchiera’. In una grande società multiculturale come l’America è sempre più difficile garantirsi consensi in politica estera, ‘se non in presenza di minaccia nemica diretta e percepita a livello di massa’. È la strategia di Bush: serve creare un mostro ogni volta, magari con un bel gioco mediatico, serve a questi gangster camuffati da politici per poter dire “ci difenderemo”. Oggi il mostro di turno è Saddam, e così gli fanno una guerra di aggressione”.
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Bush, libertà infinita
(di traffici)
Il libro consigliato: “Bin Laden, la vérité interdite” di Jean-Charles Brisard e Guillaume Dasquié
A: “La famiglia dei presidenti d’America”,
ovvero i Bush
di Michael Landsbury
È uscito il 14 di novembre in Francia “Bin Laden, la vérité interdite” (Bin Laden, la verità vietata), di Jean-Charles Brisard e Guillaume Dasquié, un libro scandalo che denuncia i rapporti dell’amministrazione Bush (e delle precedenti) con il regime dei talebani, tenuti fino a pochissimi mesi fa. Gli Stati Uniti hanno da tempo individuato nelle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale giacimenti ricchissimi di greggio e gas naturale e, contemporaneamente, hanno sempre manifestato la loro preoccupazione per l’instabilità politica dell’area. L’Afghanistan, si sa, non ha giacimenti petroliferi ma è geograficamente strategico per far arrivare quelle risorse naturali nei porti dell’Oceano indiano e, da lì, in tutto il mondo.
Deve essere un vizio di famiglia quello di fare affari in segreto con i regimi dittatoriali. Chissà se anche il nonno dell’attuale presidente americano, Prescott Bush, senatore del Connecticut per due volte, avrebbe usato ai suoi tempi la frase «O con me o con Bin Laden». Certo, lui, più solennemente, avrebbe dovuto dire «O con me o con Hitler».
Non lo disse mai, anzi non lo fece mai. Sì, perché il vecchio Bush era direttore e azionista della Union Banking Corporation (UBC). La banca, secondo l’attenta ricostruzione di Webster G.Tarpley e Anton Chaitkin, autori del libro sull’ex presidente George Bush “George Bush: The Unauthorized Biography”, era stata fondata per finanziare la riorganizzazione dell’industria tedesca durante il periodo nazista.
Il principale partner tedesco della UBC era l’industriale Fritz Thyssen, famoso per aver scritto in un libro: «Io ho pagato Hitler». Tra le aziende tedesche che la UBC finanzò c’era la Silesian-American Corporation, diretta dallo stesso Prescott Bush, che fu vitale fino al 1942 per fornire carbone all’industria bellica nazista. Un’altra delle aziende finanziate era la German Steel Company che produsse quasi la metà dell’acciaio e degli esplosivi che armavano l’esercito di Hitler.
Il bisnonno dell’attuale presidente americano, Bert Walker, era stato uno dei soci fondatori della Compagnia di navigazione Hamburg-America Line di cui Prescott Bush fu, per un periodo, anche direttore. La Compagnia dava frequentemente passaggi gratis e in prima classe a membri del partito nazista. Nei primi anni trenta le sue navi portarono alle squadracce di Hitler armi e munizioni dall’America alla Germania.
La passione per la guerra e le armi non è nuova nella famiglia Bush. Samuel Bush, padre di Prescott fu direttore della War Industries Board che fece affari d’oro con la prima guerra mondiale.
L’ipocrisia puritana domina la politica americana: apparentemente tutti i membri delle Amministrazioni e gli stessi presidenti, una volta ricevuto un incarico pubblico, si sono sempre spogliati dei loro interessi in aziende, banche e compagnie. In realtà hanno continuato a favorire le lobbies da cui provenivano o che li avevano finanziati durante la campagna elettorale. Alcuni membri dell’Amministrazione Bush, è noto, provengono dal mondo delle multinazionali petrolifere. Tra questi i più potenti sono: Condoleeza Rice (direttrice del Consiglio nazionale di sicurezza) e il vicepresidente Dick Cheney (secondo molti il vero presidente ombra).
È palese l’interesse americano, in questa fase, nel guidare, soprattutto militarmente, il nuovo e confuso ordine mondiale scaturito dal crollo dell’Unione Sovietica. Le fonti di energia vanno controllate non più, come una volta, attraverso regimi amici ma sostanzialmente inaffidabili. Occorre una presenza diretta delle truppe Usa che garantisca la stabilità di paesi produttori di greggio. Ne è stato un esempio eloquente il dopo Guerra del golfo. I soldati americani presidiano da allora l’Arabia Saudita e sorvegliano perennemente l’intera area con i loro aerei (i caccia inglesi e americani volano ogni giorno sulle no-flying zones dell’Irak).
La tesi di fondo del libro “Bin Laden, la verità vietata”, di Jean-Charles Brisard e Guillaume Dasquié, è che il vero scopo della strana Guerra afgana non sia la lotta al terrorismo ma i grandi interessi petroliferi, chiari alle multinazionali americane ben prima dell’11 settembre.
La guerra del petrolio. Da http://www.greenpeace.it/stopesso/petrolioecasabianca.htm
Il petrolio spinge la Casa Bianca alla guerra con l’Iraq
Il momento è davvero propizio per le multinazionali del petrolio. Milioni di automobilisti in tutto il mondo pagherebbero qualsiasi cifra per riempire i serbatoi delle loro auto. Il business è talmente grande che è in grado di vanificare anche la migliore delle politiche ambientali. E se gli interessi delle multinazionali vengono minacciati basta chiedere al vecchio amico George W. di riunire le truppe e dichiarare una guerra.
Legami stretti con il petrolio
Da quando George W. Bush, ex-petroliere, si è insediato alla Casa Bianca, ben prima dell’11 settembre, la sua amministrazione si è affrettata a dichiarare che gli Stati Uniti stavano affrontando un periodo di crisi energetica. Seppur nessun dato confortasse questa tesi, Bush è riuscito a utilizzarla come il cavallo di battaglia della sua strategia politica.
L’Iraq rappresenta la seconda riserva di petrolio al mondo, ma la sua produzione è stata severamente limitata dopo la guerra del Golfo, a causa delle sanzioni economiche applicate al paese e della distruzione delle sue infrastrutture; la ricostruzione e l’aumento della produzione di petrolio richiederà anni di intenso lavoro. Le multinazionali del petrolio hanno rivolto le loro mire alle riserve irachene, e sarebbero ben contente di accaparrarsi il lavoro.
I legami tra la Casa Bianca e i dirigenti delle compagnie petrolifere non sono mai stati così stretti come in questo momento, soprattutto per il vice presidente Dick Cheney, che è stato a capo della Halliburton, la più grande società al mondo di forniture petrolifere. Cheney, nell’agosto del 2000, ha dichiarato pubblicamente che quando era a capo della multinazionale, aveva mantenuto un atteggiamento di grande fermezza verso l’Iraq che si era tradotto nell’assenza assoluta di rapporti economici. Invece, come alla fine ha dimostrato il Financial Times, nel 1998 e 1999 Cheney ha diretto vendite all’Iraq per un valore di 23.8 miliardi di dollari.
I legami del Presidente George W. Bush con l’industria petrolifera risalgono a suo nonno. Condoleeza Rice, Consigliere per la Sicurezza Nazionale, ha fatto parte del consiglio di amministrazione della Chevron, e di recente una petroliera è stata battezzata con suo nome.
Il Dottor Traynor della Deutsche Bank, uno dei maggiori analisti dell’industria petrolifera, ritiene che la ExxonMobil, la più grande e la più influente compagnia degli Stati Uniti a livello politico, sarà quella che più di tutte le altre trarrà enormi vantaggi da un eventuale cambiamento di regime in Iraq.
La ExxonMobil si è molto impegnata perché il governo statunitense abbandonasse gli impegni di ratifica del Protocollo di Kyoto sul riscaldamento globale. La società petrolifera ha contribuito alla campagna presidenziale del 2000 con 1.375.250 dollari, attestandosi al secondo posto dopo la Enron, tra le industrie del petrolio e del gas, che hanno contribuito alla campagna elettorale; l’89% della somma è andato ai repubblicani. Minando gli sforzi di ridurre le emissioni di gas serra, la ExxonMobil rafforza sia la dipendenza degli Stati Uniti dal petrolio che il controverso rapporto dell’amministrazione americana con i paesi produttori.
Comunque, a differenza degli omologhi francesi, russi e cinesi, la ExxonMobil, la più grande compagnia petrolifera al mondo, negli ultimi dieci anni non ha avuto modo di sfruttare le riserve irachene dalla fine della guerra del Golfo. In precedenza la società possedeva il 25% del petrolio iracheno e una nuova guerra potrebbe garantirle nuovamente l’accesso a quelle grandi riserve di petrolio.
