I numeri della guerra del Golfo

di p.ch.

La coalizione di Desert Storm


La coalizione degli alleati consisteva di 36 Paesi, tra cui Afghanistan, Argentina, Australia, Bahrain, Bangladesh, Belgio, Canada, Cecoslovacchia, Danimarca, Egitto, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Honduras, Italia, Kuwait, Marocco, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Nigeria, Norvegia, Oman, Pakistan, Polonia, Portogallo, Qatar, Arabia Saudita, Senegal, Corea del Sud, Spagna, Siria, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito e Stati Uniti.
Gli Usa hanno impiegato nella Guerra del Golfo oltre 500.000 soldati; gli alleati invece 160.000, pari al 24 per cento delle forze dispiegate.

Alcuni numeri sulle operazioni militari nel Golfo
Morti Usa: 148 in battaglia, 145 non in battaglia Esercito: 98 in battaglia, 105 non in battaglia Marina: 6 in battaglia, 8 non in battaglia Marines: 24 in battaglia, 26 non in battaglia Aviazione: 20 in battaglia, 6 non in battaglia Donne uccise: 15
Americani feriti in azione: 467
Morti britannici: 24, 9 sotto il fuoco Usa
Britannici feriti in azione: 10
Morti francesi: 2
Francesi feriti in azione: 25 (stima)
Morti arabi alleati: 39
Raid aerei alleati: oltre 116.000
Perdite di velivoli alleati: 75 (63 Usa, 12 alleati)
Ad ala fissa: 37 in battaglia, 15 non in battaglia
(Perdite Usa: 28 in battaglia, 12 non in battaglia; nessuna perdita di aerei non Usa in combattimenti aerei)
Elicotteri: 5 in battaglia 18 non in battaglia (tutti Usa)

Le perdite irachene
Nel giugno del 1991, secondo stime americane, morirono oltre 100.000 soldati iracheni, 300.000 riportarono ferite, 150.000 disertarono e 60.000 furono fatti prigionieri.
Molte associazioni per i diritti umani denunciarono che un numero molto più elevato di iracheni morirono in battaglia. A detta di Baghdad, i morti civili furono oltre 35.000. Tuttavia, anni dopo, alcuni ricercatori hanno concluso che il numero di soldati iracheni uccisi fu significativamente inferiore a quello inizialmente riportato.
Perdite irachene (stime): dati del Comando centrale americano del 7 marzo 1991
36 aerei persi in combattimenti aerei
6 elicotteri persi in combattimenti aerei
68 aerei e 13 elicotteri distrutti a terra
137 velivoli iracheni fuggiti in Iran
3.700 su 4.280 carri armati
2,400 su 2,870 altri veicoli corazzati
2,600 su 3,110 pezzi di artiglieria
19 navi affondate, 6 danneggiate
42 divisioni neutralizzate
Numero di prigionieri di guerra catturati: le forze Usa ne hanno consegnati 71,204 agli alleati sauditi.

I costi della guerra

Il Dipartimento della Difesa Usa ha stimato che i costi della guerra nel Golfo siano stati pari a 61 miliardi di dollari; tuttavia altre fonti hanno detto che quel numero potrebbe essere più alto, fino a 71 miliardi.
L’operazione fu finanziata con i 53 miliardi di dollari offerti dai Paesi dell’Alleanza, molti dei quali provenienti dalle casse del Kuwait, dell’Arabia Saudita e da altri stati del Golfo (36 miliardi), dalla Germania e Giappone (16 miliardi di dollari). Alcuni Paesi, come l’Arabia Saudita, contribuirono allo sforzo offrendo servizi alle forze in campo (tipo trasporti e vettovaglie).
3 febbraio 2003


La guerra in Iraq potrebbe costare  200 Miliardi di dollari


Una cifra quattro volte a quella della guerra del Golfo e pari a 20 volte il costo di “Enduring freedom”.

di Giulia Crivelli – dal Sole 24 Ore


Mentre il presidente George Bush junior e i suoi consiglieri politici aspettano il via libera dell’Onu, i consiglieri economici della Casa Bianca fanno i conti su quanto potrebbe costare la guerra all’Iraq.

Una cifra vicina al 2% del Pil
Un primo calcolo parla di una cifra compresa tra i 100 e i 200 miliardi di dollari, circa 207 miliardi di euro, cioè tra l’1 e il 2% del prodotto interno lordo degli Usa, che lo scorso anno è stato di 10 trilioni, spiega oggi il Wall Street Journal in un articolo di prima pagina.
Secondo Lawrence Lindsey, capo economista dell’amministrazione Bush (la sua qualifica è quella di capo del White House National Economic Council), il costo della guerra, anche nel caso gli Stati Uniti fossero costretti ad accollarselo da soli, non causerà una recessione all’economia del Paese.
Ma molto dipenderà dalla durata dell’eventuale conflitto contro Saddam Hussein e dalla partecipazione alle spese di alleati come la Gran Bretagna.

Quasi quattro volte il costo della Guerra nel Golfo
La Guerra del Golfo del 1991, combattuta da Bush padre, costò 58 miliardi di euro, pari all’1% del Pil Usa di allora. Ma 48 miliardi furono pagati dagli alleati, tra i quali spiccava l’Arabia Saudita che invece, in caso di guerra all’Iraq, potrebbe limitarsi a concedere l’uso di alcuni basi aeree.

Venti volte Enduring Freedom
La guerra in Afghanistan, a partire dall’inizio dell’operazione Enduring Freedom, il 7 ottobre scorso, è invece costata agli Stati Uniti, sempre secondo le stime citate dal Wall Street Journal, 10 miliardi di dollari.

Ma da Morgan Stanley arriva un avvertimento: “La guerra porterebbe la recessione”
Ma non tutti, come era prevedibile, sono d’accordo con le analisi della Casa Bianca: secondo Stephen Roach, capo economista di Morgan Stanley, un’eventuale guerra contro l’ Iraq avrà come conseguenza che gli Usa torneranno in recessione. Secondo Roach, intervenuto ad una conferenza svoltasi oggi a Madrid, in caso di invasione dell’ Iraq, si avrà un nuovo rialzo dei prezzi del petrolio. L’ economista ha aggiunto che “per l’ economia americana, già fiacca e caratterizzata da una ripresa lenta, questo tipo di choc sarà sufficiente a farla precipitare di nuovo in recessione”.

Marcia indietro saudita: sì condizionato all’uso delle basi
In una parziale marcia indietro rispetto a posizioni precedenti, anche l’Arabia Saudita ha infatti dato ieri la sua disponibilità a far entrare truppe Usa sul suo territorio qualora l’Onu dovesse approvare un’azione militare contro l’Iraq. Si è pronunciato in questo senso il ministro degli esteri saudita, principe Saud al-Faisal in un’intervista alla Cnn. “Se l’Onu decide, attraverso il Consiglio di Sicurezza, di attuare una politica delle Nazioni Unite, tutti i paesi che hanno firmato la carta dell’Onu devono aderire”, ha detto il capo della diplomazia saudita alla rete di Atlanta. Al-Faisal ha d’altra parte messo in chiaro che il “sì” di Riad è condizionato fortemente al fatto che l’azione Usa non sia unilaterale. Lo stesso al-Faisal, in dichiarazioni riprese dal quotidiano arabo di Londra al-Hayat e dal New York Times in prima pagina, ha invitato Baghdad ad accettare gli ispettori dell’Onu: “Il tempo stringe e se l’Iraq fa rientrare gli ispettori prima che l’Onu vari una nuova risoluzione, farà una buona impressione sulla comunità internazionale”.

16 settembre 2002


INDUSTRIA E FORZE ARMATE
(LA GUERRA DEL GOLFO 1991)

da FOCUS


Provate a immaginare un deserto: dune di sabbia che si perdono dietro altre dune, un caldo infernale, rarissime forme di vita. E ora provate a immaginare lo stesso deserto trasformato in una città abitata da mezzo milione di persone, che hanno bisogno di vivere, muoversi e …combattere. Si, combattere, perchè il nostro deserto è l’Arabia Saudita prima e dopo l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein.
La Guerra del Golfo è stato un evento di eccezionale importanza da molteplici punti di vista. Per tutti noi che lavoriamo nel grande mondo dell’Azienda quello che è accaduto tra i mesi di agosto del 1990 e 1991 ha però un interesse un po’ speciale, perchè molti dei problemi che lo stato maggiore delle forze alleate ha dovuto affrontare sono decisamente simili a quelli che dobbiamo risolvere tutti i giorni sul lavoro. Con questo numero di Focus on tratteremo un tema particolarmente vicino a noi: quello della logistica. Prossimamente vedremo anche l’argomento della motivazione e della gestione degli uomini.

I rapporti tra industria e forze armate.
La Sears Merchandise Group è una delle maggiori catene statunitensi che operano nel mondo della Grande Distribuzione. I numeri di quest’Azienda fanno impallidire quelli dei “colossi” europei. William “Gus” Pagonis è il Senior Vice President of Logistics dell’Azienda: è un riporto diretto al vertice ed è entrato a far parte della Sears (pagato a peso d’oro, rispetto a quanto guadagnava prima) nella seconda metà degli anni ‘90: poco dopo la fine della Guerra del Golfo, perchè Pagonis “prima” era un soldato, che ha terminato la sua carriera come generale a tre stelle responsabile di tutta la logistica delle forze statunitensi mobilitate per la Guerra del Golfo.
Gus Pagonis non è un’eccezione: è la norma. Colin Powell (oggi corteggiatissimo dai Repubblicani) e Norman Schwarzkopf hanno lasciato le forze armate poco dopo la fine delle operazioni, iniziando una proficua carriera nel privato. E’ solo la punta di un iceberg: negli Stati Uniti avere alle spalle una solida carriera militare ti spalanca le porte dell’Azienda. In Italia invece sono pochissimi i militari che riescono a trovare alternative alla carriera nelle forze armate. E i pochi che riescono lo possono fare generalmente solo in industrie belliche. Attenzione: gli uomini delle nostre forze armate spesso hanno un livello addestrativo all’altezza di quello dei colleghi americani. Sbagliamo noi a non facilitare lo scambio tra i due mondi, o sbagliano gli Americani?

Pianificare, e ancora pianificare
550.000 uomini spostati quasi dall’oggi al domani nell’altro lato dell’emisfero; 7 milioni di tonnellate di materiali spediti da un continente all’altro; 122 milioni di pasti caldi serviti in una regione dove non esistevano ristoranti …; 32.000 tonnellate di posta recapitata; 12.575 aerei revisionati: questi sono solo alcuni dei numeri veramente impressionanti comportati dallo sforzo bellico statunitense. Come è stato possibile tutto questo?
L’addestramento in tempo di pace è un tema molto importante per qualsiasi forza armata. Addestrarsi vuol dire cercare di simulare cosa potrebbe accadere in futuro e studiare come farvi fronte, preparando la struttura di cui si dispone ad agire conseguentemente. Bene: nel luglio del 1990 le forze armate americane terminarono una simulazione su larga scala che prevedeva la reazione a un’invasione irachena del Kuwait. L’esercitazione (come spesso accade) durò qualche mese e coinvolse migliaia di uomini. Il 1° agosto del 1990 le forze di Saddam varcarono il confine con il Kuwait. Gli Americani dovettero solo ripetere (dal vero) l’esercitazione appena conclusa.

