COMPRENDERE LA CRISI USA-IRAQ

Un’introduzione

nstitute for Policy Studies
Gennaio 2003

Phyllis Bennis

SOMMARIO

L’attuale crisi tra gli USA e l’Iraq è il prosieguo di più di dieci anni di antagonismo tra Washington e Baghdad, che ha visto coinvolto tre amministrazioni americane. Per capire a fondo perché adesso ci troviamo sull’orlo di una guerra, tuttavia, bisogna guardare da vicino agli obiettivi dell’attuale amministrazione Bush, che è spinta al conflitto delle massicce riserve petrolifere irachene e dall’obiettivo di espandere il potere militare statunitense nel mondo.

Il governo iracheno ha indubbiamente un passato brutale, e gli USA ed i suoi alleati non avrebbero mai dovuto facilitarne l’accesso alle armi di distruzione di massa, come hanno fatto nel corso degli anni 80, la decade che ha visto una stretta alleanza USA-Iraq. Non ci sono prove tuttavia che l’Iraq abbia attualmente a disposizione armi di distruzioni di massa funzionanti, o che rappresenti una minaccia immediata per gli Stati Uniti; né che vi sia alcun legame tra l’Iraq e gli eventi del 11 Settembre, nonostante le affermazioni del governo Bush. Una guerra degli USA contro l’Iraq violerebbe la legge internazionale e rafforzerebbe la nostra reputazione di superpotenza arrogante e senza alcuna responsabilità. Gli effetti sarebbero particolarmente drammatici in Medio Oriente, dove molti governi sono in equilibrio precario tra una popolazione sempre più indignata e le richieste di Washington, da cui dipendono per gli aiuti militari ed economici. Una guerra causerebbe grandi sofferenze in Iraq, già devastato dalla guerra del 1991 e da anni di sanzioni economiche rovinose, ed esporrebbe altri a gravi rischi, inclusi decine di migliaia di soldati americani.

Se gli USA fossero lungimiranti, cercherebbero di lavorare attraverso le Nazioni Unite per promuovere il disarmo, i diritti umani e la democrazia interna ed in tutta la regione, e perseguirebbero politiche energetiche interne al fine di ridurre la nostra dipendenza dal petrolio e dunque i nostri interventi nel Golfo Persico e altrove.


CONTENUTI


I.

La corsa statunitense alla guerra

II.

La risposta del mondo, le Nazioni Unite e il diritto internazionale

III.

Le consegenze della guerra: Iraq e oltre

IV.

La storia delle relazioni USA-Iraq

V.

Alternative alla guerra


Informazioni sull’autore

Phyllis Bennis, membro dello Institute for Policy Studies a Washington, è una famosa scrittrice ed esperta del Medio Oriente. Tra i suoi libri recenti ricordiamo Before & After:U.S. Foreign Policy and the September 11 Crisis e Calling the Shots: How Washington Dominates Today’s UN. Ha intrapreso dibattiti con funzionari governativi di alto rango e appare regolarmente sulla televisione statunitense ed internazionale ed alla radio. Nel 1999 ha accompagnato la prima delegazione del Congresso in visita in Iraq.

Informazioni sull’Institute for Policy Studies

Lo Institute of Policy Studies è un centro studi multidisciplinare fondato nel 1963. In un momento in cui altri centri studi celebrano le virtù dell’ingordigia senza limiti, della ricchezza sconfinata e della guerra infinita, IPS cerca di creare una società più responsabile – costruita attorno ai valori di pace con giustizia, sostenibilità e decenza. IPS, come disse una volta I.F. Stone, “è un istituto per gli altri come noi.”