La giustificazione di Bush per fare la guerra non ha fondamento
Sebbene non sia un segreto che la Casa Bianca abbia uno stretto legame con i dirigenti dell’industria petrolifera, la decisione di dichiarare guerra all’Iraq aveva bisogno di una buona ragione. La guerra contro il terrorismo lanciata sulla scia degli eventi dell’11 settembre è stata un veicolo perfetto. Mentre il mondo vacillava per la paura di altri attentati, l’Iraq cominciava ad essere menzionato con sempre maggiore rilevanza nei discorsi chiave del Presidente. Bush ha rapidamente spostato l’attenzione da Osama Bin Laden verso Saddam Hussein ed ora l’attenzione del mondo è rivolta alle armi di distruzione di massa dell’Iraq.
Gli Stati Uniti sono pronti a negoziare con la Corea del Nord, che possiede con certezza un arsenale di armi nucleari, ma nel contempo stanno preparando l’invasione dell’Iraq, senza prove certe dell’esistenza di armi nucleari.
Un rapido sguardo alla politica statunitense sulle armi di distruzione di massa vanifica l’argomentazione del possibile impiego di armi di distruzione di massa come fattore determinante per la guerra all’ Iraq.
Come firmatari del Trattato contro la proliferazione nucleare (NPT), gli Stati Uniti hanno l’obbligo legale di ridurre il proprio arsenale nucleare, di non effettuare test e di negoziare un trattato di disarmo nucleare sotto stretto controllo internazionale. Al contrario, l’attuale amministrazione sta aumentando il budget finalizzato alla costruzione del proprio arsenale nucleare, e del programma di test nucleari, senza curarsi dei trattati esistenti.
Uno dei primi atti dell’amministrazione Bush è stata quello di tagliare circa il 21% dei fondi per i programmi di distruzione delle armi e dei materiali nucleari nei paesi della ex Unione Sovietica ed al contempo aumentare del 5% i fondi destinati all’arsenale nucleare interno.
La tendenza dell’amministrazione Bush a ignorare, abbandonare o vanificare i trattati internazionali è particolarmente evidente nell’ambito degli accordi sulla limitazione degli armamenti.
• Nel dicembre 2001, il Presidente Bush ha reso vani i negoziati mirati a dare reale efficacia alla Convenzione sulle Armi Biologiche (BWC). Un rifiuto all’ultimo momento, dopo cinque anni di negoziati, che ha fatto infuriare gli altri paesi aderenti.
• Nel 2000, alla conferenza di revisione del NPT, gli Stati Uniti e gli altri paesi firmatari hanno raggiunto un accordo per mettere al bando i test nucleari sfruttando l’entrata in vigore del Trattato sul Divieto Complessivo di Test Nucleari, primo di 13 specifici impegni verso il disarmo. Poco dopo però, il Senato statunitense ha annunciato che non avrebbe sottoscritto il Trattato. Lo scorso anno gli Stati Uniti hanno dichiarato di non essere più d’accordo con gli impegni supplementari, così facendo hanno messo in pericolo il futuro del Trattato sulla Non-Proliferazione Nucleare.
• L’amministrazione di Bush si è anche tirata rispetto all’impegno di rafforzare il Trattato contro i missili balistici (ABM Treaty), come conseguenza della decisione di portare avanti il progetto di difesa missilistica dello scudo spaziale(“Star Wars”). Questo progetto rappresenta una delle cause primarie dei continui fallimenti negli ultimi tre anni, dei negoziati internazionali finalizzati a liberare il mondo dalle armi di distruzione di massa. Inoltre questo fornisce un alibi ad altre nazioni per sviluppare e incrementare i loro arsenali nucleari.
In conclusione , la politica di Bush riguardo le armi di distruzione di massa è arbitraria, ipocrita e inconsistente. Il pianeta ha disperatamente bisogno di un approccio equo e sovranazionale per l’eliminazione delle armi di distruzione di massa. Una guerra con l’Iraq servirebbe solamente a rinforzare l’attuale ipocrisia.
Che cosa puoi fare
Se ritieni che la posizione di George W. Bush in merito alla guerra sia fondata su una strumentale politica sugli armamenti stretti legami con l’industria del petrolio, fai sentire la tua voce attraverso queste iniziative:
· Scrivi ai rappresentanti alle Nazioni Unite che fanno parte del Consiglio di Sicurezza e chiedi loro di applicare le risoluzioni internazionali e di rifiutare una eventuale guerra in Iraq.
· Partecipa alla nostra campagna contro la ExxonMobil/Esso, la più grande multinazionale petrolifera del mondo.
SI SCRIVE “ARMI DI DISTRUZIONE DI MASSA”. SI LEGGE PETROLIO!
di Tito Pulsinelli – Information Guerrilla
Le tre zone piú calde del pianeta (Asia centrale, Medio oriente e le Ande) e il curriculum vitae dell’attuale classe dirigente nord-americana, mostrano un denominatore comune: il petrolio. Non solo Bush e il suo vice D. Cheney, ma da Condoleeza Rice in giú, l’intero gruppo dirigente é stato trapiantato al vertice degli Stati Uniti prelevandolo dai consigli di amministrazione delle multinazionali del petrolio.
Il petrolio é dunque una vocazione professionale che si trasforma in orizzonte geo-politico prioritario per la politica internazionale di Bush. Fino ad oggi, laddove é manifesta la presenza di giacimenti energetici, lí si é dispiegata l’iniziativa politico-militare di Washington. Ossia lungo tre assi: i confini meridionali dell’ex Russia sovietica, nella bolgia del Medio oriente e nella regione delle Ande (Venezuela, Colombia, Ecuador e Bolivia), che contano con le riserve di idrocarburi piú ingenti della terra.
Le cronache ci hanno narrato che per tutto il corso dell’anno passato, queste latitudini sono state l’oggetto delle incofessabili brame del paese che -pur non essendo il piú popoloso del mondo- divora quasi un terzo degli energetici esistenti. Questa tendenza onnivora va accentuandosi, unitamente al disegno di non mettere mano ai giacimenti di casa, che vorrebbero preservare come futura riserva strategica, quando tutti gli altri resteranno a secco.
La grottesca caccia a un terrorista -ex amico- é stata un alibi evanescente che ha consentito il posizionamento militare nell’avanposto afgano, a ridosso delle pingue riserve del Kazakstan. Quella che era stata presentata come un’operazione di polizia internazionale ha preso le sembianze piú veridiche di occupazione di un territorio che, fuori dai centri urbani, rimane insidioso e incontrollabile. I russi ne sanno qualcosa. Lo stillicidio incessante che patiscono gli occupanti, é ritenuto come un “prezzo giusto” da pagare per tuberie, oleodotti e baluardi militari utili adesso -per la guerra del petrolio-e nella sfida futura con la Cina, identificata come il nuovo avversario globale.
Nella terza riserva mondiale di idrocarburi, lungo la dorsale delle Ande -cioé nel “cortile continentale”- Washington ha varato il Plan Colombia. E´una pioggia di sovvenzioni belliche per soffiare sul fuoco di una endemica guerra civile, in un quadro di atomizzazione dello Stato e di dualismo del potere. E’ il preludio all’aperto intervento diretto dell’esercito nord-americano. I giacimenti colombiani sono modesti rispetto alle ingenti riserve petrolifere del Venezuela e quelle di gas naturale della Bolivia. Il Plan Colombia é il bisturi con cui scongiurare la convergenza strategica tra questi produttori, ed impedire a qualsiasi costo la formazione di una OPEC sudamericana. A maggior ragione ora, quando nella regione si sono imposti governi che -non per squalificarli sbrigativamente come “populisti”- smettono di essere un’alternativo per la difesa della sovranitá e per uno sviluppo svincolato dall’FMI. La Bolivia in questi giorni é sull’orlo di una esplosione sociale.
A metá prile del 2002 giocarono la classica carta del golpe per liberarsi di Chavez. Un gruppo di generali riuscí a impossessarsi del potere per 48 ore. Il primo editto dei golpisti sanciva che il Venezuela abbandonava l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio, e rinunciava alla politica di limitazione dei volumi di greggio esportato. Il capo di imputazione piú grave per il governo di Chavez é aver resuscitato l’OPEC, con la conseguente lievitazione del prezzo del barile da 9 a 22 dollari.
Fallita la carta del golpe, per garantirsi un governo docile disponibile a una politica di oleodotti aperti e prezzi minimi, é sopravvenuta la destabilizzazione economica attraverso una serrata padronale protrattasi per due mesi. L’ammontare dei danni economici sofferti dallo Stato e dal settore degli industriali sono paragonabili a quelli prodotti da una guerra combattuta senza senza bombe e bombardamenti: una trentina di miliardi di dollari. Il governo, peró, non cade, la partita rimane aperta e il problema dei flussi energetici “sicuri ed economici” rimane irrisolto.
A questo punto si rompono gli indugi e torna in primo piano il Medio oriente e il teatro d’operazione dell’Iraq: 64% delle riserve mondiali racchiuse nel suo sottosuolo. Da conquistare manu militari. La litania sull’esistenza di “armi di distruzione di massa” e, soprattutto, l’insistenza sulla futilitá di verificarne l’esistenza, é molto sospetta. E non contribuisce sicuramente al consolidamento di una coalizione internazionale minimamente paragonabile a quella che promosse Bush senior dieci anni fa. L’obiettivo immediato é sempre il petrolio, quello strategico é l’egemonia planetaria.