La logistica come attività globale
Da sempre ogni servizio è geloso della propria struttura logistica. Come potrebbe l’Esercito conoscere (e soddisfare) le esigenze logistiche dell’Aeronautica? Come potrebbe un Marinaio organizzare l’assistenza tecnica ai mezzi terrestri dei Marines?
“Stormy” Norman Schwarzkopf la pensava però diversamente: e per la prima volta nella storia militare statunitense tutte le attività di tipo logistico necessarie per sostenere uno sforzo bellico non simulato sono state concentrate in una sola struttura. I risultati della decisione sono stati decisamente positivi. Non esiste un modello teorico valido in astratto (centralizzare il supporto logistico è meglio che decentralizzare?). Esiste però una dote vincente: “leggere” le esigenze del presente e cercare la migliore soluzione organizzativa. Avere la forza di trovare nuove soluzioni, di andare contro la tradizione, se sembra giusto farlo. Solo chi sa rischiare in questo modo riesce a vincere scommesse ambiziose.

Make or buy?
La dottrina militare statunitense prevede che in caso di operazioni condotte su territori di Stati esteri si deve cercare di acquistare da fornitori locali la maggior parte dei servizi disponibili in loco. Questa regola è stata seguita anche durante la Guerra del Golfo. Per esempio, tirando le somme alla fine delle operazioni ci si è resi conto che senza la capacità di trasporto messa a disposizione da operatori privati sauditi sarebbe stato quasi impossibile trasportare uomini e mezzi fin sulla linea del fronte e alimentare lo sforzo bellico rendendo disponibili i “carburanti” necessari. Per esempio, uno degli obiettivi fondamentali che si era dato Gus Pagonis era riuscire a servire pasti caldi anche agli uomini schierati nei più lontani avamposti in mezzo al deserto: pasti caldi annaffiati da Coca Cola ghiacciata e che terminavano con gelati di vario gusto. C’è riuscito e lo stesso Schwarzkopf ha affermato che uno dei principali fattori di successo dell’operazione è stato il morale delle truppe, tenuto alto anche grazie a queste cure. Il servizio incaricato di contattare i fornitori locali, contrattare le condizioni d’acquisto di tutti i servizi e coordinarne l’erogazione è stato la logistica.


La Bosnia vendeva armi all’Iraq?

 (18/09/2002) Dopo una nota verbale rivolta dall’Ambasciata USA a Sarajevo al Ministero degli Esteri bosniaco la Presidenza Tripartita della BiH ha richiesto al Governo della RS di avviare un’immediata inchiesta su di una presunta vendita di armi all’Iraq. Lo ha per primo reso noto il quotidiano Nezavisne Novine.

Il Ministero della Difesa della RS, accogliendo la richiesta, ha formato una Commissione d’inchiesta che agli inizi di questa settimana ha poi reso noto agli organismi competenti le informazioni raccolte.

Secondo quanto affermato dalle autorità statunitensi vi sarebbero prove, della cui esistenza ha dato poi conferma anche Jozo Krizanovic, membro della Presidenza bosniaca, che in pieno embargo alcune compagnie avrebbero venduto all’Iraq componenti di armi. Tra queste vi sarebbe la ditta “Orao” con sede a Bijelina. Se i fatti venissero dimostrati la BiH avrebbe contravvenuto le Risoluzioni 661, 687 e 1409 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Secondo l’Ambasciata americana dalla Republika Srpska non solo sarebbero partite componenti di armamenti ma sarebbero anche state fornite consulenze tecniche in campo militare.

“A prescindere da come si risolverà questa vicenda come Presidenza Tripartita abbiamo già deciso di promuovere al più presto una legge che regolamenti la produzione ed il commercio di armi. Siamo testimoni del fatto che in entrambe le Entità ci si sia comportati da irresponsabili a questo proposito in questi anni” ha dichiarato Krizanovic che ha poi chiarito che “il Presidente della RS Sarovic ha compreso bene la questione e si è dimostrato molto cooperativo”. Lo stesso Sarovic la scorsa settimana aveva dichiarato a proposito della vicenda che “siamo del tutto consapevoli dell’accusa che ci viene rivolta. Voglio render chiara la nostra intenzione nel rispettare la Risoluzione 687 delle Nazioni Unite e proprio per questo abbiamo promosso in modo rapido questa commissione d’inchiesta”.

La Commissione, della quale faceva parte lo stesso Ministro della Difesa della RS, ha poi reso noti i risultati della propria inchiesta all’inizio di questa settimana ed ha smentito le accuse rivolte dagli statunitensi. “Nessuna impresa della RS ha avuto contatti di lavoro con l’Iraq” si afferma “L’Orao lavora con l’estero ma i suoi contatti sono esclusivamente limitati al mercato della Repubblica Federale Jugoslava”. La Commissione non ha però indagato sulla possibilità che dalla FRJ le componenti prodotte in Bosnia potessero venir direzionate verso Paesi terzi.

Cosa che, tra l’altro, non hanno smentito gli stessi dirigenti della Orao. “Siamo estranei alla vicenda” avevano dichiarato all’indomani delle accuse mosse dall’Ambasciata USA, ma non possiamo escludere che le componenti da noi prodotte, utilizzate in prevalenza per la costruzione di motori di veivoli civili, una volta trasportate in Serbia siano state poi rivendute a Paesi terzi”. I dirigenti della compagnia di Bijelina hanno poi chiarito che “la Orao ha collaborato con l’Iraq sino al 1989. Al tempo Iraq e Jugoslavia avevano buoni rapporti. I nostri ultimi contatti risalgono al 1997 ed erano dovuti al tentativo di riscuotere crediti che vantavamo da prima della guerra”.

Intanto la Presidenza Tripartita si è mossa per mettere ordine nella materia. “La decisione di sottoporre ad agenzie statali il controllo del commercio delle armi rappresenta un segnale positivo nella direzione del controllo civile delle forze militari” ha dichiarato Beriz Belkic, uno dei tre membri della Presidenza. Secondo la decisione della Presidenza citata da Belkic tutto l’import e l’export di armi dovrebbe essere sottoposto a previa autorizzazione da parte del Consiglio dei Ministri.

Belkic ha anche sottolineato come nella nota sottoposta alle autorità bosniache da parte del rappresentante del Governo americano emergeva chiaramente come le indagini condotte fossero solo a livello preliminare e non certo definitive. “Azioni disciplinari verranno comunque intraprese nei confronti di alcuni dirigenti della Orao. Per ora non in merito alla vendita di armi all’Iraq, ancora da dimostrare, ma in merito alla mancata notifica al Ministero della Difesa della RS della firma di alcuni contratti”.

Belkic ha anche reso noto che è intenzione della Presidenza tener costantemente informati OHR, Missione ONU e Ambasciata USA sull’andamento delle indagini.

 Fonte: © Osservatorio sui Balcani


Inchiesta (3) C’era un tempo che i leader Usa e iracheni posavano insieme sorridendo, brindando e scambiandosi strette di mano, sorrisi, documenti e…
Quando Donald Rumsfield e Saddam Hussein erano grandi amici

 15/11/2002 
 

Gli Stati Uniti si legarono all’Iraq fin dal 1983, come non smette di ricordare la televisione irachena continuando a trasmettere come un tormentone lo “storico” incontro di quel 10 dicembre di diciannove anni fa tra Donald Rumsfield (attuale capo dei “falchi” della Casa Bianca) e Saddam Hussein, terminato, come ogni summit ufficiale che si rispetti, con strette di mano, brindisi, documenti di cooperazione tra i due paesi e una bella posa per i fotografi.

Quell’incontro fu unanimamente considerato molto importante dall’amministrazione americana, sempre tormentata dall’incubo Iran ed i suoi Ayatollah.

Da quella data dell’incontro e per i cinque anni successivi la Casa Bianca non si limitò a fornire supporto strategico e militare a Baghdad, ma anche una dettagliata miscela di aggressivi chimici e forniture di interi laboratori di cultura per sperimentare e produrre armi batteriologiche. Ora siamo in grado di conoscere con assoluta precisone la lista delle sostanze chimiche che i servizi di sicurezza Usa inviarono in Iraq.

Le armi batteriologiche. Christopher Dickey e Evan Thomas sono due giornalisti americani di Newsweek, due reporter di talento, che sono riusciti nell’impresa, tutt’altro che facile, di scovare i documenti segreti che provano quali sostanze chimiche, e persino i loro antagonisti, sono state trasportate in Iraq.

Batteri, funghi e protozoi “coltivati” nei laboratori militari Usa furono destinati all’IAEC (Iraq Atomic Energy Commission). Le culture di questi “prodotti” servivano per realizzare armi batteriologiche compreso l’Antrace. Il Dipartimento di Stato Usa,  con funzione di fornitore, aggiunge al carico anche un milione  e mezzo di “iniettori di atropina”, con effetto antagonista, per un eventuale contagio.

Per usare le armi chimiche servivano degli elicotteri appositamente configurati: arrivarono in buon numero anche loro per far contento l’amico e alleato Saddam, impegnato nella guerra contro gli odiati (dagli americani) iraniani.

Ma ben presto i generali di Baghdad decisero di far cambiare rotta agli elicotteri e li spedirono nel nord dell’Iraq, a “gasare” le popolazioni curde provocando autentiche stragi di civili che inorridirono il mondo. Correva l’anno 1988 e le piogge di “Iprite”, “Sarin”, “Tabun” e “Vx” non potevano più passare inosservate con migliaia di civili innocenti che morivano tra atroci sofferenze.

Il Presidente Ronald Reagan e l’intero staff della Casa Bianca, davanti al Congresso incolparono l’Iran, poi sotto la pressione dell’opinione pubblica interna, dei dubbi che iniziavano ad affiorare sulla stampa, dell’insistenza con la quale i democratici chiedevano chiarimenti e spiegazioni, furono costretti ad ammettere che la responsabilità era tutta di Saddam Hussein.

Nel frattempo l’Iraq vinceva la guerra contro Teheran (al prezzo di un milione di morti complessivi tra le due parti) e se ne attribuiva pubblicamente tutti i meriti.

Pur storcendo il naso davanti ai metodi di Saddam, la Casa Bianca gli riconobbe (altrettanto pubblicamente) il ruolo di “gendarme” della turbolenta regione, accreditando il Rais come Capo di Stato fidato e fedele.