Gennaio 2003
The Institute for Policy Studies

La crisi USA-Iraq: Un’introduzione
Parte I: La corsa statunitense alla guerra

Phyllis Bennis

1. L’amministrazione Bush dice che una guerra contro l’Iraq è necessaria a causa della minaccia delle armi di distruzione di massa, per il supporto iracheno al terrorismo e per la questione dei diritti umani. Questi argomenti sono validi? Il governo dell’Iraq è stato per molto tempo repressivo nei confronti della sua stessa popolazione ed ha attaccato due volte altri paesi (l’Iran ed il Kuwait) a causa di vecchie dispute politiche, economiche e di sicurezza. L’apice della potenza militare irachena viene raggiunto durante gli anni ’80 come risultato di un’alleanza decennale con gli Stati Uniti che, insieme a europei ed altri alleati, gli hanno fornito supporto politico, militare, tecnologico e finanziario. Infatti è stato durante il periodo dell’alleanza USA-Iraq che Baghdad ha commesso le sue peggiori violazioni dei diritti umani. Ma i bombardamenti della Guerra del Golfo nel 1991 seguiti da 12 anni di estenuanti sanzioni hanno severamente diminuito la capacità militare irachena. Fino a quando gli ispettori agli armamenti delle Nazioni Unite hanno lasciato l’Iraq, nel 1998, anticipando la campagna di bombardamenti statunitense denominata “Volpe del Deserto”, essi hanno trovato e distrutto oppure reso inoffensive il 90-95% delle armi di distruzione di massa irachene, comprese le loro armi chimiche, quelle biologiche ed i missili a lungo raggio. Hanno anche distrutto completamente la loro rozza capacità nucleare. L’amministrazione Bush ha associato l’Iraq, la Corea del Nord e l’Iran al cosiddetto “asse del male”. Ma solo l’Iraq è stato scelto per possibili attacchi militari. A differenza della Corea del Nord che può già disporre di armi nucleari, che ha ripudiato il trattato di non proliferazione, espulso gli ispettori nucleari delle Nazioni Unite e che ha minacciato direttamente gli Stati Uniti, l’Iraq non ha armi nucleari e sta dando libero accesso agli ispettori ONU. A differenza di numerosi altri paesi, l’Iraq non fa parte del disegno terroristico internazionale. L’Iraq semplicemente non osa minacciare gli Stati Uniti.  2. Quali sono le reali ragioni che si nascondono dietro la precipitosa corsa dell’amministrazione alla guerra? La minaccia statunitense di avviare una guerra contro l’Iraq è largamente guidata dal petrolio e dalla voglia d’impero – per espandere il potere economico e militare statunitense. Poiché questi obiettivi avvantaggiano principalmente le compagnie petrolifere e le persone già ricche e potenti, l’amministrazione Bush fa leva sulla paura degli americani comuni per mobilitare il sostegno pubblico a favore della guerra collegando – in modo falso – l’Iraq alla minaccia, molto concreta, del terrorismo ed al retorico “asse del male”. Bush, per conquistare consensi, gioca anche sulla genuina preoccupazione degli americani per i diritti umani. Molti alti funzionari dell’amministrazione Bush vengono direttamente dall’industria petrolifera. Il presidente Bush stesso, così come il vice presidente Dick Cheney, il Consigliere alla Sicurezza Nazionale Condoleeza Rice, il Segretario al Commercio Donald Evans e molti altri, hanno tutti forti legami con aziende petrolifere – la Chevron una volta ha chiamato una petroliera col nome di Rice in segno di ringraziamento. Ma gli Stati Uniti non stanno minacciando un’invasione semplicemente per assicurare il loro continuo accesso al petrolio iracheno. Piuttosto vi è, da parte statunitense, una più ampia manovra per il controllo dell’industria petrolifera che dia loro la facoltà di decidere il prezzo del greggio sul mercato mondiale. Le riserve petrolifere irachene sono seconde solo a quelle dell’Arabia Saudita. E con una sempre più instabile Arabia Saudita appoggiata dagli Stati Uniti, la questione di quali compagnie petrolifere – francesi, russe o americane – debbano controllare i ricchi ed inesplorati campi petroliferi iracheni una volta rimosse le sanzioni, è stata spostata al primo posto nell’agenda di Washington. Molti nell’amministrazione Bush credono che nel lungo termine, un Iraq dipendente dagli USA nel dopoguerra sostituirà il controllo saudita sul prezzo del greggio e ridurrà l’influenza del cartello petrolifero a guida saudita nell’OPEC. L’Iraq può sostituire l’Arabia Saudita, almeno parzialmente, quale fattore centrale della strategia petrolifera e militare degli Stati Uniti nella regione, e gli Stati Uniti resterebbero i garanti del petrolio per il Giappone, la Germania e gli altri alleati in Europa e nel mondo. L’espansione del potere statunitense, al centro della strategia di guerra dell’amministrazione Bush, include il ridisegno della mappa politica del medio oriente. Lo scenario include il controllo americano dell’Iraq e il resto degli stati del Golfo cosi come Giordania ed Egitto. Qualcuno nell’amministrazione vuole anche di più – “cambiamento del regime” in Siria, Iran, e Palestina con Israele quale permanente e incontestabile potenza regionale appoggiata dagli Stati Uniti. L’anello delle basi americane costruite oppure ampliate di recente in Qatar, nel Gibuti, nell’Oman e in qualche altra località sono i preparativi di una guerra USA contro l’Iraq e ne anticipano gli obiettivi. Ma i super-falchi dell’amministrazione Bush hanno un piano più ampio per costruire un impero globale che vada oltre il Medio Oriente. La maggior parte di questo piano è stato concepito molto prima dell’11 settembre, ma ora è stato portato avanti sotto la bandiera della “guerra al terrorismo”. La guerra in Afghanistan, la creazione di una serie di basi militari statunitensi nei paesi della regione del Mar Caspio e dell’Asia sud-occidentale (anch’essi ricchi di petrolio e gas naturali), la nuova dottrina strategica della guerra preventiva e l’ascesa dell’unilateralismo come principio, sono tutti quanti aspetti della loro crociata. Attaccare l’Iraq è solo il prossimo passo.  3. Che cosa significa “cambiare il regime”? “Cambiare il regime” è un eufemismo per indicare l’assassinio o il rovesciamento di Saddam Hussein. “Cambiare il regime” è stata la politica ufficiale degli Stati Uniti a partire dall’Iraq Liberation Act del 1998 [atto firmato da Clinton per creare un fondo di 97 miliardi di dollari per sostenere l’opposizione irachena., ndt]. Il concetto che il popolo iracheno stesso, una volta che saranno eliminate le sanzioni economiche, sia capace di ricostruire il paese nonché le loro stesse vite, collaborando per sostituire gli attuali governanti con altri più rappresentativi e meno repressivi, semplicemente non è previsto dall’agenda di Washington, né lo è mai stato. Nonostante il primo presidente Bush istigò gli iracheni a rivoltarsi contro il governo di Saddam Hussein dopo la prima Guerra del Golfo, egli ha rapidamente abbandonato la chiamata alla rivolta ed ha abbandonato l’Iraq al suo destino.  4. Cos’è la dottrina di Bush dell'”attacco preventivo”? In un discorso del giugno 2002 all’Accademia Militare degli Stati Uniti a West Point e in un documento strategico rilasciato nel 2002, Bush e la sua amministrazione ha rivendicato l’uso della forza militare preventiva contro paesi o gruppi terroristici considerati in procinto di acquisire armi di distruzione di massa o missili a lungo raggio, ed ha affermato che gli Stati Uniti dovrebbero “rispondere con una travolgente durezza” e con “tutte le opzioni” – codice usato per dire armi nucleari – ad ogni uso di armi chimiche, biologiche, radiologiche o nucleari contro gli Stati Uniti, le sue truppe o i suoi alleati. Tale minaccia di usare armi nucleari – in specifica violazione del “Trattato di Non Proliferazione”, che proibisce l’uso di armi nucleari contro ogni stato che non ne possiede – rappresenta una significativa escalation nella dominazione militare statunitense. Ciò riflette una parallela richiesta presente nei documenti strategici per un nuovo approccio allo scontro militare in cui gli Stati Uniti dovrebbero impedire a qualunque nazione, ovunque nel mondo, persino di cercare di eguagliare la capacità militare statunitense. Ironicamente, perfino la parola “preventiva” non è propriamente applicata. La strategia di Bush va ben oltre la prevenzione che implica un’imminente minaccia. L’Iraq, addirittura secondo quelli che chiedono la guerra, non rappresenta un’imminente minaccia per gli Stati Uniti. Piuttosto, l’amministrazione Bush sta attualmente esortando ad una guerra preventiva per impedire un ipotetico riarmo o rafforzamento futuro dell’Iraq. La guerra preventiva è chiaramente illegale.  5. Cosa sono le “no-fly zone”? Perché gli aerei statunitensi le stanno già bombardando? Alla fine della prima Guerra del Golfo, nel 1991, gli Stati Uniti insieme con il Regno Unito (e la Francia, che interruppe immediatamente la sua partecipazione) stabilì una zona di interdizione al volo [“no-fly zone” appunto, ndt] nel nord dell’Iraq ed in seguito nel 1992 anche nel sud. L’apparente ragione fu quella di proteggere la popolazione kurda nel nord e la riottosa popolazione sciita nel sud dagli attacchi iracheni proibendo la presenza di aerei militari iracheni nell’area. Da allora, aerei statunitensi e britannici hanno sempre pattugliato la “no-fly zone”. Dopo i raid di bombardamento denominati “Volpe del Deserto” del dicembre 1998, gli Stati Uniti hanno iniziato a bombardare regolarmente in entrambe le zone in risposta alle mosse di difesa irachene di intercettazione radar o scegliendo come obiettivo gli aerei con armi antiaeree, nonostante nessun aereo [americano o inglese, ndt] con equipaggio sia mai stato colpito (l’Iraq ha abbattuto almeno tre aerei radiocomandati e quindi senza piloti). Nel 1999, il solo anno per cui esistono dati attendibili, le Nazioni Unite hanno documentato 144 civili uccisi dalle bombe statunitensi nella “no-fly zone”. Gli Stati Uniti affermano che i loro bombardamenti avvengono per rispettare le risoluzioni delle Nazioni Unite, a volte citando la risoluzione dell’ONU 688 la quale richiama l’Iraq a rispettare i diritti umani delle comunità più deboli. Ma nessuna risoluzione, né la 688 né nessun altra, menziona la creazione di una zona di interdizione al volo per non parlare di bombardamenti od altre ingiunzioni militari. Quando la risoluzione delle Nazioni Unite che autorizzava nuove ispezioni è passata nel novembre 2002, il segretario della difesa Donald Rumsfeld ha dichiarato che la difesa antiaerea irachena contro i bombardieri ha costituito una sostanziale violazione degli obblighi iracheni, ma numerosi ambasciatori al Consiglio di Sicurezza, cosi come il Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, erano in forte disaccordo.   6. Chi nell’amministarzione Bush appoggia la guerra all’Iraq? Le voci più forti a favore della guerra nell’amministrazione vengono da ideologi raggruppati intorno al Segretario alla Difesa Rumsfeld ed al Vice Presidente Cheney. Essi includono il vice di Rumsfeld, Paul Wolfowitz, il Capo del Consiglio di Difesa del Pentagono Richard Perle, il capo degli assistenti di Cheney, Lewis Libbey ed altri. Tutti hanno spinto per una forte azione militare contro l’Iraq per un decennio o più; nel 1998 essi hanno firmato una lettera aperta al Presidente Clinton chiedendo azioni militari più aggressive contro l’Iraq. Molti di loro erano parte della campagna lanciata dal Project for New American Century [Progetto per il Nuovo Secolo Americano: gruppo che ha prodotto nel settembre 2000 un documento che descrive in dettaglio un progetto per la sottomissione militare del pianeta al dominio statunitense. Il testo fu redatto per un gruppo specifico di persone, che oggi ricoprono incarichi non indifferenti: Dick Cheney, attuale vicepresidente degli Stati Uniti; Donald Rumsfeld, attuale segretario alla difesa; Paul Wolfowitz, attuale vicesegretario alla difesa; Jeb Bush, fratello del presidente; e Lewis Libby, capo dello staff di Cheney, ndt] chiedendo una nuova politica estera animata dal prevenire che ogni paese possa mai aspirare a confrontarsi con il potere statunitense. Poiché quasi nessuno di loro è stato militare e nessuno ha reali esperienze di combattimento ma stanno parlando di una guerra che altri combatteranno, essi sono noti come “falchi da pollaio” (“chicken-hawks” nel testo originale, ndt). La guerra resta la loro opzione strategica migliore per la politica verso l’Iraq. Perle, ad esempio, ha detto ad una delegazione di parlamentari britannici nel novembre 2002 che “neppure un certificato d’integrità” emesso da parte degli ispettori agli armamenti delle Nazioni Unite eviterebbe una guerra USA contro l’Iraq.  7. Chi è contro la guerra o almeno è più prudente? L’opposizione ad una guerra unilaterale con l’Iraq è ampiamente diffusa tra la popolazione americana, con uomini d’affari, religiosi, ed anche capi militari. Perfino all’interno dell’amministrazione stessa vi è un’opposizione degna di nota. Il dipartimento di stato condotto da Colin Powel benché non inequivocabilmente contrario alla guerra è a favore di una risposta multilaterale basata sull’uso delle Nazioni Unite per legittimare la condotta statunitense. Alcuni consiglieri politici della Casa Bianca stanno pensando anche di suggerire un approccio che includa una chiaro mandato delle Nazioni Unite basandosi sui sondaggi che dicono (secondo Business Week ed altri) che una maggioranza degli americani non appoggerebbe una guerra condotta unilateralmente e fuori dall’approvazione delle Nazioni Unite. Diversi generali in pensione chiedono pubblicamente cautela, un sentimento – secondo quanto riferito – condiviso da molti capi di stato maggiore. Il generale Antony Zinni che è stato per la maggior parte degli anni ’90 capo del Comando Centrale degli Stati Uniti (che include l’Iraq) ed in seguito inviato speciale del presidente Bush in Medio Oriente ha anche esternato la propria opposizione alla condotta bellica di Bush.  8. Chi beneficerà di una guerra in Iraq? Le compagnie petrolifere statunitensi sarebbero tra le prime a beneficiarne, attraverso accessi privilegiati alle riserve petrolifere dell’Iraq, le seconde in ampiezza del pianeta. Questo accesso non significa solamente fornitura di greggio ma anche un enorme potere nel mercato globale del petrolio che scalzerebbe quello dell’Arabia Saudita e dell’OPEC. Nei tardi anni novanta fino al 2002, l’Iraq ha firmato contratti che avrebbero dato a compagnie petrolifere francesi e russe accesso privilegiato alle riserve irachene una volta che fossero state rimosse le sanzioni economiche. Gli Stati Uniti hanno usato questi contratti per far pressione su Francia e Russia nelle deliberazioni del Consiglio di Sicurezza. La minaccia – suggerita dai dirigenti statunitensi e più esplicitamente dai leader dell’opposizione irachena – era che un regime post Saddam Hussein in Iraq avrebbe annullato i contratti esistenti e che le compagnie francesi e russe non avrebbero avuto accesso ai nuovi contratti petroliferi se i loro governi si fossero opposti ai piani statunitensi (la contrapposizione in merito è che nel breve termine una caduta della produzione di petrolio, dovuto alla guerra, potrebbe avere serie conseguenze economiche, ma molte compagnie petrolifere sembrerebbero credere che beneficeranno dal maggior prezzo di mercato che accompagnerebbe una tale riduzione di produzione). Anche le compagnie che producono e installano equipaggiamenti petroliferi dovrebbero beneficiarne. Il vice presidente Cheney è stato CEO [Chief Executive Officer, equivalente al nostro amministratore delegato, ndt] di una di queste aziende, la Halliburton Oil Services, prima di ritornare a Washingthon nel 2001 come componente dell’amministrazione Bush. Tra il 1997 ed il 2001 la Halliburton sotto la guida di Cheney a fatto affari con l’Iraq per un valore di almeno 73 milioni di dollari per ricostruire le infrastrutture petrolifere mandate in pezzi dalla guerra e dalle sanzioni economiche, ma le sanzioni statunitensi hanno limitato questa ricostruzione. Con un controllo militare statunitense nel dopoguerra in Iraq, le compagnie petrolifere degli Stati Uniti sarebbero in posizione privilegiata, le sanzioni petrolifere sarebbero certamente alzate e compagnie tipo la Helliburton vincerebbero giganteschi contratti di ricostruzione. Anche i produttori di armi statunitensi ne beneficerebbero. I produttori militari hanno già vinto nuovi e più grandi contratti per produrre più armi e di miglior qualità. Boeing Aircraft, per esempio produttrice del kit J_DAM che trasforma immense e letali bombe da 500 e 2000 libbre in altrettante bombe intelligenti stanno lavorando contro il tempo per produrre tali kit prima dell’inizio di una guerra contro l’Iraq. Boeing sta costruendo una nuova industria di 30,000 piedi quadrati a Sant Charles, Las Angeles per sostenere la domanda ed anche i fornitori, includendo Loockeed, Honeywell e Textron, stanno incrementando la produzione. Il portavoce della Boeing Bob Algarotti prevede “un innalzamento del livello di produzione fino alla fine del decennio.”   9. Chi beneficerà di una guerra in Iraq? Le forze militari irachene sono in minor numero e più deboli rispetto alla guerra del golfo del 1991, il Pentagono stima che esse siano solo ad un terzo della loro potenzialità originaria. Esse difettano di capacità missilistica perfino per raggiungere la maggior parte dei paesi confinanti, non parliamo poi degli Stati Uniti. Il presidente degli Stati Uniti ha detto in un occasione che l’Iraq avrebbe aerei senza pilota che possono volare attraverso l’oceano ed attaccare gli Stati Uniti. Un evidente volo di immaginazione retorica che non è mai stato ripetuto. L’Iraq ha tentato di attaccare i bombardieri nelle “no-fly zone”, aerei che si erano illegalmente introdotti nello spazio aereo iracheno per attaccare obiettivi iracheni; la ritirata degli aerei americani avrebbe messo fine a questo (quanto mai innocuo) tentativo di abbatterli (vedi domanda 5 per sapere di più sulle “no-fly zone”). Nell’edizione 2001 del Rapporto Annuale sul Terrorismo Globale del Dipartimento di Stato, gli Stati Uniti hanno ammesso che l’Iraq “non ha più tentato un attacco anti-occidentale dopo il loro fallito piano per assassinare l’allora presidente Bush nel 1993 in Kuwait” (se questo piano ci sia realmente stato resta da chiarire).  10. L’Iraq possiede armi di distruzione di massa? Non lo sappiamo con certezza – questo è il motivo per cui gli ispettori dell’ONU sono in Iraq. Come alla fine del 2002, gli ispettori non hanno indicato di aver trovato l’evidenza di ogni visibile programma d’armamento. Quando l’originale gruppo di ispezione, UNSCOM, lasciò l’Iraq nel dicembre 1998, alla vigilia del bombardamento iracheno da parte di Washington, disse di aver trovato e distrutto o reso inoffensive il 90-95% delle armi di distruzione di massa irachene. L’Iraq ha dichiarato di aver distrutto altri armamenti, ma non possiede un incartamento completo per documentare pienamente la loro distruzione. Non vi è certamente alcun piano nucleare in atto – che può essere facilmente verificato via satellite e con altre tecnologie. Mentre è possibile che qualche materiale biologico o chimico dagli ultimi programmi di armamento possano essere rimasti in Iraq ma che non siano stati ancora scoperti dagli ispettori, non vi è alcuna indicazione che esista un potenziale sistema per lo spargimento di queste sostanze. L’amministrazione Bush dichiara che l’Iraq possiede armi di distruzione di massa – ma hanno rifiutato di mostrare le prove che dichiarano di avere e non vogliono neppure fornirle ai gruppi di ispettori delle Nazioni Unite. Questo contraddice la dichiarazione di Washington di un’imminente minaccia da armi di distruzione di massa irachene – se le minacce fossero state reali, sicuramente i funzionari statunitensi avrebbero fornito immediatamente agli ispettori tutte le informazioni necessarie per neutralizzare la minaccia. Trattenendo le informazioni, gli Stati Uniti sembrano più interessati a giocare a “rimpiattino” piuttosto che trovare realmente ogni reale armamento per renderlo inoffensivo. Inoltre, l’emergente esempio delle armi nucleari della Corea del Nord può essere istruttivo. Se, come è il caso nella Corea del Nord, ci fosse la reale evidenza di un’arma nucleare irachena, sarebbe inverosimile che Bush minacci una guerra contro l’Iraq. Dovrebbe essere usata invece una combinazione di diplomazia ed altri deterrenti. La buona volontà statunitense di parlare alla Corea del Nord – che possiede armi nucleari – contrapposto al rifiuto di parlare all’Iraq, fornisce un’altra chiara indicazione che l’Iraq non possiede armi nucleari.  11. L’Iraq ha nulla a che fare con l’11 settembre o con Al-Qaeda? Una guerra contro l’Iraq aumenterebbe la sicurezza degli americani in patria e all’estero? L’Iraq non ha nulla a che fare con gli attacchi dell’11 settembre. Infatti l’Iraq ha una lunga storia di antagonismi con Osama bin Laden ed Al Qaeda. Secondo il New York Times: “subito dopo che le forze militari irachene hanno invaso il Kuwait nel 1990, Osama bin Laden ha avvicinato il principe sultano Bin Abdelaziz Al Saud, il Ministro della Difesa saudita, con una proposta inconsueta… Arrivando con mappe e molti diagrammi, Bin Laden disse al principe sultano che il regno poteva evitare l’affronto di concedere all’armata di miscredenti americani di entrare nel regno per cacciare l’Iraq dal Kuwait. Egli stesso poteva condurre la battaglia, disse, alla testa di un gruppo di ben addestrati mujahideen che – diceva – poteva vantare 100,000 uomini. Anche se l’offerta era senza dubbio esagerata, l’ostilità di Bin Laden verso il secolare Iraq era chiara. Non vi è alcuna ragione di credere che ciò sia cambiato. Invece di rendere gli americani più sicuri, ci sono molte ragioni per temere che una guerra contro l’Iraq metterà gli americani in grande pericolo. In tutto il medio oriente, il sentimento anti-americano è già dilagante a causa del supporto finanziario e diplomatico dell’occupazione israeliana in terra palestinese e per il supporto ai regimi corrotti e repressivi del mondo arabo. Una guerra statunitense contro l’Iraq inoltre inasprirà questa rabbia, forse guidando i più disperati a scegliere atti di violenza contro individui o istituzioni americane percepite come simboli del potere o della politica americana.  12. Se gli Stati Uniti non attaccano l’Iraq, come possiamo essere sicuri che non ci sono armi di distruzione di massa? Supportando gli ispettori ONU agli armamenti, il cui mandato è finire il lavoro dei primi gruppi di ispezione, trovando e rendendo innocue ogni arma di distruzione di massa residua. Noi possiamo ottenere ulteriori rassicurazioni applicando l’articolo 14 della Risoluzione 687 delle Nazioni Unite che afferma che disarmare l’Iraq dalle armi di distruzione di massa dovrebbe essere un primo passo verso la creazione in Medio Oriente di un’ampia “zona libera da armi di distruzione di massa e da missili balistici necessari al loro utilizzo e ad un bando globale delle armi chimiche”. Un tale approccio, piuttosto che l’attuale atteggiamento statunitense che inonda la regione già satura di armi con armamenti sempre più potenti, dovrebbe certamente aiutare a ridurre la tensione militare nella regione.  13. Quanto costerà una guerra contro l’Iraq? Chi pagherà per essa e quale sarà il suo impatto sull’economia statunitense? Una stima che va da 60 miliardi di dollari fino a forse 1600 miliardi di dollari, dove sono state incluse le conseguenze della guerra. Perfino la stima inferiore rappresenta tra l’1 e il 2% del prodotto interno lordo statunitense. La crisi del golfo del 1990-91 costò circa 80 miliardi di dollari ovvero circa l’1% del prodotto interno lordo, ma l’80% di quel costo fu pagato dai nostri alleati il che è improbabile che accada questa volta. Il conto finale includerà molto più degli schieramenti militari, delle truppe e delle armi. Essa includerà pure le paghe per i riluttanti partner che fanno parte delle coalizioni. I turchi ad esempio hanno dato chiaramente le loro condizioni per una guerra americana: compensazione fino a 25 miliardi di dollari per eventuali perdite, che i turchi dicono non dovrebbero venire dalla legislazione congressuale ma direttamente dal Pentagono; una chiara proibizione statunitense a creare uno stato kurdo nel nord dell’Iraq e garanzie per il controllo della sicurezza turca nel nord dell’Iraq. Inoltre, durante una visita ad Ancara del Vice Segretario alla Difesa Paul Wolfowitz nel dicembre 2002, ai turchi sono stati promessi nuovi generosi aiuti economici, la costruzione di basi militari permanenti nel sud-est kurdo e un rinnovato supporto diplomatico che comprende una più forte campagna statunitense per favorire l’ingresso turco nell’Unione Europea. E nessuno di questi iniziali costi di guerra include il prezzo della ricostruzione. Il precedente Consigliere per la Sicurezza Nazionale, Sandy Berger, ha recentemente affermato che la ricostruzione dell’economia irachena dovrebbe costare tra i 50 ed i 150 miliardi di dollari. Ma vista l’abitudine di Washington a condurre la guerra, lasciando la ricostruzione alle Nazioni Unite ed al resto della comunità internazionale (così come è successo recentemente in Kosowo e in Afghanistan) è improbabile che gli Stati Uniti intendano pagare per la ricostruzione dell’Iraq. Anche senza una nuova guerra in Iraq gli Stati Uniti spendono più di 11,000 dollari al secondo per l’apparato militare. Ciò significa più di un miliardo di dollari al giorno, metà di tutte le spese militari del mondo considerando insieme i nostri amici e gli avversari.  14. L’amministrazione americana ha parlato di piani a lungo termine per occupare l’Iraq. Cosa significa? Qualcuno nell’amministrazione Bush ha sostenuto la tesi dell’assunzione del controllo diretto dell’Iraq da parte degli Stati Uniti nel dopoguerra, tesi basata sull’occupazione della Germania e del Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale. Questo modello immagina il mondo del 1945, prima cioè che cinque decadi di decolonizzazione ridisegnasse lo scacchiere politico con nuovi paesi indipendenti. Esso prevede un ampio benvenuto iracheno alle truppe statunitensi non solo come momentanei liberatori ma come graditi, perfino benvenuti, occupanti permanenti, una cosa poco verosimile visto l’ampio grado di comprensione che c’è stato in Iraq delle devastanti sanzioni economiche e delle pressioni americane che le hanno mantenute per 12 anni. Questo scenario immagina gli Stati Uniti che pagano miliardi di dollari per ricostruire un’economia irachena devastata dalla guerra. Ma tutti sanno che questo è illusorio. Perfino le astiose e diverse opposizioni irachene appoggiate dagli Stati Uniti, riunitesi a Londra nel dicembre 2002, sono state capaci di convenire solo su una cosa – che un’occupazione militare statunitense del loro paese non era accettabile. L’occupazione probabilmente significherà l’immediata suddivisione dei campi petroliferi iracheni da parte statunitense, la rapida riabilitazione dell’infrastruttura petrolifera e la rapida ridistribuzione dei contratti petroliferi alle compagnie americane. Le rendite petrolifere iracheno dovrebbero essere deviate per ripagare Washington per i costi dell’invasione e dell’occupazione stessa, ritardando indefinitamente la ricostruzione della sinistrata infrastruttura fisica sociale e civile dell’Iraq. E le truppe americane – e gli americani in genere – diventerebbero il simbolo nell’intera regione di un’odiata superpotenza.  Prossima sezione: II. La risposta del mondo, le Nazioni Unite e le leggi internazionali.