Gli Stati Uniti, prima economia, prima potenza militare del mondo, nonché il piú indebitato, é manifestamente vulnerabile a due dipendenze: il petrolio e i flussi finanziari. Il suo sistema produttivo sta perdendo colpi e il suo debito é gestibile solo con l’afflusso esterno di 1 miliardo di dollari al giorno.Il governo di Bush ha incrementato il deficit concentrando la spesa pubblica a sostegno dell’armamentismo.E punta sulla tecnologia militare per stabilire un egemonismo che faccia dimenticare i problemi del suo sistema produttivo.
L’intrinseco fondamentalismo e l’unilateralismo che lo caratterizza ha accresciuto le contraddizioni vieppiú implosive tra i propri alleati: europei, arabi e persino nella NATO. Le lacerazioni sono destinate ad aumentare, visto che é assai improbabile che una guerra-lampo materializzi una “Bagdad delenda est”. E’ una guerra destinata ad allargarsi a macchia d’olio, perché gli altri nemici dichiarati -come l’Iran-non se ne staranno con le mani conserte ad aspettare giudiziosamente il loro turno per essere invasi. L’obiettivo immediato di distruggere la OPEC mettendo le mani sul petrolio dell’Iraq non é circoscrivibile. Siamo alla vigilia di una guerra di lunga durata.
Per ora il prezzo del barile ha oltrepassato i 30 dollari e c’é da mettere in conto uno scenario come quello del 1973, quando i paesi arabi limitarono i rifornimenti energetici al mercato internazionale. Con un embargo, i prezzi schizzeranno alle stelle. E i vassalli europei, tra cui brilla il ligio Nano da Arcore, scopriranno che gli Stati Uniti possono comodamente attivare lo sfruttamento dei giacimenti domestici che, a quel punto, saranno economicamente redditizi. E la concorrenza europea e giapponese perderà competitività.
Gli Stati Uniti contro l’Iraq. Uno studio sull’ipocrisia
di William Blum* (http://members.aol.com/bblum6/American_holocaust.htm, 9 febbraio1998)
“Abbiamo sentito che mezzo milione di bambini sono morti,” ha detto Lesley Stahl, giornalista di “60 Minutes”, parlando delle sanzioni degli Stati Uniti contro l’Iraq. “Voglio dire, sono di più dei bambini morti a Hiroshima. E… e insomma, è un prezzo che vale la pena pagare?”
La sua ospite, nel maggio 1996, l’ambasciatrice all’ONU, Madeleine Albright, ha risposto: “Penso che sia una scelta molto dura, ma il prezzo… pensiamo che ne valga la pena.”
Oggi, il Segretario di Stato viaggia intorno al mondo per ottenere il sostegno a ulteriori bombardamenti sull’Iraq. Evidentemente, vale ancora la pena pagarne il prezzo. Il prezzo, naturalmente, lo paga esclusivamente il popolo iracheno: circa un milione di morti, uomini, donne e bambini, e una nazione già ricca che a causa dei bombardamenti precedenti e di sette anni di sanzioni è precipitata in una situazione di povertà, malattia e malnutrizione.
Il loro crimine? Avere un capo che si rifiuta di cedere tutta la sovranità agli Stati Uniti (che agiscono sotto l’usuale copertura dell’ONU), i quali pretendono che ogni struttura in Iraq, compresi i palazzi presidenziali, sia disponibile alle ispezioni alla ricerca di “armi di distruzione di massa”. Dopo più di sei anni di ispezioni, e una significatva distruzione di scorte di materiale per armi chimiche, biologiche, nucleari e di programmi di ricerca e sviluppo di armi, la squadra dell’ONU si rifiuta ancora di certificare che l’raq è abbastanza pulito.
Dal momento che il paese è più grande della California, è comprensibile che gli ispettori non possano essere sicuri che tutte le armi proibite siano state scoperte. E’ altrettanto comprensibile che l’Iraq sostenga che gli Stati Uniti possono continuare e che continueranno a trovare delle scuse per non rilasciare all’Iraq la certificazione necessaria per far cessare le sanzioni. In effetti, il Presidente Clinton ha detto più di una volta che gli Stati Uniti non permetteranno che le sanzioni vengano tolte finchè Saddam Hussein rimarrà al potere. Si può dire che gli Stati Uniti abbiano inflitto all’Iraq una punizione e un ostracismo più vendicativi di quelli riservati alla Germania o al Giappone dopo la seconda guerra mondiale.
Il regime di Saddam Hussein ha ragione di stupirsi dell’alto (doppio) standard stabilito da Washington. Meno di un anno fa, il Senato americano ha approvato una legge che rende effettiva la ” Convenzione sulla proibizione dello sviluppo, della produzione, della detenzione e dell’uso di armi chimiche e sulla la loro distruzione” (titolo abbreviato: Convenzione sulle armi chimiche), un trattato internazionale che è stato ratificato da più di 100 nazioni nei suoi cinque anni di vita.
La legge del Senato, articolo 307, stabilisce che “il Presidente può negare una richiesta di ispezione relativa a qualsiasi struttura negli Stati Uniti nei casi in cui ritenga che l’ispezione possa costituire una minaccia per gli interessi della sicurezza nazionale degli Stati Uniti”. Saddam non ha chiesto altro che questo per l’Iraq. Presumibilmente, secondo la legge del Senato, la Casa Bianca, il Pentagono, ecc. sarebbero off limits, come Saddam insiste dovrebbero essere i suoi palazzi e l’unità militare responsabile della sua sicurezza personale, che un colonnello americano ha chiesto di visitare.
L’articolo 303 stabilisce inoltre che “Qualsiasi obiezione del Presidente a un singolo individuo con la funzione di ispettore … non porà essere sottoposta a revisione da nessun tribunale.” Di nuovo questo fa venire in mente una lamentela ripetuta dagli iracheni: recentemente una squadra di sedici ispettori ne includeva quattordici degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, i due avversari principali di Saddam, quelli che, proprio in questo momento, stanno operosamente pianificando nuovi bombardamenti arei sull’Iraq. La squadra era guidata da un capitano del Corpo dei Marines degli Stati Uniti, un veterano della Guerra del Golfo, che è stato accusato dall’Iraq di essere una spia. Ma gli iracheni non hanno un pari diritto di esclusione. Lo stesso articolo della legge del Senato stabilisce, in aggiunta, che un agente dell’FBI: “accompagni ogni visita di una squadra di ispezione”.
Le richieste del governo Iracheno di considerare off limits alcuni siti e di avere ispettori meno di parte sono state liquidate dai portavoce del governo americano e dai media americani. “Che cosa hanno da nascondere?” è stato l’atteggiamento prevalente.
Eppure l’ipocrisia va ancora più a fondo. Nel suo recente discorso sullo Stato dell’Unione, il Presidente Clinton, trattando dell’Iraq, ha parlato di come “affrontare i nuovi pericoli delle armi chimiche e biologiche e quello degli stati fuorilegge, dei terroristi e del crimine organizzato che cercano di procurarsele.” Ha rimproverato aspramente Saddam per avere “sviluppato armi nucleari, chimiche e biologiche” e ha lanciato un appello per il rafforzamento della Convenzione sulle Armi Biologiche. Chi tra i suoi ascoltatori sapeva, quali media hanno riferito che gli Stati Uniti sono stati i fornitori di gran parte dei materiali biologici di base di cui gli scienziati di Saddam Hussein avrebbero disposto per creare un programma di guerra biologica?
Secondo un Rapporto del Senato del 19941 dal 1985, se non da prima, fino al 1989, un vero assortimento diabolico di materiali biologici è stato esportato in Iraq da fornitori privati americani dopo avere fatto domanda al Dipartimento del Commercio Statunitense e avere ottenuta l’autorizzazione. Tra questi materiali, che spesso causano morti lente e tormentose, c’erano:
– Bacillus Antracis, che causa l’antrace.
– Clostridium Botulinum, principio della tossina botulinum.
– Histoplasma Capsulatam, che provoca una malattia che attacca i polmoni, il cervello, il midollo spinale e il cuore.
– Brucella Melitensis, un batterio che può danneggiare gli organi più importanti.
– Clostridium Perfringens, un batterio altamente tossico che provoca malattie sistemiche.
– Clostridium tetani, altamente tossico.
– E inoltre: Escherichia Coli (E.Coli); materiali genetici; DNA umani e batterici.
Dozzine di altri agenti patogeni biologici sono stati spediti in Iraq durante gli anni 80. Il Rapporto del Senato faceva notare: “Questi materiali biologici non erano attenuati o indeboliti ed erano in grado di riprodursi.”
“Si è appreso in seguito,” rivelava il comitato, “che questi microorganismi esportati dagli Stati Uniti erano identici a quelli che gli ispettori dell’ONU hanno trovato ed eliminato dal programma di guerra biologica iracheno.”
Queste esportazioni sono durate per lo meno sino al 28 novembre 1989, nonostante fosse stato riferito che l’Iraq stava combattendo una guerra chimica e forse anche biologica contro gli iraniani, i curdi e gli sci’iti fin dai primi anni 80.