Erano anni nei quali i manager delle  multinazionali facevano la fila davanti alla porta di Saddam Hussein con la speranza di aggiudicarsi commesse nelle grandi opere civili nell’Iraq del dopo guerra.

Un uomo politico di prestigio e di esperienza come il senatore Usa Bob Dole venne ricevuto in qualità di capo di una delegazione ufficiale del Congresso americano che aveva come obiettivo quello di accaparrarsi i migliori affari per le aziende e le industrie Usa.
Ma il massimo della considerazione degli americani per Saddam Hussein coincide con la svolta cruciale che il Rais decide di imprimere nei rapporti con i suoi alleati e protettori americani.

La svolta di Saddam
Armato fino ai denti dai servizi di sicurezza americani, consapevole che le culture nei laboratori per le armi batteriologiche e chimiche proseguivano come in una catena di montaggio, alla ricerca di uranio arricchitto per il programma nucleare in fase avanzata di sviluppo, Saddam Hussein decide di non rispettare gli accordi segreti stipulati con la Casa Bianca dopo la vittoria sull’Iran di Khomeini.

Realizza stabilimenti e nuovi siti dove stoccare le armi in gran segreto e soprattutto all’insaputa degli americani, inizia a guardarsi intorno nella regione del Golfo Persico certo come è che nessuno può (militarmente) resistergli. Sicuro che gli Usa lo sosterranno comunque, dopo che il Presidente Ronald Reagan (scampato il pericolo iraniano) lo ha promosso sul campo  come alleato numero uno.

In breve il Dipartimento di Stato perde completamente il controllo di Saddam Hussein e non riesce più a venire a capo di quella montagna di armamenti convenzionali e di distruzione di massa che ormai Baghdad ha fatto propri.

Mentre le riunioni al Pentagono e alla Casa Bianca si susseguono frenetiche, i soldati iracheni  giungono a Kuwait City. E’ il 2 agosto 1990, Saddam Hussein non risponde più agli ordini dei suoi “creatori”.

Tutti gli istituti di studi politici e militari americani concordano in un punto: Saddam Hussein è stato troppo avido.

Se si fosse “limitato”, nell’invasaione del Kuwait, ad arrivare a ridosso della capitale senza entrarvi, se per esempio le truppe irachene si fossero attestate nell’area di Mutla Ridge, senza infliggere l’umiliazione al piccolo emirato della caduta di Kuwait City, Saddam Hussein sarebbe ancora lì.

“Desert Storm”
La notte tra il 16 ed il 17 gennaio 1991 le truppe americane bombardano Bagdad: è iniziata la guerra della “Grande Coalizione” contro il “Grande Satana”.
“Desert Storm” terminerà 40 giorni dopo, il 28 febbraio 1991, senza che neppure un soldato delle truppe di terra entri a Bagdad.

La cantonata
La Casa Bianca ed il Pentagono, all’alba di quel 28 febbraio, sono assolutamente sicuri che la capitolazione di Saddam Hussein sia questione di ore: con un esercito umiliato, una ritirata nel deserto con la resa di migliaia di uomini (sotto l’occhio delle telecamere della Cnn).

La perdita di prestigio e di autorità avrebbe condannato il Rais a lasciare il potere nelle mani di una nuova classe dirigente, sotto la spinta di una opinione pubblica infuriata ed impoverita dalla sconfitta.

Una nuova classe dirigente con la quale trattare in posizione di forza per far rientrare negli arsenali Usa l’enorme quantità di armi batteriologiche e chimiche che l’Iraq ha a disposizione e interrompere il programma nucleare che stava tanto a cuore a Saddam. Questioni, queste, che ora gli Usa considerano una autentica bomba ad orologeria pronta ad esplodere in una delle regioni più instabili del pianeta.

L’analisi dei funzionari del potere politico e militare americano si rivelò clamorosamente sbagliata. Una autentica cantonata.

Nonostante l’embargo deciso dalle Nazioni Unite e dal governo americano che hanno fatto in pochi anni precipitare l’Iraq in una condizione di spaventosa indigenza Saddam Hussein è rimasto a Baghdad, ben saldo al comando, fedele custode degli accordi segreti con la Casa Bianca, delle clausole segretissime che regolavano le forniture d’armi.

Mentre gli Usa rimangono alle prese con il problema degli ispettori dell’Unscom, indecisi se augurarsi che il nuovo team dei “cacciatori d’armi” messo in piedi in tutta fretta durante gli incontri Vienna delle scorse settimane trovi effettivamente i laboratori per la preparazione degli aggressivi chimici e batteriologici targati “Usa, 1983/1988” e dover così rendere pubblici tutti gli accordi “sporchi” intercorsi con l’ex alleato numero uno. O che tutto si risolva in un altro viaggio a vuoto degli ispettori e poter così cogliere al volo l’opportunità di tornare in Iraq  con le armi spianate (e stavolta ben strette tra le mani) per andarsi a riprendere ciò che è loro. Compreso il “Grande Satana”.


Miscellanea relativa al fatto che il fedele alleato USA, Saddam Hussein, ancora 8 giorni prima dell’invasione del Kuwait del 1990, informò della cosa l’ambasciatrice USA a Bagdad, April Glaspie, che non ebbe nulla da obiettare riconoscendo il diritto di Saddam di rispondere ad atti di aggressione economica da parte del Kuwait

In un articolo del 22 di Settembre 1990 del New York Times l’ambasciatrice americana April Glaspie disse le cose seguenti: ” Non esprimiamo alcuna opinione su conflitti tra stati Arabi, come in questa vostra disputa sulla linea di confine con il Kuwait. Capiamo che dal punto di vista Iracheno le misure prese dagli Emirati Arabi Uniti, e dal Kuwait sono, in ultima analisi, paragonabili ad una aggressione militare contro l’Iraq.”

http://www.zaratustra.it/page7.html

Secondo la versione ufficiale bin Laden ruppe i rapporti con i governi Arabo ed Americano a causa della Guerra nel Golfo.
Ciò può suonare plausibile ad orecchie Occidentali. Dopo tutto l’Iraq è un paese Arabo e lo stesso bin Laden è Arabo.
Ma Iraq ed Arabia Saudita sono molto diversi. L’Arabia Saudita era, ed è, un paese sotto la tirannia della setta Wahhabi, fanatica e fondamentalista, la quale è sostenuta sia dalla “famiglia reale” Saudita, sia dalla ricca famiglia bin Laden. L’Iraq, al contrario, era un centro importante per la cultura Araba secolare.
Bin Laden passò gli anni ’80 combattendo un governo secolare (sorretto da truppe Sovietiche) in Afghanistan. In seguito tornò in Arabia Saudita, dove:
“In seguito all’invasione Irachena del Kuwait fece pressione sulla famiglia reale Saudita per organizzare un corpo di difesa civile all’interno del regno e per creare una forza di reazione tra i veterani della guerra Afgana con lo scopo di combattere l’Iraq”. (dal “Pittsburgh Post-Gazette”, Domenica 23 Settembre 2001, Edizione “Two Star”, pagina A-12, “Come la Guerra Santa contro i Sovietici si ritorse contro l’America”, di Ahmed Rashid)
Ma per quale ragione Osama voleva “creare una forza di reazione … con lo scopo di combattere l’Iraq”?
Nessuno può affermare con serietà che gli Iracheni avessero intenzione di attaccare l’Arabia Saudita. Il vero problema tra Iraq e Kuwait era il petrolio, ed in parte anche le conseguenze di una divisione geografia ereditata da tempi coloniali. Se controllate la carta della regione vedrete che il Kuwait sembra una piccola ma strategica propaggine ritagliata dall’Iraq. (Per la cartina, http://home.achilles.net/~sal/icons/iraq.gif )
Il conflitto tra Kuwait ed Iraq era in realtà un conflitto locale. Tutto sta ad indicare che Saddam Hussein credesse che a) l’Iraq fosse in realtà sottoposto ad un attacco ad opera dal Kuwait, e la conseguente invasione sarebbe stata una sorta di contrattacco e che b) gli USA non sarebbero intervenuti.
Il 22 di Settembre 1990, il “New York Times” ha pubblicato quello che sembra essere una minuziosa trascrizione di una conversazione tra Saddam Hussein e l’Ambasciatrice Americana April Glaspie. Questa conversazione avvenne il 25 di Luglio, otto giorni prima l’inizio dei combattimenti. Pubblicheremo la conversazione tra Hussein e Glaspie non appena possibile. Si tratta di materiale estremamente interessante. Nel corso di tale conversazione l’Ambasciatrice afferma che l’amministrazione Bush comprende il punto di vista Iracheno e non desidera immischiarsi in questa diatriba puramente Araba. Ad esempio l’Ambasciatrice Glaspie afferma:
” …non esprimiamo alcuna opinione su conflitti tra stati Arabi, come in questa vostra disputa sulla linea di confine con il Kuwait … capiamo che dal punto di vista Iracheno le misure prese dagli Emirati Arabi Uniti, e dal Kuwait sono, in ultima analisi, paragonabili ad una aggressione militare contro l’Iraq.” (New York Times, 22 Settembre 1990)
È chiaro che Saddam Hussein volesse essere sicuro della neutralità Americana prima di intraprendere alcuna azione contro il Kuwait. Inoltre l’Arabia Saudita è, nel mondo Arabo, alleato chiave di Washington ed in questo paese si trovano enormi basi militari Americane, della cui esistenza, naturalmente, la classe dirigente Irachena era al corrente. Per queste due semplici ragioni l’idea che l’Iraq abbia mai pensato di attaccare l’Arabia Saudita appare assolutamente inconcepibile.
Quale ragione avrebbe quindi spinto bin Laden a chiedere alla “famiglia reale Saudita di organizzare un corpo di difesa civile all’interno del regno”? O di “creare una forza di reazione tra i veterani della guerra Afgana con lo scopo di combattere l’Iraq”. Non vi era alcuna apparente necessità di difendere il regno Saudita.
Per quale ragione dunque bin Laden prese una posizione così provocatoria?
Le spiegazioni più logiche sono a) che intendesse annientare l’Iraq poiché si trattava di uno stato Musulmano secolare o b) che stesse lavorando con la CIA e stesse tentando di fare aumentare lo stato di tensione tra l’Iraq e l’Arabia Saudita, o magari addirittura di provocare l’Iraq in un attacco preventivo contro l’Arabia Saudita per dare quindi una scusa agli USA per attaccare l’Iraq.
Qualsiasi fosse la ragione era chiaro che bin Laden non fosse offeso dall’idea di dover combattere contro l’Iraq. Per quale ragione dunque, ascoltando la versione ufficiale, la Guerra del Golfo lo offese così tanto?
La risposta ufficiale è che tale conflitto implicò la nascita di un’alleanza Arabo-Americana che bin Laden percepì come una dissacrazione dell’Arabia Saudita.
Questo è un po’ troppo da digerire. Bin Laden aveva lavorato in stretta collaborazione con l’esercito Americano – la CIA per essere precisi – come rappresentante della “famiglia reale” Saudita in Afghanistan durante il decennio in cui la CIA allevava amorevolmente forze Islamiste destinate a combattere il governo Afgano e le truppe Sovietiche.
Non stiamo parlando di un idealista, di un sant’uomo. Lui e la sua famiglia costruirono una fortuna sulla carneficina compiuta in Afghanistan. (Vedasi più avanti)
Per quale ragione bin Laden sarebbe improvvisamente impazzito di rabbia quando il governo Saudita stava facendo le cose che lui stesso aveva fatto come rappresentante del medesimo governo?
La ragione (ancora secondo la storia ufficiale) sarebbe l’ingresso di decine di migliaia di soldati Americani in basi Saudite al seguito di tale conflitto: questa massiccia invasione d’infedeli avrebbe dissacrato il sacro suolo Saudita.
Inorridito, bin Laden ruppe ogni contatto con la “famiglia reale” Saudita e gli USA.