Gennaio 2003
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La crisi USA-Iraq: Un’introduzione
Parte II: La risposta del Mondo, la legge internazionale e l’ONU

Phyllis Bennis

15. Gli Stati Uniti hanno diritto ad invadere l’Iraq?

No. La risoluzione delle Nazioni Unite passata nel Novembre 2002 determinò un nuovo invio di ispettori per verificare il disarmo dell’Iraq, come richiesta finale prima della revoca delle sanzioni. La risoluzione afferma che ci saranno “serie conseguenze” se ci fosse una “violazione materiale” della stessa, ma non identifica nello specifico quali dovrebbero o potrebbero essere queste conseguenze. La risoluzione afferma che una “violazione materiale” sarebbe determinata sia da omissioni o bugie nelle dichiarazioni sugli armamenti iracheni, sia da una maldisposizione nei confronti degli ispettori. Riserva all’intero consiglio, e non ad un qualsiasi singolo paese, l’autorità di trarre conclusioni su questo aspetto.

Quando la risoluzione passò, ogni ambasciatore del consiglio tranne quello di Washington, chiarì che la risoluzione non forniva un’autorizzazione alla guerra. Secondo l’ambasciatore del Messico, Adolfo Aguilar Zinser, l’uso della forza sarebbe stato giustificato soltanto, “sotto previa, esplicita autorizzazione del Consiglio di Sicurezza”. Gli Stati Uniti possono decidere di fare la guerra senza l’OK del Consiglio di Sicurezza, e senza preoccuparsi di ciò che gli ispettori ONU troveranno o non troveranno. Ma le condizioni delle risoluzioni dell’ONU sono considerazioni molto importanti per paesi del Consiglio di Sicurezza come Francia, Messico, Germania e altri, i cui governi devono trovare un equilibrio tra il loro desiderio di unirsi alla guerra di Bush e un’ampia e diffusa opinione pubblica contro la guerra.

16. Gli Stati Uniti hanno diritto alla legittima difesa nei confronti dell’Iraq?

Secondo la Carta delle Nazioni Unite, nessuna nazione ha diritto di attaccarne un’altra. Le sole eccezioni sono 1) se il Consiglio di Sicurezza autorizza specificatamente un attacco militare o 2) per legittima difesa. La “legittima difesa” è definita molto rigorosamente. L’articolo 51 della Carta afferma che un paese ha diritto alla legittima difesa solo “in caso di attacco armato”. L’Iraq non ha attaccato gli Stati Uniti (si veda la sezione 5 sulle no fly zone), quindi non siamo nel caso di legittima difesa. Gli Stati Uniti affermano di avere diritto alla “legittima difesa preventiva” per fare guerra all’Iraq, senza qualsiasi ulteriore autorizzazione da parte delle Nazioni Unite. Ma la Carta dell’ONU non autorizza una tale affermazione. Alcuni studiosi credono che fermare un attacco imminente darebbe ad un paese anche il diritto di usare la forza militare in una sorta di legittima difesa. Ma anche questo argomento cade, perché nessuno, nemmeno i super falchi di Bush, afferma che un attacco di qualsiasi di tipo da parte dell’Iraq, specialmente agli Stati Uniti, sarebbe “imminente”.

17. Che cosa pensa il resto del mondo dell’attuale crisi con l’Iraq?

Il sostegno internazionale alla spinta verso la guerra dell’amministrazione Bush è quasi inesistente. La maggioranza dei governi, e probabilmente la maggioranza delle persone nel mondo, accetta come legittimo il fatto di rimandare gli ispettori ONU a completare l’operazione di disarmo riguardo ai programmi di distruzione di massa dell’Iraq, benché molti credano anche che le sanzioni economiche dovrebbero essere revocate immediatamente. Solamente pochi governi, tra cui quello di Israele e alcuni funzionari d’alto grado del Regno Unito, appoggiano senza riserve la guerra invocata da Bush. Tale guerra non ha il sostegno dei paesi più vicini all’Iraq, neanche del Kuwait, vittima dell’invasione e dell’occupazione dell’Iraq nel 1990. Enormi mobilitazioni hanno portato milioni di europei a protestare contro la guerra imminente. L’opinione pubblica in Asia, in America Latina, in Africa é allo stesso modo contraria alla guerra. E in tutto il medio oriente i governi fanno fatica a soddisfare le richieste da parte dei loro sponsor economici e/o militari a Washington e allo stesso tempo affrontare (e reprimere) lo sdegno di una massiccia parte di cittadini contro i piani di guerra statunitensi (si veda la domanda 30).

L’opposizione di molti governi è basata sulla mancanza di autorità delle Nazioni Unite sulla guerra. Infatti, alcune, come la Germania, hanno rifiutato la partecipazione diretta del loro esercito in una guerra statunitense in Iraq anche nel caso in cui sia autorizzata da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Nella regione, alcuni paesi con ruolo chiave e una forte dipendenza dagli Stati Uniti, come la Turchia o l’Arabia Saudita, hanno accettato con riluttanza di fornire sostegno ad una guerra statunitense, e solamente nel caso in cui sia autorizzata da una nuova risoluzione ONU. Per questa ragione, probabilmente, gli Stati Uniti intensificheranno la pressione – corruzione, minacce, punizioni – sul Consiglio di Sicurezza dell’ONU per ottenere i voti necessari (si vedano domande 19 e 20).

18. Quali sono le conseguenze legali di un’invasione? Quali precedenti stabilisce per altri paesi del mondo?

Senza autorizzazione dell’ONU, e visto che non possono appellarsi alla legittima difesa, un attacco statunitense all’Iraq violerebbe le leggi internazionali. Si tratterebbe del crimine dell’aggressione, uno dei più seri crimini di guerra. Tutti coloro aventi ruoli di comando potrebbero essere ritenuti responsabili davanti ad una Corte statunitense o internazionale.

Una decisione unilaterale di invadere l’Iraq (anche se la pressione statunitense dovesse trascinare altri paesi) stabilisce anche un dannoso precedente. Se come risposta standard alle violazioni delle risoluzioni dell’ONU di un certo paese viene avanzato l’esempio statunitense della guerra unilaterale, il mondo potrebbe vedere l’Algeria che attacca il Marocco perché non ha tenuto fede alle risoluzioni ONU che chiedono una fine dell’occupazione da parte di Rabat del Sahara occidentale. La Grecia potrebbe dichiarare guerra alla Turchia per la continua violazione di Ankara delle risoluzioni ONU che chiedono la fine dell’occupazione della Cipro del nord. E la Siria, la Giordania o il Libano potrebbero citare i precedenti degli Stati Uniti per legittimare un attacco a Israele per le sue violazioni di 60 risoluzioni ONU riguardanti la sua occupazione illegale della Palestina e delle alture del Golan Siriane. Già Russia e Israele hanno citato le affermazioni di Bush sulla “guerra preventiva” per giustificare l’intensificazione della loro repressione in Cecenia e nella Palestina occupata.

Inoltre, se gli Stati Uniti rivendicano la loro invasione come giustificata dalla “legittima difesa preventiva” per il fatto che l’Iraq potrebbe in futuro acquisire armi di distruzione di massa, gli Stati Uniti stessi sarebbero di fatto esposti ad attacchi da parte di tutti i paesi del mondo, in qualità di maggiori detentori al mondo di armi di distruzione di massa di tutti i tipi, ed essendo il solo governo che abbia mai usato armi nucleari.

In fin dei conti, una guerra preventiva statunitense in Iraq mina alla base la possibilità di un’influenza statunitense di tipo collaborativo e non militare nel mondo, indebolisce gli sforzi statunitensi di portare i terroristi internazionali davanti alla giustizia, ed è invece una ricetta per il caos globale. Come ha detto Nelson Mandela: “L’atteggiamento degli Stati Uniti d’America è una minaccia alla pace nel mondo. Perché ciò che [l’America] dice è che se si ha paura di un veto da parte del Consiglio di Sicurezza, la soluzione può essere andarsene, intraprendere l’azione e violare la sovranità di altri paesi.”

19. Qual’è il ruolo delle Nazioni Unite nella crisi in Iraq?

Le Nazioni Unite hanno giocato un ruolo centrale nel conflitto USA-Iraq dal 1990, quando gli Stati Uniti usarono la corruzione, le minacce e le punizioni per assicurarsi l’approvazione del Consiglio di Sicurezza sulla guerra del Golfo. Da allora gli Stati Uniti hanno manipolato l’ONU per i loro propri scopi politici di guerra e per ottenere sanzioni contro l’Iraq. Madeleine Albright, a quei tempi ambasciatore statunitense all’ONU e più tardi Segretario di Stato, non ebbe reticenze a dichiarare, nel 1995, che “l’ONU è uno strumento della politica estera statunitense.” Ciò nonostante, gli ideologi dell’amministrazione Bush si sono opposti alla centralità dell’ONU, e persino ad un coinvolgimento dell’ONU, nella crisi irachena, per una questione di principio.