Durante la guerra Iraq-Iran del 1980-88, gli Stati Uniti hanno fornito aiuti militari e servizi spionistici a entrambi le parti in conflitto, con la speranza che si producessero reciprocamente dei danni molto gravi, dando ragione a quanto Noam Chomsky aveva postulato:
E’ stata una dottrina dominante, trainante della politica estera degli Stati Uniti fin dal 1940 quella di far sì che le ampie, ineguagliabili risorse energetiche della regione del Golfo fossero controllate a tutti gli effetti da Washington e dai suoi stati satelliti e, elemento ancor più decisivo, di non permettere ad alcuna forza indigena indipendente di avere un’influenza sostanziale sull’amministrazione della produzione e del prezzo del petrolio.
Infatti, è provato che Washington ha incoraggiato l’Iraq ad attaccare l’Iran e a cominciare la guerra per primo. Questa politica, insieme a considerazioni di tipo finanziario, ha rappresentato probabilmente la motivazione decisiva delle forniture di materiali biologici all’Iraq (l’Iran, a quel tempo, era considerato il pericolo più grande per la sempre apparentemente minacciata sicurezza nazionale degli Stati Uniti.)
Mentre il pubblico e i media americani vengono preparati ad accettare e ad applaudire il prossimo bombardamento del popolo iracheno, la ragione effettiva dichiarata, la linea politica ufficiale, è che l’Iraq è uno stato “fuorilegge” (o stato “canaglia”, o stato “paria” – i media ripetono in modo obbediente tutte le orecchiabili definizioni suggerite dalla Casa Bianca o dal Dipartimento di Stato), che non ottempera a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Israele, d’altro canto, ha ignorato tante risoluzioni senza che gli Stati Uniti abbiano bombardato Tel Aviv, abbiano imposto sanzioni, o soltanto abbiano ridotto gli aiuti militari. Ma per qualche arcana alchimia ideologica, Israele non è reputato uno stato “fuorilegge” da Washington. Né tali si considerano gli Stati Uniti per non aver eseguito l’ordinanza della Corte Mondiale dell’ONU nel 1984, che imponeva di cessare le azioni militari ostili contro il Nicaragua, o per le numerose volte in cui essi hanno totalmente ignorato le risoluzioni dell’Assemblea Generale votate a stragrande maggioranza, e neppure per l’uso ripetuto, da parte loro, di agenti biologici contro Cuba fin dal 1960.
In ogni modo il dissenso sul controllo delle armi è tra l’Iraq e le Nazioni Unite, non tra l’Iraq e gli Stati Uniti. E l’ONU non ha autorizzato nessuno dei suoi membri ad utilizzare la forza. “Cosa dà il diritto a Gran Bretagna e agli Stati Uniti di fare questo da soli?” ha chiesto un giornalista insolitamente coraggioso, alla conferenza stampa Clinton/Blair del 6 febbraio.
Nè il Presidente Clinton nè il Primo Ministro Blair hanno risposto
Il bombardamento sembra essere inevitabile. I ragazzi si stanno dando da fare a mettere tutti i loro giocattoli in posizione; riescono già a vedere le decorazioni di guerra appuntate al loro petto. Naturalmente nessuno sa che cosa riuscirà a realizzare se non morte e distruzione. Saddam rimarrà al potere. Sarà sempre più determinato sulla questione delle ispezioni. Forse ci può essere una consolazione per il popolo iracheno. Il Washington Post ha riferito che il Segretario alla Difesa William Cohen ha dichiarato che “i membri del governo americano non intendono danneggiare militarmente l’Iraq tanto da indebolire il suo ruolo di contrappeso all’Iran nella regione.” In un futuro non troppo lontano, quando l’Iran comincerà a mostrare un po’ di più i muscoli, in modi non così graditi a Washigton, forse sarà di nuovo la volta di tornare alla buona, vecchia “diplomazia” americana.
* Autore di Killing Hope: U.S. Military and CIA Interventions Since World War II.
1. U.S. Chemical and Biological Warfare-Related Dual Use Exports to Iraq and Their Possible Impact on the Health Consequences of the Persia Gulf War , 25 maggio 1994.
La battaglia per il petrolio iracheno
I loschi traffici delle corporazioni statunitensi a partire dalla Prima Guerra Mondiale
di Richard Becker tratto da Nexus nr.42 (gennaio-febbraio 2003)
Come e perché è iniziato l’interesse degli Stati Uniti per l’Irak? Un semplice e fondamentale quesito che, in tutte le innumerevoli ore che i media corporativi dedicano alla diffusione delle menzogne dell’amministrazione Bush e delle falsità sull’Irak, non è quasi mai stato posto. E per un valido motivo. Sin dal suo effettivo inizio, ottant’anni fa, la politica statunitense verso l’Irak si è sempre concentrata su di un unico obiettivo: assumere il controllo delle risorse petrolifere di quel paese.
L’intervento statunitense in Irak affonda le sue radici negli strascichi della Prima Guerra Mondiale, che fu una guerra fra imperi capitalistici. Da un lato gli imperi germanico, austroungarico ed ottomano (turco); dall’altro l’intesa imperiale britannico-franco-russa. Il Medio Oriente ricadeva in gran parte sotto il controllo ottomano.
I britannici, tramite il loro agente T.E. Lawrence -conosciuto come “Lawrence d’Arabia”- promisero ai leader arabi che se avessero combattuto a fianco della Gran Bretagna contro i dominatori turchi, al termine del conflitto essa avrebbe appoggiato la creazione di uno stato arabo indipendente.
Nel contempo i ministri degli esteri britannico, francese e russo stavano stipulando in segreto l’accordo Sykes-Picot, che ridisegnava il Medio Oriente e che venne reso pubblico dopo la Rivoluzione Russa del 1917 dal Partito Bolscevico, che lo denunciò in quanto imperialista.
Quando le popolazioni arabe e curde scoprirono il tradimento perpetrato dalle “democrazie” imperiali, in tutto il Medio Oriente scoppiarono rivolte di massa. Le ribellioni poi continuarono durante tutto il periodo coloniale. La pressione fu brutale sino all’estremo. Nel 1925, ad esempio, i britannici sganciarono gas velenosi sulla città curda di Sulaimaniya in Irak -fu la prima volta che del gas veniva lanciato da aerei da guerra-.
Francia e Gran Bretagna si spartiscono il Medio Oriente.
Dopo il 1918, a guerra finita, Francia e Gran Bretagna procedettero con il loro piani. Il Libano e la Siria, secondo gli accordi, sarebbero stati annessi all’impero francese; la Palestina, la Giordania e le due province meridionali dell’Irak -Baghdad e Basra- sarebbero entrate a far parte dell’esteso impero britannico.
Non si accordarono invece su chi si sarebbe impossessato della provincia di Mosul, l’area settentrionale dell’Irak odierno che, secondo l’accordo Sykes-Picot, doveva far parte della “sfera d’influenza” francese. I britannici, tuttavia, erano determinati ad aggiungere Mosul, la cui popolazione era in massima parte curda, alla loro nuova colonia irachena. A sostegno delle proprie rivendicazioni, l’esercito britannico occupò Mosul quattro giorni dopo la resa turca, nell’ottobre 1918 -e non se ne andò più-.
La risoluzione della contesa inter-imperialista tra Francia e Gran Bretagna per Mosul determinò l’inizio del ruolo statunitense in Irak.
L’importanza di Mosul per le grandi potenze si basava sulle note, benché all’epoca ben poco sfruttate, risorse petrolifere. Gli Stati Uniti erano entrati in guerra a fianco di Francia e Gran Bretagna nel 1917, dopo che i loro alleati e nemici si erano in gran parte sfiancati; le condizioni degli Stati Uniti per entrare in guerra comprendevano la richiesta che, nel panorama mondiale postbellico, venissero tenuti in considerazione i loro obiettivi politici ed economici, fra cui vi era l’accesso a nuove fonti di materie prime, in particolare il petrolio.
Nel febbraio del 1919 Sir Arthur Hirtzel, ufficiale coloniale britannico di grado elevato, ammonì i cuoi soci: “Bisognerebbe tenere presente che la Standard Oil Company è assai ansiosa di acquisire il controllo dell’Irak” (Citato in Britain in Iraq, 1914-32, di Peter Sluglett, Londra 1974)
Di fronte alla dominazione franco-britannica della regione, gli Stati Uniti inizialmente richiesero una politica di “Porte Aperte”, di modo che alle società petrolifere statunitensi fosse consentito di trattare liberamente con la nuova monarchia fantoccio di Re Faisal, che i britannici avevano installato sul trono dell’Irak.
La soluzione alla contesa degli alleati vittoriosi riguardo all’Irak fu la spartizione del petrolio di quel paese; i britannici mantennero Mosul come parte della loro nuova colonia irachena.
Nemmeno una goccia per l’Irak
Il petrolio iracheno venne spartito in cinque quote: un 23,75 per cento a testa a Gran Bretagna, Francia, Olanda e Stati Uniti; il restante cinque per cento destinato ad un magnate del petrolio, tale Caloste Gubenkian, noto con soprannome di “Mister Cinque Percento”, che contribuì a negoziare l’accordo.