Padre Jean-Marie Benjamin inizia il suo lungo viaggio nel 1997, quando attraversa la terra di Abramo con l’intento di girare un documentario dal titolo “Iraq: genesi del tempo”. Da questo momento la sua vita, la sua lotta, la sua battaglia si legherà in modo indissolubile con la tenacità del Popolo iracheno, la stessa tenacità che porterà padre Benjamin a lottare con tutte le sue forze contro il “delirio di onnipotenza” di Bush senior, il serpente.
Iraq, trincea d’Eurasia ripercorre le vicende e la situazione politico-sociale creatasi con l’embargo criminale, nonché i retroscena della guerra di diffamazione perpetrata ai danni della Repubblica dell’Iraq. Il testo ha, altresi’, il merito di spiegare ai Lettori in maniera ‘chiara’ il ruolo esercitato dal petrolio nello scenario politico internazionale, nelle guerre e, in particolare nelle vicende mediorientali.

A questo proposito, le considerazioni di Padre Benjamin, in merito all’interesse occidentale nei riguardi dell’Iraq, sono molto lucide e importanti e meritano di essere riportate: “La storia dell’interesse occidentale verso quell’area inizia intorno al 1909, in Iran. La Gran Bretagna, ed in misura minore la Francia, si accaparrano il petrolio iracheno all’indomani della Prima guerra mondiale, appropriandosi direttamente ed interamente di alcune aree geografiche che erano state dell’Impero ottomano. In seguito gli Stati Uniti riuscirono quasi a monopolizzare tutto il petrolio della regione. Ci sono tuttavia delle date importanti da ricordare, a testimonianza dell’orgoglio nazionale sia degli iraniani che degli iracheni: il 1950, quando Mossadeq tenta la nazionalizzazione [e per questo viene rovesciato della CIA], in Iran, della Anglo-Iranian Oil Compact, e il 1969 con l’inizio del programma di nazionalizzazione attuato dal governo di Baghdad, guidato dal Partito Socialista della Rinascita (Ba’ath). Nel 1975, [a quattro anni di distanza dalla ‘leggendaria’ Rivoluzione di luglio e tre anni dopo il Trattato di amicizia con l’URSS], l’Iraq riuscirà nel suo intento: riportare al popolo iracheno tutta la ricchezza petrolifera del sottosuolo. In quello stesso periodo il governo iracheno tentava di coinvolgere anche gli altri Paesi arabi in una politica di nazionalizzazione delle fonti petrolifere nel quadro del nazionalismo pan-arabo. L’Iraq, in pochi anni, grazie ai proventi del petrolio, riusci’ a crescere tecnologicamente e industrialmente, tanto da diventare una delle più avanzate dell’intera area, sia dal punto di vista sociale che tecnologico ed economico. (…) Tutto questo è stato reso possibile proprio dal “regime” di [Sua Eccellenza] Saddam Hussein, da ’79 al ’90, cioè fino all’entrata [la ri-annessione] nel Kuwait.”
Un altro punto centrale che padre Benjamin ha il merito di analizzare e focalizzare nella ‘giusta’ dimensione è quello concernente la questione del Kuwait: “Il Kuwait era iracheno, era la diciannovesima provincia, della al-Kadhima. Nel 1963, l’Iraq ha riconosciuto, tuttavia, la sovranità e l’indipendenza del Kuwait”. Dunque, continua Padre Benjamin, “la questione dell’invasione [ri-annessione] non è ovviamente da mettere in relazione ad una questione di frontiere tra Nazioni sovrane, perché in questo caso ci troviamo in presenza di false “frontiere”, che, in quando imposte dalle potenze coloniali, obbediscono agli interessi geopolitici e geoeconomici non dei popoli che vi risiedono, bensi’ dei governi coloniali, distanti migliaia di chilometri. L’indipendenza del Kuwait, proclamata nel 1961, rappresenta in effetti una vera e propria amputazioni del territorio iracheno e la privazioni del suo naturale sbocco al mare”.

“[La cosiddetta] invasione [annessione] del ’90 […] è il risultato di una trappola in cui [il Presidente] Saddam Hussein è caduto. La motivazione della cosiddetta invasione [annessione] è dovuta al petrolio del campo di Rumaylah. Secondo gli iracheni, la monarchia kuwaitiana si era resa colpevole della sottrazione di petrolio iracheno. Il Kuwait, come poi è risultato, aveva infatti installato un impianto petrolifero che estraeva petrolio dal giacimento iracheno di Rumaylah. Cio’ è stato denunciato formalmente, in una lettera [disponibile presso l’archivio dell’Associazione Italia-Iraq] al segretario generale e a quello della Lega Araba, dall’allora Ministro degli Esteri iracheno, Tareq ‘Aziz. La lettera, del 15 luglio 1990, denunciava, oltre al furto di petrolio durato per dieci anni (dal 1980 al 1990, il Kuwait avrebbe ricavato oltre 2 milioni di dollari), un piano di corrosione del territorio iracheno messo in atto dal Kuwait, mediante infrastrutture petrolifere e attività di sfruttamento agricolo, nonché – con la complicità degli Emirati Arabi Uniti – la sovrapproduzione di petrolio, in dispregio delle quote fissate dall’Opec. L’eccedenza di petrolio aveva creato seri problemi al mercato internazionale, facendo crollare drasticamente il prezzo dell’oro nero. L’Iraq aveva vissuto tutto cio’ come un vero e proprio complotto ai propri danni: in particolare l’operazione kuwaitiana in quanto antieconomica per lo stesso Kuwait era particolarmente sospetta e sembrava eterodiretta, o comunque sembrava far parte di un piano prestabilito. (…) Nel frattempo il governo iracheno mobilitava le forze armate alle frontiere con il Kuwait e convocava l’ambasciatore americano, signora Glaspie [anche il testo del colloquio, avvenuto a Baghdad il 25 aprile 1990, fra il Presidente Saddam Hussein e April Glaspie è disponibile presso il nostro archivio]. L’incontro con la signora Glaspie, nonché le dichiarazioni del Segretario di Stato Aggiunto americano per il Vicino Oriente, John Kelly, sembravano incoraggiare [il Presidente] Saddam Hussein nelle rivendicazioni verso il Kuwait, e comunque facevano intendere che gli Usa sarebbero rimasti neutrali tra i due contendenti. Bush senior pero’ già preparava le sue truppe”.


  http://www.zmag.org/Italy/solomon-powellsenzadifetti.htm 

L’Iraq non ha attaccato alcun paese da più di dodici anni. E appena otto giorni prima dell’invasione del Kuwait il 2 agosto 1990, l’inviata USA a Baghdad mostrò ciò che apparve un nulla osta all’invasione, quando si incontrò con Saddam Hussein. Una trascrizione irachena dell’incontro cita l’ambasciatrice April Glaspie: “Non abbiamo opinioni riguardo i vostri conflitti inter-arabi come il vostro conflitto con il Kuwait. Il segretario (di stato) Baker mi ha dato direttiva di evidenziare che il Kuwait non è socio dell’America”

Preparativi per la guerra in Iraq
di Antonio Moscato



Molti candidati ai Premi Oscar per la menzogna

I candidati più quotati al premio Oscar per la bugia sono ovviamente il presidente George W. Bush e i suoi più stretti collaboratori. In questi giorni, mentre intensificavano i bombardamenti sul territorio dell’Iraq, alla faccia di tutte le convenzioni internazionali, hanno ripetuto di “avere le prove” dei legami di Saddam Hussein e Bin Laden, e inoltre di avere la certezza che entro sei mesi l’Iraq sarebbe in grado di avere armi atomiche.
Le prove, naturalmente, “non possono essere rese pubbliche per ragioni di sicurezza”. Ma i governi alleati o clienti, a cui ovviamente potevano essere benissimo fornite, sostengono che non ci sono. Anche quasi tutti i consiglieri del padre di Bush hanno espresso forti dubbi (e certo, se hanno affiancato quello che era il presidente degli Stati Uniti al momento delle guerra del Golfo del 1991, non dovrebbero essere stati oggi tenuti all’oscuro per “motivi di sicurezza”).
Le “prove” sui tentativi iracheni di dotarsi di armi atomiche sono assolutamente risibili: i satelliti spia avrebbero rilevato attività edilizie in zone dove in precedenza c’erano impianti militari smantellati. Anche il superfalco Cheney sostiene che Saddam “cerca attivamente e aggressivamente armi atomiche”. Cerca: ma dove? Al supermercato?
Tutti gli esperti sanno bene che il reattore nucleare (sperimentale) di Tamuz, distrutto con un azione di pirateria aerea israeliana nell’aprile 1981, era stato allestito da tecnici francesi, e aveva bisogno di una costante assistenza esterna. Anche se Saddam Hussein volesse veramente predisporre le strutture edilizie per accoglierne uno nuovo, la messa in opera di un simile impianto dipenderebbe da fornitori occidentali da cui sarebbe semplice ottenere informazioni. Ammesso che qualche impresa statale francese o russa o tedesca avesse stabilito accordi per fornire impianti di questo genere (cosa inverosimile in questo contesto) intervenire per bloccare tutto sarebbe facilissimo, senza infliggere nuove sofferenze allo sventurato popolo iracheno. E poi, ammesso che riesca a trasformare un reattore sperimentale in un impianto capace di produrre un’atomica, come la invierebbe? Per posta prioritaria?
Nel 1990-1991, molti imbecilli ripetevano che Saddam era il nuovo Hitler e l’Iraq la nuova Germania con il quarto esercito mondiale. Era una balla grottesca, data l’arretratezza di partenza del paese, interamente dipendente dalle forniture militari di paesi più sviluppati, tra cui gli stessi Stati Uniti, la Germania e anche l’Italia.
Pierre Salinger ha documentato che alla vigilia della Guerra del Golfo 207 ditte avevano fornito a Saddam “materiale bellico non convenzionale”: di queste 86 erano tedesche, 18 statunitensi, altrettate britanniche, 16 francesi. 12 italiane. Tra queste ultime spiccava la SNIA Tecnint (FIAT) che aveva fornito un “laboratorio di armi chimiche per SAAD16, la SAIA BPD che ha offerto carburante per razzi, la Technipetrole tecnologia per gas nervino, la HP Usa calcolatori per missili e il “Center for Disease Control”, sempre statunitense, “il virus della febbre del Nilo”.
Ovviamente ciò si spiega col fatto che fino a pochi giorni prima di diventare “il nuovo Hitler” Saddam era un amico degli occidentali e soprattutto un buon cliente. E questo spiega come sia stato facile smantellare quegli impianti, che erano stati allestiti proprio da ditte dei paesi che hanno invaso l’Iraq nel 1991!
Al momento dell’occupazione del Kuweit sarebbe stato facilissimo intervenire su Saddam sospendendo forniture e assistenza. Per giunta, l’Iraq era dipendente dagli Stati Uniti anche sul piano alimentare (era il primo degli acquirenti di riso dagli Stati Uniti, e l’ottavo per il grano), sicché i mezzi per una pressione non mancavano. Ma quello che serviva non era “fermare Saddam Hussein”, bensì dare una dimostrazione al mondo di cosa poteva aspettarsi chi veniva prescelto come bersaglio dall’imperialismo.