Questo è particolarmente chiaro nel caso delle sanzioni economiche che hanno devastato l’Iraq dalla fine della guerra del Golfo. Mentre praticamente ogni altro paese dell’ONU sarebbe pronto revocare le sanzioni ed a permettere agli iracheni di ricostruire il loro paese in rovina, le sanzioni rimangono al loro posto perché i governi hanno paura di sfidare gli Stati Uniti (per ulteriori informazioni sulle sanzioni e sul loro impatto, si veda domanda 26). Per lo più l’influenza che l’ONU continua ad esercitare sulla crisi in Iraq deriva dalla risoluzione 687, la risoluzione per il disarmo, per le sanzioni e per il cessate il fuoco, che, ironicamente, è la stessa risoluzione che gli Stati Uniti citano per giustificare la loro marcia verso la guerra. La risoluzione in realtà autorizza il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e non ogni singolo paese, a prendere tutte le decisioni che riguardano il disarmo dell’Iraq. Afferma anche nello specifico che le sanzioni dovranno essere revocate quando l’Iraq sarà dichiarato libero da armi di distruzione di massa. Gli Stati Uniti, ovviamente, hanno una lunga storia di incuranza delle risoluzioni dell’ONU che non si adattano agli obiettivi della loro politica estera, e di imposizione delle proprie interpretazioni sulle deboli obiezioni da parte del Consiglio di Sicurezza (si veda domanda 5, sulle no-fly zone, per un esempio). In passato, funzionari statunitensi, tra cui George H.W. Bush e Bill Clinton, i Segretari di Stato James Baker e Madeleine Albright, il consigliere per la Sicurezza Nazionale Sandy Berge e altri, hanno tutti asserito che non permetterebbero di porre fine alle sanzioni, indipendentemente dalle richieste dell’ONU, fino a che Saddam Hussein non sia stato rimosso dal potere – cosa che sicuramente non è menzionata in alcuna risoluzione ONU.

A partire dal Novembre 2002, l’ONU è stato di nuovo incaricato di applicare il regime di ispezione UNMOVIC/IAEA (United Nations Monitoring, Verification and Inspection Commission e International Atomic Energy Agency – N.d.T.), e di certificare il disarmo che determinebbe la fine delle sanzioni. Se l’ONU certifica il disarmo, e la guerra viene evitata, gli Stati Uniti saranno certamente propensi ad opporsi alle richieste di revoca delle sanzioni della risoluzione 687, e si può prevedere che partirà una nuova campagna statunitense di corruzione, minacce e punizioni perché il Consiglio di Sicurezza mantenga le sanzioni. In risposta, l’Assemblea Generale, in base a precedenti nella storia dell’ONU che gli permettono intromettersi quando il Consiglio di Sicurezza non è ritenuto in grado di agire, potrebbe farsi carico della questione, nonostante sia normalmente di competenza del Consiglio. Una tale iniziativa dell’Assemblea Generale, potrebbe verificarsi solamente se la coscienza e la volontà politica degli altri membri ONU fosse rafforzata, per esempio, dall’espansione di un movimento globale per la pace e la giustizia che pretenda che un’Assemblea più democratica sfidi un Consiglio dominato dagli Stati Uniti.

20. Gli USA potranno ricevere l’autorizzazione dall’ONU per muovere guerra all’Iraq?

Se l’Amministrazione decide di operare con il consenso dell’ONU, e se è pronta a pagare un alto prezzo finanziario, politico e diplomatico, ci son pochi dubbi che gli USA utilizzeranno i mezzi del loro arsenale diplomatico per forzare un voto a loro favore; è già capitato così in passato. Ma potrebbero esserci delle difficoltà, specialmente con le “pistole fumanti” delle armi di distruzione di massa (WMD) dell’Iraq. Sotto alcune condizioni, anche se una maggioranza dei membri del Consiglio potrebbero sottostare alle pressioni di Washington, la risoluzione risultante potrebbe probabilmente costituire ancora una violazione della Carta dell’ONU sulle soluzioni pacifiche, interpretando alcune guerre, in base ai suoi temini, ancora illegali.

Nel 1990, gli Stati Uniti corruppero la Cina con una riabilitazione diplomatica dopo Piazza Tienanmen e il rinnovo dell’assistenza per lo sviluppo a lungo termine per prevenire il veto alla risoluzione principale per la Guerra del Golfo nel 1991 (la Cina si astenne). I paesi poveri, per il voto del Consiglio, furono comprati con riduzioni sul prezzo del petrolio Saudita, nuovi aiuti militari ed assistenza economica. E quando lo Yemen, l’unico paese arabo nel Consiglio, votò contro la risoluzione che autorizzava la guerra, un diplomatico statunitense disse all’ambasciatore dello Yemen, “che sarà il voto ‘no’ più caro che abbiate avuto”. Tre giorni dopo gli Stati Uniti tagliarono dal bilancio tutti gli aiuti allo Yemen.

In questo periodo, le Mauritius sono diventate un esempio. Durante le prime due settimane del dibattito all’ONU sulla risoluzione di ispezione, Jagdish Koonjul, rappresentante delle Mauritius, fu richiamato dal suo governo perché aveva chiaramente fallito nell’esprimere il supporto delle Mauritius alla proposta di risoluzione degli Stati Uniti, malgrado le istruzioni ricevute. Perché il suo governo era così interessato? Perché le Mauritius ricevono significativi aiuti dagli Stati Uniti grazie al “Trattato per lo Sviluppo e le Opportunità dell’Africa”, che ha come condizione necessaria per gli aiuti statunitensi, che i paesi “non devono impegnarsi in attività contrarie alla sicurezza USA o agli interessi di politica estera”.

21. Cosa diceva la risoluzione di ispezione delle Nazioni Unite del Novembre 2002? Autorizzava la guerra contro l’Iraq?

La Risoluzione 1441 non decreta l’uso della forza. Ufficialmente ridefinisce la crisi irachena, almeno sullo scenario internazionale, come risoluzione sul disarmo e non come cambiamento di regime e potrebbe ritardare un attacco USA. Ha fornito uno strumento potente per difendere la responsabilità statunitese al multilateralismo a favore delle Nazioni Unite, e può essere considerata una parziale vittoria di quelli che si oppongono alla guerra. Ma riflette anche la dominazione degli Stati Uniti sulle Nazioni Unite e sul resto del mondo ed in ultima analisi stabilisce i termini della guerra.

La vittoria reale è che l’Amministrazione Bush ha ritenuto necessario rimettersi all’ONU. Ancora nell’estate del 2002, ai “falchi da pollaio” del Pentagono sembrava fallita ogni strategia basata sull’ONU riguardo l’Iraq. Ma il Capo di Stato Maggiore rimase scettico, i sondaggi mostravano che meno di un quarto degli Americani sarebbe stato daccordo all’attacco all’Iraq senza il supporto dell’ONU, e centinaia di migliaia di manifestanti riempì le strade. I più stretti alleati di Washington, dalla Germania al Messico e anche il Partito Laburista di Tony Blair, erano contrari al crescente unilateralismo statunitense. I “falchi da pollaio”, che sentivano che riconoscere qualche autorità pari agli Stati Uniti – o peggio sottostare alle Nazioni Unite era un errore, persero questa battaglia distruttiva per ambo le parti, e gli Stati Uniti accettarono la motivazione richiesta dall’ONU.

Otto settimane di negoziati portarono ad una serie di compromessi statunitensi su quale ruolo avrebbero avuto i suoi ufficiali, militari o dei servizi segreti, all’interno della delegazione di ispezione. La risoluzione decreta un regime di ispezione di intensità senza precedenti ed intrusiva che permette al gruppo di ispezione dell’ONU completa libertà di andare in ogni posto dell’Iraq, senza preavviso, e hanno ottenuto il permesso d’accesso in ogni luogo che vogliono per la loro ricerca di armi, inclusi i più sicuri “siti presidenziali”. Gli ispettori inoltre hanno ottenuto dei nuovi poteri straordinari, inclusa la possibilità di portare fuori dall’Iraq gli scienziati iracheni e le loro famiglie per interrogarli, e fornirgli un eventuale asilo politico all’estero.

Ma la risoluzione non autorizza la guerra. Invece, specifica che il rapporto degli ispettori sulle violazioni irachene saranno il motivo di speciali consultazioni del Consiglio di Sicurezza in risposta ad eventuali violazioni. Nel primo mese di questo lavoro, i nuovi ispettori dell’ONU – UNMOVIC e IAEA – senza restrizioni di cooperazione da parte degli iracheni, hanno eseguito ispezioni vaste ed intrusive oltre che interviste, e non hanno trovato evidenze di qualche arma proibita. Gli Stati Uniti continuano a dichiarare di avere delle “prove” sulle armi di distruzione di massa, ma hanno rifiutato di fornire qualche evidenza agli ispettori per metterli in grado di confermare le accuse. E sotto i termini della risoluzione, queste dichiarazioni unilaterali ed infondate sono insufficienti per far scattare ulteriori consultazioni del Consiglio di Sicurezza.

L’Amministrazione Bush può ancora lanciare la sua propria guerra per il petrolio, per l’espansione della potenza USA e per l’Impero – ma la Risoluzione 1441 non autorizza a fare questo nel nome delle Nazioni Unite.

+22 Come sono iniziate le ispezioni agli armamenti in Iraq ? Che cosa è successo durante le prime ispezioni?

Alla fine della Guerra del Golfo nel 1991, le Nazioni Unite hanno approvato la Risoluzione 687, che dichiarava il cessate il fuoco, stabiliva le condizioni del disarmo per le armi di distruzione di massa dell’Iraq e imponeva sanzioni economiche da revocare nel momento in cui l’Iraq avesse pienamente rispettato tali condizioni. Per controllare le operazioni di disarmo, il Consiglio di Sicurezza aveva istituito una Commissione Speciale delle Nazioni Unite (UNSCOM), che insieme con l’International Atomic Energy Agency (IAEA) mandasse squadre di ispettori in Iraq per trovare e distruggere o rendere inoffensivi tutti i programmi iracheni di armi chimiche, biologiche e nucleari e di missili a lungo raggio. L’UNSCOM ha lavorato in Iraq per sette anni. In questo periodo l’Iraq ha cooperato in qualche settore, ma in altri momenti ha rifiutato la propria collaborazione. Nonostante la mancanza di una completa collaborazione da parte irachena, l’UNSCOM ha trovato e distrutto la stragrande maggioranza dei componenti dei programmi di armi iracheni. Ma in quel periodo l’UNSCOM è stato gravemente compromesso dalla rivelazione che stava conducendo un’operazione illegale di spionaggio per conto dei servizi segreti americani e israeliani. Gli ispettori delle Nazioni Unite stavano passando informazioni che non avevano nulla a che fare con i programmi di armi proibite ma molto a che fare con gli ambienti vicini a Saddam Hussein, la struttura degli ufficiali governativi di alto rango, la collocazione delle Guardie Repubblicane ed altro – tutte cose utilissime alle intenzioni manifestate da Washington di rovesciare il regime iracheno, qualcosa che non faceva assolutamente parte del programma delle Nazioni Unite. Nello stesso tempo, funzionari americani cercavano di gestire in modo capillare il sistema ispettivo, controllandone l’andamento, il grado di invadenza, la scelta dei siti ed altro, conducendo ad una grave crisi all’interno dell’UNSCOM ed alle dimissioni di almeno uno degli ispettori al vertice. Nel corso delle varie crisi fra UNSCOM e Baghdad, gli Stati Uniti hanno minacciato un’imponente azione militare contro l’Iraq. All’inizio del 1998 questa minaccia è stata scongiurata dalle trattative in extremis del Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan a Baghdad. Ma Washington continuava a stringere la pressione, compresa la pressione sullo stesso UNSCOM. Alla fine del 1998 Stati Uniti e UNSCOM hanno concertato insieme una nuova crisi in cui il capo dell’UNSCOM Richard Butler sosteneva con grande ostentazione che l’Iraq stava totalmente impedendo all’UNSCOM di fare il suo lavoro. Ma in realtà le cose non stavano affatto così. Lo stesso rapporto di Butler, nonostante la sua isterica introduzione dichiarava che “in termini statistici, la maggior parte delle ispezioni sulle strutture e sui luoghi in corso di verifica erano effettuate con la collaborazione irachena.” Ma gli Stati Uniti minacciavano ancora di far ricorso alla forza, e sotto la loro pressione, Butler improvvisamente ha rimosso i suoi ispettori. Ventiquattro ore dopo, gli Stati Uniti lanciavano l’attacco illegale di 4 giorni chiamato Desert Fox. Non ci sono dubbi che gli Stati Uniti stavano organizzando la crisi dell’UNSCOM. Il Senatore Joseph Biden (Democratici-Delaware) ha ammesso nel corso di un’intervista televisiva di aver trascorso molte ore con Butler presso la Rappresentanza degli Stati Uniti all’ONU il 13 dicembre, due giorni prima che uscisse il rapporto di Butler. Il Washington Post riferiva che il 15 dicembre mentre tornava da Israele, il presidente Clinton aveva riesaminato “la versione finale” che Butler intendeva usare nel rapporto. Il Post faceva rilevare che questi tempi evidenziavano come l’abusiva visione in anteprima del rapporto da parte di Washington “precedesse di parecchio la sua consegna al primo destinatario ufficiale (il segretario delle Nazioni Unite) Kofi Annan.” Dopo il bombardamento del Desert Fox che distrusse la maggior parte della modesta opera di ricostruzione che l’Iraq era riuscito a realizzare dalla fine della guerra del 1991, l’Iraq ha rifiutato di consentire agli ispettori UNSCOM di ritornare nel paese.

23 Che cosa sono i crimini di guerra? Ci saranno probabilmente crimini di guerra se gli Stati Uniti attaccheranno l’Iraq? Quali sono le implicazioni per i soldati americani? E per i civili iracheni?