All’Irak apparteneva esattamente lo zero per cento del petrolio iracheno. Le cose sarebbero rimaste così sino alla rivoluzione del 1958.
Nel 1927 si diede l’avvio a importanti esplorazioni petrolifere e nella provincia di Mosul furono scoperti enormi giacimenti. Due anni dopo fu costituita la Iraqi Petroleum Company – composta da anglo-iraniani (oggi British Petroleum), Shell, Mobil e Standard Oil of New Jersey (Exxon)- che, nel giro di pochi anni, avrebbe completamente monopolizzato la produzione petrolifere irachena.
Nello stesso periodo la famiglia al-Saud, appoggiata dagli Stati Uniti, conquistò gran parte della vicina penisola arabica. L’Arabia Saudita nacque negli anni ’30 come neocolonia degli Stati Uniti. L’ambasciata statunitense a Riad, capitale dell’Arabia Saudita, aveva sede nell’edificio della Aramco (Arab American Oil Company).
Però le società petrolifere statunitensi ed il loro governo di Washington non erano soddisfatte; volevano il controllo totale del petrolio mediorientale, così come avevano il quasi-monopolio delle riserve petrolifere dell’emisfero occidentale. Ciò significava soppiantare i britannici che, in quella regione, facevano ancora la parte del leone.
Gli Stati Uniti mirano agli interessi britannici.
Per gli Stati Uniti l’opportunità derivò dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Anche se Stati Uniti e Gran Bretagna vengono generalmente raffigurati come i più stretti alleati in tempo di guerra, di fatto erano allo stesso tempo in feroce contrasto.
La guerra indebolì assi l’impero britannico, sia sul territorio nazionale che all’estero, con la perdita delle importanti colonie in Asia. Nelle prima fasi del conflitto, fra il 1939 ed il 1942, non si sapeva nemmeno se la Gran Bretagna sarebbe sopravvissuta; non avrebbe mai più recuperato la sua antica posizione di dominio.
Gli Stati Uniti, d’altronde, divennero sempre più potenti nel corso del conflitto -prima di entrare nel quale i capoccioni di Washington avevano atteso ancora una volta il momento più opportuno-. Nelle ultime fasi della Seconda Guerra Mondiale, le amministrazioni Truman e Roosevelt, dominate dai forti interessi di colossi bancari, petroliferi e di altro tipo, erano determinate a ristrutturare il mondo postbellico onde assicurare la posizione predominante agli Stati Uniti. Gli elementi chiave della loro strategia furono:
1) Superiorità militare negli armamenti convenzionali e nucleari;
2) Globalizzazione corporativa dominata dagli Stati Uniti, da conseguirsi tramite il Fondo Monetario e la Banca Mondiale, creati nel 1944, e affermazione del dollaro come valuta mondiale;
3) Controllo delle risorse globali, in particolare il petrolio.
Mentre sui campi di battaglia infuriava la guerra, dietro le quinte tra Stati Uniti e Gran Bretagna si dipanava una contesa per il controllo economico globale, contesa che fu talmente aspra che il 4 marzo del 1944 -tre mesi prima del D-Day, giorno dello sbarco in Normandia- il primo ministro britannico Wiston Churchill inviò al presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt un messaggio alquanto insolito per il contenuto imperialista ed il tono ostile:
“Grazie infinite per le sue assicurazioni sull’assenza di occhi di triglia [guardare con invidia -RB] verso i nostri giacimenti petroliferi in Iran ed in Irak. Lasci che io ricambi garantendole che noi non abbiamo la minima intenzione di intrometterci nei vostri interessi o proprietà in Arabia Saudita. A questo riguardo, così come per tutto il resto, la mia posizione è che da questa guerra la Gran Bretagna non ricerca alcun beneficio territoriale o di altro genere; essa, d’altra parte, non verrà privata di alcunché le appartiene di diritto dopo aver contribuito nel migliore dei modi alla giusta causa, quantomeno non fino a quando il vostro umile servitore avrà l’incarico di occuparsi dei suoi affari” (Citato in The Politics of War, di Gabriel Kolko, NY 1968)
Quello che questa nota evidenzia con chiarezza è che i leader statunitensi erano così risoluti ad acquisire il controllo su Iran e Irak che avevano fatto suonare il campanello d’allarme presso le élite di comando britanniche.
Nonostante il discorso minaccioso di Churchill, non c’era nulla che i britannici potessero fare per contenere la potenza in ascesa degli Stati Uniti; nell’arco di pochi anni, la classe dirigente britannica si sarebbe adattata alla nuova realtà ed avrebbe accettato il ruolo di socio di minoranza di Washington.
L’espansione del ruolo statunitense dopo la Secondo Guerra Mondiale.
Nel 1953, dopo che la CIA con un colpo di stato aveva messo sul trono lo Scià, gli Stati Uniti assunsero il controllo dell’Iran. Alla metà degli anni ’50, l’Irak era sotto controllo congiunto di Stati Uniti e Gran Bretagna.
Nel 1955 Washington, assieme alla Gran Bretagna, istituì il Patto di Baghdad, che comprendeva i suoi regimi satelliti in Pakistan, Iran, Turchia ed Irak; Il Baghdad Pact, o CENTO -Central Treaty Organitation- aveva un duplice scopo.
Da una parte contrastare l’ascesa degli arabi e di altri movimenti di liberazione in Medio Oriente e nel sud-est asiatico; dall’altra rappresentare l’ennesima di una serie di alleanze militari -le altre erano NATO, SEATO ed ANZUS- che accerchiassero il campo socialista di Unione Sovietica, Cina, Europa Orientale, Corea del Nord e Vietnam del Nord.
L’Irak, il cuore del CENTO, era indipendente solo nominalmente; i britannici vi mantenevano basi dell’aeronautica militare. Anche se il paese era estremamente ricco di petrolio, ospitando il 10% delle riserve mondiali, tuttavia contava una popolazione che viveva in condizioni di fame e di miseria; il tasso di analfabetismo era dell’80%, c’era un solo medico ogni 6000 abitanti ed un dentista ogni 500.000.
L’Irak era governato dalla monarchia corrotta di Faisal II e da una consorteria di proprietari terrieri feudali e mercanti capitalisti.
Alla base della povertà dell’Irak, vi era il semplice fatto che l’Irak stesso non disponeva dei suoi vasti giacimenti petroliferi.
La rivoluzione irachena.
Il 14 luglio del 1958, l’Irak venne scosso da un’energica esplosione sociale. Una rivolta militare si trasformò in una rivoluzione nazionale, ed il re e la sua amministrazione, oggetto della giustizia popolare, furono di colpo scalzati.
Washington e Wall Street erano sbalordite. Nella settimana che seguì il New York Times, il “quotidiano ufficiale” degli Stati Uniti, sulle sue prime 10 pagine non riportava altre notizie che quelle relative alla rivoluzione irachena. Mentre oggi si ricorda meglio un’altra grande rivoluzione che sarebbe avvenuta appena sei mesi dopo a Cuba, all’epoca Washington considerava l’insurrezione irachena assai più pericolosa per i propri interessi vitali.
Il presidente Dwight D. Eisenhower la definì “la più grave crisi dai tempi della Guerra in Corea“. Il giorno successivo alla rivoluzione irachena, 20.000 marine iniziarono a sbarcare in Libano; il giorno dopo, 6600 paracadutisti britannici furono paracadutati in Giordania.
Questa è quella che divenne poi nota coma la “Dottrina Eisenhower”. Gli Stati Uniti sarebbero intervenuti direttamente -entrati in guerra- per impedire la diffusione della rivoluzione nel vitale Medio Oriente.
I corpi di spedizione britannici e statunitensi intervennero per salvaguardare i governi neo-coloniali di Libano e Giordania; se non l’avessero fatto, l’impulso popolare proveniente dall’Irak avrebbe sicuramente abbattuto i corrotti regimi dipendenti di Beirut ed Amman.
Però Eisenhower, i suoi generali ed il suo arci-imperialista segretario di stato John Foster Dulles avevano anche ben altro in mente: invadere l’Irak, rovesciare la rivoluzione ed insediare un nuovo governo fantoccio a Baghdad.
Tre fattori indussero Washington ad abbandonare il progetto nel 1958; il carattere travolgente della rivoluzione irachena; l’annuncio della Repubblica Araba Unita, confinante con l’Irak, in base al quale, nel caso gli statunitensi avessero cercato di invadere, le sue forze avrebbero combattuto contro le forze imperialiste; e l’energico sostegno della Repubblica Popolare Cinese e dell’Unione Sovietica alla rivoluzione. Quest’ultima avviò una mobilitazione di truppe nelle repubbliche sovietiche meridionali vicine all’Irak.
La combinazione di questi fattori costrinse i leader statunitensi ad accettare la rivoluzione irachena come fatto compiuto; Washington però in realtà non si rassegnò mai alla perdita dell’Irak.