Le vere colpe di Saddam e quelle attribuitegli dagli ex complici
L’unico dei collaboratori dell’ex presidente Bush e di Reagan che oggi si è schierato con gli interventisti, Caspar Weinberger, in un’intervista apparsa sul “Corriere della Sera” del 7 settembre 2002, alla domanda: “Esistono prove sufficienti dei legami tra Iraq, Osama e Al Quaeda?”, ha risposto testualmente: “Certo. Basti pensare al tipo di uomo che è Saddam, al brutale attacco che perpetrò contro il vicino Kuweit, all’uso del gas per sopprimere la sua stessa popolazione, a tutte le promesse che aveva fatto all’ONU per le ispezioni e che non ha mai mantenuto. Siamo in possesso di tutte le prove che ci occorrono.”
Incredibile: nessuna di queste “prove” ha qualcosa a che fare con gli ipotetici legami di Saddam col presunto centro del terrorismo mondiale (e che questo sia rappresentato da Bin Laden, è stato messo fortemente in dubbio da persone che se ne intendono, come i presidenti di due paesi alleati degli Stati Uniti, Egitto e Pakistan!).
Partiamo a ritroso dall’ultimo argomento per smontarli a uno a uno: Saddam Hussein in realtà ha accettato per anni gli osservatori delle Nazioni Unite, fino a quando furono sostituiti da noti agenti della CIA. Lo hanno confermato con le loro dimissioni i principali rappresentanti dell’ONU a Baghdad come lo svedese Rolf Ekeus, l’assistente di Kofi Annan Denis Halliday, il suo successore Hans von Sponeck, e lo stesso Scott Ritter, capo degli ispettori per il disarmo, che dimettendosi ha ammesso che una parte dei suoi uomini lavoravano apertamente ed esclusivamente per i servizi segreti statunitensi, in aperto spregio di quanto prescritto dai regolamenti dell’ONU.
L ultimo capo degli ispettori, Richard Butler, è stato denunciato dal suo stesso predecessore: quando lasciò Baghdad nel dicembre 1998, presentò il suo rapporto non all’ONU, come avrebbe dovuto fare, ma direttamente agli Stati Uniti, per consentire l’inizio di una nuova serie di bombardamenti prima che Kofi Annan potesse recarsi nel paese.
Quanto alla “prova” rappresentata per Weinberger dal “tipo di uomo che è Saddam”, varrebbe anche per decine di fedeli alleati di Washington nel Medio Oriente, in Africa, in America Latina, di cui molti hanno al loro attivo aggressioni a paesi vicini, e tutti sono esperti in uso di gas e altre armi letali contro la loro stessa popolazione.
Parlare dell’aggressione al Kuweit è poi incredibile da parte di un esponente degli Stati Uniti: Saddam fornì infatti la prova (un video) dell’incontro in cui all’inizio dell’agosto 1990 l’ambasciatrice degli Stati Uniti, April Glaspie, gli assicurava che il suo paese non era interessato alle rivendicazioni irachene sul Kuweit (che era in origine un pezzo della provincia irachena di Bassora trasformato dalla Gran Bretagna in uno staterello vassallo ed era stato rivendicato più volte anche dai governi iracheni precedenti al regime di Saddam).
E come poteva dubitare di quelle rassicurazioni Saddam, che dagli Stati Uniti e dai suoi fantocci nel Golfo (Arabia Saudita, Emirati, e lo stesso Kuweit) era stato incoraggiato, finanziato e armato contro l’Iran degli ayatollah, di cui nel 1980 si temeva la capacità di proselitismo?

Saddam e Bin Laden
Indicare come “complice di Saddam” il fantomatico Bin Laden (sempre che esista ancora) è due volte grottesco, sia perché costui è stato a lungo alleato degli Stati Uniti contro l’URSS e socio in affari della famiglia Bush, sia perché il suo integralismo non ha nessun punto di contatto col laicismo del Baath iracheno.
Gli stessi argomenti di Weinberger sono stati usati (sul “Corriere della sera” dell’8/9/2002) dalla Consigliera per la Sicurezza nazionale Condoleezza Rice, che allude ancor più spudoratamente non solo all’invasione del Kuweit, ma anche alla guerra con l’Iran (Saddam “ha attaccato due volte i suoi vicini”). Per giunta, secondo la Rice, Saddam avrebbe “pagato 25.000 dollari ai kamikaze palestinesi” (chi glielo ha detto? Qualche cinico giornalista convinto che solo per denaro qualcuno può dare la vita per una causa? O l’inventore delle “prove” basate sul video con l’esecuzione di un cagnolino in un laboratorio di chissà quale parte del mondo?). Saddam poi secondo la Rice avrebbe “cercato di assassinare un ex Presidente degli Stati Uniti”. Quale? E che “prove” ci sarebbero? Mentre lei stessa, come Bush o Weinberger, parla apertamente di uccidere Saddam!
E quanti attentati contro Castro sono stati ammessi dalla stessa stampa statunitense?
La Rice dice tranquillamente poi che “l’assenza di risoluzioni dell’ONU non è il cuore del problema. Su questo punto ci si permetta di essere realistici”. Ed aggiunge che, visto che Saddam avrebbe ignorato moltissime risoluzioni dell’ONU (ma abbiamo visto che ciò è falso!), “vedremo se è il caso di tornare all’ONU”!
Un altro candidato al Premio Oscar per la menzogna e l’ipocrisia, è Tony Blair, che ha il coraggio di chiamare “ispezioni coercitive” un piano che prevede “l’invio di 20-50 mila soldati alleati ai confini iracheni con l’incarico di aprire la strada e di proteggere gli ispettori internazionali”! E intanto, nonostante l’opposizione di molti ministri, ha già inviato i suoi bombardieri a fianco di quelli USA a scaricare armi micidiali sul territorio iracheno (ma il Pentagono precisa che “i suoi top guns erano stati aggrediti e si sono difesi”). Gli Stati Uniti infatti sostengono che quando i loro piloti “hanno la sensazione” di essere inquadrati dai radar, devono reagire alla inequivocabile “aggressione irachena”.

Il più ipocrita di tutti: Shimon Peres
Ma forse il massimo “alloro” per l’ipocrisia va assegnato al “Premio Nobel per la pace” Shimon Peres. Al meeting di Cernobbio del 6 settembre Peres ha dichiarato testualmente che “le colpe di Saddam Hussein sono moltissime: la guerra con l’Iran, costata 7 milioni di morti e l’invasione del Kuwait, che provocò un altro conflitto con trecentomila morti”. Nel primo caso, in realtà, la stima massima ha parlato di due milioni di morti (che non sono pochi, ma vanno divisi comunque in parti eguali tra Iran e Iraq, come le responsabilità per la guerra, che se era stata iniziata da Saddam su istigazione occidentale, è stata protratta poi testardamente da Komeini anche dopo che aveva costretto le truppe irachene a ritirarsi dal territorio iraniano, nel tentativo di privare l’Iraq dello sbocco sul Golfo).
Nel secondo caso, Peres parla come se il 95% delle vittime (forse molto più di 300.000, e quasi tutti civili) non fossero state irachene, in conseguenza della enorme sproporzione tecnologica e anche numerica tra le forze occidentali e lo scalcagnato esercito iracheno, che era stato grottescamente presentato come quello della quarta potenza mondiale, in procinto di invadere l’Arabia Saudita (mentre la foto dei satelliti sovietici accertarono che l’invasione del Kuweit era stata compiuta da un contingente ridotto, circa 10.000 uomini, con cui sarebbe stato impensabile un attacco all’armatissimo regime saudita).
Quanto alle altre colpe di Saddam, si attagliano perfettamente anche al criminale Sharon, di cui Peres è completamente complice.
Il colmo dell’ipocrisia è stato manifestato da Peres in un’intervista rilasciata il giorno successivo al giornale cattolico “Avvenire”: dopo aver caldeggiato l’attacco all’Iraq, Peres si è affrettato a dichiarare che “quella irachena e quella israelo-palestinese sono due questioni separate, che è fondamentale tenere separate”. Paura di ritorsioni irachene? Difficile, dato che gli israeliani sanno bene, come sapevano benissimo nel 1991, quanto la tanto paventata “potenza militare” dell’Iraq sia un bluff (altra cosa, ma riguarda gli eserciti di terra, che un’invasione possa trovare una resistenza ben diversa da quella dello sventurato Afghanistan, prostrato da oltre un ventennio di guerre combattute sulla sua terra). E comunque, se ci fossero problemi, Sharon ha già dichiarato di essere pronto a intervenire con ogni mezzo, compresa qualcuna delle 200 atomiche che Israele ha costruito fin dagli anni Settanta in collaborazione col Sudafrica allora razzista.
A tutti quelli che ripetono in buona fede le bugie di Bush e soci su Saddam che avrebbe rifiutato gli osservatori dell’ONU (mentre ha rifiutato solo quelli della CIA), chiediamo perché non si ricordano mai di Israele, che ha sempre rifiutato ogni ispezione internazionale sui suoi arsenali atomici, e perfino su “normali” crimini di guerra come il massacro di Jenin? Sicché i mancati “osservatori” si sono limitati, a distanza, a ripetere i dati forniti dall’esercito sionista, che negavano semplicemente il fatto.
Ultimo episodio, l’uccisione di altri bambini e donne sicuramente estranei al “terrorismo”, su cui, dopo che era stata sollevata da autorevoli commentatori israeliani qualche perplessità, si è fatto il “bel gesto” di annunciare un’inchiesta dell’esercito. Naturalmente l’inchiesta ha concluso… scagionando ogni militare israeliano (erano stati imprevedibili “effetti collaterali).
Ancora una volta Israele segue l’esempio degli Stati Uniti, che si sono autoassolti per il bombardamento di una festa di nozze in Afghanistan, come per tanti altri massacri di civili che non avevano neppure l’idea di cosa fosse un grattacielo.
Veramente un record di ipocrisia. Purtroppo Peres continua a godere di tanta benevolenza nella sinistra italiana, che perfino su “Liberazione” la dichiarazione all’Avvenire che abbiamo citato è stata scambiata per una dissociazione dalla posizione di Bush, mentre invece si tratta di un atteggiamento classico in Peres: fanno bene gli Stati Uniti ad affrontare il “pericolo Saddam”, ma la questione palestinese ce la vediamo da soli. Il tutto condito da una dichiarazione di buoni sentimenti: “se il primo problema per noi, ora, è quello della sicurezza, è anche perché desideriamo tornare a una situazione di libertà: il conflitto è anche per noi una prigione, dalla quale desideriamo uscire con tutto il cuore”. Anche questa frase è stata segnalata positivamente su “Liberazione dal commentatore che firma “lo spettatore”, che a quanto pare non ne ha colto il senso, che è questo: vogliamo tornare alla “libertà” che avevamo prima della rinascita della resistenza palestinese con l’Intifada…