I crimini di guerra sono violazioni delle leggi internazionali che regolano le operazioni belliche. Questi includono molte cose come mirare deliberatamente contro i civili, l’attacco di obiettivi anche militari quando l’effetto sia sproporzionatamente dannoso per i civili, o violazioni alle norme della quarta Convenzione di Ginevra per un trattamento umano dei civili, dei combattenti feriti o dei prigionieri di guerra durante la guerra. Crimini di guerra furono commessi da tutte le parti durante la Guerra del Golfo. I crimini di guerra degli Stati Uniti non hanno avuto altrettanta pubblicità di quelli iracheni durante la guerra, così c’è un gran rischio che si verifichino ancora. I crimini di guerra americani durante la stessa guerra comprendevano il bombardamento di un rifugio antiaereo per civili, l’uccisione di oltre 400 civili, e l’attacco delle truppe irachene in fuga dal Kuwait mentre cercavano di arrendersi. Il Protocollo II della Convenzione di Ginevra vieta anche l’attacco di “obiettivi indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile” in qualsiasi circostanza, quindi la decisione del Pentagono di prendere deliberatamente come bersaglio la rete elettrica irachena è stato un crimine di guerra – senza considerare il suo valore militare, la vita della popolazione civile dipende dal sistema elettrico per gli ospedali, per l’acqua potabile e per l’intero complesso di elementi fondamentali per la vita rappresentato dall’elettricità in un paese industriale moderno. Benché gli Stati Uniti finora abbiano rifiutato di sottoscrivere il Protocollo II, questo non rende legale la sua violazione da parte degli americani. I leaders politici e militari americani potrebbero essere ritenuti responsabili di crimini di guerra se dovessero dare ordini simili a quelli della Guerra del Golfo del 1991. Per esempio, alcuni documenti del gennaio 1991 resi noti anni dopo (vedi: Tom Nagy’s “The Secret Behind the Sanctions: How the US Intentionally Destroyed Iraq’s Water Supply ” in The Progressive, September 2001) dimostrano che il Pentagono era a conoscenza dell’intenzione di distruggere la rete elettrica irachena con il risultato risaputo ed evidente di mettere fuori uso i sistemi di supporto vitali da cui dipendeva la vita della popolazione civile irachena – per esempio, gli impianti di potabilizzazione dell’acqua – consentendo in questo modo il diffondersi di patologie trasmesse dall’acqua che potevano uccidere un gran numero di neonati e bambini. Quasi tutte le strategie militari americane discusse pubblicamente nel 2002 cominciano con una pesante campagna contro Baghdad. Il razionale del Pentagono è che Baghdad – come viene comunemente rappresentata – “è costellata da postazioni contraeree e circondata da formidabili truppe di Guardie Repubblicane.” Che queste dichiarazioni siano o meno vere, Baghdad è un’affollata città di 5-6 milioni di normali civili iracheni, che cercano disperatamente di vivere qualcosa che assomigli ad una vita normale. Per quanto le bombe americane siano “intelligenti” è improbabile che quei civili possano essere risparmiati. Le stesse sanzioni economiche, responsabili della morte di centinaia di migliaia di innocenti, sono in evidente violazione della legge di guerra che proibisce le aggressioni sui civili, dal momento che il loro micidiale impatto è ben noto ai loro esecutori americani e delle Nazioni Unite. Per la legge internazionale i leaders politici e militari sono responsabili per i loro ordini, e i singoli soldati possono anche essere imputati per gli stessi crimini di guerra se eseguono questi ordini illegali. (Nel 2002, le organizzazioni pacifiste hanno cominciato a distribuire avvisi ai giovani soldati israeliani, mettendoli in guardia che forse gli ordini dati nei territori occupati potrebbero costituire crimini di guerra ed eseguire questi ordini potrebbe renderli passibili di processo per crimini di guerra).


Gennaio 2003
The Institute for Policy Studies

La crisi USA-Iraq: Un’introduzione
Parte III: Le conseguenze della guerra: Iraq e oltre

Phyllis Bennis

24. Chi soffrirà a causa della guerra in Iraq?

Il primo a soffrire sarà il popolo iracheno. Per quanto intelligenti le cosiddette “bombe intelligenti” del Pentagono possano essere, non c’è dubbio che la guerra statunitense contro l’Iraq comporterà enormi sofferenze umane. Anche le armi più avanzate, come le fibre di carbonio studiate per paralizzare la rete elettrica irachena senza danneggiare gli edifici, provocheranno morti civili generalizzate quando istituzioni vitali come gli ospedali e gli impianti per il trattamento delle acque resteranno improvvisamente senza elettricità. L’uso da parte del Pentagono di armi all’uranio impoverito continuerà a minacciare la salute e la vita dei civili. Dopo vent’anni di guerra, e dodici anni di sanzioni economiche letali, il tessuto sociale iracheno, già devastato, sarà ulteriormente sbrindellato da un’alta guerra.

Nella regione già instabile, la guerra alimenterà le tensioni e la rabbia contro gli USA. I paesi del Medio Oriente pagheranno probabilmente un prezzo molto alto in termini di sovvertimenti economici. Le monarchie assolute e le false democrazie repressive aumenteranno la repressione ed il controllo sulle popolazioni infuriate per il sostegno offerto dai loro governi alla guerra di Washington. Il supporto di Israele alla guerra aumenterà il suo isolamento nella regione; i Palestinesi pagheranno un prezzo elevato in termini di vite umane e di perdita delle terre, dal momento che Israele darà un ulteriore giro di vite nei territori occupati mentre la guerra avvolge i paesi vicini. La devastazione ambientale provocata da una guerra del genere non avrà confini.

La guerra rafforzerà la posizione degli USA quale superpotenza assoluta che non nutre alcun rispetto per il resto del mondo. La guerra sarà una nuova campagna di assunzioni per coloro disposti ad usare la violenza contro obiettivi americani ed aumentare la probabilità di attacchi terroristici contro gli Stati Uniti. I militari americani saranno probabilmente di nuovo esposti all’uranio impoverito, oltre ai normali rischi di una battaglia. In un momento in cui l’economia americana sta attraversando una congiuntura estremamente difficile, e solo i fabbricanti di armi e le società petrolifere sono sulla cresta dell’onda, tagli all’istruzione, alla sanità, alla previdenza sociale, alle infrastrutture urbane sono parte del prezzo che gli Americani pagheranno per la guerra in Iraq.

25. Com’è la vita in Iraq adesso? Quali sono le cause delle sofferenze della popolazione civile?

Gli Iracheni soffrono per svariate ragioni. Da quando è salito al potere, il partito Baath di Saddam Hussein ha imposto controlli rigorosi ed un’atmosfera politica repressiva in cui il dissenso è proibito e le punizioni sono severe e rapide. I diritti politici e civili degli Iracheni sono sistematicamente violati, come in tutte le monarchie assolute e nelle altre “democrazie” in cui il presidente è eletto a vita. Non esiste la libertà di espressione o di riunione, non esistono i partiti d’opposizione e la stampa libera. Chi è sospettato di dissentire viene arrestato, e si sente spesso parlare di arresti arbitrari di familiari, di tortura, e di esecuzioni extragiudiziali. Gran parte dell’opposizione irachena, incluse le organizzazioni comuniste, nazionaliste arabe ed islamiche, è stata sbaragliata senza pietà oppure costretta all’esilio. I Curdi iracheni sono stati l’obiettivo della brutale campagna di Anfal degli anni ’80, mirata a cacciare i Curdi dalle regioni chiave ricche di petrolio, in una versione “arabizzata” della pulizia etnica.

Prima delle sanzioni, gli “altri” diritti umani della maggioranza della popolazione irachena – i diritti economici e sociali – erano rispettati. Contrariamente agli altri produttori di petrolio del Golfo, l’Iraq ha investito quasi tutta la ricchezza prodotta dal petrolio all’interno del paese, costruendo i più avanzati sistemi sanitari e di istruzione di tutta la regione. Anche durante la lunga guerra Iran-Iraq, gli Iracheni, prevalentemente appartenenti alla classe media, vivevano in una società moderna, i cui standard di vita somigliavano a quelli del Primo Mondo, con uno dei più bassi livelli di sperequazione della ricchezza della regione. L’accesso al cibo, alla sanità, all’istruzione e la qualità della vita in generale era simile a quella dei paesi sviluppati. Il problema più comune che i pediatri iracheni si trovavano ad affrontare era l’obesità infantile.

La Guerra del Golfo e le sanzioni hanno cambiato tutto. La moderna e tecnologica società irachena, dopo sei settimane di intensi bombardamenti, è stata ridotta ad uno stato preindustriale. Le sanzioni hanno impedito agli Iracheni di viaggiare, hanno impedito l’accesso ai giornali medici e scientifici e la partecipazione alle conferenze internazionali, ed hanno creato una generazione di Iracheni insufficientemente istruiti per il ventunesimo secolo ed indignati per non avere accesso a ciò che i loro genitori una volta davano per scontato.

La disoccupazione è alle stelle, e il dinar iracheno è precipitato da 3 dollari per dinar, il cambio prima delle sanzioni, ad un tasso di circa 23 mila dinars per dollaro nel 2003. Il Vice Secretario General Hans Von Sponeck, il secondo Coordinatore Umanitario dell’ONU in Iraq a dimettersi per protestare contro l’impatto delle sanzioni, ha descritto l’impatto del “lato meno visibile, meno drammatico e non materiale delle sanzioni economiche.” “Tutto è stanco,” ha detto. “Il tessuto sociale iracheno è gravemente sotto attacco.” Come ogni economia basata sulle sanzioni, l’Iraq è caratterizzato da una classe sociale di persone che si sono arricchite sul mercato nero, legate al regime, ed in continua crescita, con un divario sempre maggiore tra la maggioranza sempre più povera e la minoranza sempre più ricca.

Le sanzioni economiche rappresentano il principale ostacolo alla ricostruzione dell’Iraq. Prima che le sanzioni venissero imposte, il 90 per cento delle entrate irachene veniva dalle esportazioni di petrolio. Dopo che le sanzioni hanno proibito qualsiasi vendita di petrolio, la mancanza di accesso al cibo ed alle medicine fondamentali ha raggiunto rapidamente livelli catastrofici per la popolazione, un tempo per la maggior parte costituita dalla classe media. La ricostruzione del sistema elettrico, idrico e petrolifero del paese, e di altre infrastrutture danneggiate dai bombardamenti del 1991, si è arrestata. Nel 1999, una delegazione di staff del Congresso statunitense in visita in Iraq ha riferito che: “l’immagine di neonati emaciati e bambini denutriti malati o addirittura morenti in Iraq è ormai ben nota negli Stati Uniti. La delegazione, visitando gli ospedali a Baghdad, Amara e Basra, ha trovato quella realtà immutata. La maggioranza di questi bambini stanno morendo di malattie curabili, generalmente causate dall’acqua non trattata e esacerbate dalla denutrizione, per le quali i trattamenti ed i medicinali basilari non sono disponibili.”

26. Cosa sono le sanzioni contro l’Iraq, perché sono state imposte, e perché non sono state ancora rimosse?

Il Consiglio di Sicurezza ha imposto delle sanzioni globali contro l’Iraq il 6 Agosto 1990, quattro giorni dopo che l’Iraq ha invaso il Kuwait. La giustificazione ufficiale era di fare pressioni sul regime affinché si ritirasse dal Kuwait, ma lo stesso giorno l’allora Presidente George H. W. Bush, insieme al leader Britannico e ai leader della NATO, annunciò il piano per l’Operazione Desert Shield, e ordinò alle agenzie governative statunitensi di preparare dei piani per “destabilizzare ed infine rovesciare” il Presidente iracheno Saddam Hussein. La Guerra del Golfo che seguì mise fine all’occupazione irachena in Kuwait, ma lasciò Saddam Hussein al potere. Le sanzioni non vennero rimosse, subordinate, secondo l’ONU, allo smantellamento delle armi di distruzione di massa irachena. Funzionari statunitensi hanno reso noto, tuttavia, che le sanzioni non verranno rimosse fino a quando Saddam Hussein resterà al potere.

Vennero inoltre imposte delle sanzioni militari per impedire ad altri paesi di vendere armi all’Iraq. Nel corso degli anni ’70 e ’80 gli USA ed i suoi alleati, specialmente Francia, Germania e Russia, avevano venduto all’Iraq armamenti su vasta scala, nonché i materiali necessari a fabbricare armi chimiche, biologiche e nucleari. Le sanzioni militari arrestarono gran parte, ma non tutte, queste vendite di armi.

Le sanzioni economiche che seguirono furono le più ampie e le più severamente rispettate di qualunque regime di sanzioni mai imposto a qualunque paese. Inizialmente proibirono del tutto l’esportazione di petrolio iracheno, praticamente l’unica fonte di riserve monetarie per l’Iraq. (Si veda la prossima domanda su Oil for Food). Le sanzioni proibivano inoltre la vendita all’Iraq di qualsiasi prodotto, con l’eccezione di alcuni tipi di cibo e medicine – ma anche queste ultime erano impossibili da ottenere perché senza le entrate petrolifere non c’erano soldi per comprare niente. Sin dall’inizio, gli Stati Uniti insistettero che queste sanzioni avrebbero esercitato enormi pressioni sul regime di Saddam Hussein, dapprima a ritirarsi dal Kuwait, successivamente a collaborare al disarmo dell’Iraq.

Il problema è che i governi stessi sono in gran parte protetti dall’impatto delle sanzioni, ed è invece la gente che ne soffre le conseguenze. Questo si è sicuramente verificato in Iraq, dove le morti a causa delle sanzioni superano di gran lunga i morti causati dalla Guerra del Golfo stessa. Nei primi anni le morti erano prevalentemente legate alla denutrizione; tra la metà e la fine degli anni 90, il rigido programma di razionamento alimentare voluto dal governo aveva contribuito a migliorare la situazione nutrizionale, ed una percentuale più elevata di morti venne causata da malattie trasmesse mediante l’acqua, che non venivano curate a causa della mancanza di medicine e di strutture sanitarie negli ospedali. La missione ONU in Iraq disse, nel marzo 1991, che “l’Iraq, per qualche tempo a venire, è stata relegato ad un’era preindustriale, ma con tutte le invalidità della dipendenza postindustriale dall’uso intensivo di energia e tecnologia.”

Le sanzioni economiche non hanno, come qualcuno potrebbe immaginare, fomentato la rivolta in Iraq. Al contrario, hanno aumentato la dipendenza dal regime, dal momento che la quantità limitata di cibo e medicine a cui la popolazione ha accesso è fornita dal sistema di razionamento del governo. Inoltre, le persone che lottano per procurarsi dell’acqua potabile e una qualche forma di istruzione per i loro figli non sono in grado di mobilitarsi in opposizione al loro governo. Rimuovere le sanzioni e consentire la riabilitazione della classe media irachena avrebbe probabilmente l’effetto di rinnovare le lotte interne per la democratizzazione ed il cambiamento di regime.