Nei tre decenni successivi, il governo statunitense adoperò numerose tattiche per indebolire e scalzare l’Irak in quanto stato indipendente. In varie occasioni -come successe dopo che l’Irak nel 1972 portò a termine la nazionalizzazione della Iraqi Petroleum Company e stipulò con l’Unione Sovietica un trattato di difesa- gli Stati Uniti fornirono massicci aiuti militari agli elementi curdi di destra che combattevano Baghdad ed aggiunsero l’Irak alla loro lista degli “stati terroristi”.
Gli Stati Uniti appoggiarono gli elementi più reazionari all’interno della struttura post-rivoluzionaria contro le forze comuniste e nazionaliste di sinistra e, ad esempio, alla fine degli anni ’70 plaudirono alla soppressione del Partito Comunista Iracheno e dei sindacati di sinistra da parte del governo del partito Ba’ath di Saddam Hussein.
Negli anno ’80, gli Stati Uniti incoraggiarono e contribuirono a finanziare ed armare l’Irak nella sua guerra contro l’Iran, nazione in cui la Rivoluzione Islamica del 1979 pose fine alla dominazione statunitense; in realtà lo scopo degli Stati Uniti era quello di indebolire e distruggere entrambi quei paesi. L’ex Segretario di Stato Henry Kissinger rivelò il vero atteggiamento statunitense riguardo alla guerra quando affermò: “Spero che si ammazzino gli uni con gli altri“.
Il Pentagono fornì all’aviazione militare irachena fotografie satellitari degli obiettivi militari iraniani, mentre nello stesso tempo lo scandalo Iran-Contra svelò che gli Stati Uniti stavano inviando all’Iran missili antiaerei. La guerra Iran-Irak fu un disastro, costò la vita a milioni di persone e indebolì entrambi i paesi.
Il collasso dell’unione sovietica e la guerra del golfo
Quando infine nel 1988 la guerra Iran-Irak terminò, le vicende in atto in Unione Sovietica stavano costituendo un nuovo e più grave pericolo per l’Irak, che aveva stipulato con quest’ultima un trattato di collaborazione militare e di amicizia. La leadership di Gorbaciov, nell’ottica di una “distensione permanente” con gli Stati Uniti, iniziò a tagliare i fondi destinati ai suoi alleati dei paesi in via di sviluppo. Nel 1989, Gorbaciov si spinse ancora più in là e ritirò l’appoggio ai governi socialisti dell’Europa Orientale, i quali in gran parte crollarono. Questo brusco cambiamento nei rapporti di potere a livello mondiale -che culminò due anni più tardi con la fine della stessa Unione Sovietica- costituì la più grande vittoria dell’imperialismo statunitense sin dalla Seconda Guerra Mondiale. Inoltre spianò la via alla guerra statunitense del 1991 contro l’Irak e a più di un decennio di sanzioni, blocchi e bombardamenti che hanno devastato l’Irak e la sua popolazione.
Oggi l’amministrazione Bush, adducendo come argomento “armi di distruzione di massa” e “diritti umani”, sta cercando di guadagnarsi il sostegno dell’opinione pubblica ad una nuova guerra contro l’Irak. In realtà a Washington non interessano né una ridotta capacità militare dell’Irak né i diritti umani di qualsiasi angolo della mondo; quello che nel 2002 spinge la politica statunitense in direzione dell’Irak è lo stesso obiettivo che motivò Washington e Wall Street 80 anni fa: il petrolio!
Tratto da Nexus ed. italiana nr. 42 (gennaio-febbraio 2003)
La guerra degli USA e GB all’Iraq è già in corso
di John Pilger – fonte http://web.tuttopmi.it/unponteperbagh/index.htm
John Pilger, giornalista australiano trapiantato a Londra, è stato inviato di guerra in molti paesi, fra cui il Vietnam, la Cambogia, Timor Est.
E’ autore di numerosissimi articoli, libri e documentari. Fra questi ultimi ricordiamo Paying the Price: Killing the Children of Iraq: una straordinaria denuncia delle condizioni degli effetti dell’embargo all’Iraq sulla popolazione civile. L’articolo che pubblichiamo di seguito nella traduzione italiana è apparso il 20 dicembre sul quotidiano britannico Daily Mirror.
L’attacco americano e britannico all’Iraq è già cominciato. Mentre il governo Blair continua a sostenere in parlamento che “non è stata presa nessuna decisione definitiva”, la Royal Air Force e i bombardieri americani hanno cambiato segretamente tattica e intensificato i loro “pattugliamenti” sull’Iraq fino a un assalto generalizzato su obiettivi sia militari che civili.
I bombardamenti americani e britannici sull’Iraq sono aumentati del 300%. Fra marzo e novembre, secondo le repliche del Ministero della Difesa ai parlamentari, la RAF ha sganciato più di 124 tonnellate di bombe.
Da agosto a dicembre, ci sono stati 62 attacchi di aerei americani F-16 e di Tornado della RAF – una media di un bombardamento ogni due giorni. E’ stato detto che questi erano mirati alle “difese aeree” irachene, ma molti sono caduti su aree densamente popolate, dove le morti di civili sono inevitabili.
Secondo la Carta delle Nazioni Unite e le convenzioni belliche e il diritto internazionale, gli attacchi equivalgono ad atti di pirateria: non differiscono, in linea di principio, dal bombardamento della Lutwaffe tedesca in Spagna negli anni ’30, che fu il preludio della sua invasione dell’Europa.
I bombardamenti sono una “guerra segreta” che raramente ha fatto notizia. Dal 1991, e specialmente negli ultimi quattro anni, sono stati incessanti e adesso sono considerati la più lunga campagna anglo-americana di bombardamenti aerei dalla seconda guerra mondiale.
I governi americano e britannico la giustificano sostenendo che essi hanno un mandato dell’Onu per sorvegliare le cosiddette “no-fly zone” da essi
dichiarate dopo la guerra del Golfo. Essi dicono che queste “zone”, che danno loro il controllo della maggior parte dello spazio aereo iracheno, sono legali e sostenute dalla risoluzione 688 del Consiglio di Sicurezza.
Ciò è falso. Non ci sono riferimenti alle no-fly zone in nessuna risoluzione del Consiglio di Sicurezza.
Per essere sicuro di questo, l’ho chiesto al dr. Boutros Boutros-Ghali, che era Segretario Generale dell’Onu nel 1992, quando venne approvata la
risoluzione 688. “La questione delle no-fly zone non venne sollevata e perciò non fu discussa: non una parola”, ha detto. “Esse non offrono alcuna
legittimità a paesi che mandano i loro aerei ad attaccare l’Iraq.”
Nel 1999, Tony Blair sostenne che le no-fly zone consentivano a Stati Uniti e Gran Bretagna di svolgere “un ruolo umanitario vitale” nel proteggere i kurdi nel nord dell’Iraq e gli “arabi delle paludi” nel sud.
In realtà, gli aerei americani e britannici hanno effettivamente fornito una copertura alle ripetute invasioni del nord Iraq kurdo da parte della vicina
Turchia.
La Turchia è decisiva per l’ “ordine mondiale” americano. Sentinella dei giacimenti petroliferi del Medio Oriente e dell’Asia Centrale, è un membro della Nato e il destinatario di miliardi di dollari in armi e attrezzature militari americane. E’ anche il luogo in cui si trovano le basi dei bombardieri americani e britannici.
Una insurrezione di lungo periodo da parte della popolazione kurda di Turchia è considerata da Washington come una minaccia alla “stabilità” della
“democrazia” turca, che è una copertura per il suo esercito che è fra i peggiori violatori di diritti umani al mondo. Centinaia di migliaia di kurdi di
Turchia sono stati costretti alla fuga e 30.000 secondo le stime sono stati uccisi. La Turchia, a differenza dell’Iraq, è “nostra amica”.
Nel 1995 e 1997, 50.000 soldati turchi, appoggiati da carri armati e aerei da combattimento, hanno occupato quello che l’Occidente chiama “rifugio sicuro kurdo”.
Essi hanno terrorizzato villaggi kurdi e ucciso civili. Nel dicembre 2000, sono tornati, commettendo le atrocità che l’esercito turco commette con immunità contro la propria popolazione kurda.
Per entrare nella “coalizione” Usa contro l’Iraq, il regime turco verrà ricompensato con una mazzetta di 6 miliardi di dollari. Delle invasioni della Turchia si parla di rado in Gran Bretagna. La collusione del governo Blair è così grande che, praticamente all’insaputa del parlamento e del pubblico britannico, la RAF e gli americani hanno, di quando in quando, sospeso intenzionalmente i loro pattugliamenti “umanitari” per permettere ai turchi di continuare a uccidere i kurdi in Iraq.
Nel marzo dello scorso anno, piloti della RAF che pattugliano la “no-fly zone” nel Kurdistan iracheno hanno protestato pubblicamente per la prima volta per la complicità loro imposta nella campagna turca. I piloti si lamentavano del fatto che veniva loro frequentemente ordinato di rientrare alla base i Turchia per permettere all’aviazione turca di bombardare proprio la gente che essi dovevano “proteggere”.