Allora assolviamo Saddam?
Lungi da noi l’intenzione di assolvere Saddam, che abbiamo condannato quando massacrava i curdi e aggrediva l’Iran col plauso di tutto l’occidente. Ma come dimenticare che le colpe di cui si è macchiato, oltre ad aver avuto come complici quelli che ora lo additano come incarnazione del male, non sono un’eccezione ma la regola in gran parte del mondo?
Basta pensare alla Turchia, a cui nessuno ha fatto pagare l’occupazione di un terzo di Cipro e il massacro – che continua – non solo dei curdi, ma anche di moltissimi turchi democratici? E per quanti anni l’Indonesia è stata libera di massacrare il popolo di Timor Est, prima che la crisi del regime militare istallato nel 1965 con uno spaventoso bagno di sangue spingesse l’ONU a intervenire tardivamente? E non occupa ancora la parte occidentale della Papuasia-Nuova Guinea, annessa col nome di Irian?
E il Marocco non è stato lasciato libero di occupare la Repubblica Saharawi? E che dire dei governanti di Cile, Guatemala, Bolivia, Argentina, Brasile, Salvador, Colombia, Messico, ecc., che hanno massacrato i loro popoli con armi e consigli degli Stati Uniti? Non parliamo dei crimini compiuti prima dai regimi coloniali in Africa, e poi portati avanti – dopo l’indipendenza formale – da governanti infami sotto la guida di paesi imperialisti. Basta ricordare il ruolo della Francia nei massacri nel Ruanda e Burundi.
E poiché non siamo né siamo mai stati “campisti”, come si definivano quelli che vedevano solo le colpe dei paesi imperialisti (o almeno di quelli che in quel momento non erano alleati dell’URSS o della Cina), nell’elenco dei crimini impuniti mettiamo anche l’oppressione del popolo ceceno iniziata dagli zar, proseguita dall’URSS staliniana e perpetuata oggi da Putin in nome della “lotta al terrorismo islamico”, come la Cina usa lo stesso pretesto per continuare a opprimere le minoranze nel Tibet e nel Xinjang, e l’India per combattere il separatismo nel Kashmir.
Naturalmente se la Russia o la Cina, dopo aver tratto il massimo vantaggio dall’adesione alla “crociata contro l’integralismo”, riterranno troppo pericolosa la politica di Bush e si dissoceranno da essa facendo davvero uso (per la prima volta dopo decenni) del diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza, invece di assentarsi o astenersi, (o magari, anche se è più improbabile ancora, se lo farà la Francia), saluteremo positivamente questo gesto, senza per questo dimenticare i diritti delle minoranze oppresse da quei governi, e senza illudersi che con quel gesto quei paesi diventino baluardi delle lotte di liberazione…

Consigli di lettura
Ho accennato finora a molte delle situazioni tragiche nel mondo. Tra l’altro ho dedicato articoli e libri alla questione palestinese (su cui ricordo il recentissimo “Israele sull’orlo dell’abisso” di A. Moscato e Cinzia Nachira, ediz. Sapere 2000, Roma 2002). Ma oggi la priorità assoluta è fermare i preparativi di aggressione all’Iraq, e per questo raccomando a tutti i compagni la lettura di un ben documentato libro di padre Jean-Marie Benjamin, “Obiettivo Iraq. Nel mirino di Washington”, Editori Riuniti, Roma, 2002, molto utile per smantellare la campagna di intossicazione dei mass media. Sulla guerra precedente, e in particolare sulle “bugie di guerra” che la prepararono e giustificarono, può ancora servire un libro scritto a caldo, ma che mantiene una certa attualità: Antonio Moscato “Israele, Palestina e la guerra del golfo”, Sapere 2000, Roma, 1991.


SEMINANDO TEMPESTA:
Israele, America e la guerra imminente



Roni Ben Efrat
(da “Challenge A magazine covering the israeli-palestinian conflict)



Il Presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, ha trovato in Israele un robusto supporto per la sua imminente guerra contro l’Iraq. La destra e la sinistra lo esaltano entrambe. La stampa gli fa da cassa di risonanza. Le colombe sulla questione Palestinese sono diventate falchi a proposito dell’Iraq. L’opinione pubblica israeliana e’ per il 40% favorevole all’uso del nucleare qualora l’Iraq utilizzasse armi chimiche o biologiche contro Israele, anche se questo fatto non rappresenterebbe in se’ e per se’ una vera e propria minaccia all’esistenza dello Stato d’Israele medesimo. Ma 
gli israeliani si mettono ordinatamente in fila per ricevere ognuno la propria maschera antigas. I benefici di questa imminente guerra appaiono loro cosi’ evidenti, che l’argomento non e’ stato oggetto di alcuna discussione, ne’ alla Knesset, ne’ in seno al governo. All’arrivo della guerra il paese che subira’ la collera dell’Iraq sara’ Israele. Eppure, il sostegno degli israeliani alla guerra di Bush e’ ancora piu’ forte di quello degli stessi americani. Questo fatto e’ ancora piu’ evidente quando ci accorgiamo che nel resto del mondo, Stati Uniti compresi, l’argomento accende dibattiti roventi. Il Cancelliere tedesco Gerhard Schroeder ha ottenuto la ri-elezione in Germania per la sua forte presa di posizione contro la guerra all’Iraq. Al momento della stesura di questo articolo, Francia e Russia minacciano di porre il proprio veto in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nei confronti della risoluzione statunitense che vorrebbe l’autorizzazione per un intervento militare immediato nel caso l’Iraq si opponga all’invio degli ispettori.
Meta’ della popolazione americana e’ favorevole alla guerra, ma si e’ verificato un calo del 17% di questo consenso, rispetto al giugno scorso. 
Il 26 ottobre circa 150000 americani hanno manifestato contro la guerra: a Londra il 28 settembre erano in 350000 a protestare. (Secondo il Guardian solo un terzo della popolazione britannica e’ favorevole alla guerra). In Italia un milione e mezzo di persone hanno manifestato contro la posizione favorevole alla guerra (e la politica economica) del governo Berlusconi.
E l’opposizione israeliana? Non si sente. Yossi Sarid, il suo leader parlamentare, ha tenuto un discorso lo scorso 14 Ottobre, per l’apertura della sessione invernale della Knesset, nel quale e’ riuscito a non dire una parola sia sull’Iraq sia sulla questione palestinese. Si e’ limitato a parlare della poverta’ in Israele. Ha raccontato di un bambino che 
ricevendo il pranzo a scuola e’ stato sorpreso dalla sua insegnante a nascondere un pezzo di pollo in tasca: lo avrebbe conservato per la madre. Si tratta certamente di una storia emblematica, ma Sarid ha omesso il contesto: il disastroso crollo sociale di Israele e’ per gran parte dovuto al deterioramento della complessa situazione politica sia nei confronti dei Palestinesi sia dei paesi arabi piu’ in generale.La guerra contro l’Iraq non potra’ che complicare ulteriormente la situazione.

La Junta messianica

Israele e’ pro-America per tradizione. Non c’e’ nulla di nuovo in questo. Ma Israele dovrebbe chiedersi se l’amministrazione Bush gli riserva la stessa fedelta’ accordatagli dai suoi predecessori. La risposta e’ un chiaro no!  Il mondo si trova oggi di fronte ad un fenomeno “nuovo, ma vecchio”, le cui implicazioni si estendono ben oltre il conflitto Stati Uniti- Iraq. In seguito a dubbie elezioni la Casa Bianca e’ finita in mano a una giunta di destra sostenuta da 70 milioni di fondamentalisti cristiani che considerano il proprio destino legato a Sion.