27. Che cos’è il programma Oil for Food? Come funziona?

Nel 1996, il Consiglio di Sicurezza creò il Programma Oil for Food [petrolio in cambio di cibo, n.d.t.], che consentiva all’Iraq di vendere quantità limitate di petrolio; nel 1999 i limiti vennero rimossi. Ma l’Iraq non controlla le entrate dal petrolio. Al contrario, le entrate petrolifere sono tenute in un deposito presso terzi controllato dalle Nazioni Unite, e L’Iraq deve ottenere l’approvazione del “Comitato 661” (così chiamato dal nome della risoluzione che stabilisce le sanzioni) per qualsiasi contratto d’acquisto di cibo, medicine, materiale edile, qualsiasi cosa. Trenta percento del reddito Oil for Food (successivamente ridotto al 25 percento) era dirottato nel Fondo Iracheno di Compensazione, per risarcire le perdite causate dall’invasione irachena del Kuwait. Verso la fine degli anni ’90, quasi tutti gli individui impoveriti che erano state vittime dell’invasione (in maggioranza Asiatici del Sud che lavoravano in Kuwait, Palestinesi espulsi dal Kuwait, etc.) erano stati risarciti, e i fondi restanti andavano a ripagare la famiglia reale del Kuwait, Iraele, le compagnie petrolifere statunitensi ed internazionali, nonostante gli analisti suggerissero bisognasse rimandare il pagamento di questi risarcimenti fino a quando l’UNICEF non avesse certificato che tra i bambini iracheni non vi fossero più morti per le conseguenze delle sanzioni.

Oil for Food non era stato mai studiato per ricostruire l’economia irachena e neppure per fornire un minimo di sicurezza alimentare e sanitaria per i 22 milioni di abitanti dell’Iraq. Ufficialmente, era stato istituito per impedire ulteriori peggioramenti delle condizioni della popolazione civile. In realtà, era una risposta dettata da considerazioni di pubbliche relazioni alla crescente indignazione internazionale per le morti tra i civili su grande scala. Dal momento che il Comitato per le Sanzioni riflette le relazioni di potere all’interno del Consiglio di Sicurezza, gli USA ed gli altri quattro membri permanenti del Consiglio di Sicurezza hanno potere di veto su ogni singolo contratto – e lo hanno usato spesso. Verso la fine del 2001, c’erano contratti in sospeso per il valore di 5 miliardi di dollari, quasi tutti per volontà degli USA.

Fino al Dicembre 2002, non c’erano stati cambiamenti di rilievo nella percentuale delle morti causate dalle sanzioni tra le fasce più vulnerabili della popolazione irachena. Secondo le relazioni dell’UNICEF, 5 mila bambini con meno di 5 anni d’età muoiono ogni mese a causa delle sanzioni ONU imposte dagli Stati Uniti.

28. Come vengono trattati i Curdi in Iraq?

L’Iraq, come gli altri paesi il cui territorio include terre Curde (Siria, Turchia ed Iran), ha una storia di discriminazione e maltrattamenti nei confronti dei Curdi. In anni recenti la situazione dei Curdi iracheni è molto migliorata, sia economicamente che politicamente. Una guerra statunitense contro l’Iraq non migliorerebbe certamente la situazione dei Curdi: il prezzo richiesto dalla Turchia, uno degli alleati degli USA, per partecipare alla guerra, potrebbe certamente includere la promessa degli USA di non interferire nella repressione nei confronti dei Curdi turchi, che ha già visto diverse campagne militari nel Kurdistan iracheno dove i Curdi turchi cercano rifugio. È anche probabile che gli USA accolgano le richieste turche di garantire che i Curdi iracheni non ottengano neppure un concreto livello di autonomia (che potrebbe offrire un modello destabilizzante ai Curdi turchi, che mirano all’indipendenza) – perché per gli USA, l’alleanza con la Turchia è strategicamente più importante dei desideri dei Curdi turchi o iracheni.

L’Iraq ha trattato i Curdi brutalmente, anche nel passato relativamente recente. La campagna di Anfal del 1988 ne ha uccisi decine di migliaia, alcuni con i gas velenosi. L’ “Arabizzazione,” – cacciare i Curdi dalle aree di importanza economica e strategica e verso le regioni settentrionali dell’Iraq – è ancora la politica dominante nella zona circostante la città curda di Kirkuk, ricca di giacimenti di petrolio.

I due principali partiti dei Curdi iracheni, il KDP ed il PUK, una volta sostenevano l’indipendenza, ma hanno abbandonato da lungo tempo quell’obiettivo a favore dell’autonomia culturale e amministrativa all’interno dell’Iraq. Dalla fine della Guerra del Golfo i Curdi hanno creato una regione largamente autonoma nel nord dell’Iraq, all’interno della “no-fly zone” britannico-statunitense. I militari iracheni hanno fatto irruzione nell’area nel 1996 a seguito della richiesta di uno dei partiti Curdi, ritirandosi dopo che il tentativo di rovesciare il governo iracheno, guidato dalla CIA, era stato soffocato. Dopo il ritiro delle forze armate, il Kurdistan iracheno ha sviluppato una separata struttura sociale e di governo. Lo sviluppo è stato facilitato dall’accesso dei Curdi alle forniture locali di acqua potabile, da volumi sostanziali di commercio attraverso i confini permeabili, e, ancora più importante, dall’avere a disposizione una porzione di entrate dal programma Oil for Food, del 22 percento più elevata del resto dell’Iraq. La vita culturale ed economica è rifiorita, e nel 2002 i Curdi iracheni partecipavano, sebbene consapevoli delle sue posizioni pro-belliche, al Iraqi National Congress e ad altre attività dell’opposizione. Dal 2000, i leader Curdi continuano ad inviare regolarmente i loro emissari per negoziare con il governo di Baghdad, ed hanno dichiarato che non parteciperanno alla guerra statunitense per rovesciare il regime.

Nella vicina Turchia, alleata degli USA, la regione curda del Sud Est è da lungo tempo il centro di terribili conflitti e repressione. Fino all’agosto 2002, ai Curdi era vietato per legge insegnare la loro lingua o gestire le loro scuole. I Curdi erano largamente esclusi dalla vita economica e culturale del paese. Sebbene il conflitto con i separatisti del PKK fosse terminato nel 1999, Ankara ha rifiutato di concedere un’amnistia e 12 mila combattenti e le loro famiglie sono stati costretti a fuggire nel nord dell’Iraq. L’esercito turco, con l’appoggio degli USA, continua ad attaccare delle presunte basi del PKK nel nord dell’Iraq via terra e via aria.

Le superpotenze esterne – soprattutto gli USA – hanno anch’esse usato e abbandonato i Curdi, ora abbracciandoli, poi abbandonandoli al loro destino nelle mani di una crudele potenza regionale. Il governo turco teme che la popolazione curda del suo paese possa prendere a modello l’autonomia della sua controparte irachena. Il Vice Segretario della Difesa Wolfowitz ha visitato Ankara nel Dicembre 2002 ed ha promesso che gli Stati Uniti manterranno “l’integrità territoriale” dell’Iraq; un’affermazione che va interpretata alla luce di casi precedenti in cui gli Stati Uniti hanno sacrificato l’autodeterminazione dei Curdi al fine di perseguire obiettivi regionali strategici. In un caso esemplare, i Curdi iracheni ribelli vennero armati dagli USA nei primi anni ’70, a seguito delle richieste dello Shah Iraniano. A seguito di un accordo successivo tra lo Shah e l’allora Vice Presidente Saddam Hussein, gli USA abbandonarono i Curdi, che vennero massacrati dalle truppe irachene.

29. Quale sarà l’impatto della guerra sugli Iracheni?

La guerra in Iraq causerà una gravissima crisi umanitaria. I documenti di pianificazione delle Nazioni Unite prevedono che 500 mila Iracheni saranno feriti nelle fasi iniziali di un guerra degli USA. L’ONU ritiene che una guerra in Iraq risulterà in una nazione menomata con le infrastrutture a pezzi, la rete elettrica gravemente danneggiata, e danni ingenti all’industria petrolifera. Le relazioni dell’ONU prevedono anche danni ai civili di gran lunga superiori a quelli della Guerra del Golfo del 1991, e una conseguente crisi di rifugiati.

In un memorandum confidenziale di pianificazione del Novembre 2002, la Inter-Agency Humanitarian Preparedness and Response Framework for Iraq and Neighboring Countries stimava che “9,5 milioni di persone potrebbero perdere la sicurezza alimentare, meno del 50 percento della popolazione manterrebbe l’accesso all’acqua potabile, e verrebbero a mancare farmaci essenziali.” I piani dell’ONU prevedono la possibilità di fornire aiuti alimentari di emergenza solo alla metà degli aventi bisogno – un massimo di 4,5 milioni di persone. In una versione successiva della relazione, le Nazioni Unite stimano che circa 3 milioni di coloro che non avrebbero accesso al cibo si troverebbero ad affrontare “una grave denutrizione.”

La Inter-Agency Framework afferma che “a seguito delle ostilità, oltre 1,2 milioni di rifugiati potrebbero cercare di attraversare i confini internazionali alla ricerca di asilo e protezione nei paesi confinanti. Si verificherebbero nuovi spostamenti di massa nelle regioni più gravemente colpite e insicure. Le aree urbane sarebbero le più colpite.” Documenti successivi indicano che l’ONU anticipa la necessità di creare campi di accoglienza temporanei lungo i confini per circa mezzo milione di Iracheni.

30. Che succederà nel resto del Medio Oriente se scoppia una guerra in Iraq?

Il Medio Oriente è già gravemente instabile. I regimi della regione si troverebbero ad affrontare serie crisi di legittimità, visto che le popolazioni si opporrebbero in massa alla dipendenza dei loro governi nei confronti degli USA e l’appoggio alle politiche statunitensi nella regione. La natura acritica del supporto statunitense ad Israele e all’occupazione israeliana della Palestina potrebbe rivelarsi particolarmente problematica.

Non c’è dubbio che, nonostante le affermazioni spesso violente di opposizione mirate a calmare la rabbia popolare, i governi di tutta la regione, quando sarà il momento, faranno esattamente quello che Washington chiede loro. Non hanno scelta: senza il sostegno della loro popolazione, rimangono al potere solo con il supporto degli USA; sia che quel supporto sia economico, come nel caso della Giordania, o militare, come nel caso dell’Arabia Saudita e degli altri stati petroliferi del Golfo, o, sia economico che politico, come nel caso dell’Egitto. Alcuni di questi governi, tuttavia, sono altamente instabili, e rischiano persino di essere capovolti, se il loro supporto ad una guerra statunitense diventasse troppo esplicito o troppo sprezzante nei confronti della sensibilità popolare. Gli Stati Uniti sembrano poco interessati a queste sfide politiche; pensano forse che anche questi problemi potranno essere risolti militarmente, o che gli attuali regimi potranno essere facilmente rimpiazzati con altri più obbedienti al volere degli USA. Tutti i governi regionali stanno usando i preparativi per la guerra per sferrare “attacchi preventivi” contro il dissenso interno nei propri paesi. Questo aumento della repressione governativa, che peggiorerà con lo scoppio della guerra, spingerà una quota sempre maggiore dell’opposizione nella clandestinità o nell’estremismo. Questo contribuirà ad aumentare la minaccia per i cittadini statunitensi nella regione. Con l’aumentare della rabbia nei confronti del governo USA, la furia disperata delle popolazioni marginali, senza potere e senza alcuna voce in capitolo potrebbe facilmente trasformarsi in violenza. Sebbene finora non vi siano stati esempi ricorrenti di questo fenomeno, obiettivi “facili” come turisti americani, studenti, uomini d’affari ed altri ancora potrebbero diventare i bersagli di tale rabbia. Potrebbero seguirne attacchi terroristici ancora più gravi.

31. Che cosa ha a che fare Israele con la guerra in Iraq?

Israele è l’unico paese nella regione che appoggia apertamente una guerra USA in Iraq. È probabile che Israele possa beneficiare dalla guerra in termini di maggior supporto finanziario, ma potrebbe anche pagare in altro modo i costi della sua vicinanza agli USA. Israele vorrebbe che una guerra molto più ampia ridisegnasse la mappa politica del Medio Oriente. Ci sono anche segni molto evidenti che Israele utilizzerebbe una guerra contro l’Iraq come copertura per una campagna più aggressiva nei confronti dei Palestinesi. (Si veda la domanda successiva.) Sebbene i leader israeliani abbiano visto per anni nell’Iran una più grave minaccia alla sicurezza israeliana che non l’Iraq (riconoscendo il degrado delle forze armate irachene a partire dalla Guerra del Golfo), la fissazione dell’amministrazione di Bush con l’Iraq ha portato Tel Aviv ad appoggiare quella guerra nella speranza di una successiva guerra contro l’Iran. Molti falchi dell’amministrazione Bush, come Richard Perle, Douglas Faith ed altri, hanno ideato delle strategie che contengono la visione di una nuova mappa del Medio Oriente dominato dagli USA, con Israele nel ruolo di un giovane, strategico socio di Washington. (Si veda, ad esempio: “A Clean Break: A New Strategy for Securing the Realm,” pubblicato dallo Study Group on a New Israely Strategy Toward 2000, dello Institute for Advanced Strategic and Political Studies.)

In realtà, una guerra contro l’Iraq potrebbe creare problemi ben più gravi per Israele. Il suo appoggio alla guerra e gli stretti legami con gli Stati Uniti potrebbero far sì che qualcuno possa ritenere Israele responsabile per le azioni belliche di Washington. Ne potrebbero conseguire un maggiore antagonismo ed un maggiore isolamento regionale nei confronti di Israele, ed attacchi potenziali contro i singoli Israeliani, soprattutto se l’Iraq dovesse soffrire enormi perdite civili.