Parlando in condizioni di anonimità con il dr. E. H., docente di politica all’Università di Bristol e specialista delle sanzioni all’Iraq, i piloti hanno
detto che, ogni qualvolta i turchi volevano attaccare i kurdi in Iraq, le pattuglie della RAF venivano richiamate alla base e al personale di terra veniva detto di spegnere i radar, in modo che gli obiettivi dei turchi non fossero visibili. Un pilota britannico ha riferito di aver visto la devastazione dei villaggi kurdi provocata dagli attacchi una volta ripreso il suo pattugliamento.
Anche ai piloti americani che volano in tandem con quelli britannici viene ordinato di invertire la rotta e tornare in Turchia per permettere ai turchi di devastare i “rifugi sicuri” kurdi.
“Si vedevano arrivare F-14 e F-16 turchi, caricati al massimo di munizioni”, ha detto un pilota al Washington Post. “Poi rientravano mezz’ora dopo con le munizioni esaurite.” Quando gli americani tornavano nello spazio aereo iracheno, ha detto, vedevano “villaggi in fiamme, molto fumo e fuoco.”
I turchi non fanno molto di più degli aerei americani e britannici nella loro finzione umanitaria.
La vera portata dei bombardamenti anglo-americani è sorprendente, con la Gran Bretagna socio di minore importanza.
Nei 18 mesi fino a gennaio 1999 (l’ultima volta che sono stato in grado di confermare cifre ufficiali americane) gli aerei americani hanno effettuato 36.000 sortite sull’Iraq, comprese 24.000 missioni da combattimento.
Il termine “combattimento” è assai ingannevole. L’Iraq non ha praticamente aviazione né difese aeree moderne.
Perciò, “combattimento” significa sganciare bombe o lanciare missili su infrastrutture che sono state devastate da 12 anni di embargo.
Il Wall Street Journal, la vera voce dell’establishment americano, lo ha descritto eloquentemente quando ha scritto che gli Usa avevano
di fronte “un autentico dilemma” in Iraq. Dopo otto anni di imposizione di una no-fly zone nel nord (e nel sud) dell’Iraq, rimanevano pochi obiettivi. “Siamo arrivati all’ultima capanna”, protestava un funzionario americano.
Ho visto i risultati di questi attacchi. Mentre andavo in macchina dalla città di Mosul, nel nord, tre anni fa, ho visto i resti di un serbatoio d’acqua agricolo e di un camion, crivellati di fori di proiettili, frammenti di missile, una scarpa e la lana e gli scheletri di circa 150 pecore.
Una famiglia di sei persone, un pastore, suo padre e sua moglie e quattro figli erano stati fatti a pezzi qui. Era aperta campagna, senza alberi: un paesaggio lunare. Il pastore, la sua famiglia e le sue pecore sarebbero stati chiaramente visibili dal cielo.
Il fratello del pastore, Hussain Jarsis, acconsentì a incontrarmi nel cimitero in cui è sepolta la famiglia.
Arrivò su una vecchia Toyota con la vedova, curva per il dolore, col volto coperto. Teneva la mano dell’unico figlio rimasto, e si misero a sedere
accanto ai cumuli di terra che sono le tombe dei quattro bambini. “Voglio vedere il pilota che ha ucciso i miei figli”, urlò verso di noi.
Il fratello del pastore mi disse: “Ho sentito delle esplosioni, e quando sono arrivato per cercare mio fratello e la sua famiglia, gli aeroplani
volteggiavano sulle nostre teste. Non avevo raggiunto la strada principale quando c’è stato il quarto bombardamento. Gli ultimi due missili li hanno
colpiti.
Allora non potevo capire cosa stava succedendo. Il camion era in fiamme. Era un camion grande, ma era fatto a pezzi. Non ne restava nulla, tranne i pneumatici e la targa.
Abbiamo visto tre cadaveri, ma il resto erano solo parti di corpi. Con l’ultimo missile, ho potuto vedere le pecore saltare in aria.”
Non si è saputo se a fare questo siano stati aerei americani o britannici. Quando particolari dell’attacco furono riferiti al Ministero della Difesa
di Londra, un funzionario disse: “Ci riserviamo il diritto di compiere azioni vigorose se minacciati.”
Questo attacco fu importante, perché venne indagato e verificato dal più alto funzionario delle Nazioni Unite in Iraq all’epoca, Hans von Sponeck, che si recò là in macchina appositamente da Baghdad.
Egli confermò che niente nelle vicinanze somigliava a una installazione militare.
Von Sponeck registrò le sue conclusioni in un documento interno confidenziale intitolato “Attacchi aerei sull’Iraq”, preparato dalla Sezione Sicurezza
delle Nazioni Unite (UNOHCI). Egli confermò inoltre dozzine di attacchi simili e questi sono documentati: attacchi a villaggi, a un molo da pescatori, nei pressi di un deposito di derrate alimentari dell’Onu. Gli attacchi erano così regolari che von Sponeck ordinò di sospendere i convogli umanitari dell’Onu tutti i pomeriggi.
Per questo motivo, von Sponeck, un alto funzionario delle Nazioni Unite con una carriera onorevole in tutto il mondo, si fece nemici potenti a Washington e a Londra.
Gli americani chiesero che Kofi Annan, il Segretario Generale dell’Onu, lo licenziasse e rimasero sorpresi quando Annan sostenne il suo principale rappresentante in Iraq.
Tuttavia, alcuni mesi dopo, von Sponeck sentì che non poteva più gestire un programma umanitario in Iraq che era minacciato sia dai bombardamenti illegali che da una politica americana che intenzionalmente bloccava le forniture umanitarie.
Si dimise per protesta, come aveva fatto il suo predecessore, Denis Halliday, assistente Segretario Generale delle Nazioni Unite. Halliday definì
l’embargo a guida Usa-Gb “genocida”.
Adesso è chiaro dai documenti ufficiali che gli Stati Uniti si stanno preparando a un possibile massacro in Iraq. La “Dottrina per operazioni urbane congiunte” del Pentagono dice che, a meno che Baghdad non cada rapidamente, essa deve essere oggetto di una “potenza di fuoco schiacciante”. La resistenza di Stalingrado nella seconda guerra mondiale viene data come “lezione”.
Bombe a frammentazione, bombe “bunker” a penetrazione profonda e uranio impoverito verranno quasi certamente usati. L’uranio impoverito è un’arma di distruzione di massa. Impiegato per il rivestimento di missili e granate da carro armato, la sua forza esplosiva spande radiazioni su un’area vasta, specialmente nella polvere del deserto.
Il professor Doug Rokke, il fisico dell’esercito americano incaricato di bonificare il Kuwait dall’uranio impoverito, mi disse: “Sono come la maggior parte della gente del sud dell’Iraq. Ho 5.000 volte in corpo il livello di radiazioni raccomandato.
Quello che vediamo adesso, problemi respiratori, problemi ai reni, tumori sono il risultato diretto. La discussione sul fatto che esso sia o no la causa di questi problemi è fabbricata. La mia stessa cattiva salute ne è un testamento.”
L’arma di distruzione di massa più devastante è stata brevemente fra le notizie la settimana scorsa, quando l’Unicef, il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia, ha pubblicato il suo rapporto annuale sulla condizione dell’infanzia nel mondo.
Il costo umano dell’embargo a guida americana all’Iraq è spiegato chiaramente in statistiche che non hanno bisogno di commenti.
“Il tasso di mortalità infantile in Iraq è quasi triplicato dal 1990 a livelli che si trovano in alcuni dei paesi meno sviluppati del mondo”, dice il
rapporto.
“La regressione del paese nell’ultimo decennio è di gran lunga la più grave dei 193 paesi esaminati.
L’Unicef dice che un quarto dei bambini iracheni sono oggi sottopeso e che più di un quinto hanno un arresto della crescita da malnutrizione.”
In base alle normative dell’embargo agli iracheni è consentito meno di 100 sterline a persona con cui sostenersi per un anno intero.
A oggi, il costo degli attuali bombardamenti “segreti” e illegali britannici dell’Iraq è di un miliardo di sterline
Fonte:
http://web.tuttopmi.it/unponteperbagh/index.htm
Libro “I nuovi padroni del mondo” di John Pilger,
Fandango editore:
http://www.fandango.it/ita/libri/padroni/padroni.htm#alto
La verità dietro la guerra americana di John Pilger
http://www.zmag.org/Italy/pilger-realstory.htm
Il nuovo assetto geopolitico: ecco chi ci guadagna
L'”anello non-arabo” (Iran-Israele-Turchia) e l’eventuale guerra in Medio Oriente: accordi non-ufficiali, trattative, prospettive
Pare che il primo a guadagnare qualcosa da un intervento statunitense in Iraq sia il gruppo dei paesi del cosiddetto “anello non-arabo” dell’area (Turchia, Israele, Iran) magari con una differenziazione di guadagni. Ma non c’è dubbio che questi Paesi siano i vincitori nella regione. In Asia anche l’India è un Paese vincitore. Quanto ai perdenti, sono tanti. In questo articolo cercherò di spiegare la cartina geopolitica mondiale per poter capire il ruolo di un eventuale intervento americano in Iraq dal punto di vista della strategia statunitense: nel fare ciò terrò presente il contrasto con alcuni fronti internazionali come l’UE, lo scontro Usa con un grande stato come la Cina, alla luce del suo comportamento ambiguo con gli Stati arabi e islamici non ancora classificati come amici o nemici.