Questo concetto messianico trova la sua corrispondenza laica nell’interpretazione data alla storia dai diretti collaboratori di Bush: il Vice Presidente Dick Cheney, il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, il Consigliere per la Sicurezza di Stato Condoleeza Rice e i loro “dipendenti” Paul Wolfowitz e Richard Perle.  Nella visione di questi soggetti, nell’era di Reagan l’amministrazione repubblicana sconfisse “l’impero del male” lasciando gli Stati Uniti unica superpotenza mondiale.  Bush senior approfitto’ di questa situazione ereditata dal suo predecessore e monto’ 
un’offensiva mondiale vincente contro l’Iraq. Poi ci fu la ritirata. Per questioni economiche di poca importanza, gli americani elessero Bill Clinton. Invece di condurre il paese verso il suo chiaro destino di potenza mondiale, Clinton ha ricercato i profitti della pace. Le difese del paese sono andate in malora. Ma alla fine, nonostante tutto, la squadra  Reagan-Bush e’ tornata in auge. Per guidare gli Stati Uniti verso l’egemonia globale.Quanto sopra si ritrova in un lungo documento intitolato “Rebuilding America’s Defence”. E’ stato pubblicato nel Settembre 2000, poco prima delle elezioni presidenziali, da un gruppo conservatore che si autodefinisce “Progetto per un Nuovo Secolo Americano”. “In senso ampio”, dicono gli stessi autori, “intendiamo il progetto come la riproposizione del piano di difesa strategica preparato dal Dipartimento per la Difesa di Cheney nei giorni del declino dell’amministrazione Bush. La Guida alla 
Politica di Difesa (DPG), preparata all’inizio del 1992, forniva il progetto per il mantenimento della preminenza statunitense, finalizzata ad impedire l’insorgere di una forte potenza rivale e alla configurazione di un ordine internazionale in linea coi principi e gli interessi americani”. (www.newamericancentury.org/RebuildingAmericasDefenses.pdf)
“Rebuilding America’s Defence” ha rappresentato la base di partenza per la politica estera e di difesa di George W. Bush. Il suo pezzo forte e’ l’espansione della potenza politica americana, in modo tale che gli Stati Uniti possano restare l’unica superpotenza mondiale inviolata. A questo scopo sostiene che l’America debba incrementare la spesa per la difesa, sviluppare la propria potenza nucleare e riprendere i test nucleari. Sostiene l’annullamento del Trattato per la messa al bando dei test nucleari, firmato da Clinton (idem pp. 7-8).La sua influenza era gia’ apparsa evidente durante il primo anno della nuova amministrazione Bush, quando furono bloccate le trattative internazionali sul controllo delle armi.
“Rebuilding America’s Defence” e’ stato redatto prima degli attacchi dell’11 Settembre 2001.Questi fatti hanno poi dato un ulteriore impulso alle iniziative americane per un controllo globale, cosi’ come indicato in un documento piu’ recente, “The National Security Strategy of the United States”, pubblicato dall’amministrazione Bush il 20 Settembre 2002. (http://usinfo.state.gov/topical/pol/terror/secstrat.htm). Il nuovo documento sulla Sicurezza Nazionale contiene cio’ che e’ ormai nota come Dottrina Bush: “Il pericolo maggiore che la nostra nazione ha di fronte si trova la’ dove si incrociano radicalismo e tecnologia”. L’America deve dimostrare la sua determinazione nell’azione. “La nostra attenzione deve rivolgersi immediatamente verso quelle organizzazioni terroristiche di portata mondiale e verso quei terroristi o stati che li fiancheggiano nel tentativo di conquistare o usare armi di distruzione di massa…Mentre gli 
Stati Uniti continueranno a lottare per ottenere il supporto della comunita’ internazionale, noi non esiteremo ad agire da soli, se necessario, esercitando il nostro diritto di auto-difesa…” E ancora “Per secoli, la legislazione internazionale ha riconosciuto ai singoli stati il diritto a non dover subire un attacco prima di potersi legittimamente difendere da quelle forze che rappresentavano una seria minaccia incombente….Dobbiamo adattare il concetto di minaccia incombente alle potenzialita’ ed agli obiettivi dei nostri nemici odierni”.La conseguenza e’ chiara: gli americani non si considereranno al sicuro finche’ lo zio Sam non diventera’ il Grande Fratello.Sulla New York Review of Books del 26 Settembre Frances Fitzgerald sottolineava  che Bush padre sapeva il fatto suo in tema di politica estera. In seno  ai piu’ importanti consiglieri di Bush padre, il segretario alla difesa Cheney era un falco appartenente ad una minoranza. 
Oggi, alla Casa Bianca, George W. Bush dipende completamente dai suoi consiglieri. Oggi, il Vice Presidente Cheney collabora fianco a fianco col suo mentore e vecchio amico, Donald Rumsfeld,  persona con idee nettamente di destra, che ha scelto a sua volta di essere affiancato da Paul Wolfowitz, co-autore del DPG, e suo vice. Nella ex posizione di 
quest’ultimo al pentagono, Rumsfeld ha nominato Douglas Feith, un favorito di Richard Perle, vecchio falco dell’amministrazione Reagan. (Oggi Perle e’ Consigliere al Pentagono). E cosi’, la minoranza guerrafondaia dai tempi 
del vecchio Bush padre rappresenta oggi il principale gruppo di consiglieri che circondano quell’ignorante di suo figlio.

[……]

Esiste una “Israeli connection”. Nel 1996, sempre secondo F. Fitzgerald, Perle e Feith prepararono un documento che consigliava a Benjamin Netanyahu, allora primo ministro di Israele, di dare un taglio netto al processo di pace di Oslo, e di riprendere direttamente il controllo su West Bank e Gaza. Di fronte al rifiuto di Netanyahu di fronte a tale consiglio, Feith scrisse in un suo pezzo: ” Il prezzo da pagare in sangue sara’ alto, ma sara’ una necessaria forma di disintossicazione, l’unico modo per uscire dalla trappola di Oslo” (citato da Fitzgerald, op. cit.). Un tale consiglio, da parte di Feith e Perle, dovrebbe attirare l’attenzione dei sostenitori degli accordi di Oslo, in seno alla sinistra 
israeliana, quando sostengono la guerra contro l’Iraq credendo con convinzione che dopo tale vittoria, con l’imposizione di un nuovo ordine in Medio Oriente, Bush  imporra’ il ritiro di Israele dai Territori Occupati. 
Tuttavia i fatti sembrano indicare che “lo stesso consigliere che oggi indica la via di Baghdad difende strenuamente la conquista definitiva di West Bank e Gaza da parte di Israele”

[……]

Rebuilding America’s Defence risolve definitivamente il mistero del perche’ Bush figlio sia cosi’ accanito contro l’Iraq: “Di fatto, gli Stati Uniti hanno cercato per anni di giocare un ruolo di molto maggior peso nella sicurezza della regione del Golfo. Se da un lato il conflitto con l’Iraq ne fornisce una giustificazione nell’immediato, la necessita’ di una 
sostanziale presenza delle forze americane nell’area del Golfo travalica i problemi legati al regime di Saddam Hussein” (Op. cit. p.14). Ma le basi americane non si trovano nei paesi del Golfo, questo al fine di proteggere i vicini di Saddam Hussein. “Dal punto di vista degli Stati Uniti,  l’importanza di tali basi permarrebbe anche dopo un’eventuale 
uscita di scena di Saddam. Piu’ a lungo termine infatti, sarebbe  l’Iran a rappresentare una minaccia verso gli interessi degli Stati Uniti  nel Golfo. E anche se le relazioni Stati Uniti – Iran dovessero migliorare, il mantenimento di basi militari avanzate nella regione rappresenterebbe comunque un elemento essenziale nella strategia di sicurezza degli Stati Uniti, considerato il perdurare degli interessi americani nella regione”. (Rebuilding…, p. 17)
Non dobbiamo pertanto attenderci una connessione diretta fra cio’ che gli ispettori riveleranno sulle armi di Saddam e la decisione di Bush di optare per la guerra.
La franchezza di una tale documento e’ inusuale, ma cio’ che rivela e’ sconcertante: nella sua ricerca di dominio l’America e’ pronta ad andare avanti da sola, trascinandoci tutti verso il caos. Non meno allarmante e’ 
la reazione in Israele, dove la stragrande maggioranza ascolta con piacere ogni canto messianico sulla guerra tra il Bene e il Male.

I sostenitori


Il ruolo della stampa in Israele e’ di netto sostegno alle posizioni guerrafondaie, dato che non promuove dibattiti alternativi in proposito. Persino il liberale “Ha’aretz, che si vanta della sua reputazione di giornale per la “gente pensante”, titolava cosi’ l’editoriale delle scorso 11 Settembre 2002: “Affrontiamo l’asse del male”. Senza particolari prove da esibire, questo pezzo collega il disastro che ha colpito l’America con l’imminente guerra all’Iraq. “Cosi’ l’America, un anno dopo, prepara l’attacco all’Iraq in un contesto da guerra all’ultimo sangue (milhemet hurmah, espressione biblica qui applicata alla guerra al terrorismo – RBE). Perche’ la sfida, e la guerra, non sono limitate alle enclaves delle organizzazioni  terroristiche, per quanto ramificate e pericolose esse possano essere. L’ambizioso obiettivo che si e’ giustamente posto il Presidente Bush, e’ di annientare le medesime forze del male che hanno 
colpito le Twin Towers a New York, e che nelle lor multiformi versioni hanno dichiarato  guerra alla esistenza dell’intero mondo libero. Dopo aver ricordato Pearl Harbour, l’editoriale prosegue: “L’America ha capito [nel 
1941] che la guerra non era solo contro il Giappone, ma contro l’intero “asse del male” di quell’epoca. La lucidita’, la determinazione, il sacrificio e la capacita’ di leadership dimostrata dall’America in quegli 
anni sono cio’ che ha salvato la nostra civilta’”. Mentre l’Ha’aretz riscrive la storia, Yediot Aharonot non e’ da meno. In tre suoi editoriali (firmati dal direttore) Sever Plotzker  si scaglia contro quanti nel mondo si oppongono alla guerra. Eccone un esempio: “In momenti come questo bisogna essere molto chiari con tutti: il terrorismo islamico, fascista, omicida, nutrito dal fanatismo religioso – ma anche supportato da regimi dittatoriali come quello di Saddam Hussein, e’ la minaccia diretta alla pace, alla prosperita’   ed al progresso dell’intero mondo civilizzato…. Gli oppositori alla guerra contro Saddam Hussein devono comprendere che, di fatto, col loro comportamento dimostrano a favore dell’attacco terroristico a Bali, degli attacchi a Tel Aviv, dell’attacco a Helsinki e per l’attentato che avra’ luogo nel cortile di 
casa  loro.” (Yediot Aharonot October 14). Va sottolineato che questo crociato e’ stato direttore di al-Hamishmar, un quotidiano socialista che ha chiuso dopo essere stato privatizzato. I giorni che ci porteranno alla guerra con l’Iraq entreranno nella storia (se qualcuno restera’ a scriverla) con la superficialita’ della stampa israeliana.