Sin dal 11 settembre, i funzionari israeliani ripetono incessantemente “adesso sapete cosa significa”, equiparando gli attacchi al World Trade Center ed al Pentagono con gli attacchi suicidi di giovani Palestinesi disperati. Negli Stati Uniti, i difensori dell’appoggio statunitense acritico nei confronti di Israele, soprattutto nelle comunità fondamentaliste ebraiche e cristiane di destra, sono tra i più ferventi sostenitori della guerra all’Iraq. Gli Stati Uniti forniscono circa 4 miliardi di dollari all’anno in aiuto economico e militare ad Israele, oltre che un uno costante del potere di veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per bloccare le critiche internazionali all’occupazione israeliana. Recentemente, nel Dicembre 2002, gli USA hanno imposto il veto su quella che sarebbe stata una condanna unanime dell’uccisione da parte di funzionari ONU nei territori occupati e la distruzione di un deposito alimentare dell’ONU a Gaza. All’inizio del 2003, Israele stava sfruttando la probabilità di una guerra USA contro l’Iraq per domandare ancora aiuti dal bilancio americano già in bolletta – inclusi 4 miliardi di dollari in nuovi aiuti militari ed 8 miliardi di dollari in ulteriori garanzie di prestito – e tutto sembrava indicare che il Congresso avrebbe acconsentito.

32. Quale sarà l’impatto della guerra sui Palestinesi?

I Palestinesi stanno già soffrendo le peggiori conseguenze dell’occupazione militare dal 1967. Il collasso del processo di pace di Oslo, le grandi speranze naufragate in una delusione da incubo, e l’attuale realtà palestinese è quella di uno strettissimo controllo militare, un aumento della repressione, la devastazione economica e la catastrofe sociale. In alcune aree la disoccupazione è arrivata al 70 percento.

Secondo l’Agenzia Internazionale Americana per lo Sviluppo Internazionale, la denutrizione infantile nei territori occupati di West Bank e Gaza è alle stelle, e nell’estate del 2002 aveva superato i livelli della Somalia e del Bangladesh. Le “uccisioni mirate” israeliane, o l’assassinio dei Palestinesi, continua, senza che le critiche internazionali riescano ad opporvisi. (Alla fine del 2002, gli USA avevano smesso di fingere di criticare le uccisioni, muovendosi verso quello che molti nella regione chiamano la “Israelizzazione” della guerra USA al terrorismo, usando attacchi missilistici dagli elicotteri in stile israeliano per uccidere un presunto leader di Al Qaeda ed altre cinque persone che guidavano una macchina isolata nel mezzo del deserto dello Yemen.) Non sorprende che le condizioni disperate e lo stallo completo delle negoziazioni di pace abbiano spinto un numero crescente di Palestinesi a commettere azioni disperate – sia atti legittimi di resistenza che attacchi illegali a civili israeliani, essi stessi in violazione alle leggi internazionali.

Mentre a Washington saliva la febbre di guerra nella primavera del 2002, la minaccia di “trasferimento” diventava una preoccupazione ben più seria per i Palestinesi. A lungo ritenuto in Israele un argomento inadatto alle discussioni perbene, nel corso degli ultimi due anni il concetto di “trasferimento” – eufemismo israeliano per la pulizia etnica – è stato catapultato al centro della discussione politica. L’idea di “trasferimento” è sempre più presente nei reportage dei media ed è stato al centro di almeno una conferenza accademica di alto livello in una delle più prestigiose università di Israele; è ormai parte del dibattito politico istituzionale ed i suoi sostenitori hanno seggi nel Parlamento e nel Governo di Israele.

La minaccia è che nel caos regionale di una guerra USA all’Iraq, Israele potrebbe espellere a forza un gran numero di Palestinesi. Il “trasferimento” potrebbe forse prendere la forma di una punizione contro un intero villaggio da cui proviene un kamikaze, o forse circa 1000 palestinesi presi di mira – leader politici, intellettuali, militanti, o quelli che Israele ritiene siano militanti – verrebbero trasferiti oltre il fiume in Giordania o messi su un aereo diretto in Libano. La possibilità non è poi così remota; oltre alle espulsioni di massa che hanno costretto all’esilio oltre un milione di Palestinesi durante le guerre del 1947-48 e del 1967, nel 1994 le truppe israeliane avevano arrestato 425 Musulmani nei territori occupati, li avevano costretti a salire a forza su elicotteri militari e li avevano trasferiti sulle colline del Libano meridionale. Lì erano stati abbandonati sulle colline innevate, senza documenti, senza permessi e nonostante l’opposizione del governo Libanese.

Lo stesso Generale Sharon, eletto Primo Ministro di Israele nel Gennaio 2001, creò nel 1981-82 la campagna “la Giordania è la Palestina” che sosteneva l’espulsione di tutti i Palestinesi dai territori occupati così come del milione circa di Palestinesi che sono adesso cittadini di Israele, spingendoli tutti in Giordania. Nel 1989, l’ex Primo Ministro israeliano e poi Ministro degli Esteri Benjamin Netanyahu disse agli studenti dell’Università di Bar-Ilan: “Israele avrebbe dovuto sfruttare la repressione delle manifestazioni in Cina, quando l’attenzione del mondo era focalizzato su quel paese, per portare a termine espulsioni di massa degli Arabi dai Territori.” La guerra in Iraq fornirebbe un’opportunità simile per il “trasferimento” mentre l’attenzione del mondo è rivolta altrove.

Recenti mobilitazioni di accademici israeliani hanno rilasciato dichiarazioni pubbliche contro il “trasferimento”, ma il pericolo rimane molto concreto – sondaggi dimostrano che più del 40 per cento degli Israeliani sono a favore di una tale pulizia etnica.


Gennaio 2003
The Institute for Policy Studies

La crisi USA-Iraq: Un’introduzione
La storia delle relazioni USA-Iraq.

Phyllis Bennis

33. L’Iraq ha mai usato armi di distruzioni di massa? Le ha usate durante la guerra del Golfo? L’Iraq ha mai usato armi di distruzione di massa contro gli USA o i loro alleati?

L’esercito irakeno ha usato armi chimiche contro civili kurdi nel corso della campagna “Anfal” negli anni ’80. Le ha anche usate contro le truppe iraniane durante la guerra Iran-Iraq. Tutte queste utilizzazioni di armi chimiche, sia contro civili sia contro truppe nemiche, hanno violato il trattato internazionale sulle armi nucleari.

L’ex ufficiale irakeno, generale al-Shamari, ha detto a Newsweek di essere stato il responsabile del bombardamento delle truppe iraniane con armi chimiche con cannoni Howitzer e che un satellite spia USA forniva l’informazione sui bersagli. Un ex ufficiale della CIA ha confermato a Newsweek che gli USA hanno fornito all’Iraq informazioni di intelligence ivi comprese quelle relative alla guerra chimica. Il generale al-Shamari oggi vive al sicuro negli USA dove gestisce un ristorante poco fuori Washington DC.

Il regime iracheno evidentemente sapeva che l’uso illegale di queste armi contro obiettivo di nessun interesse per l’occidente (come le truppe iraniane o i civili kurdi) non avrebbe comportato serie conseguenze. Aveva ragione; gli USA hanno continuato ad autorizzare la spedizione di stock di batteri e di altro materiale per armi di distruzione di massa a Bagdad anche dopo che l’uso iracheno di armi chimiche illegali è diventato di dominio pubblico.

Ma nel corso della guerra del Golfo l’Iraq non ha mai usato armi chimiche o biologiche. Sapevano che qualsiasi uso di queste contro le truppe americane, saudite o israeliane avrebbe avuto conseguenze devastanti. Israele ha minacciato di usare le sue bombe nucleari se attaccata dagli ordigni di distruzione di massa iracheni, sebbene operasse ancora sotto le restrizioni imposte dagli USA. La deterrenza ha funzionato: il regime iracheno non ha mai usato armi di distruzione di massa contro nessun obiettivo USA o alleato. L’esposizione di molti militari americani alle tossine di armi chimiche, probabilmente una delle cause della sindrome della guerra del Golfo, è dovuta ai lanci di ordigni chimici da parte dell’esercito USA.

34. Come consideravano l’Iraq gli USA prima della crisi del Golfo del 1990-91? Perché gli USA hanno cambiato opinione?

Gli Usa hanno mantenuto una stretta alleanza con l’Iraq per tutto il corso degli anni ’80. Nel 1983 e di nuovo nel 1984, il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, all’epoca inviato speciale del presidente Reagan, volò a Bagdad per incontrarsi con Saddam Hussein e negoziare il pieno ripristino delle relazioni diplomatiche. Malgrado due incontri faccia a faccia, Rumsfeld non ha mai espresso a Sadam Hussein alcuna contrarietà da parte degli USA a proposito dell’uso illegale di armi di distruzione di massa da parte dell’Iraq. (Il Dipartimento di Stato sostiene che Rumsfeld ne avrebbe fatto menzione in separata sede a Tariq Aziz). In ogni caso Washington ha pienamente ristabilito le relazioni diplomatiche a partire dal novembre 1984, offrendo sostegno finanziario, crediti per l’agricoltura, tecnologia militare ed intelligence, stock di batteri per le armi biologiche e sostegno politico al regime di Bagdad che, allora come oggi, era guidato da Saddam Hussein.

Nel luglio 1990, solo pochi giorni prima che l’Iraq invadesse il Kuwait, l’ambasciatore USA April Glaspie. La spie incontrò Saddam Hussein e gli disse, per conto del presidente Gorge H.W. Bush di “non avere nessuna opinione sui conflitti interarabi, come il vostro disaccordo ci frontiera con il Kuwait”. Alcuni analisti ritengono che Saddam Hussein abbia interpretato questo come un via libera per l’invasione del Kuwait. Sia che fosse veramente o meno un via libera, non è stata certo una chiara dichiarazione di opposizione all’invasione da parte degli USA.

La posizione degli USA è cambiata bruscamente dopo che l’Iraq ha invaso il Kuwait nell’agosto 1990. L’invasione, una chiara violazione del diritto internazionale, ha fornito agli USA un facile pretesto per la guerra. Questa mobilitazione per la guerra è stata una scelta politica, non una necessità politica. L’Iraq non è stato, dopo tutto, il primo Paese mediorientale ad invadere ed occupare un vicino. Il Marocco ha continuato ad occupare il Sahara occidentale, la Turchia aveva invaso la parte settentrionale di Cipro e vi ha mantenuto dal 1974 una “Repubblica turca” fantoccio; ed Israele ha continuato l’occupazione, internazionalmente condannata, della West Bank palestinese, di Gaza e della parte orientale di Gerusalemme, come anche delle Alture del Golan siriane. Tutte queste occupazioni sono illegittime e, come l’invasione irakena del Kuwait, sono state condotte da fedeli alleati degli USA.

Ma nel 1990 Washington ha reagito a qualcosa che va ben al di là dell’Iraq e del Kuwait: alla più ampia situazione internazionale e alla fine della guerra fredda. L’Unione Sovietica stava per crollare, lasciando agli USA il ruolo di unica superpotenza globale. Invece di annunciare la conquista della pace e la rinuncia delle loro pretese militari globali, gli USA hanno deciso di portare il mondo alla guerra proclamando così la loro decisione di rimanere una superpotenza, malgrado la mancanza di un concorrente strategico. L’alleanza con l’Iraq è stata capovolta ed è iniziata la demonizzazione di Saddam e di tutto ciò che è irakeno.

35. Come in passato le imprese USA hanno aiutato l’Iraq ad ottenere armi di distruzione di massa?

Nel periodo della sua alleanza con gli USA negli anni ’70 e ’80, l’Iraq aveva in corso programmi per la produzione di armi chimiche e biologiche, e per la ricerca e la realizzazione della produzione di armi nucleari. Questi programmi -come rivelato nelle audizioni del 1994 della Commissione del Congresso per le Attività Bancarie- erano attivamente e consapevolmente sostenuti dalle imprese e dal governo USA. Queste audizioni hanno rivelato, fra l’altro, che l'”American Type Culture Collection”, un’impresa poco fuori Washington, su licenza del Dipartimento al Commercio degli USA, aveva fornito l’Iraq di un grande stock di agenti batterici per armi biologiche, fra cui l’antrace, il botulino, l’e-coli ed altri ancora.

Un’indiscrezione del giornale tedesco Tageszeitung, a proposito distruzione da parte di Washington di alcune delle 8.000 pagine della dichiarazione irachena del 7 dicembre 2002 sulle armi, ha fornito un’ulteriore documentazione. Le sezioni distrutte documentavano che 24 imprese USA, 55 succursali USA di imprese straniere, e un certo numero di agenzie governative USA avrebbero fornito componenti, materiale, addestramento e altri tipi di assistenza ai programmi irakeni per la produzione di ordigni chimici, biologici, balistici e nucleari negli anni ’70 e ’80 e che alcune abbiano continuato fino alla fine degli anni ’90. Le imprese USA comprendono la Honeywell, la Rockwell, l’Hewlett Packard, la Dupont, la Eastman Kodak, la Bechtel e altre ancora. Sarebbero stati coinvolti anche i Dipartimenti governativi USA per l’Energia, il Commercio, la Difesa e l’Agricoltura. Come anche i laboratori federali di Sandia, Los Alamos e Lawrence Livermore.