L’”anello non-arabo” (Iran-Israele-Turchia). Per capire cosa guadagnerà questo “anello non-arabo” bisogna sapere che attualmente ci sono discorsi “bilaterali” tra USA e Iran. E mentre qualcuno afferma che sono alcuni stati arabi a fare da mediatori tra USA e Iran, le mie fonti assicurano che è proprio Israele l’agente attivo nel restaurare i rapporti irano-statunitensi, e non un paese arabo. I diplomatici israeliani infatti portano avanti una diplomazia “sotto-radar”, di tipo track-two, una specie di diplomazia di secondo livello per trovare un terreno comune all’America e all’Iran, un terreno che permetta anche delle relazioni israelo-iraniane il cui scopo finale è quello di tornare allo stato in cui erano le relazioni di Israele con l’Iran durante gli anni ’70 e prima della rivoluzione islamica.
Il punto di vista tritalerale americano-iraniano-israeliano sulla situazione dell’Iraq dopo Saddam rappresenta il nucleo del dialogo americano-iraniano-israeliano. E forse i guadagni dell’Iran da un cambiamento in Iraq sono ben superiori a quelli di un qualsiasi altro “giocatore” regionale dello stesso peso come lo fu l’Egitto durante la guerra del Golfo nel ’91. Ma i guadagni dell’Iran non si possono capire se non nell’ottica dell’anello non-arabo adiacente all’Iraq che rappresenterà sicuramente la base di una qualsiasi alleanza per una futura guerra.
Se guardiamo alla Turchia, per esempio, troviamo che gli USA hanno cominciato un dialogo con essa sui rimborsi per qualsiasi perdita economica o per qualunque altro costo da sostenere nel caso gli USA lancino una guerra contro l’Iraq. La fonte di queste informazioni sono responsabili americani e turchi. Cosa vogliono i turchi? I turchi hanno avanzato una serie di richieste la prima delle quali consiste in aiuti economici diretti rappresentati dagli aiuti finanziari statunitensi e aiuti economici indiretti tramite la pressione americana sugli europei affinché accettino l’adesione della Turchia all’ UE. E infatti il presidente statunitense Bush è stato a colloquio con il Presidente dell’ UE affinché aiuti la Turchia a diventare membro dell’Unione.
Anche i militari statunitensi stanno preparando una serie di incontri al margine dell’incontro Nato nella Repubblica ceca finalizzati allo stesso obiettivo. In cambio, la Turchia ha dato disponibilità di basi e di forze armate, e la promessa di non sfruttare qualsiasi situazione bellica per estendere la propria sovranità sul Nord dell’Iraq. Nel frattempo gli americani hanno promesso di non sventolare la carta curda che rappresenta una minaccia non solo per la Turchia ma anche per l’Iran e la Siria. E mentre nel mondo arabo scommettono su un una riconsiderazione da parte dei turchi dei loro rapporti con Israele, specie dopo la vittoria del partito islamico, i turchi stessi non hanno nessuna intenzione di tirarsi indietro ma anzi tutti gli indicatori indicano un rinforzamento di questa relazione.
L’anello non arabo non include solo il Medio Oriente ma si estende fino all’Asia nel quadro della relazione speciale che si sviluppa fra tutti i membri di quel triangolo e l’India. La particolarità del rapporto tra India e Israele si sta continuamente rinforzando. Anche le collaborazioni militari tra India, Iran e Turchia stanno aumentando. Ad aggiungersi va la relazione particolare che lega Israele e l’India all’Estonia, una piccola repubblica che rappresenta il sud dell’ex-URSS dove la Turchia è influente. Per capire questa influenza bisogna guardare le relazioni sino-americane come un ombrello sotto il quale si combinano queste alleanze.
Gli Stati Uniti attualmente considerano la Cina uno dei suoi più grandi concorrenti nel sistema mondiale. Specialmente se teniamo in conto che il ritmo di crescita economica cinese è arrivato all’8%, il che fa della Cina un’immensa potenza che può influenzare l’economia mondiale. L’operazione di “contenimento” della Cina viene al primo posto nelle priorità dell’attuale amministrazione americana. E non si può contenere la Cina con i metodi tradizionali come si fa con l’Iraq o con l’Iran. Gli Stati Uniti in questo campo seguono la strategia del dialogo diplomatico con la Cina tramite le organizzazioni internazionali, i rapporti bilaterali, e nello stesso tempo cercano di assediarla con il cerchio dell’alleanza che si estende da Israele alla Turchia, all’India e all’Iran.
Cosa c’entra in tutto questo la Cina? Se teniamo conto che l’80 per cento del petrolio in arrivo in Cina proviene dal Golfo persico, capiremo che il controllo americano sulle fonti di petrolio è basilare nella strategia americana nei confronti della Cina e del suo assedio. E chi guarda al ruolo del petrolio arabo nella strategia di dominazione americana dopo il crollo del comunismo capisce di che cosa si sta parlando. Il sistema mondiale attuale è un sistema su cui domina l’America sia politicamente che militarmente e cioè è un sistema “unipolare” sia a livello politico che su quello militare. Ma nello stesso tempo è un sistema “multipolare” a livello economico. Sia l’UE che la Cina che il Giappone sono in concorrenza economica con gli USA.
E siccome l’UE, la Cina e il Giappone si basano quasi esclusivamente sul petrolio arabo come fonte di energia, mentre gli USA importano solo il 12% del proprio petrolio dal Golfo, diventa chiaro che lo scopo dell’America non è quello di assicurare l’arrivo del petrolio in patria ad un prezzo ragionevole come afferma qualcuno, ma per fare pressione sull’UE, sulla Cina e sul Giappone. E cosi gli USA usano il loro potere militare per la dominazione economica.
Il dominio politico-militare si trasforma in dominio politico-militare-economico. Se questo è il nucleo della dominazione americana attraverso la sua strategia nei confronti di paesi concorrenti economicamente, mi pare che l’intervento in Iraq non sia più un semplice cambiamento di regime, ma una necessità strategica imposta dal nuovo assetto geo-politica. Gli americani infatti vedono se stessi, come ha detto un membro del Consiglio Nazionale di Sicurezza, come portatori della bandiera dell’Impero Britannico nel Golfo.
E per ottenere questo controllo, diventa necessario l’intervento in Iraq. Ma ciò che è nuovo è il non dipendere molto dagli arabi nella nuova equazione. L’america si baserà invece su elementi non arabi come l’Iran, Israele, l’India e la Turchia e questo perché in ballo non è l’Iraq ma l’Europa, il Giappone e la Cina come concorrenti. Proprio per questo assistiamo a tanti dubbi a livello europeo (ad eccezione dell’Inghilterra) quando non il rifiuto totale di una guerra contro l’Iraq che permetterebbe agli americani di controllare totalmente il petrolio del Golfo.
Il controllo americano, se preferite chiamatelo ricatto, viene imposto anche al comportamento giapponese nell’area mediorientale. Una responsabile giapponese mi ha detto che “la nostra politica nel mondo arabo e nel sud dell’Asia è stabilita a Washington, non a Tokyo.” A questo punto gli americani controllano la politica nipponica nei confronti del mondo arabo e nel Sud dell’Asia. E questa dominazione si capisce anche da ciò che gli USA hanno dettato al Giappone a proposito dell’Afganistan, nonostante il responsabile giapponese mi avesse affermato che hanno una valutazione della stabilità in Afganistan diversa da quella degli americani e che non scommettono su Karzai. Cose che però non possono dire pubblicamente.
Evidenti sono i tentativi fatti sotto tavolo che cercano di non includere gli arabi nella nuova strategia americana nei confronti della zona. Se esiste un solo paese arabo in grado di far parte dell’alleanza israeliana-iraniana-turca-indiana questo sarà la Giordania e infatti gli Usa hanno fatto alla Giordania le stesse promesse che hanno fatto alla Turchia.
La Giordania, in questo caso, avrà le sue ragioni. Inserirsi in quell’alleanza le eviterà qualsiasi crisi che potrebbe sorgere dall’alleanza Sharon-Netanyahu che mira al trasferimento dei palestinesi in Giordania se dovesse scoppiare il caos nell’area mediorientale. Per questo, per garantire la continuità della Giordania come sistema e come stato, è necessario che faccia parte dell’alleanza.
Per questo pare che gli arabi non abbiano nessuna possibilità dopo la guerra se non quella di rivolgersi alla “Bomba cinese”. Questo perché l’assetto attuale non include tanti di loro se non per questioni puramente logistiche che riguardano il movimento delle truppe, il diritto di volare o quello di stanziare sui territori. Ma chi vince alla fine è questa alleanza non-araba che, a mio avviso, impone agli arabi un diverso modo di pensare al futuro di una zona all’orlo del caos regionale e di nuove alleanze.
al-Ahram (Le piramidi, Egitto) .:. 21.11.02
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