Israele nell’attesa del Day After

Dietro la cieca adulazione di Israele per l’America si cela  ben altro….La Guerra del Golfo del 1991 ha spento quanto restava della prima Intifada, cosi’ come il movimento nazionale palestinese, storica espressione dell’OLP. Molti guerriglieri palestinesi si sono trasformati in tecnocrati. Quanti hanno mantenuto un’uniforme l’hanno fatto in seno all’Autorita’ Palestinese, sotto la supervisione della CIA. Negli anni di Oslo, tuttavia (1993-2000), in seguito al degrado delle condizioni di vita nei Territori, un senso di profonda amarezza si e’ diffuso sempre piu’ ampiamente, sia nei confronti di Israele, sia verso l’Autorita’ Palestinese. E’ infine esploso nella Seconda Intifada, che e’ rapidamente sfuggita ad ogni controllo. Oggi, In Israele, sia la destra sia la sinistra sono convinte che una nuova sconfitta di Saddam Hussein avra’ un effetto analogo a quello scatenatosi alla fine della precedente,  quello cioe’ di domare la nuova Intifada. Questa teorica contiene due ulteriori considerazioni: la piu’ semplice vede la campagna militare finalizzata alla caduta di Saddam Hussein strettamente collegata a quella tesa a rovesciare Arafat. La seconda, ben piu’ complessa, ha origine da alcune figure dei servizi militari israeliani e ritiene che Israele possa da sola tener testa al terrorismo palestinese, ma che per raggiungere una soluzione politica ci sia la necessita’ di un piu’ ampio mutamento strategico in Israele..Questo cambiamento deve arrivare dall’esterno. E solo L’America e’ in grado di piegare la regione alle esigenze geopolitiche di Israele. Questa posizione trova spesso voce presso i media. Per esempio:”Essendoci stato richiesto [da Bush – RBE] di restare fuori dalla questione irachena, il vero obiettivo del governo deve essere quello di concentrarsi sui vantaggi del “giorno dopo.” (Yael Gvirtz, Yediot Aharonot, 7 Ottobre). Aluf Benn allude alla medesima posizione dalle colonne di Ha’aretz (10 Ottobre): “Il messaggio di Israele puo’ essere anche letto nei termini seguenti: La crisi con l’Iraq fornisce una buona opportunita’ per dare ai Palestinesi il colpo di grazia che porra’ fine 
all’Intifada e migliorera’ la posizione di Isarele nei negoziati che seguiranno la rimozione di Saddam.”Israele vuole cogliere l'”uva”  e non intende discutere col guardiano della vigna.
Nella sua recente visita negli Stati Uniti Sharon ha promesso di mantenere questo atteggiamento col doppio obiettivo di supportare Bush nella sua ricerca di consenso e di ottenerne a sua volta il supporto sulla piazza internazionale e presso le banche, in un momento in cui l’affidabilita’ finanziaria di Israele e’ nel mirino delle stesse istituzioni bancarie. 
(Vedi anche “Bush tenta di risollevare le sorti dell’economia israeliana” in questo stesso numero).

ASPETTATIVE PERICOLOSE


La speranza che l’insediamento di un regime fantoccio in Iraq spiani la strada ad una analoga operazione nei Territori Occupati e’ completamente destituita di ogni fondamento. Il tentativo di cambiare o modificare regimi esistenti e’ stato spesso oggetto della politica statunitense. Ben lungi dal riscuotere significativi successi, ha piuttosto portato il caos (nel Sud Est asiatico, in America Latina, in Medio Oriente, in Afghanistan) di cui oggi la stessa amministrazione Bush si lamenta. Israele e’ incappata in simili fallimenti nei tentativi fatti in passato di insediare leader arabi. 
Due esempi per tutti:
1) L’avventura libanese. Nel 1982, durante la presidenza di Ronald Reagan, in Israele era primo ministro Menahem Begin. Ariel Sharon, allora ministro della difesa, intraprese una campagna bellica per modificare la mappa geografica del Medio Oriente, cominciando dal Libano. L’idea era quella di eliminare l’OLP come forza interna a quel paese, in modo da permettere  al leader della milizia cristiana  Bashir Gemayal di assumere il controllo del paese e permettere al Parlamento di eleggerlo presidente. Gemayal avrebbe dimostrato la sua gratitudine negoziando la pace con Israele. Inoltre, avendo sconfitto Arafat in Libano, Israele avrebbe potuto esercitare la propria volonta’ sui demoralizzati territori della West Bank e di Gaza. Secondo lo storico Howard Sachar, inoltre, Sharon aveva anche intenzione di 
rovesciare dal trono Re Hussein, trasformando la Giordania nello stato Palestinese ed annettendo i Territori Occupati. (Howard M. Sachar, A History of Israel, Volume II, New York: Oxford University Press, 1978, p. 172).
Di fatto l’esercito israeliano caccio’ l’OLP dal Libano e Bashir Gemayal fu eletto presedente il 23 Agosto.  Poche settimane dopo, fu assassinato. Si scateno’ il caos. Sharon chiese  al suo Capo di Stato Maggiore di ripristinare l’ordine e di permettere ai Cristiano Falangisti  di entrare nei campi dei rifugiati. Il risultato di tale operazione fu il massacro di 
Sabra  e Shatila. A questo punto gli Americani ritornarono in Libano, con lo scopo, anche, di “riportarvi l’ordine” – ma, nell’Ottobre 1983,  un attacco suicida uccise 241 marines. Gli americani se ne andarono e gli Israeliani si ritirarono nel sud del Libano. Del piano di Sharon non rimaneva che una sottile “zona di sicurezza” oltre il confine settentrionale di Israele. Questa zona e’ in seguito costata centinaia di vite umane a Israele e migliaia al Libano, finche’ il primo ministro Ehud Barak non l’ha fatta sgomberare, due anni fa. Il Libano non e’ diventato la “democrazia cristiana ” sognata da Begin, Sharon, e (almeno fino ad un certo momento) Ronald Regan. L’invasione israeliana ha ottenuto, e’ vero, 
la cacciata dell’OLP ma soprattutto ha prodotto morte e distruzione, una drammatica frammentazione della propria societa’, un ampio discredito a livello mondiale, la crescita del movimento degli Hezbollah e la nascita di una nuova tattica di guerriglia: l’attacco suicida.
2) L’avventua di Oslo. In seguito all’espulsione dell’Olp dal Libano i Territori Occupati sono diventati il principale centro di resistenza palestinese. E poi scoppiata la prima Intifada (1987). Israele ha risposto con una piu’ sofisticata forma di occupazione. Nel corso degli anni 70 e 80 Israele ha cercato, senza successo, di infiltrare collaboratori con 
posizioni di leader (i cosiddetti Village Leagues). L’idea era quella di trasformare la stessa OLP in un’entita’ sottomessa al controllo di Israele. La combinazione tra la politica israeliana e quella della sua creatura, la corrotta autorita’ Palestinese, ha condotto al caos della seconda Intifada. Il partito Laburista, che aveva puntato tutte le sue carte su Oslo si e’ ritrovato, fin dall’Ottobre 2000, senza partners, senza agenda. Avendo perduto anche ogni caratteristica che lo differenziasse dal partito avversario, il partito laburista si e’ unito al Likud, in un evidente tentativo di mettere fine allo scontro. (Dopo 20 mesi, l’alleanza si e’ rotta). L’Intifada ha fatto crollare l’economia israeliana, riportandola ad 
essere un caso pietoso per la carita’ americana. Nello stesso tempo, pero’, anche l’America e’ sprofondata in una seria 
crisi economica. William Grider cosi’ scrive su “The Nation” (13 Settembre, 2002):
“L’indebitamento estero netto dell’economia statunitense – causata dall’aver accumulato per 20 anni un deficit commerciale sempre piu’ ampio – raggiungera’ quest’anno quasi il 25% del prodotto interno lordo degli Stati 
Uniti, ovvero circa 2,5 trilioni di dollari. Quindici anni fa era…zero. 
Lo spettro della crescente debolezza americana sembra impermeabile agli sguardi della gente che continua a pensare di vivere in una prosperita’ permanente.  Ma le sabbie mobili sono una realta’. Siamo gia’ sprofondati fino alle ginocchia.”

Gli Stati Uniti della seconda Guerra del Golfo non saranno gli stessi della prima. Dieci anni fa a Wall Street dilagava la speranza che i mercati mondiali si aprissero alle corporations americane; i dividendi del collasso sovietico erano a loro disposizione. Invece, il crollo delle torri ha scosso l’America. Quando si tratta di guerra all’Iraq, l’Europa resiste, il 
terzo mondo resiste, chiunque abbia la testa sulle spalle, resiste. Washington, allora, si sente tradita. Nonostante il crollo del comunismo, pace e prosperita’ si fanno desiderare. Solo una piccola parte di Israele sta in maniera decisa con l’America e con il governo. Dopo due anni di attacchi suicidi gli Israeliani sono risoluti e determinati nel rifiuto 
della rabbia che genera il caos. Ora, si sentono pronti, a destra come a sinistra, a sostenere una crociata il cui risultato sara’ la crescita esponenziale di quella rabbia. Quanti hanno seminato vento raccoglieranno tempesta. Ma quelli che hanno seminato tempesta, cosa raccoglieranno?

La combinazione di potere militare e crisi economica e’ pericolosa. Tenta le vie della forza per risolvere problemi economici, con mezzi militari. Questa commistione, non molti anni fa ha generato il fascismo. E ha sottoposto l’umanita’ ad un incommensurabile olocausto. Il mondo si trova oggi ad un analogo crocevia. La domanda non e’: ‘Puo’ il mondo convivere con Saddam Hussein?’. La vera domanda e’, piuttosto: ‘Puo’ il mondo 
convivere con George W. Bush?’ La sparizione del campo socialista e’ sentita oggi come non mai. Quelli che hanno fermato Hitler non erano (con il dovuto rispetto per Ha’aretz) gli Americani, ma i Sovietici a Stalingrado.  I Sovietici hanno impedito agli Stati Uniti di invadere Cuba. Hanno mitigato la poverta’ in tanti paesi del mondo. Nei decenni piu’ recenti le lotte della classe lavoratrice mondiale e delle forze pacifiste hanno subito una significativa battuta d’arresto. 
Hanno pagato un pesante prezzo per il fallimento del tentativo socialista. L’Unione Sovietica ha fallito perche’ ha escluso le persone dai processi decisionali. Ha fallito nella costruzione del socialismo nell’unico modo in cui esso possa essere costruito: democraticamente. L’Unione Sovietica ha fallito, in breve, nel tenere desto lo spirito della rivoluzione. Noi dovremmo guardare a questo esperimento, tuttavia, come il primo, non come l’ultimo nel suo genere.

Un nuovo movimento di massa e’ cresciuto, in questi anni, contro la globalizzazione. Molte speranze sono riposte in esso, ma di fronte all’imminente guerra non si e’ fatto sentire a sufficienza. La ragione chiave di questo fallimento e’ che il movimento detesta i partiti politici. Rifuggendo la politica organizzata non sono in grado di porsi come alternativa all’ordine mondiale esistente. Non misurandosi col potere, non danno neanche vita a mutamenti politici. Nelle attuali circostanze in cui “gli altri” sono organizzati in multinazionali, partiti e regimi, le proteste che si limitano a reagire di fronte a determinati eventi sono un lusso che non ci si puo’ permettere. La reale urgenza e’ davvero un atto di reazione: fermare la megalomania della Casa Bianca. Non si puo’ certo contare su Jacques Chirac o su Gerhard Schroeder che solo due anni fa hanno preso parte nell’attacco contro la Yugoslavia. E neppure su Vladimir Putin, preso da personali ambizioni. Su una piu’ lunga prospettiva e’ necessario arrivare a negare ai capitalisti i mezzi per trascinare l’umanita’ nella guerra. La protesta va organizzata su un’agenda socialista.




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