Uno dei principali articoli di prima pagina del Washington Post (30 dicembre 2002) ha ulteriormente documentato il sostegno USA ai programmi irakeni per la fabbricazione di armi di distruzione di massa, specialmente per quelle chimiche, oltre al commercio di armi e altri beni militari. Questo articolo ha anche dettagliatamente illustrato l’attivo coinvolgimento del Segretario di Stato Donald Rumsfeld, all’epoca inviato speciale del presidente Reagan in Iraq, nell’opera di pieno ristabilimento delle relazioni diplomatiche e di miglioramento del commercio e delle altre relazioni economiche che hanno sostenuto l’appoggio militare di Washington all’Iraq.

Altri repubblicani sono stati coinvolti nei loschi affari che hanno aiutato l’Iraq a produrre armi di distruzione di massa. Nel 1989 i notiziari ruppero il segreto su un prestito di 4 miliardi di dollari concesso all’Iraq da una filiale USA dell’italiana Banca Nazionale del Lavoro (BNL), che a quel tempo impiegava Henry Kissinger nel suo consiglio di consulenti di politica internazionale. Il deputato al Congresso, Henry Gonzales, presidente della Commissione sulle attività bancarie, scoprì anche che un dirigente delle Kissinger Associates nel giugno del 1989 aveva incontrato a Bagdad Saddam Hussein. Nel corso dell’incontro a quanto pare il leader irakeno avrebbe espresso interesse per l’ampliamento delle relazioni commerciali con gli USA. “Molti clienti delle Kissinger Associates ottennero licenze di esportazione per l’Iraq. Parecchi di questi erano anche i beneficiari dei prestiti della BNL all’Iraq”. Gonzalez lo scrisse in una lettera indirizzata all’allora presidente Bush (senior). L’Iraq usò i prestiti della BNL anche per cercare di comprare componenti di armi nucleari di difficile fabbricazione.

36. E i gruppi di opposizione irakeni? Sono finanziati dal governo USA?

Dalla guerra del Golfo nel 1991 gli Usa hanno aiutato e fondato solo un piccolo gruppo dei più di 70 gruppi di opposizione che hanno funzionato fuori dell’Iraq. Nei primi anni la CIA ha fornito parecchi milioni di dollari a due gruppi: il Congresso Nazionale Irakeno (CNI), guidato dal banchiere Ahmad Chalabi (ricercato in Giordania per appropriazione indebita di 60 milioni di dollari dalla Petra Bank), in esilio e attualmente residente a Londra, e il Patto Nazionale Iracheno (PNI) costituito in larga parte da ex ufficiali dell’esercito. Nel 1998 il Congresso ha approvato l’Iraq Liberation Act che ha autorizzato la spesa di 97 milioni di dollari per sostenere l’opposizione Irakena. Il CNI e il PNI, insieme con Consiglio Supremo per la Repubblica Islamica in Iraq (col suo quartier generale a Teheran), il Movimento per la Monarchia Costituzionale (guidato da Sharif Hussein esponente della vecchia famiglia reale), l’Unione Patriottica del Kurdistan (UPK), il Partito Democratico Kurdo (PDK), e due altri partiti più piccoli sono stati scelti nel 1999 come beneficiari del sostegno finanziario USA. Il Consiglio Supremo, che rappresenta molti shiiti dell’Iraq meridionale ed è sostenuto dell’Iran, ha subito rifiutato il finanziamento USA. Solo tre di questi gruppi, i due partiti kurdi al nord e il consiglio Supremo al sud, hanno una presenza in Iraq.

Da allora la fiducia degli USA nei confronti dell’opposizione è diminuita, salvo che fra i super falchi del Pentagono e qualcuno della CIA. Il generale Anthony Zinni, che è stato a capo del Comando Centrale USA (comprendente l’Iraq) per lungo tempo negli anni ’90 e che nel 2001 è diventato l’inviato speciale del presidente Bush in Medio Oriente, ha detto che portare l’opposizione al potere getterebbe l’Iraq in “una Baia dei Caproni dissoluti”, alludendo al disastro della “Baia dei Porci” del 1961.

Durante i primi due anni dell’amministrazione Bush ci sono stati grandi tentativi di unificare un’opposizione frazionata. Solo a metà di dicembre 2002 a Londra è stato possibile tenere una conferenza ad alto livello: dopo mesi di rinvii dovuti ai litigi fra i gruppi su temi quali quando e come costituire un governo in esilio. Il risultato più importante della conferenza è stato la richiesta agli USA di astenersi dopo la guerra di imporre all’Iraq un’occupazione militare. Ma la sostanza di questa richiesta sembra basarsi sulla preoccupazione di proteggere la posizione degli esiliati irakeni, molti dei quali di avere dentro il Paese un appoggio piccolo o addirittura nullo. La conferenza si è accordata su un appello per un Iraq “democratico, pluralistico e federale”, ma c’è stata solo una limitata convergenza su cosa questo significhi e su come ci si arriva.

Dall’inizio del 2003 le speranze riposte dall’amministrazione sull’opposizione sembrano essere quasi finite. I continui disaccordi sui soldi, la leadership e i compensi hanno mantenuto i gruppi dell’opposizione divisi e in lotta l’un con l’altro. Quelli, che nell’amministrazione sono a favore di un’occupazione diretta (di breve o lunga durata) dell’Iraq da parte degli USA dopo la guerra, sembra che abbiano vinto la battaglia contro quelli, che fanno pressione per un sostegno all’opposizione per creare un governo in esilio ancor prima che cominci la guerra. Mentre i “gruppi di lavoro” in esilio sulla democrazia in Iraq e sulle questioni correlate vanno avanti con la sponsorizzazione del Dipartimento di Stato, il ruolo di un’opposizione una volta influente si è indebolito. (Vedi anche la domanda n° 43).


Gennaio 2003
The Institute for Policy Studies

La crisi USA-Iraq: Un’introduzione
Parte V: Alternative alla guerra.

Phyllis Bennis

37. Quale dovrebbe essere l’approccio USA?

Gli USA dovrebbero annunciare immediatamente che la guerra non è una soluzione alla crisi con l’Iraq, e che non daranno inizio ad una guerra unilaterale né useranno l’ONU come strumento per creare una falsa ragione “multilaterale” alla guerra, e che la diplomazia e iniziative davvero internazionali saranno tentate in alternativa.

38. Cosa bisognerebbe fare con le sanzioni economiche?

Gli USA dovrebbero dichiarare l’immediato ritiro di tutte le sanzioni economiche contro l’Iraq, mettere fine al controllo straniero sui proventi dalla vendita di petrolio iracheno e porre fine alle proibizioni contro il commercio e la ripresa economica irachena. Nel frattempo gli USA dovrebbero consentire all’Iraq di sospendere il pagamento del 25% degli utili sulla vendita di petrolio a titolo di compensazione fino al momento in cui l’Unicef non certifichi che i bambini iracheni non sono più soggetti ad un alto rischio a causa dell’impoverimento derivante dalle sanzioni.

39. In cosa dovrebbe consistere la politica USA riguardo al disarmo dentro ed attorno l’Iraq?

Gli USA dovrebbero sostenere il lavoro degli ispettori ONU in Iraq e rispettare l’indipendenza e l’autorità delle Nazioni Unite nelle decisioni relative alle ispezioni.

Gli USA dovrebbero modificare le sanzioni contro l’Iraq mettendo in atto immediatamente l’articolo 14 della risoluzione 687 per il cessate il fuoco, che afferma che il disarmo dell’Iraq dovrebbe essere un passo verso la creazione di una regione mediorientale libera da armi di distruzione di massa e dai missili in grado di trasportarle. Ciò chiaramente richieda la fine della politica dei due pesi e due misure degli USA che ignora la nacessità di una ispezione e distruzione degli arsenali nucleari israeliani, noti ma non riconosciuti, e fornire un contesto per la cessazione di tutti i programmi di armi biologiche e chimiche in Iran, Israele ed altrove nella regione.

Gli USA dovrebbero muoversi per porre fine al loro ruolo di maggior fornitore di armi di tutti i tipi in questa regione già stracolma di armi. Gli USA dovrebbero immediatamente rendere nota la documentazione relativa a tutte le aziende americane e alle agenzie governative coinvolte nei programmi per le armi di distruzione di massa dell’Iraq in passato e annunciare nuove limitazioni per impedire a tutte le aziende americane di esportare armi a qualunque paese mediorientale.

Gli USA dovrebbero annunciare la loro intenzione di seguire il modello del regime di ispezioni ONU in Iraq dando il benvenuto alle ispezioni internazionali di tutti gli impianti USA per la produzione di armi di distruzione di massa, e sollecitare gli altri quattro membri permanenti del Consiglio di Sicurezza a fare lo stesso.

Gli USA dovrebbero immediatamente riprendere i negoziati che hanno abbandonato per rafforzare il Trattato sulle Armi Biologiche.

Gli USA dovrebbero annunciare la loro intenzione di fornire un modello per il disarmo nucleare riaffermando la loro adesione all’articolo VI del Trattato di non proliferazione nucleare, che richiede che tutte le potenze nucleari ufficiali facciano passi verso il disarmo nucleare totale.

40. Come dovrebbe essere una nuova politica petrolifera americana?

Gli USA dovrebbero riconoscere che la sola strada verso l’indipendenza energetica consiste nel ridurre la nostra dipendenza dal petrolio a favore di combustibili alternativi. Gli Stati Uniti rappresentano il 4% della popolazione mondiale; consumiamo il 25% del petrolio e delle altre risorse energetiche mondiali. La regione del Golfo Persico detiene il 65% del petrolio mondiale; fintanto che gli USA rimarranno dipendenti da forniture sempre maggiori di petrolio, resteremo dipendenti da quella regione.

41. Cosa dovremmo fare con le “no-fly zones”?

Gli USA dovrebbero porre immediatamente termine ai loro bombardamenti delle no-fly zones irachene, della loro imposizione militare e dichiararne la fine.

Gli USA dovrebbero richiedere dalla Turchia il rispetto dei loro confini ed il mantenimento dell’aviazione e dell’esercito al di fuori dei confini iracheni.

Gli USA dovrebbero incoraggiare il prosieguo dei recenti negoziati tra i leaders curdi ed il regime iracheno relativamente alla protezione della popolazione curda irachena e di altre minoranze potenzialmente minacciate. Gli USA dovrebbero anche incoraggiare paesi terzi (come l’Unione Europea, la Lega Araba, la Giordania, il Qatar, la Francia) a lavorare in sede ONU per dare inizio a tali discussioni con il governo iracheno. Giacché l’Unione Europea è già coinvolta nelle discussioni sul trattamento da parte della Turchia della sua minoranza curda, allargare queste discussioni in modo tale da includervi la protezione dei diritti degli iracheni come dei curdi turchi potrebbe essere un buon inizio.

42. In che modo gli USA possono promuovere i diritti umani in Iraq?

Gli USA dovrebbero riconoscere la limitazione della propria credibilità a causa del loro costante sostegno al regime iracheno durante i periodi di maggiori violazioni dei diritti umani.

Gli USA dovrebbero appoggiare le iniziative internazionali (tribunali o altri forums) pensati per far sì che gli individui ed i governi (l’Iraq, gli USA ed altri) rispondano delle loro violazioni in ogni categoria di diritti umani – politici, civili, economici, sociali e culturali – in Iraq o nel Kuwait occupato dalla metà degli anni 80 fino al presente, per includere i periodi delle violazioni più gravi. Il tribunale potrebbe investigare le violazioni del diritto di guerra (l’uso di armi chimiche, la scomparsa ingiustificata di prigionieri di guerra ecc.); le violazioni dei diritti civili e politici (l’uso diffuso di tortura, arresto, esecuzioni extragiudiziali, espulsioni forzate e trasferimenti ecc.), e violazioni dei diritti sociali ed economici (rifiuto di cibo, acqua, cure mediche attraverso l’imposizione di sanzioni economiche).

Gli USA dovrebbero avviare indagini interne per determinare la responsabilità degli ufficiali statunitensi nel definire o attuare in Iraq politiche che abbiano violato i diritti umani della popolazione irachena e dovrebbero assumere misure per prevenire che esse siano imposte nuovamente in futuro. Tali indagini dovrebbero riguardare tutte le violazioni del diritto di guerra, incluso l’attacco di obiettivi non militari e di truppe irachene in ritirata da parte delle forze alleate durante la guerra del Golfo ed il bombardamento tuttora in corso delle “no-fly zones” irachene. Dovrebbe anche esserci un’indagine USA sulle violazioni dei diritti economici, sociali e culturali a causa del bombardamento alleato e del regime di sanzioni, incluso l’impedimento dell’accesso a cibo, acqua, medicinali ed istruzione adeguati da parte della popolazione irachena, così come sulla distruzione delle istituzioni educative, sanitarie, economiche e culturali.

43. Cosa bisognerebbe fare con l’opposizione irachena?

Gli USA dovrebbero annunciare l’immediata cessazione del sostegno di gruppi armati dell’opposizione irachena. Poiché l’Atto di liberazione dell’Iraq del 1998 non comprende specifici requisiti di attuazione, la Casa Bianca può e deve ribaltare la sua posizione attuale di sostegno di quell’atto ed annunciare la sua intenzione di ignorarlo.

Gli USA dovrebbero riaffermare il loro impegno ad attenersi alla Carta della Nazioni Unite e ad altri divieti legali internazionali di tentativi di rovesciare i governi di altri paesi.

Gli USA dovrebbero accettare di fornire finanziamenti solo alla Lega Araba, all’Unione Europea, all’ONU o ad altre iniziative multilaterali per fornire assistenza umanitaria ed economica alle organizzazioni della società civile ed alle istituzioni umanitarie irachene; Washington non dovrebbe finanziare nessun soggetto o campagna selezionati unilateralmente, comprese le campagne politiche o di propaganda.

Gli USA dovrebbero lavorare per proteggere gli interessi curdi attraverso un processo di riconciliazione mirante a stabilire un accordo di autonomia regionale non discriminatorio per i curdi iracheni, e garantire che, con il ritiro delle sanzioni, il benessere economico della regione sia protetto.




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